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Il senso di Crosetto per la stampa

Una giornata esemplare. Ieri Giovanni Tizian e Emiliano Fittipaldi hanno pubblicato un’inchiesta sul nuovo ministro alla Difesa Guido Crosetto. Che le porte girevoli tra produttori d’armi e politica siano un problema in questo Paese lo scriviamo (e lo scrivono in molti) ben prima di Crosetto. Minniti, già ministro degli Interni e deputato, va a Leonardo. Cingolani, da Leonardo al ministero e ritorno. E ora Crosetto, da Aiad (la Federazione aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza, ndr) alla Difesa.

Domani racconta che «nel 2021 ha incassato da Leonardo 619 mila euro in consulenze. La somma girata dal nostro colosso degli armamenti al fondatore di Fratelli d’Italia risulta in pratica superiore allo stipendio garantito al presidente della partecipata, che lo stesso anno ha preso 504 mila euro. Leonardo è tra le prima aziende fornitrici del dicastero ora guidato da Crosetto». Poi, secondo Domani, «bisogna aggiungere altri 82 mila euro incassati da Orizzonte sistemi navali, altra azienda controllata da Fincantieri e Leonardo. Più altri 200 mila euro versati all’ex lobbista da spa con soci privati e pubblici, tutte impegnate nel settore difesa».

Il ministro, sentito dai giornalisti, rilascia una spiegazione curiosa. Dice che era a Leonardo «come advisor in quanto presidente dell’Aiad. Per intenderci, io non avevo un ufficio a Leonardo, e non rispondevo a nessuno in Leonardo. Il mio compenso e il tipo di lavoro che svolgevo sono due cose distinte, nate dal fatto che il presidente dell’Aiad è indicato dalle aziende associate. Io sono stato indicato da Leonardo, che mi pagava per quell’incarico».

Con i giornali in edicola Crosetto ieri mattina pubblica un tweet (piuttosto sgrammaticato) in cui dice: «Ho dato mandato allo Studio Legale Mondani perché sono certo che le condanne in sede civile e penale siano l’unico metodo che direttori, editori e giornalisti possano intendere, di fronte alla diffamazione. Il mio ora e’ un’obbligo Istituzionale: quello di difendere il Dicastero».

C’è una fallacia logica evidente: non c’è nessuna offesa “al Dicastero” (altrimenti ci sarebbe l’avvocatura di Stato, senza bisogno di contattare nessun studio legale) ma si parla dell’opportunità di una nomina ministeriale a un presunto lobbista.

Crosetto dà spiegazioni? Niente. Spiega cosa c’è di sbagliato in quell’articolo di Domani? Niente. Allora perché scrive di avere dato mandato a degli avvocati senza preoccuparsi di ristabilire la sua verità? A pensarci bene al di là delle legittime querele a un politico dovrebbe interessare la limpidezza della propria immagine pubblica, ancor di più in un periodo delicato com’è l’insediamento di un nuovo governo. Semplice: minacciare una querela serve a scoraggiare. In questi giorni tutti i giornalisti (e i loro direttori) sanno bene che scrivere una parola sbagliata potrebbe accendere un’azione legale. In più si sposta l’asse dal punto politico che, come scrive il direttore di Domani, è un altro: «La situazione di conflitto di interessi non implica una accusa di comportamenti inappropriati o criminali. È una situazione oggettiva: un ex lobbista dell’industria della difesa, che nel settore guadagnava e potrebbe guadagnare milioni, potrebbe essere visto dalle controparti come non disinteressato nelle decisioni che prenderà».

Buon venerdì.

Il “piano Meloni” per l’Africa e la visione di Mattei

Nel suo discorso di insediamento, IL presidente del consiglio Giorgia Meloni ha detto: «Credo che l’Italia debba farsi promotrice di un “piano Mattei” per l’Africa, un modello virtuoso di collaborazione e di crescita tra Unione Europea e nazioni africane, anche per contrastare il preoccupante dilagare del radicalismo islamista, soprattutto nell’area sub-sahariana. Ci piacerebbe così recuperare, dopo anni in cui si è preferito indietreggiare, il nostro ruolo strategico nel Mediterraneo».
Piano Mattei per l’Africa … “per” l’Africa? E per giunta per contrastare il radicalismo islamista?
Negli anni, in Italia, ci sono stati tanti piani per il Medio oriente e l’Africa: il “Piano Pella”, il “Piano Gronchi”, il “Piano Fanfani” e credo anche un piano Berlusconi, tutti sfociati nel nulla, ma nessuno ha mai osato un piano per liberare l’Africa dal radicalismo islamico.
In quanto a Mattei, partigiano esponente della resistenza al nazifascismo, egli rappresenta per gli algerini tuttora una figura mitica e un punto di riferimento per il grande aiuto che ha dato alla Rivoluzione algerina per la la libertà e l’indipendenza dell’Algeria (Enrico Mattei e l’Algeria. Un amico indimenticabile, è il titolo di un libro). Era amico di Gamal Abdel Nasser quando tutti erano contro il leader egiziano. Ha regalato al Marocco una raffineria di petrolio (Samir a Mohammedia), l’unica del Paese (privatizzata nel 1997 a favore dei sauditi e chiusa nel 2015). Le cronache riportano che re Mohamed V, contravvenendo ad ogni protocollo che impediva al re del Marocco di dialogare con uno straniero in una lingua che non fosse l’arabo, era solito invece prendere a braccetto Mattei e parlare con lui in francese.
Enrico Mattei cercava ovviamente l’interesse nazionale dell’Italia e aveva una visione del mondo. Una visione appunto. E’ ciò che manca oggi ai politici e agli imprenditori. Questa visione ha fatto e fa amare Mattei ai musulmani.

Nella foto, la targa dedicata a Enrico Mattei ad Algeri (nel Parco E. Mattei di Hydra)

Bolsonaro e la guerriglia religiosa che lo sostiene

Nel Brasile di oggi accade che nella residenza di Roberto Jefferson, ex deputato ed ex presidente del Ptb (laburisti), agli arresti domiciliari con l’accusa di appartenere ad una guerriglia digitale ideata per attaccare membri delle istituzioni pubbliche, diffondere fake news, screditare il processo elettorale e promuovere atti violenti contro magistrati, oppositori politici e omosessuali, gli agenti federali abbiano trovato un grande arsenale di armi e munizioni di svariati calibri, durante la perquisizione eseguita il 24 ottobre scorso. 

«Dio, patria, famiglia, vita e libertà, libertà, libertà» sbraitava Jefferson, mentre, tra uno sparo ed altro, postava sui suoi canali social video in diretta dell’attacco agli agenti. 

Resistendo all’arresto ben otto ore, il più fedele alleato di Bolsonaro ne ha approfittato per lanciare tre granate e sparando sessanta colpi di fucile contro i quattro agenti federali, arrivati presso la sua abitazione per ricondurlo in prigione, su mandato del giudice della Corte Suprema, Alexandre de Moraes. Il moto intonato da Jefferson è lo stesso inserito da Bolsonaro nel programma del suo partito, il Partido liberal, fondato dall’estremista di Destra Enéas Carneiro (1938-2007), inizialmente sotto l’acronimo Prona (Partito per il ristabilimento dell’ordine nazionale). Oltre alla costruzione di una bomba atomica tutta brasiliana «non per scagliarsi contro qualcuno, ma per essere rispettati», così da poter «dialogare alla pari con le potenze militari mondiali», Carneiro predicava una «crociata morale contro l’aborto e l’omosessualità». 

L’ex deputato Roberto Jefferson ha accettato di consegnarsi alla polizia soltanto dopo la visita del prete ortodosso Kelmon Luís da Silva Souza, candidato schierato dal Ptb per concorrere alla presidenza della Repubblica. Nato nello Stato di Bahia, il prete è entrato a far parte del corpo ecclesiastico della Chiesa ortodossa del Perù, che risponde al patriarca siro-ortodosso di Antiochia, Mar Ignazio Aphrem II, un anno prima di candidarsi come Presidente della Repubblica. Secondo il comunicato pubblicato dall’istituzione religiosa peruviana, Kelmon verrà consacrato vescovo a novembre e avrà come “missione” la diffusione della tradizione canonica siro-ortodossa in Brasile. 

Questo incarico si andrà a sommare alla presidenza dei movimenti di Estrema destra da lui fondati: il Movimento Cristão Conservador e il Movimento Cristão Conservador Latino-Americano (Meccla). Già noto all’interno dei gruppi conservatori per gli attacchi violenti rivolti alla Sinistra, subito dopo la sconfitta elettorale del 2 ottobre, in cui ha ottenuto meno dell’1% dei voti validi, il sacerdote dichiarò il suo appoggio a Bolsonaro, iniziando ad accompagnarlo nei suoi comizi. Kelmon Luís da Silva Souza, tuttavia, è l’ultimo arrivato della lunga coda di sacerdoti che esortano ad armarsi e associarsi a Bolsonaro nella lotta contro il comunismo e la Sinistra. 

Oltre all’intero Ordine cattolico apostolico romano Araldi del Vangelo, in prima fila, in qualità di influencer digitali di Estrema destra, vi sono il padre salesiano e professore Paulo Ricardo de Azevedo Júnior, uscito dai banchi dell’Università Gregoriana per predicare contro il pacifismo, attaccare le università e le scuole pubbliche brasiliane, accusandole di diffondere il gramscismo e il marxismo e difendere la politica di liberalizzazione delle armi di Bolsonaro; a seguire, padre José Eduardo de Oliveira e Silva, parroco di Osasco e dottore in Teologia Morale, presso l’Università della Santa Croce di Roma, figura nota per la sua misoginia, omofobia e dichiarazioni polemiche contro l’“ideologia gender”. 

L’odio disseminato via social contro la filosofa statunitense Judith Butler, da parte del suddetto sacerdote e delle associazioni che a lui fanno fede, provocarono il cancellamento delle conferenze della studiosa in Brasile, nel novembre 2017. Non contento, Padre Oliveira e Silva festeggiò, via Twitter, le aggressioni e offese subite dalla filosofa, all’interno dell’aeroporto di Congonhas, poco prima del suo rientro in patria, azione orchestrata e registrata da attivisti antiabortisti, per denigrare il lavoro di Butler; una figura non meno importante per incitazione alla violenza e attivismo via social a favore di Bolsonaro, è padre Marcelo Tenório de Almeida, parroco, cappellano e direttore di un santuario nella città di Campo Grande, Mato Grosso do Sul. 

Abituato ad augurare la morte a chi non è d’accordo con i suoi post violenti sui social, difendendo Bolsonaro e la libera circolazione delle armi, padre Tenório de Almeida non è altri che il vice-postulatore della causa di beatificazione dell’adolescente torinese Carlo Acutis, morto a Monza nel 2016, all’età di quindici anni, a seguito di una leucemia fulminante e ricordato dall’attuale presidente della Camera dei Deputati italiana, Lorenzo Fontana, nel suo discorso di insediamento

La beatificazione è avvenuta nel 2020, dopo una serie di presunti miracoli osservati per la maggior parte in Brasile. A dare la spinta al processo di canonizzazione del ragazzo, dipinto dalla stampa vaticana come “influencer di Dio”, “patrono di Internet”, “modello giovanile di fede cristiana”, “santo della playstation”, “cyber-apostolo dell’eucaristica” e “primo millennial sulla via della santificazione” fu un presunto miracolo avvenuto nell’ottobre 2013, proprio nella parrocchia del prete di estrema destra ed “auguratore di morte”, Tenório de Almeida. 

Dopo aver toccato una reliquia di Acutis, portata in Brasile dal prete, un bambino che soffriva di una grave anomalia al pancreas sarebbe risultato completamente guarito dalla sua malattia. Il giudice e presidente del Tribunale locale ecclesiastico, che valutò il presunto miracolo, fu il frate Moacyr Malaquias Júnior, estremista di Destra, che utilizza i canali sociali per diffondere video di sacerdoti pro Bolsonaro appartenenti a svariate Ordini, attacchi al movimento femminista e Lgbt+, oltre a filmati in cui bambini declamano versi diffamatori contro l’ex presidente Lula e invitano a votare Bolsonaro al ballottaggio del 30 ottobre.

Nell’immagine, padre Tenório de Almeida in un frame di un video pubblicato su Facebook. «Dovete morire» è scritto sul biglietto

Alla scoperta dell’immaginario degli antichi

Vogliamo ricordare la nostra cara collaboratrice e amica Maria Pellegrini che purtroppo ieri ci ha lasciato. Lo facciamo ripubblicando il suo ultimo articolo uscito su Left online il 27 ottobre 2022, una recensione al libro di Francesca Ghedini. Latinista, scrittrice, Maria Pellegrini è stata una stretta collaboratrice di Luca Canali e una grande e appassionata esperta di letteratura e storia dell’antica Roma, di cui ha approfondito soprattutto gli aspetti della condizione della donna, delle classi subalterne e della plebe. Temi che si ritrovano nel suo ultimo libro Da Arianna ad Agrippina. La donna greco-romana tra storia e mito (Futura libri, 2023)

Nel corso della sua vita di studiosa Francesca Ghedini, professoressa emerita di Archeologia classica dell’Università di Padova, si è occupata a lungo di iconografia con approfondimenti antropologici, sociologici e storico artistici. La sua attività di ricerca si è rivolta, fin dai primi anni, allo studio delle immagini come specchio della società che le ha prodotte. Il frutto del suo intenso lavoro è ora raccolto nel volume Lo sguardo degli antichi, con sottotitolo Il racconto nell’arte classica (Carocci editore, 2022, pgg.408, € 40,85).

Nell’indagare il rapporto fra parola e immagine Ghedini ha ricostruito quel percorso di progressive conquiste realizzate da artigiani e artisti dell’antichità greca e romana che, per suggerire allo spettatore eventi avvenuti, ricorrevano a immagini iconiche o narrative dalla forza comunicativa simile a quella della parola scritta o recitata.
Con le immagini iconiche si arriva all’identificazione del personaggio raffigurato attraverso una sua caratteristica fisica, una capigliatura o attributi che gli appartengono: una figura con un tridente richiama Poseidone, una fanciulla che tiene in mano delle spighe è Cerere.

Le immagini narrative invece mettono in scena una particolare situazione descritta nel momento in cui avviene o evocata in vario modo: un giovane che si specchia in una polla d’acqua è Narciso, la testa di un cinghiale ai piedi di un cacciatore ricorda Meleagro. Talvolta però, sottolinea Ghedini, «un solo indicatore non è sufficiente per rendere immediatamente riconoscibile la scena raffigurata: una fanciulla-albero potrebbe essere Dafne, ma anche Mirra o una delle sorelle di Fetonte». In questi casi è necessario inserire altri elementi di contesto per rendere comprensibile il soggetto.

La costruzione della narrazione attraverso le immagini deve attenersi a regole complesse che sono andate fissandosi nel corso dei secoli e fanno parte dell’immaginario collettivo. Presupposto necessario e indispensabile per raggiungere lo scopo, suggerisce Ghedini, «è la condivisione di un immaginario comune da parte di un pubblico che conosce i racconti epici e mitici, per averli sentiti narrare fin dall’infanzia, per aver ascoltato e ammirato gli aedi che deliziavano i conviti».

Vaso greco con l’immagine del cavallo di Troia, Museo di Mykonos

Nel mondo greco il gusto per il racconto non si afferma precocemente. Nel volume se ne ripercorrono le varie tappe fino all’improvviso manifestarsi di un gusto narrativo stimolato dalla tradizione epica. Nel Museo di Mykonos, isola delle Cicladi, troviamo un esempio illuminante di narrazione epica risalente al VII sec. a. C. Sul collo di un pithos è raffigurata l’immagine del cavallo di Troia, con la scena di conquista di una città dove guerrieri infieriscono su donne e fanciulli inermi.

È tuttavia la successiva produzione attica che ci consente di apprezzare appieno una nuova fase vitale e creativa. Famosi sono gli artisti del VI secolo a.C., Nearchos, Lydos e il Pittore di Amasis, che sembrano interpretare al meglio il nuovo clima culturale con l’abbandono delle tradizionali scene distribuite su fasce sovrapposte in favore di composizioni monosceniche: poche figure di grande formato consentono di rendere facilmente leggibili postura e gesti, così che le immagini realizzate sono spesso provviste di grande tensione narrativa, come la coppa del Pittore della Caccia, un ceramista greco il cui nome deriva dalla decorazione della caccia al cinghiale calidonio sul fondo della sua creazione, o come il frammento di un cantaro di Nearchos, in cui il pittore ha scelto di raffigurare il momento in cui Achille, solo con i suoi cavalli, ascolta la profezia che gli preannuncia il suo destino di morte (Iliade, XIX, 404-424).

L’apice di questa nuova sensibilità narrativa è raggiunto da Exechias, un ceramista attivo ad Atene nella metà del VI secolo a.C. La forza delle sue composizioni risiede nella maestosità delle figure che occupano l’intero spazio a disposizione, e nel numero ridotto dei personaggi, due nella famosa Coppa raffigurante l’accecamento di Polifemo situata a Parigi, nella Bibliothèque Nationale de France.

La firma del ceramista Exechias, Museo del Louvre

Se statue onorarie di personaggi illustri erano esposte ovunque nelle città, lungo le strade principali, nelle piazze, nei teatri, nelle palestre, il luogo in cui maggiormente si sbizzarriva la fantasia dei committenti erano le case private, dove, già nell’esterno, venivano realizzati eleganti affreschi o semplici schizzi, allusivi al ruolo rivestito dal proprietario. Gli interni erano interamente circondati da immagini di ogni genere, i pavimenti decorati con mosaici raffiguravano scene narrative mentre le pareti erano ricoperte di quadri, reali o riprodotti ad affresco, che rivelavano le molteplici e avvincenti avventure di dèi e dee, eroi ed eroine.

Per le immagini relative al mondo dei morti, numerose e di grande impatto sono le testimonianze provenienti da città etrusche dove si usava decorare le camere funerarie con affreschi ispirati per lo più a mettere in scena aspetti della vita quotidiana. La documentazione del mondo funerario romano si fa invece esigua e sfuggente a causa della grave perdita dei monumenti più antichi, ma restano le sculture dei sarcofagi e le iscrizioni che, rivolte ai frettolosi passanti, annotavano meriti e imprese del defunto, fornendo indicazioni circa l’età, la famiglia, il ruolo rivestito nella società o nella casa.

Non si deve sottovalutare l’importanza delle fonti letterarie utili per molteplici informazioni e notizie sugli artisti e le mode del tempo. Per lo storico dell’arte le citazioni occasionali rivestono un grande interesse perché permettono di condividere lo sguardo dei contemporanei, scoprire opere di cui non sono rimaste tracce oltre le citazioni di un autore. Ghedini porta ad esempio un passo di un poeta greco del III secolo a. C., Eronda, che ricorda di aver visto fra le numerose opere esposte nell’Asklepieion di Coo due quadri del pittore Apelle, di cui egli loda «la capacità di rendere le figure così aderenti al reale da ingannare l’occhio dello spettatore». Il poeta ha tramandato due informazioni, l’una sulla qualità dell’opera, l’altra circa la presenza di opere di un grande artista in un luogo sacro.

Lo sguardo degli antichi ha posto una scarsa attenzione alle raffigurazioni naturalistiche e Ghedini descrive il lungo dibattito su tale aspetto riportando il giudizio di Platone che nel dialogo Crizia considera «tali elementi non necessari» mentre «la centralità è per la figura umana» e nel Fedro afferma: «La campagna e gli alberi non consentono di imparare niente, diverso è il ruolo degli uomini della città».

Il testo, arricchito da una ricca bibliografia, note, indice di nomi e numerose fotografie delle opere d’arte citate, risponde ai principali temi dibattuti nell’ambito della lettura delle immagini analizzate nelle diverse categorie di composizione: monosceniche o plurisceiche, cicliche. Il lettore è portato a riflettere sull’impatto che l’insieme dei quadri che decorava una casa potesse avere sui frequentatori delle dimore che ne erano così riccamente ornate e sulla pluralità di suggestioni che potesse suscitare.
Il volume è anche un ottimo strumento per un approccio allo studio dell’iconografia e alla sua compiuta definizione disciplinare, divenuta, grazie a Erwin Panofsky, il ramo della storia dell’arte che si occupa del soggetto e del significato delle opere d’arte, in contrapposizione a quelli che sono i valori puramente formali.

Non c’è niente da capire

Qualcuno che gira con diecimila euro in contanti nel borsello non è un povero. Partiamo da qui, almeno per evitare di apparire scollegati dalla realtà di un Paese in cui la retribuzione globale annua (Rga) media si aggira intorno ai 30.000 euro, mentre la retribuzione annua lorda (Ral) media è pari a circa 29.500 euro (circa 1.700 euro netti al mese). Diecimila euro non li vedranno mai tutti insieme i 5,6 milioni di poveri nel nostra Paese (di cui 1,4 milioni sono bambini) che aspirano ad avere il problema di scegliere con quale modalità pagare visto che pagare rimane il loro insormontabile problema.

Qualcuno dice che la prima mossa del governo Meloni abbia a che fare con la “libertà”. Anche questa teoria è fragile. Basterebbe misurare le due urgenze: è più urgente dare “la libertà” di scegliere se pagare in contanti, in elettronico, con sesterzi o con il baratto o è più urgente trovare una soluzione perché tutti paghino ciò che si deve? Il governo ha scelto. L’ha scelto, si badi bene, come primo atto di un governo che arriva mentre le bollette stanno scarnificando le imprese e le famiglie, lo ha scelto mentre i salari da fame stanno sbriciolando i progetti e le speranze, lo ha scelto mentre la crisi climatica aumenta i pericoli e i costi per i cittadini, lo ha scelto mentre una guerra continua a bruciare alle porte dell’Europa. Questione di priorità, semplicemente.

Il governo Meloni, per mano del suo ministro all’Interno Piantedosi e del suo ministro alla Salvinità Matteo Salvini, ha messo nel mirino come primi nemici le navi delle Ong nel Mediterraneo. L’ha fatto nel momento in cui i morti si moltiplicano (tra bambini bruciati e bambini annegati) e lo fa insistendo con una violazione delle convenzioni internazionali, soprattutto quelle che riguardano la sicurezza in mare, la Convenzione di Amburgo e la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e i richiedenti asilo. «Non si capisce quale sia la fonte giuridica che utilizza per ventilare un illegale e illegittimo blocco di navi che hanno soccorso naufraghi e che chiedono un Place of safety, come prevede la Convezione di Amburgo, che è molto chiara e non parla di bandiere, ma semplicemente di obbligo del soccorso», ha spiegato ieri all’Adnkronos Luca Casarini, capomissione di Mediterranea saving humans. Era una priorità? Evidentemente sì.

La prima proposta di legge depositata dalla maggioranza è quella di Maurizio Gasparri per scassare la 194. La ministra nominata alla Famiglia (e Natalità) è un’antiabortista fuori dal tempo e fuori dalla realtà che nelle sue prime interviste ha ribadito la propria idea provando a rassicurare (male) che i diritti delle donne non verranno toccati specificando però che l’aborto non lo ritiene un diritto. Era una priorità del Paese? Evidentemente sì.

In compenso ieri è stato bollato come “ideologico” l’intervento in Senato di Roberto Scarpinato, storico magistrato antimafia e ora capogruppo del Movimento 5 stelle, che ha semplicemente ricordato che questo governo si regge sui voti di un leader di partito (Silvio Berlusconi) che ha pagato per anni Cosa Nostra e che ha avuto come braccio destro un ex senatore (Marcello Dell’Utri) condannato in via definitiva per essere stato “l’anello di congiunzione tra Berlusconi e la mafia”. Ideologico, hanno detto.

Non c’è molto da capire. Qui non siamo più nel campo dei propositi. Stiamo ai fatti. Questo è.

Buon giovedì.

Antifascismo e alta politica, l’importanza della lezione di Emilio Lussu

Emilio Lussu nella sua lunga vita è stato un protagonista della storia d’Italia del Novecento (nasce ad Armungia in Sardegna nel 1890 e muore a Roma nel 1975) ed ha continuato ad esserlo anche durante i 14 anni di esilio, dal momento della sua clamorosa fuga dall’Isola di Lipari (1929) fino al rientro in Italia, alla caduta del fascismo (1943).

Agostino Bistarelli, con il libro uscito di recente, Emilio Lussu. La storia in una vita (L’Asino d’oro edizioni 2022) ne ricostruisce dettagliatamente la vita e il pensiero attraverso le varie fasi sia private sia pubbliche, sempre strettamente legate l’una all’altra. Scorrendo la sua vita, si intravedono con chiarezza anche i nodi irrisolti della storia nazionale mentre, scrive l’autore, le caratteristiche di Lussu sono: «La sua estrema avversione al trasformismo, il suo considerare la politica e il potere come un servizio, l’originalità del suo essere a sinistra».

La nascita e l’infanzia in Sardegna, gli studi liceali e universitari, poi ufficiale in trincea durante i quattro anni della Prima guerra mondiale, Emilio Lussu è stato il fondatore del Partito sardo d’azione il 17 aprile 1921, in cui convoglia l’esperienza sociale e politica maturata in trincea, insieme ai suoi soldati della Brigata Sassari. Dalla situazione più disumana si sono cementati in lui sentimenti umani di solidarietà e fiducia che sfoceranno nella fondazione del partito in cui vengono coinvolti gli ex combattenti, insieme ai contadini e pastori. Sullo sfondo, arrivano dalla Russia gli echi della rivoluzione alla quale, pur non aderendo, il politico sardo guarda con interesse; il nuovo partito, come anche Piero Gobetti e Antonio Gramsci riconosceranno, nasce dal basso, su base autonoma e regionale, si impone a livello nazionale, riuscendo a far eleggere quattro parlamentari, tra cui Emilio Lussu.

Il suo ingresso in Parlamento toglie a Mussolini il primato di portavoce degli ex-combattenti e infatti la Sardegna sarà l’ultima regione a cedere di fronte al fascismo, complici le violenze, di cui lo stesso Lussu sarà vittima. Bistarelli prosegue con la formazione dell’antifascismo, la condanna alla prigione ed al confino dopo un processo ingiusto, la straordinaria fuga da Lipari – uno degli atti più audaci contro il regime – gli anni intensi e difficili dell’esilio, durante i quali deve curarsi per i gravi danni fisici subiti nelle carceri; ma sono anche gli anni in cui conosce e comincia il sodalizio con una donna eccezionalmente coraggiosa come Joyce Salvadori.

Joyce ed Emilio Lussu durante il 3° Congresso dell’Anpi, Roma, 27 giugno 1952

Lussu aveva fondato a Parigi il Movimento liberal-socialista Giustizia e Libertà con Carlo Rosselli e dopo il feroce assassinio di quest’ultimo insieme al fratello Nello da parte della cagoule francese, organizzazione armata dell’estrema destra, legata ai servizi militari italiani, ne assume la guida. Le condizioni sono difficili anche per le scarse possibilità di collegamento tra fuoriusciti in esilio e coloro che sono rimasti in Italia, essendo assoggettati i primi sia alle spie nei Paesi stranieri sia all’Ovra e, infine, per le diversità insite nelle varie formazioni politiche che compongono il mondo dell’antifascismo.

Destinatari della biografia ricostruita da Bistarelli sono le ragazze i ragazzi nati nel nuovo millennio per i quali la cultura politica di Emilio Lussu, che nasce dall’individuo per arrivare alla collettività, può rappresentare una chiave di lettura per chi si troverà a fare, domani, le proprie scelte. Il libro ha partecipato all’anteprima del Festival Premio Emilio Lussu che si è svolto recentemente a Cagliari. Nata nel 2014, uno degli obiettivi della manifestazione è proprio promuovere e far conoscere, soprattutto alle giovani generazioni, l’opera e la vita di Emilio e Joyce, attraverso convegni internazionali con la partecipazione di studiosi di diverse università italiane ed europee.

Il premio alla carriera è stato attribuito quest’anno allo scrittore Paco Ignacio Taibo II che con il suo impegno sociale e politico, la sua onestà intellettuale, è in sintonia con l’universo lussiano. Nell’edizione di quest’anno è stato presentato, da parte dell’onorevole Valdo Spini, il testo di Lussu Diplomazia clandestina mettendo in evidenza l’impegno di Emilio e Joyce Lussu che, dopo l’invasione della Francia da parte della Germania e l’entrata in guerra dell’Italia, si rivolgono al Regno Unito, l’unico Paese che in quel momento non era nell’orbita nazifascista, per avviare trattative diplomatiche.

È un percorso coraggioso, complicato e pieno di insidie; ma per Lussu è fondamentale per organizzare sul territorio italiano la lotta contro il fascismo e perché, una volta finita la guerra, pur se dichiarata dallo stesso governo italiano con il sostegno che durava da venti anni della monarchia sabauda, venga riconosciuta all’Italia una posizione autonoma e non secondaria nel panorama europeo. Anche se i risultati sperati, come l’ipotesi dello sbarco in Sardegna, attraverso la Corsica, facendo affidamento sulle forze antifasciste sarde, non vengono raggiunti, aver stabilito contatti con la diplomazia internazionale, da parte di un personaggio noto all’estero come Lussu, rappresenta un significativo segnale della presenza dell’antifascismo italiano.

La fama di Lussu era stata preceduta dal successo ottenuto dalla trilogia di libri che aveva scritto, nella lingua dei Paesi che lo ospitavano, pur non attribuendosi mai la qualifica di storico o di letterato e che avranno un grandissimo successo. Infatti, dopo solo un anno dalla fuga di Lipari, pubblica La catena, dove parla anche delle condizioni dei confinati (1930), nel 1932 Marcia su Roma e dintorni dove lo stesso Lussu vuole «raccontare gli avvenimenti politici (…) così  come personalmente (…) vissuti», lui che è della stessa generazione del fascismo «… per far capire il fascismo, l’antifascismo e la stessa civiltà italiana».

Nel 1938 pubblica Un anno sull’altipiano dal quale il regista Francesco Rosi trarrà un film fortemente antimilitaristico dal titolo Uomini contro. Durante l’esilio scrive anche il bellissimo Il cinghiale del diavolo dove racconta la sua esperienza di bambino e ragazzo, che forse, per l’intimità del racconto, deciderà di pubblicare solo molti anni dopo.
Non è per fortuna o casualità se le intuizioni di Lussu si rivelano giuste, mentre è profondamente vero il suo spessore di persona e di politico come scrive l’autore e cioè «la sua capacità di individuare il criterio di scelta individuale per affrontare le emergenze; la sua critica coerente alle furbizie e ai sotterfugi, la denuncia delle ipocrisie politiche; l’esempio dato per rimuovere le macerie delle guerre e del fascismo e per costruire un futuro migliore e più giusto».

Con riferimento ai rapporti internazionali tenuti da Lussu, è interessante un brano della lunga intervista inserita nel libro di Bistarelli, rilasciata dal professor Pietro Clemente, antropologo e docente presso l’Università di Firenze, che ha frequentato da giovane studente Emilio e Joyce Lussu. Incontro di cui ricorda l’insistenza dell’ormai anziano politico «… di guardare i fatti internazionali [che] non sono mai come sembrano; era l’Emilio Lussu di Diplomazia clandestina, anche degli scritti delle sue esperienze, perché quando lui viveva in Francia ha conosciuto personaggi dei servizi segreti di tanti Paesi europei e ha imparato a diffidare di persone che ci giocavano dentro, e quindi suggeriva sempre di immaginare i retroscena della politica internazionale. E lo faceva con il suo stile garbato, parco di parole ma essenziale, come il suo modo di vivere».

In realtà tutta la vita di Lussu rende immediato il confronto con l’attualità, spesso mitigato dalla sua ironia, non per interrompere il filo del racconto, anzi al contrario stimola il desiderio di non rinunciare mai e di continuare a combattere per quello che si ritiene giusto. L’autonomia, uno degli aspetti più interessanti della sua politica, nasce dall’essersi formato in una collettività montanara di contadini-pastori, «senza classi e senza Stato…» che lo porta al rispetto di tutte le minoranze mentre ribadisce che la dimensione collettiva si può trovare solo partendo dall’individuo, anche al fine di consentire la partecipazione di tutti i cittadini alla vita dello Stato. Questi valori saranno difesi senza cedere mai anche nell’ultima parte della sua vita come Costituente e parlamentare nella Repubblica che ha contribuito a costruire; sarà uno dei più strenui oppositori all’inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione anche se ancora una volta dovrà vedere la sua posizione soccombere; ma il suo laicismo sarà rivendicato in tutta la sua vita da parlamentare e nell’intervista rilasciata a Gianni Bosio pubblicata dalla rivista Il de Martino, dirà di se stesso: «Sono arrivato nella mia vecchiaia ad avere una coscienza che considero rivoluzionaria».

L’appuntamento Il libro di Agostino Bistarelli Emilio Lussu. La storia in una vita (L’Asino d’oro edizioni) viene presentato a Roma il 28 ottobre (ore 17.30) presso la Casa della memoria e della storia (Sala conferenze, Via San Francesco di Sales 5). Con l’autore intervengono Bianca Lami, Anna Balzarro, Sonia Marzetti e Andrea Ricciardi

Revanscismo di governo

Il coro è sempre lo stesso, una simulata meraviglia per l’inclinazione alla democrazia della potente di turno. Sfogliando questa mattina la rassegna stampa si possono riconoscere le stesse voci di intellettuali e giornalisti che sculettano da progressisti ma non riescono a trattenere la loro passione per il potere, qualsiasi potere. Rosso, nero, uomo, donna, borgataro o esimio professore il potere va bene in tutte le salse. L’adorazione per lo scranno più alto del Consiglio dei ministri è un’inclinazione che ha le fattezze del servilismo. Capita così che la realtà venga piegata ai propri desiderata senza un briciolo di vergogna: «Sembra un PdC di centro sinistra riformista», twittava ieri una giornalista. Basta prendere questa frase come fotografia dell’imbarazzo che ci assale.

La destra che torna al governo dopo il 1946 invece fa la destra, ne indossa tutte le caratteristiche (anche le peggiori) e basta una giornata consumata alla Camera per scalfire il fondotinta che ha indossato durante la passerella dell’investitura. Giorgia Meloni fa un comiziaccio di partito con poca patina istituzionale e celebra la retorica più destrorsa che si sia mai ascoltata da una presidenza del Consiglio sfoderando promesse di non tradire e non indietreggiare, come in una brutta puntata di Sturmtruppen. Racconta la storia d’Italia scivolando dal Risorgimento dimenticando la Liberazione italiana (sarà per non “tradire” i suoi Fratelli d’Italia) riducendo il fascismo alle leggi razziali (da cui prende le distanze per confermare la sua aderenza a tutto il resto?) e l’antifascismo a ragazzetti con il gusto di pestare con la chiave inglese.

Chiama per nome le donne che le sono di esempio ma non riesce a non ridicolizzare il femminismo tirando fuori dal cilindro la battuta della “capatrena” che non farebbe ridere nemmeno detta al bar della Garbatella. Snocciola un filotto di riferimenti culturali che sembra confezionato dalla home page di un sito di aforismi (Roger Scruton e Montesquieu, Cormac McCarthy e Steve Jobs) e consegna come scena madre la sua abiura ai regimi antidemocratici («tutti i regimi antidemocratici», puntualizza Meloni, tanto per annacquarne qualcuno) applauditissima dai commentatori del potere. “Avete visto? Ha preso le distanze dal fascismo!”, scrivono in coro quelli che dimenticano di parlare dell’erede del partito di Almirante. «Avete visto? Che credibilità!”, scrivono della presidente del Consiglio che votò Ruby come nipote di Mubarak.

Quando le capita di rivolgersi al deputato Aboubakar Soumahoro ne sbaglia il cognome (ci può stare) e poi non riesce a non dargli del tu. Sarà un caso che Soumahoro sia nero. Sarà un caso che Meloni si scusi dopo le proteste dai banchi dell’opposizione. Funziona, comunque: i villi intestinali dei suoi elettori sono ugualmente soddisfatti per quello scivolone che a loro dice più di tutto il resto del discorso.

La destra fa la destra e coccola gli evasori, sventola “l’ordine” in nome della sicurezza (una retorica che ormai fa presa solo qui, vecchia come il mondo), promette contemporaneamente deregolamentazione e protezionismo, propone un europeismo che è solo postura (partendo da San Benedetto!), usa Montesquieu per fingersi liberale (ma è semplicemente liberista), accarezza gli imprenditori con la narrazione dello «Stato tiranno», si rimangia la promessa delle riforme costituzionali solo se condivise («sia chiaro che non rinunceremo a riformare l’Italia di fronte ad opposizioni pregiudiziali»), lascia intendere una tolleranza dell’evasione come nuovo patto fiscale, srotola solo bolsa retorica sulla battaglia alle mafie (proponendo il riuso dei beni confiscati che già c’è ma non se n’è mai accorta), sfodera «l’ambientalismo ideologico» rivendicando (applaudita!) la priorità dei benefici dell’uomo sui danni dell’ambiente (un passo indietro di quarant’anni almeno), incasella l’immigrazione in un contesto solo economico e militare. La destra fa la destra.

Per Giorgia Meloni è tutto revanscismo. La voglia di urlare la rivincita ci presenta una presidente del Consiglio che chiede la fiducia attaccando l’opposizione. Il vittimismo, vedrete, sarà il segno distintivo di un governo che grazie al vittimismo è riuscito a ingrassare il proprio bacino elettorale stando all’opposizione. Intanto fuori i manganelli spaccano le teste agli studenti «per impedire l’assalto alla cerimonia», ci spiega il ministro all’Interno Piantedosi. Piantedosi che ha già trovato il tempo di mettere sotto i riflettori le Ong nel Mediterraneo mentre il Mediterraneo ci restituiva altri corpi di bambini di pochi mesi.

La luna di miele di Giorgia Meloni è appena iniziata ma durerà poco come per tutti gli altri. Quelli che prima la disprezzavano e ora la adorano – più o meno velatamente – sono pronti a lasciarla appena finiranno le briciole di pane di cui si cibano.

Buon mercoledì.

Agi Mishol: La poesia ci ricorda chi siamo

Trovai per caso il libro Ricami su ferro di Agi Mishol diversi anni fa su una bancarella di libri usati ad Alfedena, un piccolo borgo abruzzese. «Nata in Romania da genitori di madrelingua ungheresi sopravvissuti alla Shoah. All’età di quattro anni si è trasferita con la famiglia in Israele. Riconosciuta come una delle più importanti e popolari poetesse israeliane contemporanee», leggevo in quarta di copertina. Sfogliando la raccolta di poesie, le uniche tradotte in Italia dalla casa editrice Giuntina, fui colpita dalla loro corporeità, dall’attaccamento al quotidiano, dalla ricerca poetica attraverso quella che è per lei è la sua lingua madre: l’ebraico. «[…] un sole autunnale sorgeva allora/ a Szilàgycseh,/ una zingara ti rivelò in cambio di un’oca/ che avrei visto lontano/ ma nessuno comprese cosa profetizzasse la alef con il kamatz (il suono “a” ma con allusione al fatto che era in ebraico ndr)/ che urlai forte nella stanza. […]», dice in uno degli scritti. Ha pubblicato circa venti raccolte poetiche tradotte in diversi Paesi. Amores è stata da poco pubblicata in Israele mentre altri suoi lavori saranno in uscita con la storica casa editrice tedesca “Hanser”.

«Il mio linguaggio e la mia poesia si trovano ad essere permeabili alla materia politica. Lo accetto e ne sono consapevole, però non metterò mai la mia voce al servizio di qualcun altro», dice in un’intervista. Qual è, secondo lei, il ruolo dell’intellettuale in questa epoca? E in che modo può relazionarsi alle istituzioni che esercitano un potere?
Provengo da un luogo difficile, il Medio Oriente, Israele. Una regione tormentata, molto complicata e gravata da guerre e conflitti. La poesia ha bisogno di quiete, molto rara in un posto dove il dramma va in scena ogni giorno. Essere poeti in Medio Oriente vuol dire essere esposti a un baccano politico senza fine, a tensioni e guerre. Un po’ come nella maledizione cinese, “Possa tu vivere in tempi interessanti”. La quiete di cui la poesia ha bisogno è merce rara in un luogo simile. Ci sono poeti che vanno all’estero per scrivere, perché hanno necessità di isolarsi e tenersi al riparo da un simile carico di esposizioni. Questo attrito costante è seccante e li mette in difficoltà. Ricordo un poeta giapponese che in un festival di poesia mi venne vicino e disse di invidiarmi perché vivo in un luogo dove accade così tanto. Non mi definisco un poeta politico, ma in una realtà come la mia è impossibile che la realtà non filtri nella poesia. Soprattutto a livello di linguaggio e immagini. Per esempio, se sto scrivendo versi che parlano di fiori, magari mi si può chiedere perché, mentre intorno a me succede quel che succede, siano i fiori a interessarmi. Se mai la poesia abbia un suo ruolo, questo è di ricordarci chi siamo, e metterci in contatto con gli strati più alti, morali e spirituali, dell’anima. E destare in noi la bellezza, la compassione e la nostra origine. Ricordarci chi siamo, appunto. La poesia non può essere coscritta. Deve essere libera. Come tutti i poeti in Israele, anche io sono in continua oscillazione tra i cannoni e le muse. Tutti noi siamo destinati a oscillare, come pendoli, tra la scrittura poetica impegnata e una scrittura d’evasione, ineludibilmente. Da un lato, ci si aspetta dai poeti che scrivano poesia politica e impegnata, altrimenti si sospetterà che scrivano poesia d’evasione. Ma dall’altro lato, c’è un desiderio di quiete e libertà. Non tutti intendono arruolare il proprio talento al servizio di un tal obiettivo o tal altro. Ci si difende dall’assalto esterno, ma la realtà inevitabilmente filtra sempre. Tutto ciò che si scrive è politico perché la realtà penetra nella poesia, la colonna sonora della mia vita.

Poco dopo aver pubblicato il suo primo libro di poesie, ha ritirato tutte le copie dalle librerie per poi bruciarle. Che significato ha avuto questo suo atto estremo?
Per rispondere alla sua domanda, è importante notare quanto è accaduto negli anni Sessanta, prima dei computer e di internet. Sono cresciuta in un posto piccolo, in una casa senza libri e certe volte ho persino pensato che la poesia fosse una mia personale invenzione. Non conoscevo né poeti né letterati, scrivevo però ciò che provavo. A 17 anni vidi un trafiletto su un quotidiano, la pubblicità di qualcuno che andava alla ricerca di giovani poeti di talento. Andai a Tel Aviv con mia madre, portando con me un quadernetto marrone, dentro c’erano delle poesie scritte a mano nel periodo del liceo, carine anche se infantili e molto immature. L’editore in effetti le apprezzò e mi pubblicò il libro. Quando il libro uscì, mi ero già iscritta all’università per studiare letteratura e quando lo aprii mi resi conto di aver forse messo il carro davanti ai buoi. Mi resi conto cioè d’essere poeta ma di non saper ancora scrivere. Ero un po’ in imbarazzo. Ma magari avevo voglia di sapere cosa si prova ad avere tra le mani un libro col mio nome sopra. Mi resi conto d’essere appena all’inizio del viaggio. Allora ripresi tutte le copie dalle librerie e da tutti quelli che l’avevano ricevuto dai miei genitori, orgogliosissimi, e alcune copie le rubai addirittura nelle biblioteche. Non le ho bruciate in realtà – quella è una metafora! Ho tenuto una sola copia per me, come souvenir. Oggi, dopo tanti anni, qualche volta apro quel primo libro con un po’ di compassione, come se rivedessi le foto di un neonato. Quest’anno per la prima volta l’ho aggiunto al catalogo delle mie pubblicazioni anche se il libro non esiste da nessuna parte salvo che presso di me.

A Hong Kong ha preso parte a un incontro internazionale dal titolo “Poesia e conflitto” per rappresentare Israele. Qual è la sua posizione in merito alla guerra israeliano-palestinese e come può la poesia esserne voce?
Il festival di Hong Kong è stato uno dei più difficili a cui abbia partecipato perché erano presenti dei poeti palestinesi che si sono rifiutati di sedersi con me nel panel in cui ci avevano riuniti. In quel caso ho pensato che se i poeti non riescono a parlarsi, chi altro può riuscirci? Il conflitto israelo-palestinese è complicato, spinoso. Da umanista, appartengo alla compagine a sinistra della mappa. Per me non ci sono differenze tra un’ingiustizia e un’altra, tra una sofferenza umana e un’altra. Come poeta non ho il privilegio di poter chiudere gli occhi. I poeti hanno ricevuto il dono delle parole ma sono anche, soprattutto direi, profondamente impegnati – ognuno nella propria lingua e dentro le circostanze reali in cui gli capita di vivere – nel lavoro più interno, cioè tenere gli occhi aperti, ricordare a tutti noi chi siamo, e mettere tutti noi in contatto con l’essenza umana, spirituale e morale, condivisa da chiunque ovunque.

Le sue poesie sembrano strutturate come un racconto e proprio per questo hanno spesso una “spinta finale”. Cosa ne pensa della forma ibrida di prosa poetica, di questa fusione?
La poesia in forma di prosa, cioè il genere della prosa poetica, ha avuto origine in Francia e in Germania all’inizio del XIX secolo: in effetti è una creatura ibrida che molti poeti (e anche molti prosatori) sono inclini a usare. In ebraico, diversamente da ciò che accade nelle altre lingue, ciò è tipicamente ovvio ed è evidente sulla pagina poiché in poesia le parole sono stampate con una sovra-grafia vocalica (niqqud, N.d.T) mentre in prosa ciò non avviene. Cioè a dire, nel momento in cui si trova davanti un testo in cui appaiono degli elementi vocalici sopra le parole, automaticamente il lettore sa di dover attribuire al testo qualità poetiche e l’energia della poesia. Se si scrive poesia senza questo elemento grafico, ciò significa che si tratta di un testo di poesia epica. La soluzione in ebraico è la poesia in forma di prosa cioè la prosa poetica. Personalmente uso questo genere molto poco.

Definirebbe la sua poesia minimalista? E cosa pensa del minimalismo?
Non descriverei la mia poesia come una poesia minimalista. Ho componimenti lunghi e brevi, a volte solo due o tre versi. Talvolta, e forse questo mi deriva dall’età, dipende dal momento in cui nasce la poesia, un momento in cui tu vedi ciò che anche gli altri vedono, però tu lo vedi in modo diverso, è il cosiddetto “momento: aha!”, il bidimensionale diventa tridimensionale, è un momento di presenza amplificata in cui la poesia comincia a formarsi: il bisogno di relazionarsi con tutto ciò che ti sta attorno scompare. È qualcosa che somiglia agli haiku in un certo senso anche se personalmente non sono molto attratta dagli haiku: rimani con una specie di senso di vanagloria e poi non sai che fartene. Ma anche i componimenti molto lunghi mi parlano poco. Quando mi imbatto in un componimento lungo, mi chiedo sempre se il poeta non sia rimasto incerto tra prosa e poesia in prosa.

Lei rappresenta un intreccio di universi: sua madre e suo padre ebrei di lingua ungherese, suo padre parlava l’ebraico, lei è nata in Romania, precisamente in Transilvania, ma è vissuta dall’età di quattro anni in Israele… In quali aspetti del suo linguaggio, della sua poetica emergono queste contaminazioni culturali?
Sono nata in Transilvania, ora Romania, da genitori ungheresi sopravvissuti all’Olocausto ed emigrati in Israele quando io avevo solo quattro anni. A casa si parlava l’ungherese perché per i miei era già difficile padroneggiare una nuova lingua, ma per me la lingua madre è l’ebraico e non riesco a scrivere né a pensare in altra lingua. Sono altrettanto certa che, a prescindere dal posto in cui fossi nata, sarei comunque diventata poeta. Muovermi tra una lingua e l’altra gioca nell’infanzia un ruolo determinante per la mia sensibilità linguistica perché ho trascorso un lungo periodo nella zona grigia tra lingue diverse e non tutte le parole avevano sinonimi nella nuova lingua. I bambini nati nella propria lingua parlano automaticamente senza riflettere sulle parole e sulle forme idiomatiche ma i bambini come me sono dei traduttori in erba – traducono sé stessi e devono trasporsi in un’altra lingua. Credo che sarei diventata poeta qualunque luogo mi fossi trovata ad abitare, ma attribuisco la dovuta importanza alla lingua e al paesaggio che mi sono toccati, perché essi sono i mattoni che edificano la mia poesia. È questo il materiale da cui traggo le mie metafore, questi gli strumenti che uso per investigare e scovare i comuni denominatori tra i fenomeni, le cui connessioni, per quanto ne so, in genere ci sono nascoste. Il posto dove abito sta a metà tra due aree militari, e gli aerei sono la colonna sonora costante della mia vita. Scrivo in ebraico, che è una lingua antica, bellissima, densa, e contiene una sapienza esoterica che rende ogni componimento poetico più saggio del suo autore.

Possiamo parlare di una poesia al femminile in contrapposizione a quella maschile?
Non ho mai preso parte a eventi in cui la poesia fosse definita “poesia femminile”, e mai mi sono imbattuta in eventi definiti di “poesia maschile”. L’origine della poesia è antecedente alla divisione in maschile e femminile. Ciò detto sono una donna e scrivo, tra le altre cose, della mia esperienza femminile. Storicamente c’è stata effettivamente una innovazione quando le donne hanno cominciato a scrivere e pubblicare. Autrici come le sorelle Brontë o Emily Dickinson e altre anche nella letteratura ebraica sono state in effetti un fenomeno nuovo di grande rilevanza all’ inizio del XX secolo ma è anche venuto il momento di smettere di stupircene.

In un’intervista afferma che l’argomento fondamentale della poesia, di qualunque cosa essa tratti, è la lingua stessa. Nel corso degli anni che tipo di evoluzione c’è stata nella sua scrittura poetica?
È vero, la poesia è un’arte di parole, il modo in cui esse sono disposte, connesse e giustapposte crea una certa elettricità tra loro. I temi fanno una certa differenza ma in ultima analisi è più decisivo il come del cosa. Quanto alla poetica, e cioè ai temi, considero la mia poesia come la colonna sonora della mia vita nel corso del suo viaggio verso la poesia.

Tempo fa c’è stato l’appello del presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Israele e agli ebrei di tutto il mondo: “Mi sto rivolgendo ora agli ebrei nel mondo. Non vedete quello che sta succedendo? Per questo è importante che milioni di ebrei in tutto il mondo non restino in silenzio proprio ora. Il nazismo è nato nel silenzio”. Cosa pensa dell’accostamento del nazismo ai fatti russi-ucraini?
È impossibile mettere le tragedie a confronto. Ho perso degli stretti familiari nell’Olocausto e questo dopotutto ha dettato il corso della mia vita. La memoria è traumatica per qualunque essere umano abbia un cuore, e altrettanto dovrebbe valere ora per la nostra consapevolezza quanto alla sofferenza in Ucraina e ai rifugiati che ne sono fuggiti. Il richiamo all’umanità e alla compassione è un grido universale. La poesia può farsi portatrice di questo richiamo; i governi hanno altre priorità, ristrette e particolari, che confliggono con quell’imperativo universale.

«La nostra casa è aperta, la porta senza chiave e ospiti invisibili entrano ed escono», scrive il poeta Czesław Miłosz nella “Ars Poetica” . Quali sono gli ospiti invisibili nella sua poesia?
È un’affermazione splendida e vera allo stesso tempo. C’è sempre una porta aperta su qualunque cosa entri nel campo visuale. Animali, figure in ordine sparso, poeti, e anche quanti non sono più con noi e frequentemente ci visitano, e quanti di là dal venire al mondo poi si metteranno in viaggio in futuro. Personalmente mi trovo ad uno dei nodi del tragitto, tra coloro che non sono più con noi e coloro che saranno con noi un giorno – ci troviamo tutti in un’unica conversazione continua. Molti animali si affacciano lungo la frequenza, le onde radio, della mia poesia – questo è un punto particolarmente sensibile per me, e a volte si palesano sorprese di tutti i tipi, un uccellino alla finestra o che mi fa l’occhiolino. C’è un’altra stanza sempre aperta per i visitatori inattesi. E grazie a tutto ciò il movimento della poesia è sempre a salire. È una poesia che può elevare ciò che è crudo a un grado di raffinatezza. È la poesia che trasforma la sofferenza in bellezza, e dunque in gioia, ad accendere il desiderio di origine compassione e coscienza.

Traduzione dall’inglese di Daniela Matronola

La Retro marcia su Roma: arte e cultura per dire no al fascismo

Una controstoria della marcia su Roma all’insegna dell’arte, della cultura, della bellezza e della natura. Parte dalla Capitale, che cento anni fa fu al centro degli eventi funesti che portarono al potere Mussolini, una iniziativa antifascista in un anniversario «che turba i sonni». «Vogliamo sottolineare quel giorno, non rimuoverlo; lo vogliamo mettere in mezzo alle cose belle del mondo, tra le immagini degli artisti, degli acrobati, dei poeti, dei fotografi, degli inventori, degli esploratori, dei sogni dei bambini. Ribaltare e stupire. E vedere l’effetto che fa» scrivono gli organizzatori nella presentazione dell’evento. Come se mille colori si contrapponessero al nero dell’oppressione e della violenza. Una scelta originale per esprimere il rifiuto netto del fascismo e della sua eredità, sotto qualsiasi forma essa sia.

La retro marcia su Roma si svolge in più luoghi, promossa dall’Assessorato alla cultura del Comune di Roma, dall’associazione culturale Têtes de Bois, dal Teatro biblioteca Quarticciolo, in collaborazione con molti soggetti tra cui la Regione Lazio, la Spi Cgil, il Comune di Monterotondo. Visto che si tratta di una Retro marcia, gli eventi si svolgeranno a Roma e da qui partiranno alla volta di Assisi, luogo simbolo di pace. In vari modi e con diversi mezzi, in bicicletta, in treno, a piedi. Il 28 ottobre l’evento clou a Roma, all’Anfiteatro Alessandrino del Parco Tor teste a partire dalle 19. Fino al 30 ottobre inoltre si può partecipare alla retromarcia a piedi con sosta e spettacolo a Monterotondo – luogo di concentramento dei fascisti nel 22 . In treno la retromarcia si svolge il 30 ottobre da Roma Termini ad Assisi e infine nella cittadina umbra lo spettacolo finale alle ore 16.

L’evento popolare, si terrà all’Anfiteatro Alessandrino nel cuore della periferia romana. Con la partecipazione di: Têtes de Bois, Alessandro Mannarino, El Grito Circo contemporaneo all’antica, Andrea Calabretta, Andrea Farnetani, Ascanio Celestini, Alessandra Vanzi, Valentina Carnelutti, Marino Sinibaldi, Miguel Gotor, Marco Delogu, Giulio Cederna, Mohamed Keitha e Fabio Magnasciutti, gli alunni dell’Istituto Mazzini con il Prof. Enrico Castelli Gattinara e molti altri ospiti. La serata del 28 ottobre è prodotta da Teatro Biblioteca Quarticciolo nell’ambito di “Quarticciolo. Cartografia Umana”, Rassegna multidisciplinare nei luoghi del Municipio V, progetto realizzato con il sostegno del Ministero della Cultura – Direzione generale Spettacolo ed è vincitore dell’Avviso Pubblico-Lo spettacolo dal vivo fuori dal Centro -Anno 2022, promosso da Roma Capitale – Dipartimento Attività Culturali.

 Têtes de Bois

Il celebre Palco a Pedali ecosostenibile sarà installato nell’Anfiteatro Alessandrino. Il pubblico si alternerà sulle 100 biciclette per illuminare e amplificare musica, visioni, letture, acrobazie, rievocazioni storiche. Per iscriversi in qualità di pedalatori, [email protected].

Durante la serata si assisterà alla lezione di storia “La marcia su Roma spiegata ai ragazzi in cinque minuti”, i numeri di Circo Contemporaneo di Giacomo Costantini e Fabiana Ruiz Diaz (Circo El Grito) e di Paolo Locci, l’interpretazione dei Têtes de Bois di quattro canzoni “pop” della estate del 1922, gli interventi teatrali di Andrea Calabretta, pagine tratte dall’Ulisse di Joyce, da Siddharta di Hesse e dai Sonetti di Trilussa, tutti pubblicati cento anni fa, così come dal fondamentale libro di Emilio Lussu Marcia su Roma e dintorni e dal Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, ambientati nel 1922, saranno lette da Alessandro Mannarino, Alessandra Vanzi, Ascanio Celestini, Valentina Carnelutti, Miguel Gotor e diversi altri artisti. Le alunne e gli alunni di tre classi di scuola media dell’Istituto Mazzini, coordinati dal Prof. Enrico Castelli Gattinara doneranno i pensieri in libertà elaborati in questo avvio di anno scolastico: desideri sul tema del futuro, della bellezza, della libertà, del diritto al tempo perso e alla spensieratezza.

Ascanio Celestini (foto Cosimo Trimboli)

La serata sarà intervallata dai collegamenti con i marciatori e i ciclisti che, in direzione ostinata e contraria, percorrono a ritroso il cammino della marcia nera di 100 anni fa da Roma ad Assisi, da proiezioni di immagini a confronto delle due epoche e dei due mondi, a cura di Marco Delogu, Giulio Cederna e Mohamed Keitha, da strisce satiriche e disegni di artisti come Fabio Magnasciutti e altri. La camminata, iniziata il 22 ottobre si conclude il 30 ottobre, ad Assisi, luogo simbolo di pace ed è coordinata da Paolo Piacentini, presidente onorario di Federtrek (iscrizioni: [email protected]) lungo la meravigliosa Via Amerina. In tutto 196 chilometri con performance e incontri lungo il cammino.
Sulla stessa tratta alcune “staffette” in bicicletta in fuga dalla Capitale saranno in grado di ricongiungersi più volte ai camminatori. In particolare, con l’organizzazione Ciclogenitori i ragazzi potranno esplorare le bellezze dei luoghi che furono attraversati cento anni fa e assistere agli eventi organizzati lungo il percorso.

La Retromarcia prevede inoltre una sosta a Monterotondo, luogo significativo, vicino a uno dei principali punti di concentramento in prossimità del quale si è concretizzato il gesto che ha aperto la strada alle dittature europee e poi alla guerra, sabato 29 ottobre verrà raggiunto dall’arte. A Monterotondo gli artisti del Teatro Verde presenteranno “Scuola di Magia” alle ore 16.30, al Teatro Francesco Ramarini, in via Ugo Bassi. A seguire, in uno spazio antistante lo spettacolo di circo “Gustavo La Vita” di Andrea Farnetani.

Non poteva mancare il treno in questa Retromarcia. La marcia su Roma, infatti, per buona parte si è svolta in treno e in treno si tornerà in Retromarcia domenica 30 ottobre da Roma verso Assisi. Sarà allestito un vagone di Trenitalia in partenza da Roma Termini alle 10.05 che percorrerà la linea lenta. Sul treno ascolteremo i pensieri di ragazze e ragazzi della Scuola Giuseppe Mazzini assistiti dal Prof. Enrico Castelli Gattinara. Oltre alla lettura e all’ascolto di questi pensieri che fanno rumore, si affacceranno sul treno le voci al telefono e, in presenza, i volti di vari personaggi (scrittori, pedagogisti, pediatri, circensi, tutti convocati sul tema “Cosa era per te la libertà quando eri bambino?”). Tra loro, già certe le presenze dello scrittore e accademico Alessandro Portelli, dello storico e assessore alla Cultura del Comune di Roma Miguel Gotor, dell’operatore culturale Giulio Cederna, dei performer Gianluigi Capone, Emanuele Avallone, Daniele Spadaro del geologo e divulgatore scientifico Mario Tozzi, della band musicale dei Têtes de Bois, dello sceneggiatore e regista Toni Saccucci, autore del film La marcia su Roma, dell’organettista Alessandro D’Alessandro, che suonerà e racconterà che l’organetto in quegli anni, nell’Italia popolare semplice e paesana era, come è ancora oggi, lo strumento della festa e delle osterie.

L’evento-spettacolo finale avverrà presso “La Cittadella” di Assisi, sabato 30 ottobre alle ore 16. Alla stazione di Assisi si incontreranno artisti, gli altri passeggeri del treno, i camminatori, i ciclisti e i ragazzi della scuola Giuseppe Mazzini, dopo avere animato il percorso in treno Roma – Assisi con i loro racconti. Si salirà insieme verso la parte alta della città di Assisi. Alle 16,00, andrà in scena lo spettacolo La fisarmonica verde di e con Andrea Satta, con Angelo Pelini al piano, per la regia di Ulderico Pesce. La storia bellissima di un ragazzo sardo di Gallura (Gavino, il papà di Andrea) che si salvò da un campo di concentramento nazista con la complicità di una fisarmonica.

 

Ora la propaganda ricomincerà a gocciolare sangue

Pochi giorni fa due bambini sono morti carbonizzati su una barca partita dalla Tunisia verso Lampedusa. L’esplosione di una tanica di benzina ha bruciato un bambino e una bambina di uno e due anni. Gravemente ferita una donna. In tutto erano in 37. L’esplosione è avvenuta all’alba, mentre i migranti dormivano. Lo scoppio li ha presi alla sprovvista. «Quando sono saliti a bordo i militari italiani hanno trovato davanti ai loro occhi un girone dantesco: morti, ustionati con le carni sanguinanti, gente in lacrime», riportano le cronache.

Sabato una barca partita da Sfax, in Tunisia, si è ribaltata vicino all’isolotto disabitato di Lampione, parte dell’arcipelago che comprende Lampedusa. Una bambina di due settimane è scomparsa in acqua.

Secondo  La Sicilia, anche un’altra barca si è capovolta al largo della costa di Lampedusa nel fine settimana. A bordo di questa barca, ha riferito il giornale, c’erano una trentina di migranti. 22 uomini, tre donne e un minore sono stati salvati dalla Guardia di Finanza, ma quattro persone sono state segnalate disperse, tre uomini e una donna.

«Dobbiamo continuare a riaffermare la necessità di affidare i flussi migratori agli Stati e alla loro capacità di gestire questo fenomeno, e non all’azione dei trafficanti e nemmeno a quella dell’azione spontanea anche se umanitaria», ha detto il nuovo ministro dell’Interno Piantedosi a Il Messaggero.

Ieri Matteo Salvini ha sputato la foto mentre riceveva nell’ufficio del suo nuovo ministero membri della Guardia Costiera. Le sue competenze da ministro non sono ancora state definite ma il messaggio è chiaro: siamo tornati alla guerra ai migranti. Siamo ancora qui, nello spettro della propaganda che gocciola sangue. Nel balletto entrerà il Partito democratico che balbetterà per non disconoscere il suo ex ministro Minniti che con i suoi accordi con la Libia ha iniziato questo vortice dell’orrore. Balbetteranno quelli del Movimento 5 Stelle che hanno firmato con baldanza i Decreti sicurezza di Salvini (se ne sono pentiti, dicono). Intanto quelli moriranno e gli attacchi alle Ong ricominceranno.

Tutto intorno si alzerà quest’aria mefitica di razzismo spacciato per sicurezza. Questa volta ci saranno anche i cosiddetti moderati a rimestare il veleno. Eccoci qui.

Buon martedì.

Nella foto: l’arrivo a Lampedusa dei feriti dopo l’esplosione nella barca dei migranti in cui sono morti due bambini, 21 ottobre 2022 e la riunione di Salvini con i vertici della Guardia costiera (da fb Salvini), 24 ottobre 2022