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Naela e le altre, così le donne palestinesi sfidano il patriarcato

«Mio padre ha sostenuto economicamente me e i miei figli fino alla sua morte. Quando ho ottenuto l’eredità, ho costruito una casa per me e i miei figli e mi sono comprata un’auto» racconta Naela Ali Faheem Abu Jiba, una donna di 40 anni proveniente dalla Striscia di Gaza. «Un giorno mi trovavo in un salone di bellezza e ho sentito una cliente discutere con il marito al telefono sulla necessità di avere un’auto. In quell’occasione mi è venuta l’idea di creare un servizio di trasporto per le donne». Così Naela ha iniziato a lavorare come tassista. Un settore, quello dei trasporti, dominato dagli uomini e un’idea, quella di Naela, rivoluzionaria, per i Territori palestinesi occupati ed in particolare per la Striscia di Gaza.

La tassista offre un servizio utile ed efficiente per le donne palestinesi, che, grazie a lei, si sentono più sicure nei loro spostamenti. In una società patriarcale che limita la libertà di movimento delle donne, muoversi in autonomia e sicurezza diminuisce la dipendenza dai maschi di famiglia e le solleva dalla pressione sociale e dai pregiudizi legati al fatto che una donna salga su un taxi guidato da un uomo. Naela è una pioniera, e non è l’unica.
Rimah Jihad Atallah Al-Behissi, una ventenne di Deir Al-Balah, nella Striscia di Gaza, lavora nel campo dell’energia solare, altro settore tipicamente dominato ovunque dagli uomini. Scegliendo questa professione, Rimah ha dovuto superare gli ostacoli che le donne palestinesi devono sistematicamente affrontare quando cercano di accedere al mercato del lavoro, così come gli stereotipi di genere che hanno confinato le donne palestinesi in pochi settori, in particolare quello della cura (istruzione, sanità, assistenza sociale e lavoro domestico).

La partecipazione femminile al mondo del lavoro è ancora molto bassa ed il divario occupazionale tra i generi è estremamente ampio. Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese (Pcbs), nel 2020 solo il 16% di tutte le donne in età lavorativa nei Territori palestinesi occupati lavorava, rispetto al 65% degli uomini. Tra la popolazione femminile, in Palestina si rileva un alto livello di scolarizzazione. Questo non va però ad influire positivamente sull’occupazione: il tasso di disoccupazione, che per le donne è del 40%, sale infatti al 69% se si considerano le giovani laureate. Il dato scioccante è che, per quanto riguarda le donne palestinesi, più queste sono istruite e più alto è il tasso di disoccupazione. In altre parole, un titolo universitario non aumenta la probabilità di ottenere un lavoro e ciò è ulteriormente confermato dal fatto che, sebbene il 61% degli studenti iscritti agli istituti di istruzione superiore siano donne, il tasso di disoccupazione femminile continua ad essere molto più alto di quello maschile.

Anche Babel Ahmed Qdeih ha studiato e alla fine ha deciso di aprire un proprio negozio, dove fornisce alle donne di Gaza servizi di programmazione e manutenzione dei telefoni. «Sto cercando di conciliare il lavoro e i doveri familiari», ammette. Nei Territori palestinesi occupati, l’80% degli uomini e il 60% delle donne ritiene che «il ruolo più importante delle donne è quello domestico», mentre il 75% degli uomini e il 51% delle donne afferma che per le donne è più importante sposarsi che avere una carriera. Questi atteggiamenti influenzano le aspirazioni delle donne e la definizione delle loro priorità. Il risultato, tra l’altro, è che il 94,8% delle donne sono occupate nel lavoro domestico e di cura, rispetto al 42,5% degli uomini. Nella Striscia di Gaza, le donne disoccupate spendono in media 12 ore al giorno per l’assistenza non retribuita e il lavoro domestico. Questo rende particolarmente difficile per loro lavorare fuori casa.

Avviare attività in proprio risulta difficile perché l’accesso al credito e ad altre risorse essenziali per l’avvio di un’attività sono in mano agli uomini, che amministrano anche i beni delle famiglie. «I principali ostacoli che ho affrontato provengono dalla mia famiglia e dalla società. La mia famiglia voleva che lasciassi il mio lavoro: non voleva che il nome della famiglia fosse legato al mio lavoro come tassista», racconta ancora Naela.
Oltre a questo, l’occupazione militare israeliana limita ulteriormente l’accesso delle donne al lavoro e alle opportunità di sviluppo in generale. Insieme alla presenza dei coloni e il blocco nella Striscia di Gaza, l’economia locale è in sempre maggiore crisi, le opportunità di lavoro si riducono e le donne sono le prime a essere tagliate fuori. «I principali ostacoli che ho incontrato sono stati la mancanza di risorse disponibili e la difficoltà a ottenere una formazione pratica, dato che sono una ragazza e tutti gli specialisti in questo campo sono uomini», afferma Babel, la “donna elettrica”.

Babel, Naela e Rimah rappresentano la caparbia e determinazione di molte giovani palestinesi, che nonostante la situazione economica di Gaza e il contesto sociale e familiare non si arrendono e costruiscono semi di futuro. Affrontando e superando discriminazioni multiple, combattono ogni giorno per liberarsi del fardello delle aspettative sociali, seguendo le proprie passioni e aspirazioni. Delle vere e proprie rivoluzionarie che affrontano critiche e pressioni, soprattutto da parte della loro comunità, eppure decidono di continuare a sfidare i pregiudizi attraverso il loro lavoro. Come dice Naela, la tassista, «Il mio lavoro non è vergognoso, anche se non è convenzionale per la società palestinese. Sarebbe sbagliato non continuare. Devo affrontare le difficoltà e assumermi le responsabilità per l’emancipazione economica e morale di altre donne».

Interviste raccolte nell’ambito del progetto Cospe “Gender Equality in the Economic Sphere: Our Right, Our Priority” in Palestina

Caso Rupnik, la lettera-denuncia di una suora della Comunità Loyola a papa Francesco. «Dal 2021 nessuna risposta»

Dopo aver pubblicato la prima puntata della nostra inchiesta sulle accuse di violenza sessuale, psicologica e spirituale da parte di alcune suore nei confronti di padre Rupnik abbiamo ricevuto diverse testimonianze alla mail dedicata [email protected]. Tra le tante spicca questa lettera di una delle appartenenti alla Comunità Loyola inviata nel 2021 a papa Francesco per denunciare la grave situazione di sofferenza all’interno della Comunità. In tutto sono state 3 le lettere di questo genere inviate da altrettante consorelle al pontefice nell’estate del 2021. «Abbiamo saputo che le ha ricevute ma a nessuna di noi è stata mai data risposta», ci dice la religiosa

Beatissimo Padre Papa Francesco,
Mi chiamo (omissis, ndr), appartengo alla Comunità Loyola, una comunità religiosa femminile di diritto diocesano nata in Slovenia. Attualmente la comunità è commissariata, affidata su richiesta della Congregazione per la Vita Religiosa al Vescovo Daniele Libanori. Il motivo del commissariamento è dovuto alla situazione di grave sofferenza in cui si trovano varie sorelle, rilevata dal Vescovo di Lubiana (Slovenia) sotto la cui giurisdizione essa si incontra. Il principale problema che è stato rilevato dalla visita canonica realizzata nel 2019 riguarda l’abuso di potere e lo stato di dipendenza e sottomissione rispetto alla fondatrice, nonché superiora generale Ivanka Hosta, in cui gran parte delle sorelle si incontrava.

Il commissariamento, iniziato in dicembre scorso (2020, ndr), ha cercato di introdurre modifiche necessarie alla vita della comunità, e soprattutto un processo di revisione profonda del carisma e delle costituzioni. Processo tuttavia, al quale si oppone un considerevole numero di sorelle che, fino al presente, considerano infondate le denunce, persecutoria nei confronti della fondatrice l’azione intrapresa dall’Arcivescovo di Lubiana prima, e dalla Congregazione e dal Vescovo Libanori attualmente.

In questa spaccatura e in questo rifiuto di ascoltare sia la sofferenza di molte sorelle, sia la voce della Chiesa attraverso i Pastori che invitano ad una profonda rifondazione, personalmente ho ritenuto necessario prendere le distanze, e ho chiesto l’esclaustrazione (omissis, ndr).

La ragione di questo mio appello a lei Santo Padre, non è tanto relativa alla mia situazione o alle conseguenze che io possa risentire dall’aver vissuto trent’anni (omissis, ndr) in un contesto di costante tensione, di confronto fra le sorelle, di progressiva spersonalizzazione fino a non riconoscere alcun senso nella vita nella comunità, in nessun modo “religiosa” se non nella formalità estrema degli atti e dei ritmi, ma senza un vero fondamento comunitario, né un libero e amoroso sguardo sulla realtà della chiesa locale in cui eravamo inserite, né sulla vita le una delle altre.

La comunità nei suoi inizi è stata anche segnata da abusi di coscienza ma anche affettivi e presumibilmente sessuali da parte di pe. Marko Rupnik. Egli come amico della fondatrice e di varie sorelle degli inizi, aveva una vicinanza e una presenza costante nella vita personale di tutte le sorelle e della comunità nel suo insieme. Quando attraverso la sofferenza estrema di alcune sorelle, nel 1993 si è giunti a una separazione definitiva da pe. Rupnik, non sono mai state totalmente chiarite le sue responsabilità; anzi sono state praticamente coperte e non denunciate sia dalle dirette interessate, ma anche da sr Ivanka, che ne era a conoscenza.

Tuttavia, non è solo per denunciare tutto ciò che scrivo, ma per un senso di responsabilità nei confronti di altre giovani che possano essere irretite, per fragilità o per sincero desiderio di una scelta di vita radicale. Negli ultimi anni, infatti, le scarse vocazioni nella Comunità Loyola sono venute soprattutto dal Brasile e dall’Africa. Sono ragazze fragili per cultura e per storie personali molto complesse e dolorose, che più facilmente possono essere irretite in relazioni di dipendenza e di sottomissione assoluta, secondo un modo poco sano (sia dal punto di vista religioso che antropologico) di concepire il valore e la prassi del voto di obbedienza e il proprio carisma comunitario, inteso come “disponibilità ai Pastori”.

È evidente sempre più che la “dipendenza e l’abuso psicologico” è molto difficile da dimostrare e che per questo si configura come una forma di abuso ancora più grave. Un dolore silenzioso, che rende la vittima ancor più fragile ed esposta perché non creduta, non riconosciuta; o perché essa stessa si considera responsabile della sua condizione. L’appello che quindi le rivolgo, a partire dall’esperienza e situazione dolorosa in cui si incontra la Comunità Loyola, è che si adoperino tutti i mezzi perché sia data voce, dignità, e restituita la libertà di coscienza a queste e a tutte le altre, molte vittime di questi nuovi movimenti religiosi e nuove comunità. Allo stesso tempo siano creati efficaci meccanismi che proteggano quei giovani che nella loro fragilità e generosità si interrogano sul senso della propria vita; perché possano scegliere e comprendere davvero la volontà del Signore, in piena libertà.

Lungo questi anni vari membri della Comunità Loyola hanno offuscato il senso profetico della vita religiosa, rendendo la comunità un luogo di non comunione, di non verità, di non vita, di non creatività e di sterilità.

Affido alla sua custodia paterna la nostra vita; e supplico lo Spirito che la sostenga con la sua forza e sapienza.
3 agosto 2021

Lettera firmata

Tutte le puntate dell’inchiesta di Spotlight Italia – Il database di Left

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Cosa hanno fatto finora

Dopo una legge di Bilancio, al di là del Parlamento, si possono stilare giudizi su un governo. Al di là dei numeri, commentati mirabilmente dagli economisti nostrani che negli ultimi giorni dicono tutto e il suo contrario, ci sono posizioni politiche che emergono con evidenza.

Le promesse mancate, ad esempio. Di solito sono le cose più banali, poco influenti sulla spesa generale, però sono utilissime per scardinare l’ipocrisia. Che ieri la benzina sia aumentata per la rimozione del taglio sulle accise è un contrappasso fantastico. Sono le stesse accise che Salvini ogni giro promettere di abolire del tutto, sono quelle accise su cui una giovane Giorgia Meloni aveva girato un bel video promozionale in cui ne prometteva la graduale abolizione. Nel computo generale si tratta di poca roba ma per i cittadini è una manifestazione immediata: basta recarsi al distributore.

La mano tesa agli evasori è talmente evidente che perfino le trasmissioni di destra lo confessano. Ieri sera su non so quale rete televisiva berlusconiana mi sono imbattuto (per sbaglio, eh) in una serie di interviste a artigiani che con laboriosa onestà ammettevano che non ci sia nessun altro possibile motivo all’innalzamento dei contanti fino a 5mila euro se non favorire il nero. L’Italia già oggi è fanalino di coda nei pagamenti digitali, ora è pronta per fare molto peggio. Un politico che tende la mano all’evasione usando la giustificazione delle “troppe tasse”, senza prendersi la briga di abbassarle è colpevole di concorso esterno, oltre che incapace.

Stessa cosa per ambiente e transizione energetica. Il governo Meloni ha tagliato i 94 milioni destinati alle piste ciclabili che erano rimasti nel Fondo per lo sviluppo delle reti ciclabili urbane istituito dalla legge di bilancio 160/2019. Figurarsi cosa accadrà sullo sviluppo di una mobilità sostenibile: Salvini, Meloni e Berlusconi vedono nel motore termico il salvadanaio del loro consenso. Non è nemmeno un caso che sia stato tagliato del 45% il fondo anti dissesto idrogeologico, nonostante i morti di Ischia. Loro sono questa roba qua, sempre sul bordo del conservatorismo al limite del complottismo.

Poi c’è il lavoro. Niente salario minimo (alla faccia dell’Europa), premi solo per (poche) donne con figli (perché non figliare è un demerito per un governo ipercattolico, ovviamente), reintroduzione dei voucher. Anche qui con due righe possiamo farci un’idea.

Bentornati nel passato.

Buon venerdì.

Accusato di violenza da diverse suore, il gesuita padre Rupnik da anni è “coperto” dal Vaticano?

Negli ambienti esterni alla Chiesa cattolica il nome del gesuita padre Marko Ivan Rupnik potrebbe dire poco o nulla. All’interno del mondo ecclesiastico la questione è decisamente diversa. Qui padre Rupnik, per anni direttore del Centro Aletti di Roma, è un noto artista, con opere religiose esposte e installate in tutto il mondo, oltre che fine teologo e grande comunicatore, e secondo alcuni, tra i più stretti consiglieri di papa Francesco. Perché ne parliamo? Perché padre Marko Ivan Rupnik è stato accusato da numerose suore di abusi psicologici e violenza sessuale e forte di questa sua “fama” per circa tre decenni non ha mai dovuto render conto dei fatti che gli sono stati imputati. Veniamo a conoscenza di questa storia da una fonte che chiede di rimanere anonima e che ci ha contattato all’inizio di novembre attraverso la mail di Spotlight Italia, la nostra inchiesta permanente sui crimini compiuti all’interno della Chiesa in Italia ([email protected]).
Ma andiamo per ordine.

Tutto ha origine nei primi anni Ottanta presso la Comunità Loyola fondata a Lubiana in Slovenia da suor Ivanka Hosta, di cui Rupnik era amico e “padre spirituale”, racconta la nostra fonte. «Le prime denunce di violenza psicologica e sessuale risalgono agli anni 1992-1993 e la soluzione che viene trovata in accordo con il vescovo di Lubiana è quella di allontanare Rupnik dalla Comunità». Cosa che avviene in maniera burrascosa «dopo un forte litigio e una separazione fra Rupnik e Hosta; e varie sorelle escono dalla Comunità andando a  formare un nucleo di donne che, vivendo al Centro Aletti di Roma, collaborano con lui». Dopo questa fase critica nonostante il dolore e la sofferenza diffusa tra le consorelle abusate e manipolate, tutto torna come prima, come se non fosse successo nulla. E la situazione va avanti così per quasi tre decenni, fino a quando cioè le “lacerazioni” interiori vissute negli anni da molte delle circa 50 suore vissute all’interno di questa comunità – sofferenze acuite dall’atteggiamento omertoso della fondatrice, osserva la nostra interlocutrice – hanno spinto il Vaticano ad avviare una procedura di commissariamento nei confronti della Comunità fondata da Ivanka Hosta. Commissariamento affidato al gesuita monsignor Libanori che deve approfondire come mai negli anni molte suore siano uscite dalla comunità in maniera burrascosa e valutare le accuse di dinamiche settarie, con abusi di potere, psicologici e spirituali nei confronti della fondatrice e di alcune sue fedelissime nei confronti delle sorelle.

A questo punto, siamo intorno al 2020, con l’indagine del commissariamento riemergono ancora più precisamente le sofferenze dei primi abusi e sorge per il Vaticano di nuovo il problema Rupnik che dal 1993 giaceva sotto il tappeto. Divenuto ormai una sorta di star a livello mondiale in ambito religioso cattolico sia per le sue opere che per il suo carisma (a causa del quale viene indicato come uno dei più fidati consiglieri di papa Bergoglio), il calcolo fatto in Vaticano è stato quello di non rendere pubblico il commissariamento – cosa inusuale – altrimenti sarebbe stato relativamente facile per qualche organo di stampa meno disattento di altri scoprirne le reali motivazioni. Chiaramente era assolutamente da evitare che emergesse il nesso causale diretto tra la sofferenza psicologica vissuta dalle suore della Comunità Loyola e la sua storia confusa e settaria, con le violenze di cui è accusato padre Rupnik.

Ma attenzione, padre Marko Ivan Rupnik a quanto pare sarebbe molto più che “semplicemente” sotto inchiesta. Nel corso di un nuovo incontro con la nostra fonte veniamo infatti a sapere che probabilmente a gennaio 2022 è stata emessa una sentenza di condanna definitiva nei suoi confronti (secondo il blog Silere non possum l’esito del processo sarebbe stato comunicato a Rubnik direttamente da Bergoglio il 3 gennaio, lo si dedurrebbe dal Bollettino della Santa sede circa le udienze di quel giorno). Ricostruire come ci si è arrivati non è semplice. «Non conosco esattamente il numero delle persone rimaste vittima di Rupnik ma ne conosco personalmente almeno tre» ci racconta previa garanzia di anonimato una delle suore della ex Comunità Loyola. «E per le violenze subite alcune sorelle già appartenute alla Comunità e uscite ormai da anni sono state risarcite per iniziativa di mons. Libanori con i fondi della Comunità con 43mila euro. Un risarcimento mascherato con la motivazione di un sostegno per il loro serio stato di indigenza in cui si sono trovate a vivere dopo il commissariamento della Comunità Loyola». Dopo questo misero risarcimento le tre suore sono state abbandonate a se stesse con la propria sofferenza. «La questione – prosegue il racconto – emerse tra il 1992 e il 1993 in forma molto coperta. Nel settembre del 1993 ci fu la frattura definitiva tra la fondatrice della Comunità e padre Rupnik. Oggi con il senno di poi e con le testimonianze che altre due consorelle hanno dato, tutti sia a Lubiana che in Vaticano erano a conoscenza di questi fatti. Peraltro tra aprile e settembre del 1993 una di queste vittime fuggì due volte dalla Comunità e di recente ho saputo che tentò il suicidio».

Questi fatti, insieme ad altre numerose denunce nei confronti di Rupnik, sono stati tutti comunicati alla Santa Sede. «Da quello che mi risulta c’è stato un primo momento in cui la situazione è stata valutata dal Dicastero della dottrina della fede. Le querelanti sono state sentite, hanno fatto la loro deposizione davanti alla Ddf ma poi tutto è rimasto in stand by per un lungo periodo tra il 2020 e la fine del 2021». Sappiamo inoltre che, come ci racconta la nostra fonte, a un certo punto «sembra che la questione Rupnik sia stata trattata solo ed esclusivamente nel contesto della Compagnia di Gesù. E quindi se ne è avvocata la competenza il generale della Compagnia». Le chiedo perché ha deciso solo ora di parlare con qualcuno “esterno” al mondo della Chiesa. «A causa di un video su youtube» mi risponde. In che senso?

«A fine ottobre varie persone con cui sono ancora in contatto si sono imbattute in un video su youtube in cui Rupnik senza essere inquadrato faceva un commento a Vangelo della domenica. Stando alle restrizioni che gli sono state comminate, vale a dire tutte quelle che il diritto canonico prevede in questi casi (non può celebrare in pubblico, non può fare attività pastorale etc.) non può farlo. Pertanto abbiamo chiesto spiegazioni al mons. Libanori, l’incaricato del commissariamento. La risposta è stata sconcertante. In pratica è vero che padre Rupnik ha ricevuto le restrizioni da parte del generale dei gesuiti (il che confermerebbe che c’è una condanna, ndr), tuttavia in assenza di una legislazione che regola il web, lui non sta infliggendo alcuna restrizione. Semplicemente non gli è stato detto che non può postare e apparire in video quindi facendolo non infrange alcuna regola». Il punto è, prosegue la ex suora, che «circola anche una locandina di un corso di esercizi di formazione di discernimento vocazionale che si svolgeranno a Loreto nel 2023 e qui siamo un po’ oltre le goffe spiegazioni ricevute. Questo proprio non dovrebbe farlo. Ma lo fa». Opinione della nostra fonte è che «la reticenza di oggi sul caso di Rupnik si spiega con il non dover non ammettere le responsabilità di allora. Ed è scandalossissimo che questa persona possa continuare a fare discernimento vocazionale che era uno dei contesti in cui più ha adescato approfittando della fase di estrema fragilità emotiva e della vulnerabilità di coloro che intraprendono questo percorso». Siamo alla conclusione di questo racconto. «Posso aggiungere una cosa?» ci chiede la donna. Ma certo.

«Il fatto che ci sia una sentenza definitiva, come pare, e che non sia stata pubblicata è un’anomalia ma non è l’unica. Quando il caso Rupnik è arrivato alla Dottrina della fede (Ddf) era già improprio. Lui è un religioso. Secondo le nuove norme sarebbe dovuto andare alla Congregazione per la vita religiosa». Quindi? «Quindi quello che penso è che sia stato deviato alla Cdf perché altrove non avrebbe avuto appoggi. Dico questo perché è impossibile che abbiano sbagliato la procedura. Un’altra anomalia è che tra le persone chiamate a decidere chi dovesse seguire il caso di Rupnik ce ne era una che viveva al Centro Aletti di cui il padre era direttore» (il riferimento è a Giacomo Morandi, nominato vescovo di Reggio Emilia nel gennaio 2022 e precedentemente segretario al Dicastero per la dottrina della fede, ndr). Quindi cosa è successo? «È successo che quando il fascicolo è arrivato alla Cdf a un certo punto si è “perso” e poi qualcuno è riuscito a rimettere in marcia il processo con un escamotage che salvasse capra e cavoli». Vale a dire? «L’escamotage è stato rimetterlo alla discrezione interna della Compagnia di Gesù e al giudizio del generale. Che ci siano state pressioni dai gesuiti è evidente» prosegue la nostra fonte. «Forse sono le stesse pressioni che hanno rallentato il processo di commissariamento della Comunità di Loyola sul quale da mesi si attende una risposta definitiva da parte della Congregazione per la vita religiosa e di cui non sappiamo più nulla. Peraltro si tratta di un atto pubblico ma non se ne trova notizia. Si cerca di tenere il più possibile sotto controllo gli effetti di una eventuale presa di coscienza pubblica di questa realtà che chiama in causa direttamente i gesuiti e quindi il papa». Pontefice che a luglio del 2021 ha ricevuto tre lettere con le dolorose testimonianze di altrettante religiose della Comunità. E come è andata? «Papa Francesco non ci ha mai risposto».

*Aggiornamento: Sabato 3 dicembre 2022 ore 15:36; martedì 21 febbraio 2023 ore 14:18

  • Abbiamo pubblicato una delle tre lettere a papa Francesco citate nel finale dell’articolo. Leggila qui

*Aggiornamento: Sabato 3 dicembre 2022 ore 11:06

  • Articolo integrato con il link al Bollettino della Santa sede del 3 gennaio 2022
  • Dopo la pubblicazione di questo articolo il nostro giornalista Federico Tulli è stato oggetto sui social di numerosi messaggi diffamatori e lesivi della sua dignità professionale. Non è la prima volta che accade e data la delicatezza del tema trattato ce lo aspettavamo, tuttavia stiamo valutando se e in che modo agire presso le sedi opportune contro i responsabili.

Nell’immagine di apertura padre Marko Ivan Rupnik (Foto da un video su Youtube)

Tutte le puntate dell’inchiesta di Spotlight Italia – Il database di Left

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Per i kosovari Svizzera-Serbia sarà più di una partita di pallone

I mondiali del Qatar passeranno alla storia come il dark side del calcio contemporaneo. Con le sue innumerevoli violazioni dei diritti umani e con le morti di migliaia lavoratori immigrati nei cantieri di Doha il calcio è già diventato puro elemento scenico. Di tutto questo ne tratta ampiamente Valerio Moggia nel suo La Coppa del morto, un libro che, data l’assegnazione del mondiale al Qatar avvenuta ormai più di dieci anni fa, raccoglie le non poche controversie per quella che potrebbe essere definita la più grande operazione di “sport washing” di sempre.

Con queste premesse è chiaro come il calcio – anche se questo avviene quasi ad ogni Mondiale – passi in secondo piano facendo di ogni partita uno scontro geopolitica da 90 e oltre minuti.

Uno degli esempi più recenti è quello offerto dalla partita Marocco-Belgio che ha visto trionfare la squadra di Hoalid Regragui per due a zero dando così avvio a Bruxelles ad un’intesa giornata di proteste e rivendicazioni spaziali – usare il termine sommossa sarebbe davvero riduttivo e pregiudiziale – che hanno mobilitato l’opinione pubblica internazionale. Anche Matteo Salvini ha voluto dire la sua con un tweet nel quale ha paragonato l’atto del protestare a quello del violentare.

Detto questo c’è una partita che nasconde un’altra probabile polveriera. Si tratta di Svizzera-Serbia – in programma per il prossimo 2 dicembre alle ore 20 – e di quello stretto legame con il Kosovo nato come conseguenza delle guerre balcaniche degli anni 90. La Serbia, come ormai è ben noto, non riconosce il Kosovo al pari di Russia, Spagna, Cipro, Grecia, Slovacchia e Romania, e la Repubblica Popolare Cinese. Nel Kosovo l’Unione europea dirige una missione civile per l’ordine pubblico e lo Stato di diritto chiamata Eulex, in affiancamento alla missione Kfor (Kosovo force) guidata dalla Nato. Il governo italiano, tra l’altro, ha deciso ad inizio a novembre di rinforzare la presenza con l’invio sul territorio di 23 carabinieri.

Non solo la Serbia non ne riconosce l’indipendenza del 2008, ma continua ad avere mire sulle miniere di Trepča, espropriate da Pristina al governo serbo e che prima delle guerre balcaniche degli anni 90 costituivano il 70% dell’intera attività minerario estrattiva della Jugoslavia. Piccolo inciso, Trepča è situata nei pressi della città di Mitrovica dove, divise dal fiume Ibar, convivono la comunità serba e quella kosovora di etnia albanese. Secondo le stime di Kosovo diaspora, un terzo della popolazione kosovara vive all’estero in particolare tra Germania e Svizzera e questo lo si può capire dal fatto che il tedesco a Pristina sia parlato da molti giovani nonché dalla presenza di diversi negozi di Swiss delicatessen.

Svizzera e Serbia sono nello stesso girone del Mondiale (Gruppo G) insieme a Brasile e Camerun. Così vedere nello spogliatoio serbo, dopo la sconfitta con il Brasile, campeggiare una bandiera del Kosovo ritoccata con i colori serbi e con la scritta in cirillico “nessuna resa” – come dimostrano foto circolate dopo il match – non può essere una questione riconducibile al solo calcio.

Nella Svizzera giocano infatti diversi giocatori albanesi-kosovari, in particolare le due stelle dalla nazionale Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri che già nelle qualificazioni ai mondiali del 2018, proprio contro la Serbia, avevano esultato mostrando con le mani il simbolo dell’aquila albanese. Quel gesto a sua volta era figlio di una lunga schermaglia che il calcio ritraeva nella sua versione forse più simbolica e pittoresca.

Nell’ottobre 2014, infatti, per un match valevole alle qualificazioni degli Europei 2016 l’aquila era volata portando “qualche” scompiglio. Era il 14 ottobre e allo stadio Partizan di Belgrado si affrontavano Serbia e Albania. Dopo diversi scontri fuori e dentro al campo la partita venne interrotta. I tifosi serbi cantavano “Ubij, ubij, Šiptara” (Uccidi gli albanesi) lanciando razzi e altri oggetti in campo. A quel punto, sul finire del primo tempo, è apparso in campo un drone con una bandiera, quella della Grande Albania, con la scritta “Kosovo autoctono” e la data del 1912 (la rivolta albanese). Il difensore serbo, Stefan Mitrović, si è precipitato a rimuovere il vessillo facendo cadere il drone e innescando una rissa domino che ha visto i giocatori albanesi rientrare negli spogliatoi e non fare più rientro in campo.

Ma cosa vuole dire esattamente non essere riconosciuti? E cosa rende così speciale il legame tra due nazioni così diverse come Kosovo e Svizzera da generare una sorta di odio “secondario” nei giocatori serbi?

Recentemente, grazie ad un altro evento di culture entertainment, come quello della biennale d’arte Manifesta 14 ospitata quest’anno proprio a Pristina, ho potuto toccare con mano cosa significa il viaggio Svizzera-Kosovo.

Sono partito da Bologna, direzione Malpensa il 20 luglio mattina. Una volta sull’aereo, dopo essere rimasti fermi in pista per due ore, il volo è stato cancellato. Tra la rabbia dei vari passeggeri e la voglia comunque di non perdere l’inaugurazione, sono rimasto fuori dall’ingresso partenze a fumare per diversi minuti. In quegli attimi di indecisione ho incontrato una famiglia italo kosovara che, come me, era rimasta a terra. Per loro, però, non sembrava un problema. Mi hanno chiesto, dopo i normali convenevoli di presentazione, se fossi ancora intenzionato ad andare. Ho fatto sì con la testa e in un’ora eravamo tutti e cinque a Como ad aspettare un pullman che faceva Zurigo-Pristina no stop.

Il mio viaggio da art-hopper che gira e salta per deformazione professionale tra i vari eventi artistici, è diventato il più normale dei viaggi di quella diaspora kosovora che d’estate rientra in patria. Nell’arco di 23 ore ho potuto conoscere e capire da vicino cosa significhi vivere in un Paese non ancora formalmente riconosciuto. L’ho capito al confine con la Serbia. All’improvviso, un viaggio che i miei occhi leggevano nella più tipica stereotipizzazione da Emir Kusturica, si è trasformato nella corsa ai documenti da preparare, dal passaporto alla visa alla documentazione Covid. Io avevo un normalissimo passaporto bordeaux, i miei compagni di viaggio invece avevano fogli stampati, foto, documenti, allegati e addirittura cartelline piene di permessi controfirmati.

Al confine con la Serbia molti dei loro bagagli sono stati aperti in modo tutt’altro che cortese e quella sicurezza, che prima vedevo in quei grandi volti scavati, si era trasformata in attesa nervosa. Io mi sentivo inutile come la missione italiana Arcobaleno, quella voluta dal governo D’Alema che prima ha aperto le basi di Aviano per il bombardamento di Belgrado e poi si è apprestata ad accogliere i profughi in ex basi militari in Sicilia. Tutto questo sovrastimando la proporzione degli arrivi lasciando così marcire nei container del porto di Bari diverse tonnellate di cibo. Arrivato al confine con il Kosovo ho poi assistito al piccolo atto di rappresaglia, di guerriglia extra urbana kosovara. A tutte le macchine con targa serba in entrata veniva apposto un adesivo bianco sulla sigla internazionale SRB. Questo non solo per restituire il “favore” del non riconoscimento, ma anche per rendere ancor più visibile l’ospite privato della sua identità nazionale. Su quel pullman storie e identità non avevano né confini né luoghi specifici. Tutto era in ognuno di loro.

In un Mondiale in cui sembrano esistere ancora gli Stati nazione, Svizzera-Serbia al di là del risultato ci racconta che per l’odio non ci sono confini.

* L’autore: Emanuele Rinaldo Meschini è critico e storico dell’arte

In foto: da sinistra, il centrocampista Xherdan Shaqiri, il centrocampista Djibril Sow e l’attaccante Noah Okafor partecipano a una sessione di allenamento a porte chiuse della nazionale svizzera di calcio alla vigilia della partita dei Mondiali del Qatar contro la Serbia. Doha, Qatar, giovedì 1° dicembre 2022.

Tutto il mondo di Garbatella negli scatti di Valeria Cherchi

Aggirarsi nei cortili racchiusi tra le case aggraziate dal cinabro sbiadito, scrigni di vita affacciata alle finestre, dove il quartiere romano della Garbatella si racconta in uno storyboard appeso come lenzuola sugli stenditoi dei lotti. Gli abitanti ritrovano la loro storia negli scatti fotografici di Valeria Cherchi, nella terza edizione di Garbatella Images (nell’ambito di Contemporaneamente Roma 2022), un progetto ideato e portato avanti da Francesco Zizola, fotografo di fama internazionale, proprio per creare un legame fra l’arte e il quartiere nel quale vive, lavora e apre la Galleria 10b photography agli scatti di altri autori.

Dal 2 al 16 dicembre si dà il via alla terza tappa del viaggio nel popolare quartiere, con una ricerca site specific realizzata dalla giovane artista Valeria Cherchi. Il tema portante questa volta è lo “Spazio”, dopo “Visioni” e “Corpo” delle precedenti edizioni. La mostra è curata da Sara Alberani e Francesco Rombaldi, con la direzione artistica dello stesso Francesco Zizola. Le foto inedite di Cherchi, stampate in grande formato, sono esposte in parte sugli stenditoi e in parte nella Galleria 10b photography. È anche un modo per conoscere i lotti stessi, con visite guidate (gratuite, su prenotazione) accompagnati dai curatori, dal giornalista Claudio D’Aguanno e dalla docente di Roma Tre Francesca Romana Stabile.

In alcuni mesi di residenza nel quartiere nato negli anni Venti del Novecento, Cherchi ha camminato tra passato e presente. Perché lo Spazio è qui rappresentato nelle sue molteplici sfaccettature: lo spazio politico, quello dei cortei colorati dei collettivi femministi negli anni 70 che sfilavano per il diritto all’aborto, e lo spazio pubblico che viene reclamato con le attuali lotte delle studentesse del Liceo Socrate. Ma lo sguardo dell’artista cerca anche lo spazio intimo delle storie personali raccontate nei ritratti, nei frammenti di ricordi nelle foto d’archivio oppure nelle corrispondenze tra i messaggi urbani lasciati sui muri e i frammenti classici che convivono con i macchinari post industriali nella vicina Centrale Montemartini.

«Cherchi espande il perimetro dei lotti storici della Garbatella frammentandolo visivamente con pixel e sfocature – è il commento della curatrice Sara Alberani, storica dell’arte – corpi che diventano gesti, reperti che fluttuano cercando unità, pezzi di giornale o murales che si ricompongono attraverso le storie delle sue protagoniste e dei suoi protagonisti, che hanno visto nella sfera pubblica i loro momenti di protesta e di vita».
E proprio sul tema dell’ingiustizia sociale si è concentrato negli ultimi anni lo sguardo di Valeria Cherchi, artista sarda di origine, che vive a Milano ma è cittadina del mondo, che crea un amalgama tra materiale di archivio, appunti di memoria o di esperienze personali, scavando anche nell’aspetto antropologico e sociologico.

È quello che l’altro curatore, Francesco Rombaldi, direttore di Yogurt Magazine, (rivista e network di cultura fotografica) chiama «la totale democratizzazione del suo sguardo» attraverso il quale Valeria Cherchi crea «un racconto visivo spezzettato e molteplice, dove le tante narrazioni si costituiscono in un unicum visuale che ricostruisce la complessa identità di un quartiere, e delle vite che lo vivono e le hanno vissute».

Con il suo primo libro, Some of you killed Luisa l’autrice attraverso fotografie e testi ha cercato di decifrare la complessa struttura del fenomeno dei rapimenti in Sardegna, tra gli anni Sessanta e Novanta del secolo scorso (per il volume Cherchi è stata nominata per il Deutsche Börse Photography Foundation Prize e ha vinto il Premio Bastianelli per il miglior libro fotografico pubblicato in Italia nel 2020.). Nel suo lavoro più recente, Attesa, si è focalizzata su una ricerca in Ostetricia esplorando, attraverso un approccio complessivo, temi come il genere e il lutto.

Di dialogo fra «il nostro tempo con quello del passato» nel lavoro site specific dell’artista, parla anche Francesco Zizola. Il progetto Garbatella Images è nato nel 2021 per scoprire le specificità urbane, architettoniche e storiche del quartiere, e ancora una volta, secondo il direttore artistico, «l’interazione con gli abitanti del quartiere e con le loro istanze si conferma una delle caratteristiche salienti della scelta degli artisti chiamati a lavorare sul territorio con gli strumenti tipici dell’immagine fotografica, intesa come traccia del contemporaneo». Zizola, vincitore del World Press Photo e direttore artistico in molte edizioni a Roma, dopo anni di reportage sulle povertà e i conflitti nel mondo si è dedicato a una ricerca più intima sull’umanità partendo dal mare, ultimo il suo progetto Mare omnis, scoprendo la memoria atavica nella sapienza dei pescatori, rivelata in un disegno fra magia e astrazione.

Per tornare alla mostra di Cherchi, alcune delle foto sono pubblicate in Spazio, il terzo art book di Garbatella Images Collection, curato da Francesco Rombaldi con Yogurt Magazine. Stampato in edizione limitata è un oggetto d’arte in cui l’illustratore Mattia Ammirati ha realizzato la copertina e il cofanetto della trilogia.
L’intero progetto è promosso dall’assessorato alla Cultura di Roma Capitale.

Vernissage: venerdì 2 dicembre 2022 alle ore 18 – Finissage: venerdì 16 dicembre 2022 ore 18.Lotti 24, 28, 38. Galleria 10b photography, via San Lorenzo da Brindisi, 10b.
Per info e prenotazioni: [email protected]

Foto di apertura e nel testo di Valeria Cherchi

Una miniera di parole

Che cosa è oggi la letteratura della working class? Cosa è cambiato da quando Luciano Bianciardi raccontava i minatori della Maremma o il lavoro nelle case editrici a Milano? «Raccontarsi per non farsi raccontare da altri». Le parole di Simona Baldanzi, scrittrice toscana cresciuta in una famiglia operaia di cui rivendica con orgoglio l’appartenenza, risuonano come una sorta di programma nel definire la letteratura working class, colta nell’atto di riappropriarsi del linguaggio universale della narrativa. Per «rendere una voce a chi sta ai margini, in maniera diretta», continua Baldanzi, utilizzando un filtro più vicino alla realtà rispetto a quello che si usa nel racconto letterario. Di questo genere Luciano Bianciardi (1922-1971) è considerato uno dei padri. Un padre anarchico, ribelle, inclassificabile. Ibrido, forse. Come ibrida è questa letteratura, nella sua forma: attinge a più temi e stili, come spiega Alberto Prunetti nel suo saggio Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class (Minimum Fax), per andare in cerca di quegli strumenti utili a raccontare il mondo del lavoro con delle modalità non ancora codificate.

Baldanzi e Prunetti sono stati ospiti del convegno Raccontare il lavoro: da Luciano Bianciardi agli scrittori degli anni Duemila, organizzato dal Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario della nascita dello scrittore insieme alla Fondazione Luciano Bianciardi a Grosseto, la sua città natale. Riccardo Castellani, curatore scientifico del convegno, ha parlato di Bianciardi come di un “intellettuale proletarizzato”, che racconta i lavori manuali del territorio della Maremma – quello dei contadini in Sulle condizioni di vita in Maremma del 1953 e dei minatori ne I minatori della Maremma, indagine svolta a quattro mani con Carlo Cassola – ma anche il suo stesso lavoro. Bianciardi è infatti il primo che accosta, nel suo libro Il lavoro culturale (1957), al lavoro di fabbrica quello intellettuale, in particolare quello della traduzione: «Un lavoro da artigiano, un lavoro minuto, oscuro e ascientifico, sempre approssimativo, fatica di un uomo solo alle prese con un libro straniero, davanti ai tasti di una macchina, con una pila di fogli bianchi che faticosamente uno dopo l’altro si anneriscono. Tradurre è oltretutto una fatica fisica e psicologica, da sterratore. Siamo proletari. Io sono con loro, i badilanti e i minatori della mia terra».

Anche Prunetti e Baldanzi traducono. Il primo, cresciuto in una casa “senza libri”, descrive così i volumi scritti o tradotti da lui che oggi gli animano due scaffali di casa: «Questi libri io li vedo come una fabbrica delle parole, ore e ore di ribaltamento per assemblarle». Simona Baldanzi, invece, parla del tradurre come strumento di mediazione necessario nella letteratura working class, perché ogni lavoro ha una propria lingua e si serve di metafore specifiche. «Chi racconta di lavoro, come noi, – dice – deve fare una sorta di traduzione e deve essere il più possibile fedele all’immaginario di quel lavoro. Quando lo possiamo essere? Quando lo si vive, quando lo si fa noi, quando ne siamo parte. Gli altri non lo possono raccontare come noi che lo viviamo, che apparteniamo a quell’immaginario e che lo vogliamo anche ricreare». Nel suo caso, questa capacità di raccogliere, tradurre e restituire le storie di lavoro con cui è entrata in contatto durante gli anni di attività nel sindacato – attualmente lavora al patronato Inca – le è valsa il titolo di ghostwriter dei lavoratori.

La scrittrice, che ha da poco pubblicato il romanzo Se tornano le rane per Alegre edizioni, racconta di aver scoperto Bianciardi a inizio anni Duemila, quasi per caso, durante le ricerche per la sua tesi di laurea sui lavoratori del territorio del Mugello. A fare da trait d’union tra i due, l’esigenza di «guardarsi attorno anche quando non è necessario», che sarebbe stato, secondo lo scrittore, uno dei motivi per cui venne licenziato dalla casa editrice Feltrinelli. «Mi sono chiesta “chi sono questi lavoratori? Come vivono, cosa fanno?”. Mi sono documentata sui testi che c’erano sui minatori: La strada di Wigan Pier di Orwell del 1937 e poi l’inchiesta di Bianciardi e Cassola. Poi un vuoto, di cinquanta anni», racconta la scrittrice, che prosegue: «Se pensate a un minatore, vi viene in mente quello che esce da un tunnel con la faccia piena di carbone e basta. In realtà anche quelli che scavano in autostrada, o le gallerie dei treni dell’alta velocità o delle metropolitane, sono minatori. Minatori moderni, ma pur sempre minatori che stanno sotto terra. Minatori che non vengono raccontati, di cui non si sa niente».

Tra le tute arancioni dei cantieri Simona Baldanzi trascorre un anno in cui fa indagini, lei che ha il ricordo di bambina della veste da lavoro blu di sua madre, operaia alla Rifle, quando, alla catena di montaggio, produceva 180 jeans all’ora. Per otto ore al giorno e trentasette anni. «I minatori che intervistavo mi spiegavano che cos’era una miniera, io provavo a far capire loro cosa significasse “catena”. Così ci siamo spiegati reciprocamente una tipologia di lavoro».

Rompere i vecchi immaginari per crearne altri, preferire i punti di vista obliqui e una lingua antiretorica, allontanarsi dagli approcci vittimistici ma, soprattutto, l’aver vissuto una condizione familiare proletaria: sono questi, secondo i due scrittori, gli ingredienti per fare letteratura working class. Che, mentre in Italia fatica ancora a prendere piede, perché «la storia di un operaio che muore di tumore non raccoglie segnali positivi dall’ufficio marketing delle case editrici», come dichiara Prunetti in occasione del convegno di Grosseto, in Gran Bretagna è molto più gettonata, ma corre il rischio di diventare un feticcio. Questo filone è sì, infatti, un’acquisizione di linguaggio da parte dei lavoratori che così si raccontano autonomamente, «ma il pericolo è che l’industria editoriale, che è bravissima a prendere questi passi in avanti e a trasformarli in un trend di mercato, strumentalizzi queste storie e le proponga allo sguardo morboso della middle class nella cornice del poverty porn», suggerisce ancora lo scrittore.

L’importante, però, è raccontare, e farlo non per riscattarsi, ma per avere strumenti autonomi di conoscenza e narrazione. Perché, come ammonisce Simona Baldanzi riprendendo le parole che sua madre le ripeteva come un mantra quando era bambina: «Le parole arrivano tardi». E ancora una volta la scrittrice traduce, questa volta, le parole della madre: «Le parole arrivano tardi per difendersi, quindi è fondamentale averle in mano come risposta, ma anche come sensazione di poter raccontare come si sta e come si vive». La narrazione, infatti, non è soltanto uno strumento di difesa, ma anche di prevenzione, e lei che per anni si è occupata di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, lo sa: «Il racconto del lavoro serve anche come primo passo per poter dire cosa non va sul lavoro. Quando si va al sindacato per prima cosa si deve raccontare cosa è successo. Non è quindi solo una questione letteraria – di stile, di voci, di corpi – ma anche uno strumento di difesa. Di prima difesa. È la prima rivendicazione da cui partiamo».

Bianciardi, la vita agra di un ribelle

«Non ci sarà soluzione sicura per mio figlio se non sarà sicura anche per tutti i bambini del mondo … E così ho scelto, ho scelto di star dalla parte dei badilanti e dei minatori della mia terra, quelli che lavorano nell’acqua gelida con le gambe succhiate dalle sanguisughe, quelli che cento, duecento metri sotto terra, consumano a giorno a giorno i polmoni respirando polvere di silicio. Anche loro hanno bambini come il mio, hanno un avvenire da costruire». Quando Luciano Bianciardi nel 1952 pubblica Nascita di uomini democratici sulla rivista Belfagor, fondata da Luigi Russo nel 1946, non ha ancora compiuto trent’anni, ma ha già vissuto il fascismo e una guerra, si è laureato in filosofia con una tesi su John Dewey con Guido Calogero alla Scuola Normale di Pisa, ha una moglie, Adria, e un figlio, Ettore (poco dopo arriverà Luciana), insegna a scuola e dirige la Biblioteca Chelliana di Grosseto, e ha tutta una vita davanti. Ma non può immaginare ancora quale. Dieci anni dopo, fine settembre, pubblica con Rizzoli La vita agra, il libro che gli darà il successo, anche se avrà per Bianciardi sempre un retrogusto amaro («Per me successo è il participio passato del verbo succedere»).

1952-1962, dieci anni pieni di tutto, durante i quali Luciano Bianciardi stravolge la sua vita e dalla vita viene quasi travolto. 4 maggio del 1954, Maremma, miniera di Ribolla: muoiono quarantatré minatori per un’esplosione di grisou. Quella mattina Bianciardi è lì e assiste allo strazio e al dolore dei familiari, e qualche giorno dopo ne scriverà sul Contemporaneo: «Quando torno in paese si è scatenata l’onda del terrore, e le donne son scese in strada, così come si trovavano, con quattro stracci addosso: urlano davanti alla saracinesca abbassata del garage, dove trasportano i cadaveri, man mano che li trovano». Con Carlo Cassola realizzerà un lavoro approfondito di ricerca, documentazione e denuncia, I minatori della Maremma (pubblicato nel 1956 da Laterza), in cui si descrivono le difficili condizioni dei lavoratori delle miniere maremmane, dei tanti Otello Tacconi vessati e spesso licenziati per ragioni politiche e sindacali dalla Montecatini («la Montecatini lo licenziò per avere denunciato sulla stampa e in un pubblico comizio i pericoli della miniera»).

Ma quella mattina Luciano Bianciardi dentro di sé dice addio alla sua terra, a Grosseto (dove nasce cento anni fa), e alla sua vita precedente. Deve andare via, il prima possibile. Parte per Milano perché c’è da partecipare alla “grossa iniziativa”. Lo dicono da Roma influenti intellettuali del partito comunista, tra i quali Antonello Trombadori, che fanno anche il suo nome. In quei mesi, nel capoluogo lombardo, il giovane rampollo di una famiglia miliardaria sta fondando una delle più importanti case editrici italiane. Si chiama Giangiacomo Feltrinelli, ma Bianciardi preferisce rinominarlo: il Giaguaro, lo chiamerà nei suoi libri, o Zampanò. A Milano, specialmente per uno che viene dalla provincia, la vita è dura. Bianciardi fatica (non amerà mai quella città), ha nostalgia di Grosseto. Chiede disperatamente a una giovane donna di Roma impegnata nel partito comunista e conosciuta nel 1949 a Livorno, Maria Jatosti, di raggiungerlo, perché da solo non ce la può fare. Maria non ci pensa su un attimo e lo raggiunge. Sarà la sua ancora di salvezza, ma non per sempre. Nel 1957 Bianciardi pubblica Il lavoro culturale, il primo pezzo della cosiddetta trilogia della rabbia, in cui Bianciardi racconta della vitellonesca vita di provincia, ormai vagheggiata, delle Quattro Strade e di Grosseto come Kansas City; del fondamentale “lavoro culturale” da svolgere secondo le direttive del partito (pagine esilaranti, di ironia sopraffina). Lo pubblica con Feltrinelli, da cui era stato appena licenziato «per scarso rendimento».

Da allora lavorerà come collaboratore esterno, probabilmente il primo free lance (Bianciardi odierebbe questo termine) della storia dell’editoria italiana, scrivendo e traducendo di tutto (in particolare scrittori americani come Henry Miller, che lo influenzerà molto). Ma l’integrazione è lontana, quasi impossibile. Come ne Il lavoro culturale, anche nell’Integrazione pubblicata con Bompiani nel 1960, Bianciardi si divide in due, si sdoppia: resta Luciano, ma diventa anche Marcello, personalità in perenne conflitto. «Qui Bianciardi … riafferma una sua diversità critica e prepara un amaro finale di impotenza. Marcello, il fratello meno vitellone, il fratello più cosciente e morale, lascia, passa al livello più brutale dell’industria culturale, a produrre manuali e dispense. Si vende per disperazione», scrive Goffredo Fofi in una bellissima e illuminante introduzione al romanzo. E Maria, anzi Anna, dov’è? Qui se ne va, mentre ne La vita agra resterà a fianco di Luciano, ormai tornato uno (Marcello, il suo doppio, scompare), perché Luciano ha bisogno di lei. La vita agra viene pubblicato da Rizzoli alla fine di settembre del 1962.

A differenza degli altri due romanzi precedenti, quest’ultima opera dello scrittore grossetano riscuote un notevole successo commerciale. La prima recensione, entusiastica, è di Indro Montanelli sul Corriere della Sera che inviterà Bianciardi a collaborare con il giornale. Bianciardi rifiuterà. Nell’arco di pochi mesi escono in rapida successione diverse edizioni del libro: dal settembre del ’62 al marzo del ’63 si stampano ben sei edizioni del romanzo, quasi una al mese (nel 1964 uscirà anche il film di Carlo Lizzani, con Ugo Tognazzi come protagonista). Bianciardi stesso sembra sorpreso di tanto favore, come risulta da alcune sue lettere di quel periodo a un suo caro amico grossetano, Mario Terrosi: «… il libro va veramente molto bene, sia come critica che come vendite (cinquemila copie in una decina di giorni). Forse la vita agra stavolta è finita davvero», «L’aggettivo agro sta diventando di moda … Finirà che mi daranno lo stipendio mensile solo per fare la parte dell’arrabbiato italiano».

È il momento della discussione e del confronto molto accesi su “Industria e letteratura” ospitati sulle pagine del Menabò di Vittorini e Calvino, a cui partecipano grandi intellettuali come Franco Fortini (memorabile il suo Astuti come colombe). Italo Calvino aveva apprezzato molto La vita agra e lo avrebbe volentieri pubblicato con Einaudi, ma Rizzoli glielo soffiò all’ultimo, e Calvino non la prese affatto bene (e lo scrisse a Bianciardi). La pubblicazione del libro avviene in un periodo, i primi anni Sessanta, in assoluto tra i più magmatici della storia d’Italia. Alla fine degli anni Cinquanta la società italiana va incontro al cosiddetto “miracolo economico”: vede cambiare rapidamente, forse troppo, il suo sistema produttivo da rurale-industriale a industriale-finanziario, con il conseguente mutamento del tenore e dello stile di vita, improntati a un maggior benessere. Ma cambiano i rapporti sociali, si deteriorano.

Luciano Bianciardi vive tutto ciò in prima persona dall’interno di quel mondo editoriale e letterario in cui, come scrive Pino Corrias nella sua splendida biografia a lui dedicata, Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano, pubblicata con Baldini & Castoldi nel 1993 (e poi, in nuova edizione, con Feltrinelli nel 2011), «è un ingranaggio difettoso (oppure è difettosa la macchina, dipende dai punti di vista)». Bianciardi lo racconta in modo straordinario nel suo romanzo con lucidità e sarcasmo, spietatamente, senza fare sconti a nessuno, eppure viene osannato, lo vogliono tutti. Ovunque. Bianciardi è frastornato, stordito da questo momento di gloria, ma ha sempre in testa la provincia, Grosseto, dove torna di tanto in tanto per rivedere i figli. «Babbo mi veniva ad aspettare all’uscita della scuola, quella dove aveva insegnato … Andavamo a pranzo insieme, poi era l’ora dello studio per me e del lavoro per lui. Aveva fatto mettere due scrivanie nella camera, una di fronte all’altra, e aveva inventato un gioco: quando lui diceva “cambio!” bisognava scambiarsi di posto, io traducevo Jack London, lui faceva le mie versioni di greco», ha ricordato recentemente su Tuttolibri della Stampa Luciana Bianciardi, che oggi ne cura l’opera.

Per Luciano Bianciardi è arrivato il momento di allontanarsi da Milano ma non per tornare a Grosseto (in realtà a “Kansas City” farà ritorno, con un capitolo aggiunto nel 1964 a Il lavoro culturale), ma per finire nell’esilio dorato ma triste di Rapallo con Maria Jatosti e il figlioletto Marcello; un esilio garibaldino, dove di Garibaldi e del Risorgimento, sue antiche passioni, continua a scrivere molto (Dàghela avanti un passo!, che viene dopo Da Quarto a Torino e La battaglia soda, esce nel 1969) e come Garibaldi vede presto la sua vittoria volgere in sconfitta, amara, terribilmente amara. Gli ultimi anni della vita di Luciano Bianciardi scorrono veloci, o molto lenti. Sono anni difficili, tormentati, dolorosi, in cui si sente accerchiato (Aprire il fuoco, cronaca delle gloriose giornate dell’immaginaria insurrezione milanese del 1959 in cui compare anche Enzo Jannacci, è sempre del 1969); nel frattempo collabora anche con riviste come ABC, Playmen, Guerin sportivo. Scrive di costume, televisione, calcio, ma sono occasioni, pretesti diversi per parlare di una società in cui riesce a stento a tenersi a galla.

E a Enzo Tortora che sul Guerin sportivo, rubrica “Così è se vi pare”, gli chiede: «Chi diavolo sei Bianciardi Luciano? L’uomo della Vita agra o un cinico Tito Livio dei nostri lunedì?», replica: «Sono sempre l’uomo della Vita agra, stai tranquillo»; mentre a Livio Berruti che gli domanda: «Ora la vita è più agra o meno agra di quanto non lo era dieci anni fa?», risponde: «Ora la vita è sicuramente meno agra. Non si stenta ad arrivare alla fine del mese, non si saltano più cene, ci possiamo permettere un bicchiere buono. Però, se la vita oggi è meno agra, è anche molto più confusa. I valori si confondono, le persone cambiano faccia, e ci si sente male. In un modo diverso, ma forse più di prima». L’alcol farà il resto. Siamo nel 1971. Luciano Bianciardi morirà il 14 novembre a Milano, da uomo libero che scriveva benissimo.

La Storia nell’arena dei social

«Un piccolo passo per un uomo, un gigantesco balzo per l’umanità», disse, con studiata retorica, Neil Armstrong nel mettere piede sulla Luna.
Un po’ la stessa consapevolezza dovrebbe pervadere chiunque attivi un profilo social: Internet, e quella particolare categoria di Internet che sono le piattaforme di condivisione, sono continenti, anzi, mondi ancora tutti da esplorare che hanno regole e linguaggi nuovi, e come tali andrebbero trattati. Anche perché queste regole e questi linguaggi sono ancora piuttosto primitivi (la rete social, in fondo, non ha nemmeno vent’anni) e pertanto possono risultare ruvidi, incompleti e perfino pericolosi, a volte. Il rischio principale è in effetti quello di “non capire dove ci si trova”: l’avvento dei social network ha in buona parte ricreato l’atmosfera fumosa delle vecchie mescite e la rassicurante convinzione di trovarsi in un ambiente anonimo, opaco. Molti pensano di trovarsi in un luogo conosciuto e ritenuto sicuro, perché stare davanti alla tastiera fa pensare che esprimersi “da casa” sia praticamente esprimersi “in casa”. Purtroppo così non è. Quello a cui ci si affaccia dallo schermo di uno smartphone o dalla tastiera di un pc è un mondo potenzialmente infinito, spietato, insensibile e, specie per le figuracce, eterno.

Un mondo che sembra fatto di un presentismo smaccato, pieno di “qui” ed “ora”, ma che invece ha uno strano rapporto col tempo e in cui la storia, e chi parla di storia, sono molto rappresentati. La rete ha fame di storia, pare: fioriscono le pagine a tema, i gruppi di discussione, gli scambi sul passato. Un aspetto in gran parte positivo per chi si occupa di studi storici. Ma non sempre. Perché sono molti i motivi che animano chi si avvia a discettare con ampiezza di vedute e capacità dialettica all’interno delle grandi praterie della storia, e non tutti sono coerenti con l’idea di un confronto sui temi del passato, perché c’è anche chi dice di voler parlare di storia e invece fa altro. Parlare di sé, ad esempio, mostrarsi. La storia, come strumento, è un ottimo modo per rappresentarsi.
Ma tutto questo chiacchierare ha conseguenze sull’argomento di discussione, vale a dire sulla storia in sé?

Le chiacchiere virtuali potrebbero sembrare solo il passatempo di – mediamente -maschi adulti in possesso di smartphone con connessione, ma data la loro estensione e persistenza, e dati anche alcuni elementi che ne fanno, per così dire, uno spettacolo a cui assistere (chi di noi non si è attardato, almeno una volta, nella lettura di quegli scambi online che a volte finiscono a insulti?), esse sono a tutti gli effetti momenti in cui viene “mostrata della storia”. Queste arene in cui ci si scambiano stoccate a colpi di fatti storici veri o presunti sono un punto di vista privilegiato in cui è possibile osservare lo stato dell’arte e, sul medio periodo, l’evoluzione del rapporto tra gli individui e il passato, agendo in maniera non trascurabile sui modi in cui interi gruppi umani percepiscono la storia e il suo utilizzo.

Nelle discussioni che riguardano il passato una tra le prime vittime delle discussioni è proprio il tempo stesso, inteso come tempo di analisi, di applicazioni metodologiche, di ricostruzione fattuale. In pratica, riversando un contenuto complesso in uno strumento concepito per accogliere l’opinione istantanea, l’emozione del momento e anche, perché no?, la chiacchiera, si finisce con il deturpare il contenuto stesso schiacciandolo in tempi e modi impropri. Una forzatura che fa scivolare tutto da oggettivo a soggettivo, da soggettivo a parziale e da parziale a “di parte”.

Si abbandona così il terreno del confronto e si entra immediatamente nello scontro, degradando lo scambio in disputa e focalizzando l’impegno dei contendenti non sul conoscere, ma sul vincere. A questo punto, che purtroppo i frequentatori delle arene virtuali ben conoscono, la storia non è più un tema, ma un semplice strumento con cui attaccare “il nemico”. E per rendere la storia un corpo contundente efficace tutti i metodi sono validi: il benaltrismo, ad esempio, che a colpi di “eh ma allora [argomento a piacere]?” cerca di stornare l’attenzione dal focus del discorso; la confusione tra colpa e responsabilità, attraverso cui addossare agli interlocutori crimini commessi da veri o presunti antenati; i paragoni più bislacchi tra passato e presente, riducendo i fatti storici a quinta teatrale per parlare dell’oggi, ecc.

Tutti modi in cui più o meno volontariamente la storia sui social viene manipolata.
Anche se involontariamente, queste risse verbali apparentemente innocue contribuiscono all’evoluzione del rapporto tra il passato e la sua rappresentazione attuale: modificano, in una parola, la “mentalità”. La rete quindi è un mondo che chi fa storia per professione dovrebbe disertare? Certo che no, anzi!

I social sono un campo di lavoro rischiosissimo e al contempo molto utile: sono il terreno delle più feroci fake news che scorrono inarrestabili giorno dopo giorno; sono anche però il luogo in cui queste fake news possono essere smentite e inchiodate alla loro irrealtà. Se per la fake news sul presente quella di correre dietro a ogni bugia caricata sul web può costituire una sfida improba, per quanto riguarda la fake news di carattere storico questo lavoro si può invece rivelare molto più solido e fruttuoso. Nulla può essere davvero “dimenticato” quando finisce in rete. Né la bugia, né la sua smentita. È una battaglia sicuramente ardua, ma con delle prospettive di riuscita. Se infatti sui social si consolidasse una presenza attenta di persone, dai semplici appassionati ai professionisti, con la capacità di porre attenzione su quanto si produce a livello di contenuti, il mondo virtuale potrebbe sviluppare una propria capacità di autocontrollo.

Partire da questo, per comprendere poi i modi e i tempi migliori per agire su questo campo, potrebbe essere un primo passo per costruire un nuovo modo di affrontare a livello pubblico lo studio e la diffusione del sapere storico, scrollandolo al contempo di quella vecchia contrapposizione tra “accademia” e “divulgazione” e aprendo nuove vie di indagine sul rapporto tra passato e presente. Questo è necessario perché è la natura stessa dei cambiamenti in atto a suggerirlo. L’aumento vertiginoso della esposizione dell’immaginario dei singoli all’osservazione più o meno pubblica è un’occasione unica, per chi si occupa di passato, per visualizzare e comprendere molti dei meccanismi che legano, nonostante tutto, le odierne società al loro passato.

I social sono una finestra imperdibile su un mondo di idee, opinioni e visioni del passato. L’opportunità di avere milioni di persone che spontaneamente dichiarano quel che pensano sul passato non può essere sottovalutata da chi il passato lo studia. I social più diffusi sul pianeta prevedono nelle loro funzioni la possibilità che l’utente si esponga producendo “storie” (stories), in un incrocio diretto tra la volontà di apparire e volontà di rappresentare sé stessi nel tempo; tutto ciò sta cambiando il senso stesso del raccontarsi, cioè, in definitiva, il senso stesso dell’approccio storico, e rappresenta una grande occasione.
Questi nuovi strumenti stanno dando a tutti noi la possibilità di seguire la costruzione di un mondo fatto di incognite ma anche di opportunità, la cui comprensione potrebbe facilitare la lettura delle future evoluzioni di un concetto che continuerà ad abitarci e plasmarci: lo scorrere del tempo.
È un’occasione da cogliere.

David Quammen: I cowboy non indossano mascherine

Da decenni in prima linea in tutto il mondo, con il suo consueto rigore giornalistico e scientifico per raccontare le più pericolose epidemie, David Quammen torna in libreria con Senza respiro (Adelphi), un saggio dedicato a tutti coloro che hanno perso i propri cari a causa del Covid-19 e che è al tempo stesso uno strumento di comprensione essenziale della pandemia e un monito per il futuro. Trentacinque pagine di bibliografia per un totale di oltre 200 note a corredo di quasi 500 pagine di narrazione che scorrono fluide come un romanzo. Non è un caso che Quammen, che abbiamo incontrato all’anteprima di Più libri più liberi, a Roma, nasca romanziere per poi dedicarsi alla divulgazione scientifica, genere di cui è oggi un maestro di fama mondiale. Profonda fiducia nella scienza, incertezza feconda di intuizione e disposizione all’ascolto guidano una storia raccontata in modo appassionante. «Il mio principio di indeterminazione l’ho acquisito non dal fisico Werner Heisenberg ma dal romanziere William Faulkner», ci racconta.

Definito “profetico” per aver scritto in tempi non sospetti che il mondo sarebbe stato presto o tardi colpito da un coronavirus con esiti imprevedibili, è proprio Quammen, che i lettori di Left hanno conosciuto già nel 2014 ai tempi dell’Ebola, a ricordare fin dall’incipit che in realtà la scienza lo aveva previsto da tempo. «Lo avevano visto avvicinarsi, come un puntino scuro all’orizzonte delle pianure del Nebraska, che procedeva rombando verso di noi con velocità e forza incalcolabili… Un virus nuovo, se la fortuna gira bene per il virus e male per noi, può attraversare la popolazione umana come un proiettile di grosso calibro».

Quammen, il puntino è diventato un proiettile letale: è solo questione di sfortuna o ci sono delle responsabilità?
Il caso e la fortuna sono sempre presenti nello svolgersi della storia, ma generalmente la comparsa di un nuovo virus di infezione umana ha cause deterministiche: le nostre interferenze in ecosistemi selvatici con diverse specie animali portatrici di diversi virus, le numerosità della popolazione umana che ci rende un target appetibile, il nostro grado di interconnessione che consente a un virus trasmissibile di diffondersi tanto in fretta e a grande distanza, e infine le scelte sbagliate che facciamo (o quelle giuste che non riusciamo a fare) con lo scopo di contenere l’epidemia una volta che è iniziata. Il Covid-19 è più che altro una questione di scelte che l’umanità ha fatto mettendo se stessa a rischio di estinzione. Tuttavia, detto questo, sono anche disposto a ritenere che la ferocia con cui è stata colpita l’Italia nella primavera del 2020, soprattutto al Nord, si possa in effetti attribuire a molta sfortuna oltre che a fattori deterministici.

Come spiegare tanta sofferenza?
Sono propenso a pensare (anche se non ne ho le prove) che l’Italia abbia avuto la sfortuna di subire una disseminazione intensiva del virus sin dai primi giorni e settimane della pandemia, forse alla fine di gennaio o inizio febbraio 2020, probabilmente attraverso i passeggeri internazionali in arrivo nei tre aeroporti intorno a Milano. Questo sarebbe accaduto in un periodo in cui si sapeva ancora molto poco del virus e delle sue caratteristiche, e fra queste la capacità di essere trasmesso dalle persone infette prima che abbiano sintomi. Il virus si è diffuso, è entrato in famiglie multigenerazionali, è passato inosservato dai giovani agli anziani… e tanta gente si è ammalata ed è morta.

«I cowboy – lei scrive in Senza respiro – non indossano mascherine». Le differenze fra sistemi sociali e sanitari ci aiutano a spiegare i diversi esiti della pandemia nei vari Paesi?
Sì, penso che le differenze culturali possano essere state molto importanti per gli esiti, almeno durante la prima ondata della pandemia. Anche di questo non ho prove, ma è un’ipotesi che sembra compatibile con i modelli che abbiamo osservato. Singapore e Corea del Sud, con misure sociali intensive volte a limitare la trasmissione, hanno evitato casistiche pesanti. Il Giappone è stato in gran parte risparmiato, così come la Nuova Zelanda e la Germania perché le popolazioni hanno accettato rigorosi provvedimenti costrittivi di sanità pubblica. La Cina ha imposto misure davvero draconiane e ha fermato il virus, ma la gente non aveva la libertà di rifiutare quelle misure. In Italia, Regno Unito, Francia e Spagna (se ricordo bene) ci sono stati lockdown, ma tardivi e imposti in modo incoerente, allentati e poi reintrodotti. La Svezia ha deciso di tenere tutto aperto e alla fine è stata colpita in modo duro. Negli Usa c’è stata una disorganizzazione caotica e il colpo è stato pesante, anche perché a dettare la risposta avevamo un presidente che era lui stesso una persona caotica e disorganizzata.

In Italia, secondo alcuni osservatori, hanno pesato la tendenza a privatizzare la sanità, l’impoverimento delle risorse pubbliche e dell’assistenza sul territorio.
Questo è un punto cruciale, nonostante le mie ricerche (che hanno incluso conversazioni con scienziati italiani), non l’avevo del tutto messo a fuoco. Penso che abbia senso. La presenza in tutti i Paesi di un forte sistema sanitario pubblico è di importanza vitale per la gestione delle epidemie. Uno scienziato mi disse che se esiste una malattia infettiva da qualche parte, nell’era della globalizzazione significa che esiste ovunque. Il che vuol dire sia in qualsiasi classe sociale di un determinato Paese, sia in qualsiasi parte del mondo. Davanti a una pandemia i ricchi, anche se hanno una copertura sanitaria privata, non possono illudersi che saranno solo i poveri a soffrire.

La pandemia sembrava aver unito il mondo, ma dopo due anni ci ritroviamo nel pieno di una delle crisi planetarie più gravi della storia umana…
Concordo, la situazione attuale è un caos terribile. Qualcuno l’ha chiamata “policrisi globale”, ovvero crisi di origini diverse che si verificano tutte nello stesso momento e si amplificano a vicenda attraverso intricate interconnessioni. Guerre, cambiamento climatico, pandemia, rifugiati, disinformazione, sfiducia nella scienza, minacce per la democrazia, affermazione di leader autocratici. Non ho soluzioni definite da proporre per questa policrisi, ma penso che dobbiamo mantenere la calma, continuare a dedicarci alle nostre istituzioni e ai processi democratici, proseguire il dialogo anche con i popoli che secondo noi sono governati male, avere grande attenzione per l’educazione dei nostri figli ai valori democratici e al pensiero critico, eleggere leader qualificati, rivedere il nostro stile di vita per ridurre l’impatto individuale sul mondo naturale (riducendo la tendenza a consumare e a riprodurci) e procedere dritti dentro la tempesta riparando gli occhi ma tenendoli bene aperti.

In Italia sono ancora in molti, anche fra i politici, a dirsi scettici sui vaccini. Cosa si sente di dire loro?
I migliori fra i nuovi vaccini sono meravigliose, stupefacenti conquiste della scienza e della tecnologia mediche. Dovremmo farli nostri e condividerli con la più ampia platea possibile. A chi dice “non ci credo” rispondo “allora perché credi agli ospedali? Se rifiuti il vaccino e ti ammali, perché la società dovrebbe darti un letto in ospedale? Gli ospedali sono istituzioni della scienza medica e tu alla scienza medica non ci credi”. Può suonare crudele, e nella realtà non lo direi mai a nessuno che si ammalasse, ma spiega cosa penso dell’insensata mancanza di logica della posizione no-vax.

La scienza, con la sua incertezza, è l’antidoto contro le fake news?
Sì. Ho fiducia nella scienza ma riconosco ciò che essa è un metodo sempre provvisorio per utilizzare l’evidenza, la conferma sperimentale e la logica razionale per avvicinarsi sempre di più alla comprensione del mondo fisico. Una componente importante di questo processo è l’umiltà. Un’altra è l’attenzione per una pluralità di voci, forme di evidenza, possibilità. Qualcosa di molto simile a una delle lezioni che ho imparato dalla letteratura, soprattutto dalle opere di William Faulkner.

Un’altra idea dura a morire è che il virus derivasse da una “fuga” da un laboratorio cinese.
Forse non troveremo mai la prova definitiva che questo virus provenga da uno spillover naturale, ossia un salto da un animale selvatico verso gli esseri umani, anche se secondo me è senza ombra di dubbio questa la spiegazione più verosimile della sua origine. Forse non identificheremo mai la specie animale, la località, la situazione o l’esatto virus di animale selvatico che si è trasformato in questo virus.

Perché?
In parte perché questa importantissima possibilità di scoprire tutto questo è andata perduta l’1 gennaio 2020, quando le autorità di Wuhan ordinarono la chiusura e la ripulitura (prima della raccolta di campioni per le analisi scientifiche) del mercato ittico all’ingrosso di Huanan. In mancanza di questa certezza, l’ipotesi della fuga dal laboratorio resisterà. Non penso che debba essere accantonata ma che si debba darle la giusta replica, e poi continuare a trovarne, con prove e con logiche sempre più solide.

Perché è così importante capire l’origine del virus?
Perché l’ipotesi della fuga dal laboratorio implica l’idea che la scienza abbia fatto troppo, e che in parte questo ci abbia portato alla catastrofe. La spiegazione che c’è un’origine naturale implica invece che ci serve più scienza sui virus pericolosi, e sui loro ospiti, e sugli spillover, per riuscire a proteggerci nel futuro.

Abbiamo vinto? Vinceremo?
Non ci sarà mai una vittoria definitiva sul Sars-CoV-2. Penso che resterà fra noi per sempre. Dovremo continuare a vaccinarci e adattare i vaccini con la stessa velocità con cui si adatterà il virus. Ma potremo proteggere l’umanità da moltissima sofferenza inutile se continueremo a combattere questo virus, e gli altri che arriveranno, con la scienza, la volontà e il buon senso.

Abbiamo imparato la lezione? Riusciremo a vedere il prossimo puntino all’orizzonte prima che diventi un proiettile letale?
È esattamente la domanda che per scrivere il libro ho posto a molte delle mie fonti, in tutto 95 esperti, alla fine di ogni intervista. Alcuni hanno semplicemente risposto: no, non l’abbiamo imparata. Altri invece hanno detto che la speranza è che l’abbiamo imparata, per fare meglio la prossima volta. Io voglio mettermi nel secondo gruppo.