Home Blog Pagina 268

«Mio padre Raffaele La Capria, scrittore dalla malinconia dolce»

Importanti nuove edizioni stanno omaggiando Raffaele La Capria, dopo la sua scomparsa, avvenuta nel giugno scorso. Mondadori ha ristampato Ferito a morte e ha pubblicato Tu, un secolo, lettere. Minimum Fax a settembre ha pubblicato Cent’anni di impazienza. Un’autobiografia letteraria, in cui Raffaele La Capria, uno dei maestri della narrativa italiana del Novecento, parla di letteratura e vita, dedicando un capitolo a ciascuno dei suoi libri e all’epoca in cui furono scritti. Ma non ci basta. Per questo abbiamo chiesto un incontro ad Alexandra, figlia di Raffaele La Capria, che sarà presente alla giornata di studi promossa per il 25 ottobre alla Biblioteca nazionale di Roma in occasione del centenario della nascita dello scrittore. L’abbiamo incontrata nel piccolo salotto dell’attico vicino al Pantheon. Tutto sa di storia e memorie, tra libri, tantissimi, e alcune foto, bellissime, immancabili. Mi siedo e davanti a me spicca l’Olivetti Valentine rosso fiamma usata dallo scrittore, piccolo monumento ai tempi dedicati alla scrittura. Classe 1922, Raffaele La Capria avrebbe compiuto 100 anni il 3 ottobre. E l’aria si carica di emozione.

Chi era Raffaele La Capria? Certo, lo scrittore di Un giorno d’impazienza, il suo romanzo d’esordio del 1952. O ancora di più, il vincitore del Premio Strega nel 1961, con quel capolavoro di Ferito a morte dal successo inatteso e popolare. Un romanzo polifonico che incanta, come ebbe a dire Valentino Bompiani, seguito, negli anni, da molte raccolte di articoli, saggi, racconti e scritti di tipo civile. È stato l’autore di radiodrammi per la Rai  e co-sceneggiatore, con Vittorio Caprioli, anche regista e superbo interprete di Leoni al sole (1961) tratto da Ferito a morte, e con l’amico fraterno Francesco Rosi, di film imperdibili come Le mani sulla città (1963), Uomini contro (1970) e Cristo si è fermato a Eboli (1980), traduttore di Cocteau, Sartre, Eliot, Orwell. L’unico scrittore a cui Mondadori ha dedicato due Meridiani.

Ma l’incontro con Alexandra La Capria mette a nudo il dietro le quinte umano di un magnifico, complesso e audace narratore e saggista. C’è con lei un dolore privato, sottile, intoccabile, in questo pomeriggio d’autunno. Ma tutto è reso impalpabile e leggero dalla freschezza dei ricordi, da un racconto che ci rende complici dell’irrequietezza e la passione di uomo alla continua ricerca di sé stesso e degli altri.
Parto dall’avventura umana di Ferito a morte, un romanzo che fa i conti con la rivoluzione formale del romanzo del Novecento, come ebbe a scrivere lo stesso autore, con il flusso di coscienza proustiano, con la lezione di Joyce, che troviamo nel potente e folgorante incipit che narra, come in un sogno, di una spigola sott’acqua, nella struttura a più piani temporali, nella scrittura che la segue, tradendo la trama.

Un capolavoro che sa leggere, con acume, attraverso l’inquietudine e la malinconia del protagonista, la crisi, più affettiva che sociale, di un mondo borghese alla deriva nell’immediato dopoguerra. Pochi autori hanno saputo impregnare racconti così complessi di poesia e musicalità. «Poesia e musicalità appartengono al lavoro del babbo – dice Alexandra, usando la parola del linguaggio familiare toscano, così rotonda e piena di affetto -. È riuscito a far confluire anche nei saggi sentimenti profondi, dando vita ad una scrittura particolarmente originale e poetica e trasformando anch’essi in narrativa. Il suo rapporto con la letteratura era quotidiano. Prendeva spunto da qualsiasi cosa, inattesa, lo stupisse, con un’attenzione speciale a particolari che poi ingrandiva, umanizzava e trasformava in racconto: la forma di una nuvola, una foglia che si muove, il gabbiano che arriva in volo. Il senso e la ricerca della sua scrittura era interpretare il vissuto più profondo, come riuscire a esprimere l’emozione traducendola in scrittura».

Come nella storia, di quando era bambino, del canarino che si posa sulla spalla che Raffaele La Capria ha sempre raccontato come una favola per raccontarsi.
«Era piccolo e quando questo canarino si posò sulla sua spalla, il suo cuore cominciò a battere fortissimo per l’emozione. Ma per lui dirlo così, come capitò di dirlo alla madre, non voleva dire nulla perché si era accorto che non si percepiva l’emozione che aveva provato. E allora è cominciata questa ricerca continua di come arrivare ad esprimere le emozioni nel racconto e nella scrittura».

«Per uno scrittore nascere a Napoli comporta sempre un pedaggio da pagare» ha scritto La Capria in “Introduzione a me stesso”, un testo scritto per la conferenza tenuta alla Sorbonne nel 2003 e che Left ha pubblicato nel 2014 e riproposto dopo la sua scomparsa. L’aggettivo “napoletano” – per lo scrittore – è come “un marchio di fabbrica” al contrario che in altri – Calvino piuttosto che Moravia – ai quali non viene sottolineata la provenienza. E nonostante la sua indiscussa e mai rinnegata identità napoletana, La Capria ha sempre intrattenuto con Napoli un «poetico litigio», come lui lo definiva. Amava senza riserve Palazzo Donn’Anna, a Posillipo, la sua origine, imponente e maestoso edificio quasi in rovina, nato dal mare e tagliato nel tufo, in cui aveva passato gli anni dell’adolescenza. Ma Napoli città era un’altra cosa. La lascia nel 1952 per Roma, come gli amici di sempre Antonio Ghirelli, Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi.

«Per il babbo – continua Alexandra – il rapporto con Napoli è sempre stato un rapporto conflittuale. La riteneva una città degradata, inquinata, autocompiaciuta. Lo aveva deluso. Anche se poi lui di Napoli è riuscito a farne, come scrittore, una voce europea. Ma in verità, non ne abbiamo mai parlato molto. È sempre stato molto riservato sull’argomento, ma l’ha espresso molto bene nei suoi libri. Quando parlava della città, lo faceva per raccontare della bellezza del golfo, di Palazzo Donn’Anna. La raccontava attraverso le strade. Napoli era in alcuni luoghi, pochi, scelti, precisi. Aveva dei posti intimi e delle persone a cui era legato da grande affetto. La Napoli vera è sempre stata per lui quella plebea, è quella del popolo con cui la borghesia non è mai riuscita ad entrare in contatto».

Alexandra continua il suo racconto sulla figura del padre: «A qualcuno che gli chiedeva che cos’era per lui la felicità, ha risposto: gli affetti, l’amore, l’amore per gli altri.
“La storia della bella giornata” (di Ferito a morte ndr.) nasce da qui. La bella giornata è l’attesa della felicità. È la vita. Poi arrivano alcune ombre che la contrastano e così questa felicità è interrotta dal dolore, non la riesci a vivere fino in fondo. C’è sempre l’attesa, quindi, più che la conquista. Lui parlava sempre dell’età della trasparenza, quella prima della guerra, e dell’età dell’inquinamento. La bella giornata sta nell’età della trasparenza, visibile, cristallina, pulita. Poi tutto si interrompe con la guerra, comincia l‘età dell’inquinamento e tutto diventa torbido. Le “false partenze” di cui parla sono quelle in cui pensi di avere raggiunto un punto, ma c’è sempre qualcosa che ti scompone la possibilità di arrivarci. E allora l’”impazienza” di conquistare qualcosa che non si riesce sempre a conquistare, come certi amori impossibili della giovinezza. Babbo era una persona molto autocritica, aveva delle fragilità umane che lo hanno fatto soffrire molto e la scrittura è stato il suo modo per elaborarle e andare oltre. Nel babbo c’era una fortissima malinconia, ma non tristezza. Era malinconia dolce, sentimentale. Aveva uno sguardo lungo, profondo su tutto ciò che accadeva. Viveva sempre con gioia il nuovo giorno verso cui si lanciava in modo positivo, curioso e con grandissima umiltà. Al tempo stesso era un uomo complesso e ha passato tutta la vita a cercare di sciogliere questa complessità di cui soffriva, di sapere, di conoscere per renderla, semplice, visibile, affrontabile. Ha usato la scrittura per questo. Mi ha anche insegnato un sentimento raro, la compassione, ovvero il profondo rispetto per tutto ciò che è altro da noi, compresa la natura. E aveva anche una grande capacità di lettura, di vedere l’invisibile nel visibile. Cogliere le sensazioni, le emozioni. È quello che ho vissuto con lui: un rapporto profondo, quotidiano. Un condividere tutto che mi manca come la sinfonia di parole di fronte a un tramonto o ascoltando la musica che mi animava. Per me era come essere nutrita».

A questo punto come si fa a non sfiorare almeno, l’ amore intenso per Ilaria Occhini, grande attrice, bellissima, quasi inarrivabile…
«Un amore incredibile! Penso che mio padre abbia amato mia madre in modo quasi ossessivo e, sembra assurdo, l’ha amata in un modo tale da non darle lo spazio per amare lui. Nelle lettere a lei dedicate sembra quasi che lui non si sentisse degno del suo amore per quella bellezza che per lui aveva mille significati. Non era solo un fatto fisico e basta. Aveva per lei una sorta di venerazione. Anche il rapporto con lei forse era una “falsa partenza”: non si è mai sentito di averla conquistata fino in fondo anche se poi si sono amati tutta una vita. Erano due personalità fortissime e opposte. Babbo aveva pazienza, era dolce, ironico, lasciava correre e non era per niente competitivo. Mia madre era autoritaria, aggressiva, quasi selvaggia rispetto a lui. Mamma graffiava, babbo accarezzava. Ma si sono amati molto».

Una vita di intimità, sentimenti profondi, custoditi con discrezione ma vissuti con slancio. Cosa direbbe oggi Alexandra a Raffaele se potesse?
«Dammi la forza di portare avanti la tua poesia nel mondo».

Coordinamento 2050, la rete di sinistra per il polo progressista con Conte

L’iniziativa promossa da Stefano Fassina rivolta al nuovo corso del Movimento 5 Stelle impersonificato dalla figura di Giuseppe Conte è, a mio avviso, un’operazione ambiziosa che parte con tutti i presupposti per essere credibile, ovvero per strutturare attorno a Conte una sinistra sociale e politica alternativa al governo delle destre e capace di sottrarre l’egemonia dell’opposizione al Pd, caratterizzandosi per il No alla guerra e col primato della questione sociale. Dando configurazione politica alle scelte già compiute dagli elettori che sono andati a votare, che hanno consegnato ai 5Stelle un voto di sinistra e di rappresentanza sociale determinata, quella del mondo del lavoro e delle classi popolari.

Sono arrivate da tutta Italia oltre 500 persone che si sono registrate e si sono sviluppati nel corso della giornata 35 interventi. La relazione di Fassina ha messo in evidenza la necessità di dare una risposta “di sinistra” al ritorno della politica – dopo la presunta neutralità delle scelte tecnocratiche e delle larghe intese – ed al bisogno di protezione sociale, recuperando assieme a quella di Marx la lezione di Karl Polanyi sul ruolo dello Stato a fronte del potere distruttivo del capitalismo e di come non solo non esista il singolo individuo atomizzato a fronte della società ma come anche quest’ultima sia inserita in un contesto più ampio come quello ambientale e naturale.

Pace in Ucraina attraverso la via diplomatica, mondo multipolare a coesistenza pacifica e lotta sociale per il carovita, le coordinate di fondo dell’analisi e dell’iniziativa.
In tarda mattinata è intervenuto Conte che – dopo parole di apprezzamento e di interesse per l’iniziativa – ha sviluppato un intervento critico nei confronti del nuovo governo e fortemente caratterizzato su una posizione di opposizione, in difesa delle conquiste sociali, dei diritti civili e della pace. Forte è stato l’invito alla partecipazione alla manifestazione per la Pace del 5 novembre a Roma.

Un intervento che si muove sul piano internazionale per il superamento dell’unilateralismo americano, individuando nella Cina un attore importante del nuovo ordine e precisando di come si sia in presenza di due Europa, quella dei fondatori messa in scacco dall’iniziativa degli Usa e quella degli ex Paesi dell’est, braccio armato contro la Russia e la Germania.
Un intervento che ha sottolineato la crisi democratica che caratterizza molti Paesi a capitalismo maturo e in maniera particolare l’Italia, dove la dimensione finanziaria e la crisi della politica e dei sistemi maggioritari recide drammaticamente il rapporto con la stessa democrazia rappresentativa di stampo liberale.

L’assemblea si è conclusa con la costituzione del Coordinamento 2050, civico, ambientalista e di sinistra che si svilupperà a partire dai contenuti emersi nella iniziativa e che si articolerà anche nei territori. Un’iniziativa positiva perché è giusto ed utile puntare su un più stabile e coerente posizionamento a sinistra del M5s: se questo succederà il polo progressista del sistema elettorale italiano non potrà che costituirsi intorno al partito di Conte.
Il Pd, finché resta nell’attuale configurazione, è del tutto inservibile a questo scopo; al suo interno restano tuttavia ancora imprigionate forze di sinistra che, liberandosi, potrebbero acquisire un ruolo importante.

È necessario dare rappresentanza politica alla maggioranza sociale che è contro la guerra e per il Lavoro, contro finanza e rendita immobiliare. Reddito di cittadinanza universale, salario minimo orario, ripristino dell’articolo 18 – e legge sulla rappresentanza sindacale – ed estensione di diritti a prescindere dalla tipologia contrattuale, sono i punti decisivi della proposta e delle necessarie mobilitazioni, assieme ad un sistema economico che ripristini mercato interno ed economia mista contro la terziarizzazione debole basata sul turismo e ristorazione.

In questa rappresentanza, a mio avviso, il partito di Conte è un elemento imprescindibile e positivo. La presenza di Conte nella piazza della Cgil è una scelta di campo importantissima. Il M5Stelle non copre e – dà risposte – da solo al bisogno di sinistra del lavoro che manca nel nostro Paese, e l’intervento di Conte è stato di grande onestà intellettuale e di disponibilità politica al riguardo (ancor più netto quello di Domenico De Masi). Sono importanti la stessa Unione popolare, Sinistra Italiana, la parte – significativa – di Articolo 1 che ha scelto di non rientrare nel Partito democratico: ma soprattutto quel che c’è ma non trova rappresentanza di quadri sociali politici e sindacali diffusi in tutto il territorio nazionale.

Le cose che sono state dette nella giornata di sabato – compreso il discorso di Conte – sono molto utili per costruire gli assi portanti di un’opposizione parlamentare e sociale, anche se non esauriscono – né lo potevano – l’intera tematica.
Una iniziativa importante per provare a dare una risposta di cultura politica e di pratica organizzativa anche ad un’altra questione di fondo: come ricostruire una – o la – sinistra nel nostro Paese come in tutti gli altri Paesi europei.

Nelle mobilitazioni popolari per la Pace e contro il carovita sarebbe auspicabile e positivo un processo di riaggregazione molecolare che dia casa, dentro un Polo comune e condiviso, ai tanti e tante senza partito. Con generosità e disponibilità, con umiltà e determinazione.
Una pratica politica tesa nella sua azione a migliorare da subito le condizioni materiali di chi lavora, di chi è precario disoccupato, cassintegrato, a nero. Solo così si potrà recuperare una connessione sentimentale con la classe più numerosa e più povera, che diserta le urne quando non vota a destra e che senza prospettive implode in se stessa. Che riconnetta, insomma, ideologia e storia con rappresentanza di classe e pratiche di massa. Senza la spocchia degli ottimati e della supremazia antropologica della sinistra rispetto a chi vota a destra del popolo perché abbandonato e tradito da troppa se-dicente sinistra.
Una forma associativa su basi di massa che intrecci analisi e pratica sociale nel cuore dello scontro sociale e politico è la proposta e la forma giusta e necessaria per l’oggi.
Inclusività e radicalità (anche rispetto alle risposte da dare alla crisi ambientale).
Il pane e il salame per far tornare a fiorire le rose e poterne godere ed apprezzare il profumo.
Proviamoci, è necessario e ne vale la pena.

L’autore: Maurizio Brotini è componente della Segreteria confederale Cgil Toscana

Altro che “lasciateli lavorare, vediamo come va”

«La legge 194 sull’aborto va applicata tutta. Lo diamo a tutti quelli che non fanno nulla, diamo il reddito di cittadinanza a chi decide di portare a termine la gravidanza», ha detto ieri Gasparri, senatore di Forza Italia ospite nella trasmissione Zona Bianca, con il ghigno del vincitore. Poche ore dopo l’insediamento del Parlamento ha depositato una proposta di legge contro l’aborto. “Lo fa all’inizio di ogni legislatura”, dicono per sminuire la sua intenzione. Sì, è vero, ma la sua parte politica non ha mai avuto una maggioranza così schiacciante. Questo si dimenticano di aggiungerlo.

Le parole sono importanti, si dice in un film di Nanni Moretti, e il nuovo ministero per Famiglia e natalità ha il programma politico nel nome. A guidarlo c’è Eugenia Maria Roccella che a fine aprile di quest’anno spiegava ai sostenitori di Fratelli d’Italia (consapevoli di essere prossimi al governo) di voler ripartire «dal senso materno» per «rivoluzionare la politica italiana». Roccella non ha mai fatto mistero delle sue posizioni, anzi le ha rivendicate pubblicamente e senza esitazione. Il ritornello è sempre lo stesso: la legge 194 non la vuole (apparentemente) toccare nessuno, ma lo sforzo da fare è perché le donne non abortiscano più. E per farlo, metteranno in campo tutti i mezzi possibili. Nella sua strenua difesa dei “medici obiettori di coscienza” ha avuto il coraggio di sostenere che non siano un ostacolo all’attuazione della legge 194 negli ospedali. È stata tra le prime a opporsi all’aborto farmacologico, definendolo un mezzo «per smantellare attraverso una prassi medica la legge 194» e arrivare «all’aborto a domicilio».

È la stessa Roccella contro il ddl Zan, che nel 2016 annunciò un referendum contro le unioni civili. Fu in prima linea contro il divorzio breve, e contro eutanasia e fine vita. “Non vogliamo diventare la nuova Ungheria” è stato lo slogan della manifestazione a Milano di Arcigay Milano, Famiglie Arcobaleno – associazione genitori omosessuali e il coordinamento dei collettivi studenteschi di Milano e provincia. Il programma politico di Eugenia Roccella è scritto da anni nelle sue dichiarazioni e nella sua azione politica. Di più: è scritto nell’insegna del suo ministero.

Stessa cosa per Guido Crosetto. Cresciuto nella Dc, passato con Forza Italia con quattro legislature alla Camera e tre anni da sottosegretario, il neo ministro della Difesa (che in origine sembrava destinato allo Sviluppo economico) è uno dei pochi fondatori di Fdi che non è cresciuto nell’estrema da destra. Consigliere ascoltato dalla premier, è il volto moderato di Fdi nei salotti buoni. Da quando si è dimesso da deputato, nel 2019, si è dedicato agli affari: ha guidato aziende attive nel mondo delle navi da guerra, ma anche una Srl familiare che si occupa di lobbying. Nelle sue prime interviste dice di essersi dimesso da tutto (più di quello che gli chiede la legge) e promette querela a chiunque ventili un possibile conflitto di interessi che è sotto gli occhi di tutti. Sarà difficile fare peggio del ministro della guerra Lorenzo Guerini ma il nuovo ministro ha tutte le carte in regola per riuscirci.

Al Turismo c’è Daniela Santanchè, simbolo imponente della politica diventata personaggismo. L’imprenditrice con più rassegna stampa che bilanci a posto paga allo Stato un canone di 17mila euro all’anno per il suo stabilimento balneare Twiga. E ora si ritrova a decidere dei balneari (anche se potrebbe lasciare le deleghe proprio per le polemiche di questi giorni). Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde, ha dichiarato che è «inaccettabile» la nomina di chi «ha interessi nel demanio marittimo». Un settore che fattura «tra i 7 e i 10 miliardi di euro» e per cui «lo Stato incassa solo 100 milioni di euro, con un’evasione erariale di quasi il 50%». Oggi le concessioni demaniali «costano tra 1 euro e 1,70 euro al metro quadro all’anno». Il Twiga «ai consumatori fa pagare ben 300 euro al giorno per una tenda» e «con gli incassi di meno di mezza giornata riesce a pagare il canone» dovuto allo Stato per tutto l’anno. Il parlamentare di AV-SI ha sottolineato che quelli di Daniela Santanchè «sono privilegi inaccettabili» contro cui «siamo pronti a opporci duramente».

È ministro Roberto Calderoli, il leghista che riuscì a farsi condannare per aver dato dell’orango all’ex ministra del governo Enrico Letta, Cecile Kyenge, nel luglio 2013 alla festa della Lega Nord di Treviglio. È ministra Anna Maria Bernini, che si dovrebbe occupare di università e ricerca nonostante i suoi social dimostrino una consapevolezza politica da scolara in gita. Poi c’è Giorgetti, quello considerato il “serio” del gruppo perché non ha mai bevuto moijto in spiaggia sulle note dell’inno nazionale. E poi c’è ovviamente Salvini, pronto a giocare al ponte di Messina (ma senza Lego, con i soldi nostri) e a divertirsi con la retorica dei porti da chiudere.

Dicono “lasciateli lavorare, vediamo come va”. No, assolutamente no. Le parole sono intenzioni e il governo Meloni è già tutto scritto. Lo combatteremo per il più semplice dei motivi: ne abbiamo combattuto le idee già quando avevano l’aspetto di squinternate dichiarazioni senza autorevolezza politica. Figurarsi ora che sono un programma di governo.

Buon lunedì.

 

Terzo mandato per Xi Jinping, nuova era per la Cina

La scena del ex presidente della Repubblica Hu Jintao (2003-2013) che veniva portato fuori da due inservienti sotto lo sguardo imbarazzato del presidente Xi Jinping e degli astanti, scena preclusa alla vista dei cittadini cinesi, perché censurata dai media, resterà come l’immagine vivida di un passato recente spazzato via dal terzo mandato che il presidente XI si è assicurato, potendo così governare fino al 2027 ed oltre.

La scelta dell’attuale segretario del partito di Shanghai come primo dei quattro nuovi membri del gruppo ristretto del comitato Centrale, composto dal Presidente Xi e da sei membri, lo indica come successore alla carica di Primo ministro e possibile delfino di Xi.

Li Qiang era stato investito da enormi critiche per la discussa gestione delle chiusure per il Covid a Shanghai. Per la prima volta in mezzo secolo il primo ministro non viene scelto fra i vice e soprattutto la fedeltà al presidente ha la meglio sulla sua competenza in campo economico. Sembra davvero che sia iniziata una nuova fase, ma avremo presto modo di approfondire la situazione cinese.

Lobbista Crosetto, ministro “perfetto”

Guido Corsetto è l’uomo perfetto. Bene ha fatto Giorgia Meloni a piazzarlo al dicastero della difesa. Cosa peraltro che ci aspettavamo. Bene per gli azionisti dell’industria militare e per la belligeranza euro-atlantica del nostro Paese. Un disastro per la maggior parte degli italiani e delle italiane.

Crosetto, co-fondatore e colonna portante di Fratelli d’Italia, è un personaggio chiave del complesso militare industriale nostrano: nel 2018 “lascia” l’impegno politico e viene nominato presidente della Federazione aziende italiane per l’Aerospazio, la difesa e la sicurezza (Aiad) ossia un’appendice di Confindustria che raggruppa gli industriali delle armi e che ha un peso specifico sui governi decisamente ingombrante rispetto allo “zero virgola” del Pil che concretamente rappresenta.

Sul sito web dell’Aiad si legge infatti che questo sodalizio «mantiene stretti e costanti rapporti con organi e istituzioni nazionali, internazionali o in ambito Nato al fine di promuovere, rappresentare e garantire gli interessi dell’industria che essa rappresenta» mentre con «l’Amministrazione e il Segretariato generale della Difesa è ormai consolidato uno stretto rapporto di collaborazione così come con altri dicasteri quali Affari esteri, Sviluppo economico, Università e ricerca scientifica od enti e istituzioni quali Enac, Asi, Cnr».

Crosetto entra poi nel Comitato direttivo dell’Istituto affari internazionali (Iai), il think tank che elabora analisi di scenario funzionali alle acquisizioni dei sistemi d’arma da parte delle forze armate. Nell’aprile 2020 viene quindi nominato presidente di Orizzonte sistemi navali, impresa creata come joint venture tra Fincantieri e Leonardo e specializzata in sistemi ad alta tecnologia per le navi militari e di gestione integrata dei sistemi d’arma.

La inossidabile fede atlantica di Crosetto (oggi, a quanto pare, più importante di quella antifascista), la sua folgorante carriera di industriale e lobbista delle armi che lo ha visto negli ultimi anni sempre a braccetto con ministri della Difesa in quota Pd da Pinotti a Guerini, lo rendono oggi un perfetto e accreditato ministro bipartisan. Una missione, a sentirlo, tutta rivolta al bene del Paese che naturalmente fa il paio con i fatturati dell’industria bellica.

Quando l’ex ministro Guerini (governo Conte Bis) nell’ottobre 2019 regalava agli industriali delle armi la norma “Government to government”, per trasformare formalmente il ministero della Difesa nel loro agente di commercio globale, Crosetto organizza a tempo record una conferenza dell’Aiad presso la sede dell’Istituto affari internazionali a Roma per celebrare la norma appena emanata e spingersi oltre.

In quella sede, l’ineffabile presidente dell’Aiad indicava la necessità di affrontare la questione delle banche etiche che «creano enormi ostacoli in termini di sostegno bancario al settore», segnalando inoltre la necessità che venga «esclusa una parte delle spese per la Difesa dal calcolo del deficit di bilancio» poiché la stessa Difesa non sarebbe un settore da «collegare ad un momento economico specifico ma, piuttosto, ad una funzione esistenziale dello Stato».

Crosetto, insomma, non gradiva quel ramo della finanza intento a svolgere il proprio eticamente, ostacolando così il bene supremo, anzi “esistenziale”, del Paese: il fatturato tricolore dell’industria militare. Ma tutto questo legittimo vigore profuso a difesa del profitto dell’industria bellica non si potrebbe configurare come un pesante conflitto d’interessi rispetto al dicastero che il nostro andrà ad occupare?

Sembra di no. Le cariche che avrebbero potuto intralciare l’atterraggio sulla prestigiosa poltrona di comando della difesa nazionale sono state per tempo abbandonate.
La forma in questo caso vale più della sostanza. Inoltre, come ha avuto modo di dire Guerini, l’industria bellica è il pilastro della politica estera e di difesa del Paese. Ed il Paese è in guerra contro una superpotenza, non c’è tempo per cercare un ministro che abbia un passato diverso da quello di Crosetto. Le porte girevoli girano vorticosamente e come perno hanno l’atlantismo.
Difficilmente assisteremo anche in questo caso ad una levata di scudi come è stato per l’assegnazione del ministero degli Esteri.

Basta che la premier sia una donna?

Giorgia Meloni è la prima presidente donna del Consiglio in Italia. Fatto storico, va indubbiamente riconosciuto. Ma basta?

Anche Margaret Thatcher era una donna e sappiamo quali e quanti danni abbia prodotto imponendo una visione neoliberista, distruttiva sul piano sociale e quanto mai fallimentare, come dimostra ancora oggi il caso di Liz Truss: la premier inglese che si è dovuta dimettere a tempo record dopo aver emulato quella stessa lezione ultra liberista che ha mandato il Paese in default.

Una lezione che la neo presidente del Consiglio Giorgia Meloni dovrebbe leggere attentamente, mentre vara un governo ultra conservatore, sovranista, ultra cattolico, autocratico, come ben si evince anche dalla denominazione dei ministeri. Le parole hanno un peso. E non sono un caso i nomi scelti, oltre alle personalità a cui sono affidati.

Qualche esempio? Imprese e made in Italy, al fedelissimo Adolfo Urso che viene dal Copasir; agricoltura e sovranità alimentare affidato al cognato di Meloni, Francesco Lollobrigida ; istruzione e merito affidato a Giuseppe Valditara, già relatore della famigerata e contestata riforma Gelmini, nonché autore di libri emblematici come Sovranismo, una speranza per la democrazia e Impero romano distrutto dagli immigrati .

E che dire poi del ministero della sicurezza energetica, che cancella ogni della transizione ecologica (che del resto già il primo ministro Draghi aveva affossato con il ministro Cingolani); delle politiche del mare e del sud, dello sport e dei giovani ( che ricordano nomi antichi di tempi di regime).

Che dire di Meloni che nomina come vice presidenti Salvini e Tajani assegnando loro anche ministeri di importanza primaria come le infrastrutture e gli esteri, che blinda l’economia affidata a leghista Giorgetti e, soprattutto affida un ministero strategico come la Difesa al suo fedelissimo Crosetto, co fondatore di Fratelli d’Italia, benché fino a ieri lobbista della vendita di armi. Che dire della prima premier donna in Italia che spiana i diritti delle donne nominando l’ex portavoce del family day Eugenia Maria Roccella a ministra alla famiglia della natalità e delle pari opportunità (che non esiste più come ministero autonomo).  Ex radicale, ex femminsta, da anni Roccella porta avanti la sua battaglia contro l’interruzione di gravidanza per via farmacologica, che lei stigmatizza come “aborto chimico”, come se non fosse meglio per le donne non dover interrompere una gravidanza per via chirurgica. E al fondo sostenendo, d’accordo con il papa, che l’aborto sia un omicidio, contro ogni evidenza scientifica e di legge.

Oggi mi hanno chiesto se come donna di sinistra apprezzassi l’elezione di Giorgia Meloni a presidente del Consiglio. Augurandole buon lavoro, a lei e ancor più all’opposizione (che purtroppo non vedo così coesa e decisa) ho risposto schiettamente che non ci serve una donna sola al comando, non ci basta che rompa “il tetto di cristallo” se quella stessa leader poi affossa i diritti delle donne e i diritti democratici. Una donna a capo del governo? Importante certamente ma dipende dal pensiero politico che esprime. Se è contro i diritti, se è contro la costituzione antifascista, se con Eugenia Roccella punta a limitare l’accesso alla pillola Ru486 e a colpevolizzare in maniera inaccettabile e antiscientifica le donne che decidono di abortire, è un decisamente controproducente. E’ un falso movimento se nomina come suo sottosegretario Alfredo Mantovano sostenitore del più retrivo modello maschile e patriarcale che impone Dio, patria e famiglia e contro le battaglie per un fine vita dignitoso. Così Giorgia Meloni e il suo governo provocano una regressione culturale e politica che porta l’Italia indietro di 50 anni.

Tutto a posto

Avrebbe anche potuto ballare nudo di fronte a Mattarella, ubriaco, con il fido Apicella nella parte del menestrello ma quest’alleanza non sarebbe caduta lo stesso. Con Silvio Berlusconi è tutto risolto, Giorgia Meloni, Matteo Salvini e il leader di Forza Italia si presenteranno a Sergio Mattarella con il loro codazzo di sgherri per apparecchiare il nuovo governo. Sarà presente anche Antonio Tajani, il braccio destro di Silvio pronto per sedersi sulla poltrona del ministero agli Esteri, dopo essere stato certificato come “europeo e atlantista” da sé stesso, dai suoi alleati e da ottimi uffici stampa.

Il trio Meloni-Salvini-Berlusconi continua a essere una cordata in cui il leader di Forza Italia dimostra di volersi occupare dei suoi piccoli affari (Giustizia e televisioni), Matteo Salvini corroderà dall’interno l’alleanza convinto di riuscire a tornare ai fasti perduti e Giorgia Meloni potrà insistere nella parte della funzionale “donna forte” che invece nel giro di qualche settimana ha già ingoiato di tutto.

Perché in fondo, anche se non hanno il coraggio di ammetterlo, il collante che li tiene insieme non ha niente a che vedere con la politica, è la brama di potere senza governi troppo larghi che gli mettano i bastoni tra le ruote. Tutto legittimo, per carità: i voti dicono chiaramente che questi hanno il dovere di provare a governare. Solo che quei voti si aspettano esattamente le dichiarazioni di Berlusconi, si aspettano le intemperanze nostalgiche del fascismo di La Russa, sono golosi di famiglia tradizionale intesa come manganello, non vedono l’ora di annusare il sangue tra i denti di Salvini, confidano entro Natale in un condono che chiameranno sanatoria.

Non si sa quanto dureranno. Che Giorgia Meloni sia già all’opera per costruire un quarto polo a destra con un gruppo cuscinetto per approdo di transfughi vari (e Maurizio Lupi si è volentieri prestato per esserne il cocchiere) ci dice che le alchimie parlamentari sono tenute molto in considerazione. Al centrosinistra toccherà non cedere ancora una volta al potere per il potere, provando per una volta a trattenersi dall’andare al governo largo con gli occhi lucidi di gioia e la scusa della responsabilità nazionale.

È tutto un copione già visto, così noiosamente vecchio, da far venire voglia di sbagliarsi sul finale scontato.

Buon venerdì.

Non solo Iraq e Afghanistan: i più grandi scoop di WikiLeaks in Africa

«È impossibile correggere gli abusi se non sappiamo di averli davanti». Julian Assange

Il giornalista australiano Julian Assange e la sua organizzazione ce le hanno fornite. Rivelazioni che hanno innescato la furia delle autorità statunitensi. Ma in realtà nessun governo al mondo ama Assange e la sua creatura WikiLeaks, la piattaforma al servizio dei whistleblower fondata nel 2006. Tra queste rivelazioni, alcune hanno riguardato in particolare il Continente africano.

Nell’agosto 2007 il Kenya ha aiutato WikiLeaks a realizzare il suo primo grande scoop. Riguardava Daniel Toroitich arap Moi, presidente del Kenya dal 1978 al 2002. A incriminare il politico keniota è stato un dettagliato rapporto redatto dalla società britannica di investigazioni aziendali Kroll & Associates e destinato a John Githongo, giornalista keniota, al quale Mwai Kibaki, successore di Moi, aveva affidato il compito di investigare sulla corruzione nel Paese.

Nel report era evidenziato come l’ex presidente e almeno due dei suoi figli si erano appropriati di centinaia di milioni di dollari appartenenti al governo al fine di trasferirli all’estero. Quel denaro sarebbe poi stati investito nell’acquisto di una banca in Belgio, di un ranch in Australia e di immobili costosi in varie città del mondo, tra cui New York e Londra.

Il rapporto non è mai stato reso pubblico in Kenya. Assange aveva poi consegnato il fascicolo al Guardian, che, il 31 agosto 2007, aveva pubblicato la squallida storia, ripresa poi dai media di tutto il mondo. Si ritiene che il documento sia stato inviato ad Assange da un alto funzionario governativo keniota contrariato dall’incapacità di Kibaki di affrontare la corruzione e, alla fine, dalla sua alleanza con Moi.

Il rapporto aveva scatenato un putiferio in Kenya e messo in luce l’impunità della quale godono i funzionari che svuotano le casse dello Stato. Ironia della sorte, poco dopo l’avvio dell’indagine Kroll, l’amministrazione di Kibaki è stata scossa da una propria truffa multimilionaria che prevedeva l’assegnazione di contratti governativi a imprese fasulle.

Vale la pena ricordare anche lo scandalo dello sfruttamento delle miniere da parte di società occidentali e cinesi, pubblicato su WikiLeaks. Il gruppo Areva, multinazionale francese specializzata in energia nucleare ed energie rinnovabili (ora ha cambiato nome in Orano) è stato messo sul banco degli imputati da WikiLeaks nel febbraio 2016. I cablo pubblicati da Assange hanno raccontato una guerra multimilionaria, costellata di corruzione, tra aziende occidentali e cinesi per accaparrarsi l’uranio e altri diritti minerari in Repubblica Centrafricana. WikiLeaks ha spiegato come gli attori del conflitto avessero cercato di evitare i costi di bonifica dei territori. Tra le centinaia di pagine di questa pubblicazione ci sono mappe dettagliate di diritti e contratti minerari, tangenti e rapporti investigativi segreti.

Dopo un proficuo sfruttamento delle risorse, aziende come Areva hanno abbandonato il Paese, lasciando dietro di sé casi di contaminazione nucleare senza aver avviato nessuno degli investimenti di bonifica promessi.

Il giornalismo africano ha certamente goduto delle rivelazioni fatte da Assange e i suoi collaboratori. Purtroppo molti giornalisti che hanno tentato di portare alla luce i soprusi dei loro governi, sono stati perseguitati, messi a tacere.


* Tale contributo è stato pubblicato in partnership con Senza Bavaglio e Africa Express

La poesia delle donne, una storia da raccontare

La poesia femminile rappresenta una questione aperta, un quesito al quale la presente antologia vorrebbe offrire solo un modesto contributo. Non vogliamo offrire risposte definitive, semmai porre domande, a partire dalla definizione stessa della categoria: esiste una poesia femminile? Esiste una differenza significativa che la contraddistingue? È utile o necessario creare una categoria a parte?

Partiamo da alcune considerazioni introduttive: se da un lato a partire da Saffo, vissuta presumibilmente tra il 630 e il 570 a. C., la poesia femminile è una realtà testimoniata nella storia da molte altre figure, è pur vero che fino al XIX secolo si è trattato di presenze marginali, casi eccezionali e rari. Le cose cambiano in modo sostanziale con la Rivoluzione industriale e il lento processo di emancipazione femminile. Attraverso l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, si andò affermando nelle società occidentali prima, e poi in tutto il mondo, seppure in modo graduale e parziale, il principio della parità di diritti. Mano a mano che questo processo avanzava nel corso del XIX e del XX secolo, anche nel mondo dell’arte e della poesia la presenza femminile è diventata sempre più importante, in numeri e peso specifico. Ciò malgrado, si tratta pur sempre di una presenza ancora largamente minoritaria. E se consideriamo la questione in una ottica mondiale, anche oggi esistono Paesi e vaste aree geografiche in cui l’accesso all’istruzione è ancora precluso alle donne, oppure ostacolato da circostanze materiali che di fatto impediscono tale accesso. Ciò malgrado, non è raro il caso di bambine nate in seno a famiglie prive di mezzi che grazie alla loro forza di volontà sono riuscite a far sentire la propria voce attraverso i loro versi malgrado mille difficoltà e ostacoli, facendosi spesso portatrici di una visione del mondo nuova e inedita, ribellandosi cioè a quell’atavico silenzio in cui le loro madri, le sorelle e le nonne erano e sono ancora confinate da una tradizione secolare.

Ma questo è solo uno degli aspetti del mondo della poesia femminile del ’900, a cui senza dubbio occorre prestare la massima attenzione (anche perché si tratta di figure spesso marginali o emarginate anche nel mercato editoriale italiano, che solitamente alla poesia presta già ben poca attenzione). Ma la poesia femminile del ’900 non fu solo uno strumento per rivendicare il diritto alla parola delle donne. O meglio, in alcuni casi lo è stato, ma se la prendiamo in esame esclusivamente da questo punto di vista, si finirebbe per attribuirle uno statuto puramente finalistico e, in quanto tale, presumibilmente inferiore, se consideriamo la poesia una forma d’arte. Eccoci quindi di fronte allo scoglio principale: a questo punto forse qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe meglio ignorare completamente la questione di genere (posizione condivisa anche da alcune poetesse, come ad esempio il premio Nobel Wisława Szymborska). Poesia engagé o “arte pura”? – Un antico dilemma, che però può assumere un significato inedito se declinato al maschile e al femminile. Sorgono però a questo punto nuove domande che inevitabilmente chiamano in causa la dimensione pubblica e quella privata della poesia, dei poeti e delle poetesse.

È indubbio che il movimento femminista ha giocato un ruolo importante nello sviluppo della poesia femminile, creando le condizioni necessarie affinché la presenza delle donne nel mondo delle lettere non si limitasse a casi sporadici e isolati. Ma sarebbe limitante ricomprendere tale fenomeno esclusivamente nell’alveo del femminismo. L’arte del ’900 fu prima di tutto sperimentazione e ricerca, rottura di schemi e di immagini preordinate. In questo processo la presenza delle donne è stato un elemento capitale, aspetto forse ancora non del tutto recepito nel canone del secolo appena trascorso….

Il testo è un estratto dal libro di Left La poesia delle donne di Rosalba De Cesare e Lorenzo Pompeo. Per acquistarlo quiIl libro viene presentato il 20 ottobre a Roma, alle ore 17, 30 presso la Biblioteca comunale “Goffredo Mameli” via del Pigneto n. 22, isola pedonale. Insieme agli autori partecipano Simona Maggiorelli, direttrice di Left, Clara Santini, critica letteraria e docente di lingua italiana l.2, Silvia Luminati, poetessa e Emma Marconcini, attrice

Nella foto: Anna Achmatova, disegno di Amedeo Modigliani

Non riusciranno mai a prendere le distanze dalla loro natura

Se ti mascheri pur di prendere il potere succede, prima o poi, che si sciolga il cerone e si vedano i connotati. Giorgia Meloni alza la voce contro Silvio Berlusconi dopo l’ennesimo audio pubblicato da LaPresse in cui il leader di Forza Italia non fa altro che mettere in fila uno dopo l’altro i frammenti di discorsi che ripete da mesi. Solo che visto nella sua interezza il pensiero dell’ex cavaliere è un fardello troppo pesante da portare di fronte alla comunità internazionale. Giorgia Meloni è arrabbiatissima. C’è da capirla, ha messo in moto un processo di travestimento (aiutata dai sospettabilissimi giornalisti che non resistono di fronte al potere) che si scioglie come neve al sole. Ma la destra italiana è questa, è sempre stata questa, sarà sempre nient’altro che questo.

Chiedere a Forza Italia di prendere le distanze da Berlusconi è un’ipocrisia che in queste ore si ripete con sprezzo del ridicolo. Ciò che pensa (e dice) Berlusconi non è niente di diverso dalle posizioni di molta parte della Lega e di molta parte di Fratelli d’Italia. Le posizioni di Berlusconi sono le stesse del presidente della Camera Lorenzo Fontana, le stesse che si scovano scorrendo i social di dirigenti di Fratelli d’Italia che non hanno ancora ripulito la propria presenza online. La differenza sta solo nel sabotaggio clinico e organizzato nei confronti del satrapo di Arcore mentre tutti gli altri godono di un condono.

Vale lo stesso per la guerra all’aborto. Maurizio Gasparri non è una scheggia impazzita che autonomamente deposita un progetto di legge (come accade ogni volta che viene eletto): tutta la destra italiana ha quelle posizioni, tutta la destra italiana è il punto di riferimento delle associazioni pro vita, tutta la destra italiana sabota la legge 194 nelle regioni in cui riesce a mettere le mani sulle leve della maternità.

Non passeranno troppi giorni prima che qualcuno, dalla Lega o da Fratelli d’Italia, alzi la propaganda contro gli immigrati colpevoli di ogni efferatezza. Anche in quel caso il trucco consisterà nell’isolare quel pensiero come iniziativa personale e Giorgia Meloni si presenterà compita e simpatica per assicurare che le posizioni del governo (sempre che questo governo si faccia davvero) sono diverse e più accomodanti.

La destra che vince prendendo i voti di destra e poi vorrebbe governare con la maschera dei moderati è un’operazione fallimentare su più fronti. Fallirà agli occhi dell’Ue e della comunità internazionale (come già avviene) per la scompostezza delle sue posizioni; fallirà sul piano interno poiché sarà puntellata ogni giorno da un’opposizione che non dovrà fare troppa fatica per sbugiardarla; fallirà con i propri elettori che l’hanno votata perché quelli vogliono, eccome se lo vogliono, che inverta le azioni e le posizioni e quindi rimarranno facilmente delusi; fallirà dentro i partiti perché nella Lega e in Fratelli d’Italia è fin troppo facile presentarsi come “nuovi” perché più spericolati (e quindi più “di destra”) dei segretari che si vogliono rovesciare.

Ancor prima delle consultazioni con il presidente Mattarella è chiaro che il “centrodestra” è destra in purezza, che quello che chiamiamo centro è il vero centrodestra (e infatti soccorrerà questa destra) e che in questi mesi i nostri “grandi” giornalisti hanno stilato liste di putiniani in cui ci finivano Augias, Barbara Spinelli e l’Anpi mentre – sbadati – si sono persi i partiti di governo.

Buon giovedì.