Luigi Ghirri ha proposto un nuovo modo di guardare il mondo e di fare fotografia. A trent’anni dalla sua scomparsa, il regista Matteo Parisini gli dedica il lungometraggio Infinito, con cui ci conduce, guidati dalla voce di Stefano Accorsi, alla scoperta di Ghirri come artista e come uomo.
Alla Festa del Cinema di Roma, dove è stato presentato il film, ne abbiamo parlato con il regista Matteo Parisini (nella foto), e le figlie, Ilaria ed Adele Ghirri.
Questo film attraversa i confini tra fotografia, poesia e filosofia. In particolare, mi ha colpito l’emergere del profilo di Luigi Ghirri non solo come fotografo e come uomo, ma proprio come pensatore. Mi ha colpito che, per spiegare la sua ricerca, lei abbia ripreso il “pensare per immagini” di Giordano Bruno citato da Ghirri. Com’è nata l’idea di questo lavoro?
Matteo Parisini: Premesso che sono da sempre un appassionato della fotografia di Ghirri, devo dire che l’idea del film è scaturita dopo averne letto il libro in anteprima. Tramite i suoi scritti si entra un’altra dimensione. C’è un tale senso di profondità che consente di capirne il percorso artistico e quello umano. Una frase che amava ripetere era: «Io sono prima una persona, poi un fotografo». A tal proposito, nel documentario, Gianni Leone – collega e amico di Luigi Ghirri – dice una cosa che condivido: «Siamo sicuri che Luigi Ghirri sia stato solo un fotografo? Secondo me no. Secondo me è stato molto molto di più». In altre parole, per ricollegarmi a quanto hai affermato all’inizio, egli si è servito della fotografia per compiere un processo più ampio di analisi della realtà, da filosofo.
Qual è l’aspetto che più l’ha fatta appassionare al suo lavoro?
M.P.: Penso che siano due gli aspetti più importanti, che sono anche al centro del film: la memoria e la pulizia dello sguardo. Luigi Ghirri, spesso, viene associato alla pianura Padana; in realtà, come diceva lui, la provincia è un punto di partenza per andare oltre. Queste fotografie, viste in qualunque altra parte del mondo, da persone di ogni età, regalano tanto altro che, per me, è proprio la memoria. Memoria vista come memoria fantasia che si trasforma e permette a ciascuno di vedere quello che vuol vedere.
Quindi, la memoria in Ghirri non è legata alla nostalgia?
M.P.: Esatto. Perché, come ha detto anche il pittore Davide Benati: «Ghirri usava la macchina fotografica come un giocattolo». Questo gli ha permesso di andare oltre, in un’altra dimensione, inconscia. In altre parole: nelle fotografie di Ghirri ognuno vede cose diverse, a seconda del percorso che sta facendo.
Molto interessante. Penso che la fotografia di Luigi Ghirri sia intima ma non personale. E credo che questo gli conferisca un carattere ancora più universale. Cosa pensate di questo aspetto?
Ilaria Ghirri: Come dichiara nei suoi scritti, lui non cercava un personalismo. È intimo perché tocca quella memoria fantasia a cavallo tra reale e immaginario; per cui, attraverso le sue foto, è riuscito a rintracciare qualcosa di universale, degli archetipi, in cui ognuno si può riconoscere. Anche perché, l’intimità di Ghirri non è mai aggressiva, egli cerca sempre un’empatia con il mondo esterno. Come se, attraverso le sue immagini, ci aiutasse a stare nel mondo in un modo più consapevole, partecipato e sincero. Come se le sue foto fossero un veicolo per riconoscerci e ritrovarsi.
Adele Ghirri: Lui diceva: «Cerco di trovare un punto di equilibrio tra interno e esterno; tra me e il resto del mondo, tra quello che sento dentro di me e quello che c’è fuori». A riguardo, in un’intervista gli chiesero: «Cosa vorrebbe che si dicesse di lei in un ipotetico futuro?» Lui rispose: «Che ho cercato di circoscrivere il mio mondo interiore da quello esteriore. E, se potessero aggiungere un’altra riga? Che ci sono riuscito». Ricordo che uno stilista nigeriano, appassionato del suo lavoro, una volta mi ha detto: «Quando
guardo le sue foto mi sento a casa». A dimostrazione del fatto che Ghirri arriva anche a persone che provengono da altri luoghi del mondo, in cui ci sono altre luci, in cui lo spazio urbano e il paesaggio sono diversi.
Quanto al suo rapporto con l’architettura?
Adele Ghirri: Partirei dal fatto che lui era un geometra. Aveva studiato le regole
prospettiche e compositive, dal Rinascimento a oggi. Quindi è chiaro che questo tipo di equilibrio visivo lo ritroviamo anche nelle sue immagini, la costruzione dello spazio era parte del suo background.
Ilaria Ghirri: Nei suoi lavori sull’architettura, non ha mai celebrato gli architetti, ma ha lasciato che le architetture dialogassero con il loro contesto, guardandole come parte di esso, quasi come elementi naturali. Nelle immagini di architetture metteva sempre in risalto la semplicità del vivere dell’abitare; tant’è vero che rintracciava le spaccature, le imperfezioni, i tagli di luce, così da renderle sempre uniche ed affascinanti.
Parliamo del rapporto con la figura umana. È come se, nelle fotografie di Ghirri, la figura umana entrasse quasi per caso, spesso, infatti, è di spalle. Tuttavia, nello stesso tempo, mi pare che l’umano sia fondamentale nella sua ricerca. Come se, in questo caso, l’assenza dell’uomo fosse una presenza. Cosa ne pensate?
M.P: Nel documentario riprendiamo un discorso interessante. Luigi Ghirri dice: «Fotografo le persone di spalle perché la ricerca di un’identità è una strada difficile. Nelle mie fotografie tutti possono riconoscersi e cercare la propria identità». Secondo me questo discorso torna al precedente, ciascuno coglie nelle sue foto un contenuto in base al proprio vissuto personale.
Qual è il lascito più importante? Cosa ci dobbiamo tenere da questo film?
M.P: Secondo me Luigi Ghirri era molto altruista. Precorrendo i tempi diceva: «In
una società che va verso la sovrabbondanza di immagini, l’educazione all’immagine è un percorso fondamentale e infinito. Non solo per gli artisti, ma per tutti. Perché tutti la devono portare avanti, altrimenti il rischio è non vedere più niente».
Ilaria Ghirri: Forse l’idea di senso. L’immagine è uno straordinario strumento di conoscenza di sé e del mondo. C’è una frase di Calvino che amava molto: «Quando noi guardiamo i fenomeni è il mondo che guarda il mondo» Quindi la fotografia diventa una magnifica possibilità di entrare in relazione con l’esterno. Un “esterno” che diventa sempre più inconoscibile, pieno di geroglifici più che di segni decifrabili.
La giornata di ieri involontariamente è un ottimo bugiardino per sapere come affrontare i prossimi 5 anni o quelli che saranno con questo governo che viene e che non si sa quanto durerà. Ci sono dentro la composizione, la corretta posologia, le condizioni per cui è indicato, i casi in cui non deve essere utilizzato, gli eventuali effetti collaterali e le modalità di assunzione e di conservazione.
La composizione, innanzitutto. Ieri abbiamo saggiato con mano cosa c’è dentro questo governo che viene. Ci saranno vecchi arnesi della politica che, chissà perché, con il tempo dovrebbero essere diventati autorevoli. Ci sono fascisti, parecchi fascisti. Politici che depositano disegni di legge contro l’aborto pochi minuti dopo essere stati eletti (e Gasparri no, non è uno qualsiasi), ci sono i veri amici di Putin, ci sono destrorsi travestiti da liberali che di liberale non hanno un bel niente.
La posologia. Arriverà tutto in dosi leggere, come sta accadendo in questi giorni, prima e dopo i pasti: alla fine non ci accorgeremo nemmeno che la compressione dei diritti generali sia il frutto di molte piccole compressioni rivendute come iniziative personali. Darà assuefazione.
Malattie o condizioni per cui è indicato. È indicato per nostalgici che non avrebbero mai sperato di essere così in alto nella Repubblica nata dalla liberazione dal fascismo, è indicato per le beghe giudiziarie di Silvio Berlusconi e per le sue televisioni, è indicato per la riabilitazione di Salvini e la sua fortificazione contro gli agenti interni del suo partito.
Casi in cui non deve essere utilizzato. Non può diventare l’occasione per restaurare idee, pregiudizi e oscurantismi che dovrebbero essere vietati per una sana e robusta Costituzione.
Eventuali effetti collaterali. Secchezza della credibilità di un Paese nel quadro internazionale. Dolori per la libertà di scelta e di opinione.
Modalità di assunzione e di conservazione. Faranno di tutto per non perdere il potere. Se scaricheranno Berlusconi cercheranno quegli altri liberali per trovare un punto d’appoggio. Continueranno a voler decidere come governare e come dovrebbe essere l’opposizione.
Buon mercoledì.
Nella foto: Il presidente del Senato Ignazio La Russa a Porta a porta, 18 ottobre 2022
La violenza di un adulto su un bambino è definita da psichiatri e psicoterapeuti «un omicidio psichico», tuttavia il nostro Paese è l’unico al mondo in cui le istituzioni laiche (Governo, Parlamento) non hanno mai voluto realizzare un’inchiesta pubblica e indipendente su scala nazionale per far luce su un fenomeno criminale che purtroppo è diffuso in tutta la Penisola quanto meno da decenni: la pedofilia nella Chiesa cattolica e apostolica romana.
Da tempo noi di Left chiediamo che sia istituita una commissione parlamentare d’inchiesta sulla pedofilia come quella importantissima, già attiva, sul femminicidio. La violenza sulle donne e quella sui bambini, come è noto, hanno quanto meno una matrice “culturale” comune ma il nostro appello fino a oggi è rimasto incredibilmente senza riscontro.
A questa grave carenza di sensibilità istituzionale si aggiunge la scarsa attenzione mediatica – tutta italiana – su tutto ciò che ruota intorno ai crimini che vengono commessi da persone appartenenti al mondo ecclesiastico, a parte rari casi, rappresentati oltre che da Left, da Adista e recentemente dal quotidiano Domani – non a caso si tratta dei tre organi di informazione che fanno parte del coordinamento Italy church too -. Una mancanza che è anche una inaccettabile disattenzione da parte della politica e delle istituzioni nei confronti della sicurezza e della salute psicofisica dei bambini.
Dal 2010 l’associazione Rete l’abuso, praticamente l’unica in Italia che si occupa della tutela dei diritti delle vittime di sacerdoti pedofili, non fa che denunciarlo principalmente attraverso il proprio sito. L’archivio di retelabuso.org rappresenta una vera e propria memoria storica di questo orrendo fenomeno criminale: la preziosissima rassegna stampa con tutti gli articoli su casi di pedofilia clericale, le testimonianze di vittime e sopravvissuti, il contatore con il numero delle denunce, dei casi passati in giudicato, delle strutture “segrete” dove la Conferenza episcopale italiana “nasconde” i sacerdoti che hanno commesso reati e la mappa delle diocesi non sicure (cioè le diocesi in cui si è verificato almeno un caso di violenza su bambini) rendono il lavoro di questa piccola ma preziosissima associazione unico e originale.
Ebbene, come denuncia il presidente di Rete l’abuso, Francesco Zanardi, proprio uno dei punti cardine di questa sua battaglia di civiltà – la mappa delle diocesi non sicure, consultata quotidianamente da giornalisti di tutto il mondo – è stata messa fuori uso da google perché racconta Zanardi «violerebbe le Norme relative a “molestie bullismo e minacce”». Una motivazione surreale per una gravissima limitazione alla libertà e al diritto d’informazione che Rete l’abuso imputa alla pressione di qualche sacerdote che non essendosi potuto appellare al diritto all’oblio per ottenere la cancellazione dal sito degli articoli che lo riguardano, ha trovato il modo di renderne più difficoltoso l’accesso e la consultazione oscurando la mappa che li linkava.
«Va ricordato – dice Zanardi – che per esempio, negli Stati Uniti sono gli organi federali, come l’FBI, a pubblicare online nome, foto e residenza di chi è stato condannato o ritenuto socialmente pericoloso per questi crimini. Un manifesto che non è sfregio della persona o di ciò che ha commesso, ma va a tutela della comunità».
Tutto sommato dovevamo aspettarcelo. Pronti, via e subito il nuovo Parlamento viene “battezzato” dai fautori di un’anticaglia ideologica che fonde insieme “visioni” antiscientifiche e clericali, scarso rispetto per l’identità delle donne e, sotto sotto, nostalgia per l’Inquisizione. Ci riferiamo al ddl per modificare l’articolo 1 «del codice civile in materia di riconoscimento della capacità giuridica del concepito» presentato in Senato da Maurizio Gasparri con l’evidente scopo di legittimare l’idea dell’uguaglianza giuridica di embrione e neonato, dando al feto lo status di persona. Un’uguaglianza che non solo è improponibile dal punto di vista scientifico ma che ovviamente va anche contro la legge 194 e i diritti – delle donne – che tutela. Come ricorda il Riformista, quella del senatore di Forza Italia con un passato nel Fronte della gioventù, nel Fuan e nel Movimento sociale del repubblichino Almirante, non è un’idea del tutto originale. Ricalca infatti una proposta legislativa dell’ultra reazionario Movimento per la vita che risale al 1995: “Ogni essere umano ha la capacità giuridica fin dal momento del concepimento. I diritti patrimoniali che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita”.
Fatto sta che è la terza volta che Gasparri prova a dare dignità di legge a una credenza religiosa: era successo nella XVI legislatura e nella XVII. In occasione di quest’ultima, nel 2019, su Left era intervenuta la ginecologa Anna Pompili (cofondatrice di Amica-Associazione medici italiani contraccezione e aborto e membro della Fiapac-Federazione internazionale degli operatori di aborto e contraccezione). Vale la pena oggi ricordare come Pompili aveva commentato “l’exploit” di Gasparri: «Dare all’embrione lo status di “persona” significa considerare l’aborto un omicidio, e le donne e i medici che lo praticano assassini. Il contrasto con la Carta costituzionale è evidente, e difficilmente potrà diventare legge. Tuttavia essa si inserisce in una battaglia culturale che, con parole ed argomentazioni apparentemente di buon senso, nonché con riferimenti a false acquisizioni scientifiche, tende a spostare il senso comune: non c’è differenza tra embrioni e bambini, le donne che abortiscono sono egoiste e ad oggi hanno assassinato sei milioni di innocenti, i medici sono sicari che tradiscono il giuramento di Ippocrate, i consultori sono abortifici che non informano sulle alternative all’aborto e sulle sue inevitabili gravi conseguenze per la salute, a cominciare dalla inesistente sindrome post-aborto, parto della fantasia distorta di chi è convinto di dare voce a etiche superiori e valori assoluti non negoziabili».
Per costoro, prosegue Pompili, «la prevenzione dell’aborto non si fa favorendo l’accesso alla contraccezione e implementando i programmi di informazione sessuale, ma impedendo alle donne di abortire, ignorandone le ragioni profonde e strettamente personali». Anche oggi come nel 2019 sul piano politico tutti si affrettano a dire che la legge 194 non è in discussione, ma è evidente come l’obiettivo sia proprio la legge, e indirettamente il diritto ad autodeterminarsi delle donne, tornando a prima del 1975, prima cioè della storica sentenza della Corte costituzionale che definì la non uguaglianza di diritti tra chi è già persona e chi persona potrà diventare con la nascita. Quella sentenza, ricorda ancora la ginecologa, costituisce la premessa di diritto della legge 194, che ha legalizzato l’aborto in Italia. Una legge importante, alla cui difesa siamo oggi chiamati tutti, ma che, essa stessa, già nell’art.1 rende evidenti i paletti ideologici all’interno dei quali si muove: «Lo Stato tutela la vita umana dal suo inizio», un inizio chiaramente identificato non con la nascita ma con l’impianto del pre-embrione in utero, una visione parziale e quantomeno discutibile dal punto di vista scientifico, bioetico e filosofico.
«Difendere oggi la legge 194 conoscendone i limiti è importante – conclude Pompili – perché sostanzia di contenuti le posizioni culturali che si contrappongono alla rozzezza e alla superficialità di bugie promosse a verità scientifiche e supera gli scontri a base di slogan urlati che, allontanando le persone, lasciano spazio ai luoghi comuni. È una battaglia che ha al suo centro la conoscenza della dinamica della nascita umana e il riconoscimento della dignità delle donne e del diritto alla autodeterminazione che, al di là di ogni retorica, non hanno mai trovato pieno riconoscimento nella stessa legge 194».
Chissà se in questi giorni da qualche radio uscirà la voce di Laura Nyro. Sarebbe la maniera giusta di celebrare questa straordinaria cantautrice americana, nata 75 anni fa e scomparsa precocemente nel 1997. Stupisce quanto poco sia ricordata oggi, eppure il suo stile incredibilmente innovativo ha rivoluzionato il pop di fine anni Sessanta e influenzato generazioni di musicisti. Di lei Elton John ha detto: «Era il mio idolo. Ho cambiato il modo di comporre dopo aver ascoltato le sue canzoni».
Laura nasce il 18 ottobre 1947, a New York, per l’esattezza nel Bronx, da Lou Nigro e Gilda Mirsky. I nonni hanno radici italiane ed ebree, ucraine e lituane. La musica è di casa: Lou è trombettista jazz e accordatore di pianoforti; Gilda, impiegata, ama l’opera e ascolta dischi di Ravel e Debussy. La piccola comincia a suonare il piano intorno ai sei anni, quando il padre compra per 25 dollari uno Steinway a coda. I genitori progressisti non la mandano a messa o in sinagoga, ma alla scuola della Ethical Culture Society, ispirata all’umanesimo laico del riformatore sociale Felix Adler. Laura sviluppa una personalità non religiosa ma profondamente spirituale. Non ho paura di morire, davvero non m’importa – canta in “And When I Die”, composta a soli sedici anni – Se morire dà la pace, ebbene, che venga presto l’ora/ Sono certa che il paradiso non esiste/ ma spero non esista l’inferno/ Datemi la mia libertà, perché fino a che sono al mondo/ ciò che chiedo alla vita è di non aver catene/ e ciò che chiedo alla morte è che sia naturale.
Con questa canzone (che, detto per inciso, sarebbe un bellissimo inno per i movimenti “liberi fino alla fine” che chiedono una legge sull’eutanasia legale) Laura fa ingresso nel mondo discografico, mutando definitivamente il cognome in “Nyro”. Il suo 33 giri d’esordio, More than a New Discovery (1967), è la prima fioritura di un’anima musicale cresciuta con Billie Holiday e Nina Simone, Miles Davis e John Coltrane, che impasta Broadway col folk, il gospel e il doo-wop. La sua voce di tre ottave e mezzo canta di amori spezzati o impossibili (“I Never Meant To Hurt You”, “He’s A Runner”, “Lazy Susan”), della vertigine del desiderio (“Blowin’ Away”), di strade ove la morte batte cassa come la campana del vespro (“Buy And Sell”). È nata un’artista. Col suo personalissimo mondo poetico è forse la capostipite delle cantautrici, prima di Joni Mitchell e Carole King.
Ma è nel secondo disco, datato 1968, che Laura Nyro riesce a esprimere pienamente il suo potenziale creativo. Eli and the Thirteenth Confession è una sorta di concept album in cui la ragazza del Bronx dà l’addio alla propria adolescenza. La furia dell’amore, romantico o sensuale, che travolge ogni cosa (“Eli’s Comin’”, “The Confession”), la solitudine (“Lonely Women”), lo “sballo” gioioso del vino (“Sweet Blindness”, “Stoned Soul Picnic”) e quello angoscioso della droga (“Poverty Train”), l’attenzione di una donna per una donna (“Emmie”)… Temi eterni e temi nuovi, inediti nella cultura pop. Nyro li svolge con maturità sorprendente, in versi onirici riecheggianti Emily Dickinson, Edna St. Vincent Millay, Bob Dylan. E che musica! Composizioni più ardite e spiazzanti che mai, ricche di cambiamenti di tempo, accordi insoliti e acrobazie vocali, sorrette dagli arrangiamenti lussuosi e congeniali di Charlie Calello. Ogni brano contiene idee melodiche bastanti per un intero lp di un medio artista pop. Il vinile, inoltre, è uno dei primissimi a includere i testi, stampati su richiesta dell’autrice in inchiostro profumato. Eli non supera il n. 181 nelle classifiche di vendita ma lascia il segno nel pubblico. Se ne accorgono tanti altri artisti, che “rubano” le sue canzoni portandole al successo: Blood, Sweat and Tears, Barbra Streisand, Sammy Davis jr., Fifth Dimension, Linda Ronstadt, Diana Ross… Da allora, il destino di Laura Nyro sarà di avere fama e proventi più come autrice che come interprete. Questo, a dispetto dell’eccezionale intensità delle sue performance dal vivo e per tacere dell’abilità proverbiale nel far proprie le creazioni altrui (su tutte, “Up On The Roof” di Carole King e “Walk On By” di Bacharach/David).
A Eli seguono altri bellissimi lavori. New York Tendaberry (1969), ritratto intimista della Grande Mela e delle vite solitarie e alienate che la popolano. Christmas and the Beads of Sweat (1970), con ospiti quali Duane Allman e Alice Coltrane. Gonna Take A Miracle (1971), tributo alle radici soul e R&B in compagnia delle Labelle. Poi, all’apice della carriera e forte di un contratto milionario e libero da scadenze con la Columbia, Nyro decide di uscire di scena. Niente concerti, nessuna nuova incisione, per anni resta lontana dai riflettori. Una scelta controcorrente che le permette, però, di esercitare il pieno controllo sulla produzione e di pubblicare solo quando desidera.
Le sue apparizioni discografiche si diradano: nel ’76 esce Smile, poi il live Season of Lights (1977), Nested (1978), Mother’s Spiritual (1984), Live at the Bottom Line (1989), Walk the Dog and Light the Light (1993). È una gestione accorta e parsimoniosa, quasi “kubrickiana”, della propria opera, senza cedimenti ai gusti più facili e commerciali. La sua scrittura, prima impetuosa e visionaria, ora si fa più raccolta e intima. Dagli arrangiamenti orchestrali passa a sonorità tipicamente folk-rock (chitarra, basso, bongo e sax), quindi a un sound jazz-rock-funk, sempre attorniata da strumentisti di altissimo rango come John Tropea, Mike Mainieri, Bernard Purdie. Laura nel frattempo si sposa, si separa, ha un figlio da un’altra relazione, infine ritrova l’amore con la pittrice Maria Desiderio che sarà la sua compagna sino agli ultimi giorni. Canta le disillusioni dell’industria discografica (“Money”), l’orgoglio dell’identità femminile nell’arte (“Louise’s Church”, dedicata a Saffo, Billie Holiday, Frida Kahlo e Louise Nevelson) e nella società (“A Woman of the World”, “The Right to Vote”), l’amore per la natura (“A Wilderness”, “Trees of the Ages”), la difesa degli animali e dei loro diritti (“Lite A Flame”, “Wild World”), il genocidio dei nativi americani (“Broken Rainbow”), la struggente poesia della maternità (“To A Child”).
L’8 aprile 1997 si spegne per un tumore, a soli 49 anni. Sua madre Gilda era morta alla stessa età, della stessa malattia. Nel 2001 appare un cd di inediti, Angel in the Dark, poi altre registrazioni escono dagli archivi. Le più recenti: Trees of the Ages, dalla tournée giapponese del ’94, e Go Find the Moon, audio del suo provino alla Verve. I figlio dell’artista, Gil Bianchini, sta lavorando a un film ancora senza titolo (che uscirà quest’anno), come riporta il sito di Deadline. Il documentario è ispirato anche al libro Soul Picnic: The Music and Passion of Laura Nyro di Michele Kort uscito nel 2003 riconoscere un debito verso Laura Nyro sono in tanti: oltre a Elton John anche Joni Mitchell, Kate Bush, Stevie Wonder, Todd Rundgren, Rickie Lee Jones, Donna Summer, Suzanne Vega, Narada Michael Walden. E cantautrici come Tori Amos, Fiona Apple o Amy Winehouse sarebbero inimmaginabili senza la sua influenza musicale. È il senso più autentico di ciò che chiamiamo eredità. Laura ci aveva pensato sin dalla sua prima canzone: E quando morirò, quando me ne sarò andata/ In questo mondo ci sarà/ un bimbo appena nato, che proseguirà.
Ieri uno degli argomenti più dibattuti, protagonista assoluto della maratona televisiva, erano dei mazzi di fiori che non sapevamo se Silvio Berlusconi avesse con sé per omaggiare Giorgia Meloni in occasione del loro incontro a Roma, in via della Scrofa. Quell’incontro è stato la traccia dei media di ieri e inevitabilmente dei giornali di oggi. Pochissimo spazio, quasi niente, ha avuto invece il singolare ruolo dei figli di Berlusconi, Marina e Piersilvio, che hanno avuto contatti con la futura presidente del Consiglio in una trattativa che non può non avere interessato anche le aziende di cui i Berlusconi sono intestatari. Il livello politico e il livello imprenditoriale personale si sono mischiati, ancora una volta, in piena fase di costruzione di un governo.
Il giorno precedente si è dibattuto a lungo degli errori ortografici del nuovo ministro Lorenzo Fontana. Che Fontana sia uno degli esponenti più in vista della destra veronese arrivato a uno degli scranni più alti del Parlamento, che Fontana sia in coppia con Ignazio La Russa l’espressione di una destra che non ha nulla a che vedere con il nuovo moderatismo che vorrebbe fingere Giorgia Meloni e che Fontana sia l’interprete di un’enorme inversione politica sul piano internazionale sono state ritenute notizie “vecchie” perché “già date”.
C’è poco accento anche sul fatto che il presidente del Senato, Ignazio La Russa, dopo avere solennemente giurato di essere “il presidente di tutti” ieri si sia intrattenuto a Roma in via della Scrofa nella sede del partito di Fratelli d’Italia fino a un secondo prima dell’incontro tra Meloni e Berlusconi e sia ritornato un secondo dopo. Tutto normale per gran parte dei commentatori che un uomo delle istituzioni abbia un ruolo apicale nelle trattative tra partiti.
Tra le notizie che avrebbero dovuto irrompere nel dibattito politico c’è il rapporto della Caritas di ieri che descrive a chiare lettere come nel 2021 in Italia sia ripartito il Pil ma sia contemporaneamente aumentata la povertà. In Italia la ricchezza non si distribuisce. L’odiato Reddito di cittadinanza (che raggiunge 4,7 milioni di persone) raggiunge meno della metà delle persone in povertà. Proprio ieri il leader di Italia viva Matteo Renzi ha sfidato Giorgia Meloni a abolire il Reddito di cittadinanza, spiegandoci che il futuro è il lavoro e “le start-up”.
Scegliere cosa raccontare (e cosa non raccontare) è un atto politico. È una scelta precisa che investe politici, giornalisti e commentatori. La spaccatura talmente ampia e evidente che ormai, ancor prima di verificare se siamo d’accordo con qualcuno, conviene sviluppare la capacità di notare ciò che scegli di non dire. Forse su questo crinale si gioca anche la calante credibilità del centrosinistra italiano che in questi anni ha scelto consapevolmente di non parlare di alcuni temi (per non disturbare chi?) ottenendo l’inevitabile effetto di sembrare, sì, una brava persona ma spesso incapace di cogliere il cuore del presente.
Solo che intanto il presente incombe. Buon martedì.
È andata bene, bisogna continuare. La “24 ore mondiale per Juliane Assange” è stata partecipata e seguita così come si sperava. Bravi tutti coloro che l’hanno pensata e organizzata. Tra le numerose realtà del Comitato promotore – assieme a Pressenza, Amnesty Italia, Free Assange Italia e molti altri – la rivista Left e Media alliance: una rete di testate europee cartacee e online di sinistra, di cui Left è animatrice dal primo momento, promossa anche da Transform! Italia (il ramo italiano della fondazione del Partito della sinistra europea, ndr).
Un network di giornali che ha l’idea che per fare l’Europa serva costruire una pubblica opinione europea e dunque anche una informazione a questa dimensione. Esigenza che ora sembra colta dalla stessa Commissione europea che sta avanzando una proposta di supporto anche pubblico a questo scopo.
La parte della “24 ore per Assange” ospitata nella sede di Left e trasmessa online è stata di grande interesse per chi ha preso parola e per l’ampia partecipazione. Soprattutto per i temi avanzati che legano strettamente la vicenda di Assange alla condizione di chi informa e di chi ha diritto ad esserlo. Ossia un punto chiave della democrazia e della cittadinanza.
La persecuzione di Assange, perché di questo possiamo parlare, sta dentro un processo inquietante di sequestro, manipolazione, distruzione dell’informazione che i dominanti perseguono contro i dominati. In un mondo di poteri economici sempre più predatori, di crisi sempre più drammatiche e ricorrenti, di guerre che si fanno mondiali, l’informazione è una delle vittime.
Informazione sequestrata dai poteri economici e politici che monopolizzano proprietà e mezzi. Operatori precarizzati e sempre più spesso intimiditi da pratiche minacciose. Vere e proprie campagne di fake news che vanno insieme alle censure. In questo mondo ormai orwelliano proliferano i ministeri della Verità con i loro slogan: “La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”.
La conoscenza tutta è diventata il primo terreno di dominio ma anche di scontro tra i dominanti. La conoscenza scientifica è sequestrata nei brevetti. Quella economica e finanziaria è manipolata da lobbisti e consigli di amministrazione. Le scuole sono invase dalle aziende. Come le stesse istituzioni democratiche. Cittadini e lavoratori sono messi ai margini anche perché faticano ad usare i computer che divengono barriera invece che comunicazione dello Stato nei loro confronti come nei magnifici film di Ken Loach, o vessati da algoritmi che organizzano il loro sfruttamento.
E poi c’è la guerra. Niente come la guerra uccide verità e giustizia e, sovente, chi la cerca e la diffonde. Di cercare e diffondere verità e giustizia è accusato Assange. Oggi più che mai dunque chiedere la libertà per Assange significa volere verità e giustizia.
Sarebbe molto importante a tal fine che il Parlamento europeo gli assegnasse il premio Sacharov per la libertà di pensiero (assegnato per la prima volta nel 1988 a Nelson Mandela e ad Anatolij Marčenko, ndr) che fu istituito proprio per riconoscere chi a verità e giustizia ha dedicato la vita. Il co-fondatore di WikiLeaks è tra i tre finalisti – assieme al “coraggioso popolo dell’Ucraina, rappresentato dal loro presidente, dai leader eletti e dalla società civile” e alla Commissione per la verità della Colombia – e questo è già molto importante. Proprio adesso assegnarlo a lui aiuterebbe molto anche a fare vincere ciò che più di ogni altra cosa sconfigge le guerre, appunto il sapere.
Per approfondire, leggi il libro di Left Free Assange
Si fa fatica crederci che negli ultimi giorni il dibattito della politica italiana si sia concentrato su episodi che in un quotidiano intellettualmente onesto sarebbero due righe di notizia breve per occupare un piede e un balcone.
Prima c’è stata la valanga di odio per dei giovani che hanno imbrattato un vetro di un quadro di Van Gogh. Per la stampa è stato facile: basta togliere la parola dal vetro – anche solo nel titolo dell’articolo – per lasciare intendere che dei pericolosi jihadisti dell’ambiente abbiano profanato qualche capolavoro artistico. Si trattava di un’azione dimostrativa con salsa di pomodoro su un vetro. Eppure contro i giovani attivisti si è scatenata tutta la schiera di presunti progressisti. La scena, vista da fuori, è piuttosto comica poiché credere di costruire consenso sui combustibili fossili e sulle centrali nucleari criminalizzando del sugo sul vetro può venire in mente solo all’indecente classe politica e giornalistica che si dice progressista dalle nostre parti.
Passa qualche ora e siamo al nuovo allarme. “La Russa Garbatella ti schifa”, appare su una saracinesca di una vecchia sede del Movimento sociale e poi di Fratelli d’Italia. Immaginate una persona qualsiasi bussare alla porta dei carabinieri della sua zona affermando di essere a rischio di vita per una scritta del genere. Dovrebbe fare quell’effetto lì, una risata con un po’ di compassione e chiusa la faccenda. Invece la “minaccia” viene cavalcata a destra (è normale, è l’indecente gioco della politica) ma soprattutto dalla solita schiera di presunti progressisti. Un illuminato giornalista di un quotidiano piemontese intravede addirittura il pericolo del ritorno delle Brigate rosse per una stella («a cinque punte!», gridano tutti) che è lo stesso simbolo che il suo editore stampa su un modello di auto per renderlo più appetibile.
Sarebbe già tutto abbastanza desolante se non fosse che il segretario del Partito democratico si prodighi per esprimere solidarietà a La Russa, legittimando di fatto la cretinata. Del resto proviamo a scriverlo da anni: la criminalizzazione del dissenso, di qualsiasi dissenso che non sia sorridente e su carta bollata è un’operazione che avviene da sempre ma gli utili idioti progressisti che alimentano questa tecnica sono un fenomeno esploso con virulenza in questi ultimi tempi. Per avere contezza dello squilibrio vi basta andare a cercare lo sdegno per le scritte fasciste (quelle sì) contro Nedo Fiano: ne troverete pochissime.
L’immagine bellissima di una donna, Liliana Segre, che presiede la seduta del Senato e con voce pacata e ferma pronuncia un discorso alto che parla di antifascismo, attuazione della Costituzione, dell’importanza di date storiche dal grande valore simbolico come il 25 aprile, il primo maggio, il 2 giugno. La senatrice a vita sopravvissuta alla Shoah e che ha passato la vita a combattere il fascismo (anche andando a parlare nelle scuole) si è trovata a presiedere il Senato nel giorno in cui alla presidenza è stato eletto Ignazio Benito Maria La Russa, «uomo di parte» come si definisce lui stesso, politico di ultra destra, già dirigente del Movimento sociale italiano, collezionista di busti di Mussolini (e non per folclore), che rivendica di non essere mai stato antifascista. Molto ci sarà da dire su questo evento spartiacque nella storia della Repubblica italiana che accade nell’anno del centenario della marcia su Roma.
Liliana Segre stessa da rivelato di essere stata colta da «vertigine» al pensiero che toccasse a lei aprire questa legislatura, lei che da «bambina in un giorno come questo nel 1938 fu costretta dalle leggi razziste a lasciare vuoto il suo banco di scuola». Segre volutamente non dice leggi razziali ma razziste accendendo un faro sul pericolo rappresentato da Lega e Fratelli d’Italia che si accingono a governare questo Paese a colpi di decreti sicurezza e illegali blocchi navali. Nel suo alto e appassionato discorso Liliana Segre evoca il costituente Calamandrei, cita Matteotti che fu barbaramente ucciso dagli sgherri di Mussolini. Ma il voto di 12 milioni di italiani trasformati dal Rosatellum e dell’astensione in clava anti democratica hanno fatto sì che Liliana Segre abbia dovuto subire anche l’onta di dover vedere un postfascista mai pentito salire sullo scranno della seconda carica dello Stato.
Come ha rivendicato La Russa nel suo discorso di insediamento la sua elezione è avvenuta con il concorso di 16 senatori dell’opposizione (che si è rivelata essere solo minoranza frammentata) che sono andati segretamente in soccorso di Fratelli d’Italia. Se l’opposizione avesse voluto fare opposizione impedendo ogni ambiguità avrebbe dovuto scegliere di votare un candidato di bandiera (come ha fatto il giorno dopo alla Camera scegliendo il nome di Cecilia Guerra) e non scheda bianca. Chi siano i franchi tiratori che in modo disonesto negano di aver votato La Russa lo sapremo non appena saranno resi noti i nomi dei sottosegretari e di altre cariche, maligna qualcuno. Ma è già palese che Azione e Italia Viva si sono offerte più volte di dare una mano al nascente governo di ultra destra. E non sono i soli. Ma un grave concorso di colpa è addebitabile anche a Luciano Violante che ha aperto la strada a quel che accade oggi con il suo famigerato discorso di insediamento come presidente della Camera in cui paragonava il sacrificio dei partigiani a quello dei ragazzi di Salò.
Ignazio Benito Maria La Russa lo ha pubblicamente ringraziato per poi lanciarsi subito sul tema del presidenzialismo, evocando bicamerali e addirittura una Assemblea costituente. Che di fatto significherebbe annullare la Costituzione vigente. «Fare una Assemblea costituente significa che la Costituzione vigente viene azzerata e riscritta dalle fondamenta: chi fa le leggi come vengono garantite le libertà», ha commentato l’ex presidente della Consulta Ugo De Siervo. Diciamolo senza infingimenti, questo è il progetto eversivo di Fratelli d’Italia: cancellare la Costituzione antifascista.
Ipocritamente La Russa ha detto «condivido parola per parola quel che ha detto la senatrice Segre», prima di liquidare la Costituzione come «poco efficiente». La senatrice aveva detto l’opposto, parlando della Costituzione come «un faro per tenere la barra dritta nei tempi di tempesta», ricordandone la matrice antifascista e resistenziale dicendo che la Costituzione va attuata e non cambiata, ricordando che tutti i tentativi fatti fin qui per modificarla sono stati peggiorativi. Parole che sono state prese a picconate anche dal nuovo presidente della Camera, il leghista Luciano Fontana nel suo discorso di insediamento centrato sul tema dell’autonomia differenziata (che Viesti giustamente chiama secessione dei ricchi), che di fatto nega l’uguaglianza e l’universalità dei diritti che sono principio cardine della Carta.
Cattolico integralista, ex ministro della famiglia ultraconservatore, Fontana ha centrato il suo discorso – infarcito di citazioni del papa, di san Tommaso e di Beati – sulla difesa dei deboli. Proprio lui che da parlamentare europeo ha stretto la tela dei rapporti fra la Lega e le destre più xenofobe in Europa e ha avvicinato Salvini e la Le Pen. Proprio lui che nel 2014 plaudiva l’uomo forte Putin per l’annessione della Crimea. Proprio lui che con Dugin, Salvini, Pillon e la peggiore destra americana celebrò il congresso internazionale della famiglia. Ultraconservatore e tradizionalista, ha sempre messo in primo piano nella sua attività politica la sua fede cattolica, brandita come un’arma contro l’aborto, le unioni civili, il matrimonio tra omosessuali. Crociato delle radici cattoliche dell’Europa e del motto Dio, patria e famiglia come presidente della Camera sarà super partes come promette? O piuttosto sarà l’angelo nero di un governo Meloni che più nero non si può?
Parliamo di un governo che potrebbe vedere il ritorno di Salvini ministro (anche se non al ministero dell’interno verso il quale veleggia Matteo Piantedosi), con Adolfo Urso di Fratelli d’Italia, che potrebbe andare alla difesa, con il fondatore di Fratelli d’Italia e dirigente d’azienda Guido Crosetto che potrebbe andare a guidare un ministero strategico come lo sviluppo economico cancellando ogni possibilità di transizione ecologica. Avremo molto da scrivere e da lottare.
Finalmente Ahmad (nome di fantasia) ha qualche giorno di ferie e passeggia tra le colline toscane. Il lavoro in cucina, lo stress e la stanchezza sono sostituiti dall’aria fresca, riposo e ricordi. Indica la ripida discesa al lato del sentiero dove sta camminando. Quelle stradine sterrate di campagna, quei sentieri nascosti nel bosco. Sembra di vedere il suo amico esitante, mentre Ahmad lo esorta a scappare dalla polizia. Sembra di sentire il fiatone e i passi stanchi tra le foglie secche nella ripida salita. «Sono passato in tante strade come queste per arrivare in Italia», racconta. Sembra di toccare la frontiera, come se si fosse impressa nella sua pelle. «Non possiamo dimenticare i respingimenti che abbiamo subito. Il mio corpo parla, ne sente ancora le conseguenze, perciò anche non volendo, i miei pensieri spesso ritornano a quei momenti» dice Ahmad, arrivato quasi un anno fa in Italia passando dalla cosiddetta rotta balcanica.
«Stiamo registrando un incremento della violenza al confine tra Serbia e Ungheria: braccia e gambe rotte, ferite e umiliazioni di vario tipo. Rasature forzate, persone costrette a camminare scalze. Ci sono stati raccontati da alcune persone respinte episodi in cui le autorità gli avrebbero versato in testa le bottiglie d’acqua o i succhi di frutta trovati nei loro zaini» spiega Sara Ristić di KlikAktiv (Centro per lo sviluppo delle politiche sociali), organizzazione serba fondata a Belgrado nel 2014. La Serbia è geograficamente strategica nel transito per l’Unione europea, in quanto confinante con ben tre Paesi membri; Croazia, Ungheria e Romania. Negli ultimi mesi le persone di passaggio in Serbia sono aumentate, in particolare nel nord del Paese da dove tentano di raggiungere l’Unione europea, attraversando la frontiera con l’Ungheria. E con esse anche la brutalità della polizia ungherese. «Le violenze perpetrate durante i pushback (respingimenti illegali) sono sempre più gravi. Fino a pochi mesi fa le autorità ungheresi picchiavano le persone in cerca di asilo, gli rubavano i telefoni e i soldi e li rimandavano indietro. Solo questo, senza altre umiliazioni, anche se non si può mai dire “solo”». Ma lo ripete più volte, assicurandosi di far passare bene il concetto: non c’è mai un “solo”. I pushback sono una pratica illegale e una violazione del diritto internazionale poiché non rispettano la regola generale del non-refoulement (non respingimento) prevista dalla Convenzione di Ginevra (Art. 32 e 33).
Con o senza abuso fisico, i pushback sono quindi già di per sé una forma di violenza, negando la possibilità di chiedere asilo. I respingimenti illegali ai confini dell’Unione europea sono stati adottati come metodo sistematico fin dalla chiusura del corridoio umanitario nel 2016 e vengono denunciati da anni da associazioni come KlikAktiv o Border violence report network. «Le politiche di esternalizzazione e securitizzazione portate avanti dall’Ue causano una forte pressione sulla Serbia, Bosnia e Grecia, rendendo il sistema di asilo troppo lungo e inaccessibile. Essendo impossibile entrare per vie legali, l’Ue dà molto potere ai contrabbandieri (smugglers) a cui le persone ricorrono per poter attraversare il confine» commenta Ristić.
Secondo Frontex (Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera) gli ingressi “irregolari” nei Balcani occidentali sono aumentati del 190% tra gennaio e agosto del 2022 rispetto allo stesso periodo dell’anno passato, contando 86.581 arrivi. Numeri simili al 2016, immediatamente dopo la chiusura definitiva delle frontiere lungo la rotta. Giusto un anno prima, nel 2015, l’Ungheria di Viktor Orban aveva dispiegato una recinzione di 153 chilometri di filo spinato lungo il confine con la Serbia e la Croazia. Ed è proprio lungo quella recinzione, nella parte serba, che oggi, anni dopo, continuano a sorgere nuovi accampamenti informali in edifici abbandonati o nei boschi, mentre i campi istituzionali sono sempre più sovraffollati.
«A Sombor, che è un campo pensato per circa 400 persone, ce ne sono circa 850; a Subotica, che è un piccolo campo per 160 persone, oggi secondo le stime ce ne sono 600. Lo stesso vale per il campo di Kikinda, vicino al sovraffollamento» racconta Tomás D’Amico, di No name kitchen, ong attiva al confine nord e ovest della Serbia, oltre che in altri punti della rotta balcanica e mediterranea. Anche i dati dell’Unhcr confermano il sovraffollamento in Serbia: 16.723 arrivi sono stati registrati nei campi istituzionali.
Numeri, numeri, numeri: un’ossessione per i numeri che il più delle volte è strumentale a giustificare le politiche di securitizzazione dei confini, disumanizzando chi li attraversa. Ma che in questo caso, invece, le mettono invece in discussione. Dopo anni di militarizzazione delle frontiere, le stime sembrano raggiungere quelle del 2016. «La maggior parte delle persone vengono dall’Afghanistan e dalla Siria, ma non solo. Recentemente la Turchia ha iniziato le deportazioni verso la Siria, perciò molti siriani che non si sentivano più sicuri in Turchia hanno deciso di intraprendere la Rotta, piuttosto che passare per il mar Mediterraneo dove raramente vengono soccorsi e i pushback della polizia greca sono frequenti» spiega Ristić. Anche le persone afgane non sono al sicuro in Turchia, che non ha interrotto le deportazioni in Afghanistan nemmeno a seguito dell’instaurazione del governo talebano. «Ci sono molti siriani, afgani, pakistani. E poi ci sono persone provenienti dall’India, dal Bangladesh, dalla Palestina, dall’Iran, dall’Iraq… anche dalla Somalia, dal Sudan e dal Maghreb africano, soprattutto Marocco e Tunisia» afferma D’Amico.
Origini e motivazioni diverse, ma ognuno di loro rischia la vita per superare i confini e raggiungere l’Unione europea. Racconta Ristić, in merito al passaggio verso l’Ungheria: «Le persone si aggrappano alla recinzione, ma quando la polizia colpisce volontariamente la rete con l’auto, cadono e si graffiano le mani e le braccia, facendosi male». Confini che feriscono, non solo fisicamente, chi le attraversa. Con l’unico risultato di imprimere ulteriore trauma su traumi già vissuti.
«Non si tratta solo dei sentimenti legati ai ricordi dei pushback; è anche un fatto fisico. A volte quando fa freddo sento dolore alla schiena… ed è ovvio dato che le autorità rumene mi sono saltate addosso per ore» dice Ahmad, guardando il sentiero davanti a lui. «Prova a immaginare…» smette di camminare, si ferma in piedi e continua: «Immagina 14 persone, il più piccolo forse di 12 anni, stese per terra nel fango, in inverno, senza t-shirt, senza scarpe, alcuni senza pantaloni». Ahmad sa bene l’inglese, eppure parla solo con verbi al presente: «I poliziotti rumeni ci saltano sulla schiena e se gridi per il dolore iniziano a saltare più forte. Si stanno prendendo gioco di te e tu non puoi fare nulla, sei come uno schiavo… qualsiasi cosa dicano devi farla perché non hai altro modo, perché se non la fai ti picchiano più forte e ti umiliano». Così Ahmad non può opporsi mentre le autorità rumene lo costringono a fare flessioni al suolo, a turni con gli altri presenti. Né può dire nulla quando alcune persone del gruppo vengono costrette a mangiare del maiale, se pur musulmane, o per l’appunto, perchè musulmane.
Ahmad ricorda bene: era gennaio 2021 quando ha subito uno dei respingimenti più violenti negli anni di viaggio dal Pakistan, al confine tra Serbia e Romania. Comportamenti disumanizzanti di questo tipo si verificano anche un anno dopo, al confine ungherese. «Sono pratiche denigratorie, forse più mortificanti delle percosse fisiche, perché ti annullano come persona, come essere umano» dice Ristić, mentre racconta di un recente pushback particolarmente violento. Una croce rasata in testa a un giovane ragazzo marocchino, mentre le autorità ungheresi ridono. Pratiche islamofobiche che ricordano quelle croci rosse impresse sempre sulle teste di persone in cerca di asilo in Croazia e respinte in Bosnia Erzegovina nel 2020. Anno dopo anno, le violenze sono costitutive dei confini stessi.
«Ci siamo resi conto che quando le persone ci parlano di “polizia buona” intendono la polizia che li picchia “soltanto” senza ulteriori umiliazioni», afferma Ristić. Andare al game (come le persone migranti chiamano il tentativo di raggiungere l’Europa) sembra naturalmente dover comportare la necessità di assumersi il rischio della violenza fisica e psicologica, se non della morte. «A volte finisci per pensare che i pushback siano un aspetto normale del percorso, però… no. No. I respingimenti non sono normali, sono illegali» dice Ahmad con sguardo deciso. Tale normalizzazione risponde alla sistematicità di tali pratiche fin dalla chiusura della rotta balcanica. «La violenza più comune riferita dai minori, è quella fisica da parte degli agenti della polizia di frontiera (…) I bambini intervistati descrivono di essere stati denudati, costretti a stare al freddo, a subire scosse elettriche e percosse con bastoni, che hanno provocato gravi lesioni fisiche come fratture o gravi contusioni» si legge nel recente report di Save the Children.
Sono molti i minori non accompagnati che cercano di raggiungere l’Ue e sembrano essere in aumento, così come i nuclei familiari in arrivo. «Ora stiamo vedendo molte famiglie che arrivano qui, molte con bambini tra i 3 e i 10 anni. In alcuni casi abbiamo visto donne che viaggiano da sole» spiega D’Amico. Anche la testimonianza di Gian Andrea Franchi, dell’associazione Linea d’ombra conferma un incremento di famiglie in cerca di un luogo sicuro. Tutti i giorni Linea d’ombra supporta le persone che raggiungono Trieste dalla rotta balcanica. «Da qualche mese vediamo famiglie con bambini piccoli. Molte sono curde. Nell’ultimo mese ci sono anche tanti nuclei familiari dal Burundi, che è una novità» continua Gian Andrea Franchi «Stiamo assistendo a un aumento degli arrivi, forse anche dovuto alla decisione di quest’estate di Croazia e Slovenia di dare una sorta di foglio di via, soprattutto a famiglie e minori, che permette di attraversare il Paese senza problemi. Qui in piazza arrivano circa 80 persone al giorno».
Negli ultimi anni la rotta balcanica ha visto continui cambiamenti; dinamicità data da molteplici fattori: dalla differente distribuzione di assistenza umanitaria, ai mutamenti nelle politiche europee, agli spostamenti delle reti di contatti per il game (essenziali per la sua riuscita). «L’anno scorso molte persone andavano in Bosnia, anche ora ci sono, ma meno. Adesso le persone riescono più velocemente a passare dalla Serbia verso l’Ungheria e la Croazia, quindi non c’è motivo di attraversare un confine in più, per altro molto pericoloso», dice Sara Ristić, di KlikAktiv. Il fiume Drina separa la Serbia dalla Bosnia Erzegovina. Molte persone vengono uccise da quel confine. «Gli scorsi anni abbiamo avuto testimonianze di persone catturate dalla polizia bosniaca e costrette a nuotare indietro con le pistole puntate contro. Molte persone però non sanno nuotare e… affogano» aggiunge Ristić.
Alcuni rifugiati si riparano dal freddo dentro una casa abbandonata vicino al confine con l’Ungheria, Martonosh, Serbia, 13 gennaio 2022.(AP Photo/Bela Szandelszky)
Le politiche di esternalizzazione europee generano frontiere sempre più pericolose, mentre non viene garantito accesso a vie legali. Solo nell’ultima settimana Info Park, centro di supporto per rifugiati a Belgrado, ha denunciato la morte di due giovani ragazzi afgani lungo i binari al confine tra Serbia e Bulgaria. Nonostante ciò, con l’operazione Terra 2022, Frontex ha annunciato il dispiegamento di ulteriori forze in 12 Paesi membri, tra cui Croazia, Romania e Ungheria. «La presenza di Frontex o agenti di polizia straniera è frequente. Alcune persone in transito ci hanno raccontato che se riesci a superare i primi controlli della polizia ungherese, poco dopo spesso incontri autorità straniere. Di solito li consegnano direttamente alla polizia serba o ungherese, divenendo complici e responsabili del pushback» spiega Ristić.
La gestione securitaria delle frontiere europee provoca forte pressione nei Paesi esterni all’Ue, come Serbia e Bosnia Erzegovina, che hanno un sistema di accoglienza al collasso, già di per sé fragile o inesistente. Racconta D’Amico: «Alcuni abitanti del luogo cercano di aiutare: qualcuno ha installato impianti per il gas e l’acqua in modo che le persone in transito possano avere accesso ai beni di prima necessità». Al tempo stesso, però, anni di politiche di esternalizzazione hanno alimentato sentimenti nazionalisti e xenofobi già insiti in alcune fasce della popolazione. «Il gruppo facebook “Stop ai migranti in Serbia” era il secondo gruppo più grande del Paese» spiega Ristić, che aggiunge: «A Belgrado ora organizzano ronde popolari, perché pensano che la polizia non stia facendo abbastanza per proteggere i cittadini dai rifugiati: vanno in cerca di persone migranti e li minacciano in diretta sui loro social media. In alcuni casi hanno effettuato degli “arresti civili” come li chiamano loro. Quando vedono qualche rifugiato in strada lo fermano fisicamente, lo prendono e lo portano alla prima stazione della polizia. È contro la legge».
La violenza xenofoba viene giustificata e alimentata dalla violenza istituzionale. Il ministro degli Interni serbo, Aleksandar Vulin, il 5 ottobre ha pubblicato un video in cui partecipa a uno sgombero di un accampamento informale vicino al fiume Tisza, nel nord della Serbia. «Tendenzialmente questi sgomberi sono frequenti e seguono uno schema stabilito: le autorità arrivano alle 5 del mattino, chiedono i documenti e chi non ha nulla viene caricato sugli autobus. In alcuni casi hanno picchiato le persone migranti, rotto i loro telefoni, e poi le hanno portate in campi lontani» spiega D’Amico di No name kitchen. Tuttavia aggiunge che «i campi istituzionali sono sovraffollati e le persone sono libere di entrare e uscire, quindi già dopo due giorni tornano all’accampamento appena sgomberato». Per questo motivo D’Amico definisce tali sgomberi forzati come uno “show”, «pratiche messe in atto dalla polizia per intimidire e rendere invisibile la popolazione in movimento allontanandola dai propri luoghi, è uno spettacolo più che un’azione realizzata per ottenere un risultato effettivo».
Gli spazi pubblici accessibili alla popolazione migranti sono limitati dalla violenza che li criminalizza per essere “irregolari”, nonostante non abbiano altri modi di raggiungere un luogo sicuro. Treni, autobus e ogni mezzo di trasporto è il primo luogo di selezione, dove chi ha determinati tratti viene fermato. A seconda del profilo etnico viene sollecitato o meno il documento. Piazze, bar e negozi sono di altrettanto difficile accesso. «L’obiettivo finale è quello di espellere le persone migranti dai luoghi pubblici e comuni in cui si riunisce la comunità serba. La polizia effettua spesso controlli nel centro della città. È successo anche a me. Una volta ero seduto in un parco e un poliziotto è venuto a farmi domande… non credeva che fossi argentino e ho dovuto fargli vedere immagini dei miei viaggi per fargli credere che il mio passaporto fosse vero», racconta D’Amico. Un episodio che descrive bene la selezione che decide chi è ammesso agli spazi pubblici e chi no. «I miei compagni e compagne di No name kitchen tedeschi, inglesi e italiani non sono mai stati fermati per il passaporto, ma i miei tratti sono più simili a quelli di una persona in movimento» continua D’Amico.
D’altronde la profilazione etnica attuata entro i confini serbi fa parte di una violenza più ampia, strutturale, propria dei confini stessi, nel momento in cui le frontiere esterne dell’Ue selezionano e filtrano secondo una logica di stampo neocoloniale. «Mentre i respingimenti illegali sono sistematici al confine meridionale dell’Ungheria, al confine settentrionale sono stati istituiti corridoi umanitari per i rifugiati ucraini» Ristić ride, amaramente e aggiunge «da anni inoltre vediamo persone in fuga dall’Afghanistan lungo la rotta. Lo scorso agosto le istituzioni europee hanno mostrato molta empatia dopo la presa di Kabul. Ma sembra che empatizzino solo quando non sono alle loro porte». Sara Ristić prende un respiro, riflette alcuni secondi e poi conclude: «Le persone in arrivo sono sempre di più, le violenze aumentano. Diminuiscono gli aiuti umanitari, mentre l’Unione europea continua a favorire politiche di esternalizzazione, finanziando Frontex, che costa molti soldi».