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Le salvinate di Piantedosi

Sulla Ocean Viking di Sos Mediterranée, al largo di Malta, ci sono 234 persone. «Senza un posto sicuro, la salute dei sopravvissuti rischia di deteriorarsi», afferma la responsabile dell’équipe medica. Tra loro oltre 40 minori non accompagnati e diversi riportano segni evidenti di torture e violenze subite in Libia. «Nel primo tentativo di fuga dalla Libia la nostra barca si è rovesciata, 9 persone sono morte. Nostra figlia si sveglia ancora di notte, spaventata. Cerchiamo di aiutarla a dimenticare», raccontano Bassem e Hana, soccorsi con la loro figlia di 4 anni. La Geo Barents di Medici senza frontiere, che si trova a sud-est della Sicilia, ha a bordo 572 persone, compresi 66 minori. Sono 179 invece, dopo l’ultima evacuazione medica, sulla Humanity 1, al largo delle coste catanesi. Tra loro c’è un bimbo di appena 7 mesi. Decine di minori non accompagnati «soffrono particolarmente dello stress psicologico». L’hotspot di Lampedusa, ancora una volta, rischia il collasso: sono 1.221 gli ospiti del centro, che ne potrebbe contenere un massimo di 350.

Il ministro dell’Interno Piantedosi – ex capo di gabinetto di Matteo Salvini – si è affrettato a prospettare il divieto d’ingresso a due navi di organizzazioni non governative, Ocean Viking e Humanity 1, con una direttiva che ovviamente è stata subito sventolata dalla maggioranza di governo per agitare la favola dei “porti chiusi”. Una direttiva che nei fatti è carta straccia. Lo spiega perfettamente la giurista Vitalba Azzolini su Domani: «Per motivare la propria direttiva, Piantedosi ha detto di voler “riaffermare un principio: la responsabilità degli Stati di bandiera di una nave” che – a detta del ministro – sarebbe stato riconosciuto nel “famoso caso Hirsi”. Il richiamo a questo caso lascia perplessi. È vero che nella sentenza Hirsi (febbraio 2012) la Corte europea dei diritti umani aveva rilevato la responsabilità dello Stato di bandiera, l’Italia. Ma ciò in quanto, nel maggio 2009, il governo italiano si era reso autore di un respingimento illegittimo di un considerevole numero di profughi, in violazione del principio di non refolulement (Convenzione di Ginevra), dando l’ordine di trasportarli in Libia, ove la loro incolumità era messa a rischio, anziché in un porto sicuro- Dunque, la Corte non ha affermato il principio per cui lo Stato di bandiera della nave di soccorso è responsabile di fornire accoglienza e altro, come sembra affermare Piantedosi. Né la Corte avrebbe potuto farlo, ai sensi delle citate convenzioni internazionali, che ripartiscono le competenze tra gli stati: quello di bandiera deve esigere che il comandante di una nave “presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita quanto più velocemente possibile” (convenzione Unclos), mentre per il resto interviene lo Stato nella cui zona Sar è avvenuto l’evento critico».

Il gioco è fin troppo facile da indovinare: le Ong come colpevoli di un problema che non sanno (e non vogliono) risolvere. Ad oggi le Ong salvano all’incirca il 14% di tutti i migranti, la grande maggioranza arriva autonomamente e grazie alle operazioni di soccorso delle autorità italiane. Qualche giorno fa abbiamo visto il video girato a Tripoli Janzur, zona Syed. in cui un etiope di 17 anni viene torturato dalle milizie con scosse elettriche mentre altri gli puntano una pistola in testa chiedendo 10.000 dollari di valuta americana. «Ogni giorno, centinaia di persone vengono torturate per ottenere un riscatto perché siamo visti come una facile fonte di reddito», raccontano i migranti. Da due anni abbiamo in Italia sentenze che raccontano di come le prigioni finanziate anche dall’Italia siano luoghi di tortura, quando il gup di Messina ha condannato a 20 anni di carcere ciascuno Mohamed Condè, detto Suarez, 22 anni della Guinea, e con lui gli egiziani Ahmed Hameda, 26 anni, e Mahmoud Ashuia, 24. Come raccontò Nello Scavo: «Mohamed Condè si occupava di imprigionare i migranti, di torturarli e di ottenere i riscatti, richiesti ai familiari a cui venivano mostrate le orribili sessioni di tortura. Hameda svolgeva il ruolo di carceriere, torturatore e all’occorrenza cuoco per i prigionieri; Ashuia se lo ricordano perché quand’era di turno nella camera delle torture picchiava brutalmente anche utilizzando un fucile».

Il memorandum Italia-Libia rimarrà intatto. Mentre il governo libico premia con un encomio Abdurahman al-Milad, detto Bija, accusato dalla Nazioni Unite di traffico di esseri umani, crimini contro i diritti umani, contrabbando di petrolio e armi. Siamo tornati alla solita vigliaccheria (bipartisan) aggiungendoci la prevedibile propaganda. Non si trovano nemmeno più le parole per raccontarla.

Buon mercoledì.

Nella foto: il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi a Porta a porta, 27 ottobre 2022

Un governicchio da paesello

Negli ultimi giorni abbiamo assistito a un tilt di comunicazione e di politica che ha apparecchiato una diretta urgente su un rave party come se fosse un’urgenza nazionale. Ne esce un Paese completamente fuori fuoco che inverte le priorità e si accomoda sul delirio generale: giornalisti che si sentono inviati di guerra mentre intervistano ragazzetti storditi dall’alcol e dal fumo, politici con il piglio da prefetto Mori mentre esultano come se avessero eradicato le mafie in Italia, editorialisti che scrivono accigliati sull’antropologia del rave mentre frequentano circoli che sprofondano nella cocaina.

Giorgia Meloni, che non è ancora uscita dalla modalità della campagna elettorale, riunisce il Consiglio dei ministri giusto il tempo per presentarsi di fronte alle telecamere e annunciare una nuova legge ad hoc per evitare accampamenti alcolici. Per farlo si va a toccare il reato di “invasione di terreni o edifici, pubblici o privati” prevedendo la reclusione da 3 a 6 anni. Viva la legalità, esultano in molti. Sarà.

Dalla conferenza stampa sappiamo che l’opposizione all’opposizione e al governo precedente si rinforza con la decisione di reintegrare i medici non vaccinati e annunciando “discontinuità” con i governi precedenti. Su questo scrive bene la fondazione Gimbe: «Il potenziale impatto in termini di sanità pubblica sarebbe modesto – spiega la Fondazione – sia perché la misura viene anticipata di soli due mesi rispetto alla scadenza fissata, sia perché riguarda un numero esiguo di professionisti».

«Ben diverso – rileva il presidente della Fondazione, Nino Cartabellotta – l’impatto in termini di percezione pubblica di questa “sanatoria” e delle relazioni con la stragrande maggioranza dei colleghi che si sono vaccinati per tutelare la salute dei pazienti e la propria, anche al fine di garantire la continuità di servizio. Peraltro, al di là di una scelta individuale incompatibile con l’esercizio di una professione sanitaria, si tratta di persone che hanno spesso seminato disinformazione pubblica sui vaccini, elevandosi a “paladini” del popolo no-vax, a volte con evidenti obiettivi di affermazione politica individuale».

Altro? Hanno approvato una norma che sarebbe passata, identica, con il governo Draghi. Dice Giorgia Meloni che le misure sono altamente “simboliche”, confermando in toto la sensazione di uno sventolio propagandistico che non ha nulla a che vedere con i “reali bisogni urgenti” del Paese. Su bollette, crisi energetica, guerra e povertà niente. Matteo Salvini, che per tutta la campagna elettorale ha promesso di risolvere i “problemi reali” al primo Consiglio dei ministri, ieri ha parlato agli italiani del ponte sullo Stretto dei suoi sogni. In compenso l’infornata di sottosegretari e viceministri fotografa perfettamente la spessore del governo. Basta leggere i nomi.

Dategli tempo, si dice. Intanto segnaliamo che la partenza è da governicchio di paesello.

Buon martedì.

 

* In foto, la conferenza stampa della premier Giorgia Meloni al termine del consiglio dei ministri. Assieme a Meloni, i ministri Orazio Schillaci, Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e il sottosegretario Alfredo Mantovano. Roma, 31 ottobre 2022 

Fratoianni: Vietato dissentire. Il governo Meloni si presenta

Proprio mentre Giorgia Meloni si insediava a Palazzo Chigi, la polizia prendeva a manganellate alcuni studenti che contestavano pacificamente un convegno organizzato da esponenti di destra all’interno dell’Università di Roma La Sapienza. Vietato contestare. Intanto il governo Meloni non interviene sul raduno dei nostalgici del Duce a Predappio e introduce un nuovo reato, quello di invasioni di terreni, un reato penale che può costare anche sei anni di carcere. Varato per impedire rari e pacifici rave party, potrebbe essere applicato in molte altre occasioni. “Hanno usato il pretesto del contrasto ai rave per inserire norme con pene pesantissime che potranno essere utilizzate in ben altri contesti. Una decisione rischiosa e pericolosa, che avvelena ulteriormente il clima sociale e politico del Paese”, dice il segretario di Sinistra italiana. Abbiamo incontrato il deputato dell’Alleanza Rosso verde e segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, per fare il punto sull’arretramento politico e culturale che l’Italia rischia con il governo Meloni sul versante dei diritti civili e sociali.

Onorevole Fratoianni gli studenti avevano tutto il diritto di dire la loro. O no?
Sì assolutamente. A me pare che quel che è accaduto in Sapienza a Roma, sia molto grave. Penso sia un pessimo segnale. Le forze dell’ordine in tenuta anti sommossa chiamate dalla rettrice hanno caricato pesantemente gli studenti che a mani nude, pacificamente stavano manifestando legittimamente. Non c’è alcun elemento che possa rendere non dico giustificabile, ma comprensibile, un intervento così violento da parte delle forze dell’ordine. Abbiamo chiesto spiegazioni, depositeremo una interrogazione non appena l’ufficio del sindacato ispettivo sarà operativo fra una quindicina di giorni. Aspettiamo che il ministro dell’interno Matteo Piantedosi, che solo un anno fa, da prefetto, non aveva in alcun modo impedito che avesse luogo l‘assalto alla Cgil (peraltro annunciato), venga in Parlamento a spiegare le ragioni di quello che è accaduto.

Come valuta le prime mosse del Governo Meloni?
Preoccupano i primi atti di questo governo. A cominciare dalla scelta dei presidenti delle Camere, Ignazio La Russa ( Fratelli d’Italia) e Lorenzo Fontana (Lega), volti estremi di questa destra. Colpisce anche il modo in cui sono stati ribattezzati alcuni ministeri chiave. Dal ministero della scuola sparisce la parola “pubblica” e si aggiunge la parola merito. Il ministero economico diventa ministero delle imprese oltre che della sicurezza energetica. L’istituzione del ministero della famiglia e della natalità e il discorso di insediamento della presidente del consiglio Giorgia Meloni hanno lo stesso carattere, quello di un manifesto ideologico, identitario che – almeno in questa prima fase- sembra annunciare al Paese una brutta stagione. Se riguardo alla materia economica si annunciano margini molto stretti di manovra vista la congiuntura e perfino la continuità con le scelte del governo Draghi tutta l’attenzione (e forse anche l’iniziativa) si concentra sul fronte della battaglia ideologica di destra. Accade in Italia quel che è accaduto in varie parti del mondo: la destra arriva al governo e fa fino in fondo la destra sul piano simbolico e identitario.

Il ministro Roccella non potrà mettere mano alla 194, ma sappiamo della sua opposizione all’aborto farmacologico con la Ru486, conosciamo le posizioni ultra cattoliche di Mantovano sul fine vita. Sappiamo delle posizioni integraliste di Fontana sulla famiglia. Si rischia un arretramento sul piano dei diritti delle donne, dei diritti civili che poi non sono mai disgiunti da quelli sociali L’opposizione come si prepara a dare battaglia?
C’è un rischio concreto di restringimento dei diritti. Del resto sta nel programma della destra. Giorgia Meloni ha detto più volte che non toccherà la legge sull’interruzione di gravidanza. Per fortuna, ci viene da dire. Ma constatiamo che sono molte le Regioni in cui la 194 è messa in discussione di fatto, anche a causa di medici obiettori nelle strutture pubbliche. Ora chiunque si occupi di queste materie sa che il potere pubblico non vigila a sufficienza perché nelle strutture pubbliche sia garantito il servizio. In questo modo il diritto all’aborto viene messo in discussione in modo molto pesante. Nella sua prima intervista la ministra Roccella si dice quasi dispiaciuta che ci sia una legge che consente l’aborto, che a suo avviso non è un diritto. Il conto è presto fatto. Credo anche io che i diritti civili e diritti sociali non possano essere visti come due dimensioni separate, tanto meno gerarchizzate, e penso che di fronte a tutto questo occorra una opposizione molto forte.

Ma l’opposizione appare divisa…
Non c’è dubbio che lo stato dell’opposizione non sia brillantissimo: pesano le divisioni della campagna elettorale, non c’è stata la composizione di un fronte sarebbe stato necessario, perché quanto meno fosse una partita giocabile. Ora occorre che almeno su alcuni temi le opposizioni si assumano la responsabilità di costruirlo il Parlamento e fuori. Solo così possiamo fare una efficace opposizione a questo governo. Questo vale per i diritti civili, vale anche per l’assetto costituzionale del Paese contro il presidenzialismo e contro l’autonomia differenziata; vale per le scelte economiche e sociali più rilevanti.

Mentre si va verso il rinnovo automatico degli accordi con la Libia, il ministro dell’Interno Piantedosi torna a criminalizzare le Ong, riprendendo un percorso purtroppo cominciato con Minniti e che toccò l’acme con Salvini e i decreti sicurezza che lo stesso Piantedosi da capo di Gabinetto contribuì a scrivere. Siamo punto e daccapo?
Anche su questo rischiamo un ritorno indietro, nei toni, nei linguaggi, anche perché nella sostanza, elementi di radicale discontinuità ne abbiamo visti pochi: le politiche dell’immigrazione soffrono di una impressionante continuità ed anche di una impressionante trasversalità. Al tempo del governo Gentiloni, Minniti fu autore del Memorandum Italia Libia che il 2 novembre si rinnova automaticamente. È la piattaforma attorno alla quale sono state rifinanziate le missioni di cooperazione con la cosiddetta guardia costiera, la piattaforma su cui si è costruita la legittimazione di una politica illegittima anche dal punto di vista dei trattati internazionali. Parlo di politiche di respingimento che hanno costretto centinaia di migliaia persone alla carcerazione nei lager libici e che implicano la negazione dei diritti umani.

Come si può intervenire, in Parlamento e fuori?
Occorre intensificare il lavoro che in questi anni è stato fatto in modo trasversale. Noi per primi lo abbiamo attuato opponendoci in Parlamento ad ogni decisione che andava nella direzione di un ulteriore restringimento delle vie d’accesso al Paese, a una criminalizzazione delle Ong: da un lato sono chiamate alla supplenza rispetto a un ruolo di ricerca e soccorso che dovrebbe essere garantito dalle istituzioni statuali e sovra nazionali, innanzitutto europee. Dall’altro lato sono criminalizzate oggetto di una vera e propria guerra. In Parlamento e nella società civile noi abbiamo sostenuto concretamente, anche sul piano materiale la nascita di organizzazioni, la messa in mare di imbarcazioni come la Sos Mediterranea, abbiamo praticato le vie del mare.

Lei stesso è stato più volte in missione su Open arms e sulla Mar Jonio, con quale risultato?
Sì abbiamo partecipato a quelle missioni e siamo saliti sulla Sea Watch, quando era ancorata fuori da Lampedusa e per giorni e giorni costretta ad una attesa insopportabile, con centinaia di migranti a bordo. Non era la prima volta, Abbiamo cercato di mettere in pratica una alternativa, in assenza di una adeguata risposta pubblica,  anche di resistenza sul piano materiale. Dobbiamo continuare a farlo, dobbiamo intensificare questo lavoro. Abbiamo costruito da tempo in Parlamento una rete di parlamentari che, anche trasversalmente rispetto alle forze politiche dell’attuale opposizione, ha assunto su questo fronte iniziative molto incisivo e radicale. Questa rete va consolidata. Concretamente qualche giorno fa eravamo con altri parlamentari al presidio organizzato all’Esquilino a Roma da associazioni contro il Memorandum, continueremo su questo fronte a batterci come abbiamo sempre fatto.

Il governo Meloni intende porre una pietra tombale sulla transizione ecologica. In continuità, del resto, con il governo Draghi. Non a caso l’ex ministro Cingolani resta in veste di consulente del neo ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Pichetto Fratin. L’alleanza rosso verde comprende sinistra italiana e i verdi, quali sono le vostre proposte?
Non c’è dubbio che questo governo provochi su questo fronte un ulteriore rallentamento. Ogni rallentamento è un drammatico passo indietro sul fronte della transizione ecologica. È molto evidente, lo dice la scienza, siamo molto oltre il limite del consentito. Giorgia Meloni si è presentata in Parlamento invocando la ripresa delle trivellazioni nel mare Adriatico. Ha fatto esplicito riferimento al nostro gas e alla necessità di utilizzarlo. Questo governo è in linea anche su questo con la destra internazionale, è il governo amico di Trump, che di fronte all’innalzamento del livello degli oceani dice: al massimo avremmo più case vista mare. Di fronte a questa dimensione cieca della politica, occorre mettere in campo un doppio movimento. C’è una iniziativa parlamentare. Presenteremo a breve una legge sul clima, una legge quadro che vincoli le scelte pubbliche ad ogni livello, non solo quello nazionale, ma anche degli enti locali; che vincoli a scelte collegate agli obiettivi di contrasto al cambiamento climatico. Torneremo a batterci contro il consumo di suolo.In Italia il consumo di suolo procede a ritmi più sostenuti rispetto agli altri Paesi europei. Dovremo lavorare perché la presenza delle opposizioni, a cominciare dalla nostra, sia strumento funzionale alla mobilitazione nel nostro Paese, facendo riferimento alla mobilitazione dei Fridays for future, e alla grande sensibilità delle giovani generazioni che prende corpo intorno al tema della lotta alla crisi climatica e per la conversione ecologica delle nostre economie.

Veniamo al tema della pace, il 5 novembre ci sarà una grande manifestazione. È un’occasione anche per costruire una tessitura con forze come M5s stelle che ora si attestano la battaglia su questo tema anche se sono state ondivaghe in passato. Ma soprattutto come costruire un iniziativa diplomatica per arrivare al cessate il fuoco e a costringere Putin e Zelensky a sedersi a un tavolo?
Penso che quello del 5 novembre sia un appuntamento di straordinaria importanza, un ritorno a una grande mobilitazione nazionale di piazza intorno a un tema, quello della pace, che è stato a lungo espulso dal dibattito pubblico. Perfino criminalizzato. Abbiamo assistito a un rovesciamento di senso. La pace come resa, i pacifisti come amici di Putin, quando gli amici di Putin come abbiamo visto anche durante la formazione del governo Meloni sono sempre stati nella maggioranza di destra, lo sono per ragioni economiche, politiche, culturali. Putin è un uomo di destra, non è una novità. La Russia di Putin ha sostenuto, finanziato da ogni punto di vista i partiti di destra in tutta Europa. Gli amici di Putin andavano cercati lì, non certo nelle file dell’Anpi, dell’Arci, non fra chi come noi, in Parlamento e fin dal primo minuto e senza esitazione si è schierato contro l’escalation delle armi, prendendo le distanze da chi afferma che si possa intervenire esclusivamente per via militare e fino ad esaurimento delle forze in campo.

Su questo la piattaforma del 5 novembre si esprime chiaramente.
Io penso che sia doveroso, come fa la piattaforma della manifestazione, esprimere un giudizio molto netto su quello che è accaduto e accade in Ucraina, sul fatto che c’è un aggressore e un aggredito, la Russia ha aggredito in modo inaccettabile un Stato sovrano e l’Ucraina è vittima di questa aggressione, ma occorre contestualmente, con altrettanta forza e fermezza dire che il primo strumento per aiutare le vittime di questa aggressione è la ricerca di una via di uscita diplomatica e pacifica dal conflitto Perché la via d’uscita misurata solo sul conflitto militare è una soluzione che non esiste di fronte a una potenza nucleare. La via bellica non può che aggravare, esasperare la sofferenza di chi vive quotidianamente sotto le bombe. Aggiungo che le conseguenze economiche sociali che la guerra determina sono ogni giorno più gravi e come sempre si abbattono sui più fragili, sui civili in modo più duro di quanto non avvenga sui soldati. Le conseguenze economiche del conflitto si abbattono sui ceti popolari, più deboli, in ogni società, come sta avvenendo in questi giorni nel nostro Paese. Da questo punto di vista sono molto contento che sia cresciuto un fronte pacifista che sostiene questa iniziativa a cominciare dai M5stelle. Vedo anche crescere nel Pd una articolazione di posizioni. Non mi interessa ribadire di essere stato il primo e per lungo periodo anche l’unico ad aver sostenuto questa posizione in Parlamento. Ma credo che a maggior ragione su questo occorra costruire elementi di convergenza in grado di rendere più forte la parola pace e una iniziativa che chiede all’Europa un impegno e anche al resto del mondo. Parlo dell’Europa in primis perché rischia di essere in prospettiva la prima vittima di un conflitto.

Non solo il tema della pace ma anche quello delle disuguaglianze è stato trascurato in campagna elettorale insieme a quello della precarizzazione del lavoro. Intervistato da Left il segretario del Pd, Letta, ha ammesso: «Sul Jobs act abbiamo sbagliato dobbiamo abolirlo». Forse lo ha detto troppo tardi? È difficile riconquistare la fiducia di giovani che si sono visti precarizzati da provvedimenti di centrosinistra…
Io credo che in questo caso il Pd abbia pagato un inevitabile prezzo di credibilità. Perché occorre costruire, ricostruire anche in modo faticoso una relazione fra ciò che si dice e ciò che si fa. Anche in questo caso quando il Jobs act è stato proposto e approvato noi abbiamo combattuto contro quella scelta e abbiamo fatto della lotta alla disuguaglianza il cuore della nostra iniziativa. La stessa alleanza Verdi Sinistra italiana nasce dall’idea che il rapporto fra giustizia sociale e giustizia sociale sia un rapporto inseparabile, un po’ come avviene per i diritti civili e i diritti sociali. Oggi la disuguaglianza assume dimensioni sempre più insopportabili nel Paese, aggravate dall’inflazione che tocca il 12 per cento, livello impressionante e che mangia potere d’acquisto a salari e pensioni. E in più di qualche caso, come è accaduto per i salari negli ultimi trent’anni (caso unico quello dell’Italia in Europa) camminano perfino all’indietro. È arrivato il momento di una iniziativa che da un lato lavori per redistribuire risorse attraverso la leva fiscale, dall’altro per porre di nuovo all’ordine del giorno il tema un meccanismo che garantisca l’aggancio di salari e pensioni al costo della vita, dunque all’inflazione. Tornare a parlare di scala mobile o altri meccanismi che abbiano quel tipo di filosofia, è a mio avviso non solo è possibile, non solo opportuno, ma è necessario.

«No al rinnovo degli accordi Italia-Libia sui migranti». La società civile alza la voce

L’Italia ha tempo fino al prossimo 2 novembre per decidere la revoca del Memorandum d’intesa Italia-Libia sull’immigrazione; per questo motivo, negli ultimi giorni, associazioni, organizzazioni e realtà della società civile impegnate nel difendere i diritti dei migranti hanno lanciato iniziative e appelli per chiederne l’abrogazione.

L’accordo, siglato nel febbraio 2017 dall’allora presidente del consiglio Gentiloni e dal suo omologo libico Fayez al-Sarraj, si rinnova automaticamente ogni tre anni e si pone in continuità con i precedenti trattati con la Libia (il Trattato di amicizia del 2008, siglato da Berlusconi e Gheddafi, e la Dichiarazione di Tripoli del 2012): prevede, infatti, la cooperazione «per individuare soluzioni urgenti alla questione dei migranti clandestini che attraversano la Libia per recarsi in Europa via mare, attraverso la predisposizione dei campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei Paesi di origine».

Il punto è che le autorità libiche, compresa la sedicente Guardia costiera del Paese nordafricano, si sono macchiate di numerosi e sistematici crimini a danno dei migranti, dentro e fuori da quei “campi di accoglienza temporanei” assai simili a dei lager per esseri umani “di serie B”.

La missione conoscitiva sulla Libia del Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha segnalato la mancanza di stabilità politica nel Paese – che dal 2011, anno della caduta del dittatore Muammar Gheddafi, è dilaniato dalla guerra civile e in balia di gruppi armati e la persistenza di crimini contro l’umanità, raccogliendo più di 80 testimonianze di migranti «soggetti a violazioni dei diritti umani sistematiche». Fin dal suo primo report, le indagini della missione hanno confermato casi di omicidi, riduzione in schiavitù, tortura, reclusione, stupro e altre azioni inumane condotte a danno dei migranti.

I migranti presenti nel Paese vivono in una situazione di costante insicurezza e i problemi per loro non finiscono in quelli che le associazioni umanitarie definiscono “lager libici”: «I migranti che aiutiamo giunti qui dalla Libia – spiega a Left Alice Basiglini, volontaria di Baobab experience, associazione romana che assiste migranti in transito – principalmente di origine eritrea e sudanese, hanno tutti vissuto esperienze più o meno sfortunate, legate al tipo di centro detentivo dov’erano inseriti, alla durata la permanenza obbligatoria in quei luoghi, a quante volte sono stati truffati, venduti e rivenduti sul mercato degli schiavi, a quante volte hanno subito violenze anche fuori dai lager libici, dai centri detentivi ufficiali e non ufficiali, nelle strade, in abitazioni private».

Le violenze nei confronti della popolazione migrante, i raid continui soprattutto nelle città libiche e nelle loro periferie, sottopongono sistematicamente le persone migranti a una situazione di forte pericolo e rischio. «Il lager è solo una delle dimensioni di un inferno che è un inferno globale – riprende Basiglini -. Stiamo attualmente lavorando all’evacuazione di tre donne, una mamma con due figlie. Una delle figlie aveva già avuto un’esperienza orribile nel lager. Sono state derubate e abusate in un appartamento privato».

 

L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) ha calcolato che nel periodo tra maggio e giugno del 2022 in Libia erano presenti circa 667.440 migranti di 41 nazionalità diverse, un dato in aumento rispetto ai mesi precedenti, anche a causa dell’arrivo nel Paese di lavoratori stagionali, il 65% dei quali poi invia denaro alla propria famiglia perché sopperisca a bisogni alimentari. Questi migranti sono, nella maggior parte dei casi, irregolari, e «tanto l’ingresso irregolare in Libia quanto l’intento di lasciarla clandestinamente sono considerati motivi di detenzione per la legge libica», come recita il rapporto Out of Lybia, rilasciato lo scorso 20 giugno da Medici senza frontiere.

«Quello che succede è che, finita la traversata del deserto e giunti in Nord Africa, molti migranti vengono ingannati e venduti come schiavi – spiega ancora la volontaria di Baobab experience -. Quando hanno lavorato abbastanza per pagare la propria libertà e dovrebbero imbarcarsi, possono incorrere in rapimenti, o per essere reinseriti nel mercato degli schiavi oppure per una richiesta di riscatto. I trafficanti sanno che gli eritrei, ad esempio, generalmente hanno maggiore disponibilità economica, quindi sono più esposti al ricatto. Per i sudanesi è diverso, perché spesso non possono pagare la propria libertà, quindi la “pagano” con la schiavitù. Le persone possono venire rapite, incarcerate e rivendute anche più e più volte».

Secondo quanto dichiarato nel novembre 2021 dalla missione indipendente del Consiglio Onu per i Diritti umani, i migranti possono subire fino a dieci volte questo ciclo di incarcerazioni e ricatti; quando poi riescono a imbarcarsi per tentare la traversata del Mediterraneo, qualora la sedicente Guardia costiera libica li intercettasse, il ciclo ricomincerebbe da capo.

Dal 2017 all’ottobre 2022 sono state quasi centomila le persone intercettate in mare dalle autorità libiche e riportate indietro, anche grazie ai finanziamenti italiani ed europei: secondo la Ong ActionAid, che ha realizzato, in collaborazione con IrpiMedia, il progetto The big wall, dei 1,3 miliardi di euro spesi dall’Italia tra il 2015 e il 2020 per “l’azione esterna migratoria” – in cui si annoverano progetti di cooperazione, finanziamento di posti di polizia, voli di rimpatrio, centri di formazione, acquisto di droni, satelliti, navi, ecc. – più di 459 milioni di euro sono stati destinati alla Libia.

«La libertà di movimento non può essere un privilegio del primo mondo. Le persone partono da sempre, si vogliono muovere e si muovono. Cambiano rotta, come è avvenuto nei Balcani. Tu alzi un muro? Trovano un’altra strada – torna a dire Basiglini -. Si è costruito un mondo in cui una parte delle persone può muoversi liberamente, andare dove vuole, mentre l’altra deve stare a casa propria. Anche se non stanno morendo di fame, di carestie o per le guerre, perché non possono provare anche loro a cambiare la propria esistenza, come fanno migliaia di ragazzi italiani che vanno a studiare o a lavorare all’estero?»

I fondi per la cooperazione, aggiunge la volontaria del Baobab – sostengono una politica «figlia della retorica dell’“aiutiamoli a casa loro”». «Non rendere legali le vie di accesso – prosegue – non significa bloccarle, ma semplicemente criminalizzare l’immigrazione. Ed è quello che abbiamo visto fino adesso: non hai bloccato i flussi, hai fatto morire le persone».

Tali prassi di stampo repressivo nei confronti del fenomeno migratorio sono state peraltro di diverso segno politico. «Non c’è stata una vera e propria contro narrazione – riprende Basiglini -: una parte della politica ha fatto della caccia al migrante e dei respingimenti la propria bandiera, l’altra ha taciuto, portando avanti lo stesso identico paradigma, magari evitando di ridurre ulteriormente gli spazi di tutela, magari evitando di togliere la protezione umanitaria, però nessuno ha messo mano all’impalcatura fondante creata da Gentiloni e Minniti. E speriamo che adesso non peggiori».

Il progetto Missing migrants dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha calcolato che sono 25.106 i migranti dispersi nel Mediterraneo dal 2014, più di mille solo nel 2022. Nella tratta del Mediterraneo centrale sarebbero morte, sempre dal 2014, oltre 20mila persone, un dato che non tiene conto dei cosiddetti “naufragi invisibili”, navi scomparse senza lasciare traccia, impossibili da conteggiare.

 

* In foto, un sit-in di Amnesty International contro gli accordi Italia-Libia in materia di immigrazione davanti alla Farnesina. Roma, 2 febbraio 2022

Bolsonaro e la destra che perde quando governa

Lula è tornato. A 77 anni, dopo essere stato perseguitato, incarcerato, diventa presidente del Brasile per la terza volta. È il primo presidente del Brasile che riesce a farsi eleggere per tre volte (se teniamo conto delle elezioni “democratiche”) e si ritrova a governare un Brasile lacerato, con una maggioranza risicatissima che lo costringerà a mediare verso il centro per riuscire ogni volta ad avere la maggioranza al Congresso.

«Hanno cercato di seppellirmi vivo ma sono risorto. Oggi l’unico vincitore è il popolo brasiliano. Sarò il presidente di tutti: riuniamo la famiglia». Bolsonaro, mentre scrivo questo pezzo, ancora questa mattina, ritarda più possibile il riconoscimento dell’avversario, asserragliato nel palazzo presidenziale pronto a rilanciare i sospetti di brogli di voto. Anche in questo è la fotocopia del suo amico Trump, incapace di riconoscere la sconfitta e bisognoso di complotti per riuscire ancora una volta a mistificare la realtà.

Un’altra ombra di diavolo che sta nei dettagli è quell’unico Paese del G7 che adesso, alle 8 e 16 minuti, non si è ancora complimentato con il nuovo presidente del Brasile: noi. Non stupisce questa questa timidezza: c’è nella sconfitta di Bolsonaro tutto l’impianto della destra sovranista che avrebbe dovuto conquistare il mondo e invece raccoglie macerie. C’è il complottismo su Covid e vaccini che in Brasile ha provocato la rabbia tra la gente. Fatti documentati nelle 1.200 pagine del rapporto realizzato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta (Cpi) del Senato che accusa il presidente Jair Bolsonaro di undici reati per la pessima gestione della pandemia da Covid-19 in Brasile. I reati si dividono in tre categorie: crimini comuni, crimini di responsabilità e crimini contro l’umanità. Nei guai anche i suoi figli e altre 64 persone. Nella tragedia della pandemia circa 600mila brasiliani hanno perso la vita: secondo il report, 300mila morti potevano essere evitate se il negazionismo del governo non avesse prevalso.

C’è l’antiambientalismo che ha distrutto l’Amazzonia. La deforestazione nel 2021 è stata la peggiore degli ultimi 15 anni. Il governo del presidente Jair Bolsonaro non solo non è riuscito a frenare le attività criminali ma ha cercato di legalizzarle, in modo che potessero svolgersi con meno ostacoli. Bolsonaro ha infatti tagliato i fondi per numerose agenzie ambientali e ha messo da parte l’Ibama, l’Istituto brasiliano per l’ambiente e le risorse naturali rinnovabili, incaricando invece i militari brasiliani di combattere i crimini ambientali.

C’è l’opposizione all’opposizione. Bolsonaro ha passato gli anni del suo governo ad attaccare i suoi avversari politici rendendosi debole di fronte ai brasiliani: se governate che vi strizzate a fare per delegittimare gli avversari? L’opposizione all’opposizione da parte di chi governa inevitabilmente appare come uno spreco di energie. C’è poi la strumentalizzazione della religione usata come cappio per frenare i diritti civili. C’è dunque l’amore per i ricchi, soprattutto quelli furbi. Dai, non è difficile capire cosa ci sia di fortemente italiano nella sconfitta di Bolsonaro, dopo quella di Trump.

Buon lunedì.

La dimensione fantastica della Sicilia. Alla scoperta della Grotta del tono

«L’intera Sicilia è una dimensione fantastica. Come si fa a viverci senza immaginazione?». Con queste parole lo scrittore, giornalista, e saggista Leonardo Sciascia descriveva la sua terra d’origine cercando, in poche parole, di darne una efficace descrizione in grado di trasmettere la ricchezza di un’isola dove da sempre realtà, mito, e leggenda sono riusciti a fondersi in una sintesi unica.
Dalla storia di Scilla e Cariddi, passando per le imprese della saga dei pupi, fino ad arrivare alle indagini del commissario Montalbano, la Sicilia è uno dei luoghi prediletti dove la fantasia e l’immaginazione prendono vita in forme sempre nuove e inaspettate, e dove, come nella storia di questo articolo le idee riescono a trasformarsi anche in un progetto di architettura.
Il SicilyLab, nato dal 2007 da un’idea di Antonino Saggio – docente di composizione architettonica alla Sapienza di Roma e siciliano di origine -, è un collettivo di persone (il nITro group),in buona parte professori e studenti architettura provenienti da varie parti del mondo, interessate alle tematiche dell’ambiente, dello spazio pubblico e della sperimentazione di tecnologie informatiche che si riuniscono, tra agosto e settembre di ogni anno a Gioiosa, nella casa dei Saggio. 
Il gruppo negli anni ha visto avvicendarsi una serie di giovani oggi affermati professionisti e docenti universitari in varie università straniere. Nonostante le tante individualità che lo hanno composto, quello che il SicilyLab non hai mai perso è stata la volontà ogni anno un di dare a Gioiosa una parte della sua fantasia creativa sia sotto forma di progetto, installazione, o di concorso di idee per la rivalutazione degli spazi abbandonati nella cittadina siciliana. Dopo due anni di inattività, a causa della pandemia globale, quest’anno il gruppo è tornato a riunirsi per i consueti dieci giorni con la finalità di regalare un nuovo progetto alla città.
L’installazione interattiva MetaTono è il risultato di questo 2022 di intenso lavoro cominciato in fase preliminare a Roma e poi concluso in Sicilia all’inizio di settembre. Come tanti precedenti progetti, anche Metatono si lega fortemente alla Sicilia e in particolare alla storia fisica e urbana di Gioiosa Marea scegliendo un suo luogo dove fare in modo che il progetto si materializzi e poi scompaia nel giro di 48 intense ore tra costruzione montaggio e smontaggio. Oggetto di studio questa volta è stata La grotta del Tono, un sito di notevole interesse geologico e antropologico, i cui reperti sono conservati nel museo della città, eppur poco conosciuta e visitata non solo dai turisti ma anche dai cittadini stessi. La grotta, localizzata a circa 10m sul livello del mare, è uno spazio sotterraneo di formazione calcarea di circa 200 m2 che si snoda in tre cavità comunicanti che vantano la presenza di numerose stalattiti e stalagmiti. Le prime cronache riguardo la sua esistenza ci rimandano al XIX secolo ma è solamente intorno agli anni Ottanta del 1900 che avvengono le prime campagne di scavo ed il ritrovamento di numerosi reperti di età preistorica in esso contenuti.
Proprio la mancanza di conoscenza da parte delle persone per la grotta è stata la scintilla che ha dato il via al progetto e portato il gruppo ad immaginare una possibile strategia per portare nuovamente la comunità dentro le sue grotte. 
L’intervento, realizzato dal Sicilylab, è stato di due tipi: uno tradizionale, formato da manufatti, disposti all’interno dei cunicoli, per accrescerne la curiosità e le suggestioni; l’altro, virtuale, situato all’esterno, per avere l’emozione di entrare nella grotta e di conoscerla senza farlo fisicamente. Quest’ultimo è stato possibile grazie alla realtà virtuale e alle possibilità offerte dal Metaverso: un mondo virtuale e immersivo accessibile grazie a “protesi” digitali come gli occhiali e visori 3D.
Grazie a questi ultimi, un modello tridimensionale – fedele alle grotte originali – è stato realizzato e messo a disposizione dei visitatori che hanno potuto, grazie a stimoli visivi e sonori, avere la sensazione di visitare e muoversi veramente all’interno del sottosuolo, andando così a scoprire la magia nascosta di quegli spazi per troppo tempo dimenticati dalla comunità. Anche il processo stesso di lavorazione è stato reso possibile grazie alle potenzialità offerte dagli strumenti digitali: l’esperienza virtuale è stata realizzata in collaborazione con un team di esperti della POLIS University di Tirana attraverso un network di reti digitali che ha visto in Gioiosa Marea il fulcro. Oltre alla realtà virtuale, è stata realizzata una grande tenda rossa chiamata ‘Meta’, con rami di palma annodati tra loro in triangoli ricoperti da tessuto riciclato e colorato, sul belvedere sopra l’entrata alla grotta accompagnato da un grande strascico di panno bianco a sottolinearne l’accesso. La tenda, pensata come costruzione nomade e memoria delle formazioni rocciose della grotta sottostante, ha rappresentato, grazie ai visori 3D al suo interno, una porta su un mondo sotterraneo accessibile solamente grazie alla magia contenuta al suo interno (e allo stesso tempo la zona “operativa” per il funzionamento degli Oculus).
L’inaugurazione è avvenuta in due momenti distinti come un percorso processionale di scoperta dei segreti del sottosuolo: una prima cerimonia esterna seguita poi da una serie di visite guidate grazie anche ai volontari della Protezione civile di Gioiosa che hanno accompagnato i partecipanti in un tour della grotta.
Come già sottolineato, l’idea di base dell’intero lavoro è stata mossa dalla volontà di utilizzare le possibilità dell’Informatica a favore del reale: non come una sua sostituzione, ma per affermare la centralità di ogni esperienza fisica, essa solo cognitiva e in questo caso anche emozionale, e come motore in grado di coinvolgere attivamente la comunità in cui il progetto si inserisce. 
Anche Metatono, come altri progetti del SicilyLab, è stato un dono alla città di Gioiosa. I suoi pezzi come tante altri lavori del gruppo nITro e del SicilyLab sono ora custoditi nella galleria d’arte del professor Saggio sul corso principale della cittadina pronti ad essere conosciuti da chi si trovi a passare il prossimo anno, quando qualcosa di nuovo forse accadrà. www.nitrosaggio.net/metatono/
Foto: Alessandra Antonini, SicilyLab 2022

Le vite ai margini di Emmanuelle Pagano

Molto più che un romanzo, una raccolta di racconti si configura come un insieme di storie capaci di offrire compagnia, di affollare i nostri spazi con una popolazione variegata di personaggi. Le storie permettono di entrare in contatto con il mondo e con tutta la sua molteplicità, con la varietà che lo colora, permettono di prendere confidenza con quanto, magari, nella vita là fuori ci sembra sospetto, temibile, imprevedibile o solo trascurabile. La raccolta di Emmanuelle Pagano, Una volpe a mani nude (L’Orma editore), con la scrittura gentile che la caratterizza, declina questa esperienza nel senso della compassione, della commozione, della malinconia: i suoi racconti mettono il lettore in diretta comunicazione con figure marginali, inquiete e inquietanti, sole, ai limiti del nostro mondo ma, al contempo, a noi assolutamente presenti se solo ci sforziamo di volgere attorno a noi uno sguardo un po’ più solerte.

Una volpe a mani nude è una raccolta di 34 racconti che si intrecciano l’uno con l’altro, quasi fossero differenti prospettive su un medesimo paesaggio: Pagano torna sui propri passi, dà un’altra occhiata al ciglio della strada, si riaffaccia su uno scenario urbano o montano, sviluppa nuove riflessioni non maturate in un precedente, troppo acerbo passaggio. La serie di racconti trova la propria coerenza proprio nel centro gravitazionale corrispondente alla sensibilità dell’autrice, che narra esperienze che sono sue, prospettive che sono sue, scenari che lei osserva ma di fronte ai quali ci presta occhi e parole per sperimentare a nostra volta le sue sensazioni. Famiglie disfunzionali, personaggi errabondi, vite emarginate, uomini semplici alla fine del mondo: questi i protagonisti di racconti ora strutturati in maniera articolata, ora tratteggiati attraverso rapide pennellate impressionistiche, ora ben definiti, ora sospesi nell’inconcludenza. Personaggi marginali, che vivono sul ciglio delle loro vite, negli angoli nelle loro case, nei vicoli delle città o lungo una strada: nascosti dagli sguardi dei passanti, privi di memoria, oltre l’ordinario e il ragionevole. Eppure capaci ancora di sperare.

Tante facce di un medesimo cubo, che il lettore si rigira fra le mani: figure che sono semplici comparse nell’altrui storia, e che, a un nuovo passaggio sul medesimo tragitto, diventano protagoniste di un racconto successivo. L’aria che si respira passando tra i personaggi dei diversi racconti, fra le strade boschive che li attraversano, è la medesima: questo offre un’esperienza di progressiva presa di confidenza con ciò che per propria natura è invece sempre ricacciato fuori dal centro delle nostre quotidianità, con ciò che, per le proprie umili fattezze, non merita che un fugace passaggio a margine. Prendiamo così confidenza con l’idea che forse la speranza e la salvezza non sono lontane, abitano fra noi, nel nostro tempo e condividendo con noi lo spazio: tutto sta nel riconoscerle, spesso nascoste nell’angolo più polveroso e dimenticato delle nostre storie.

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In “Una volpe a mani nude” Emmanuelle Pagano – nata nel 1969 ad Aveyron, in Occitania – raccoglie racconti editi e inediti, alcuni compiuti, altri solo abbozzati, tutti accomunati dal sentimento della compassione e dal tema della marginalità. Con un romanzo precedente, “Gli adolescenti trogloditi”, anch’esso pubblicato da L’Orma, ha vinto il Premio dell’Unione Europea per la Letteratura 2020: nel romanzo compare un personaggio da lei realmente incontrato in uno spostamento in auto fra le strade montane di casa sua; un personaggio quasi fantasmatico che non solo ritorna nei racconti della sua nuova raccolta, ma è anche il motivo che ha spinto Pagano a pubblicarla.

Se il presidente del Senato, La Russa, rinnega il 25 aprile

Il presidente del Senato La Russa dice che non festeggerà il 25 aprile. Del resto gli va riconosciuta coerenza. Lui non è mai stato e mai si è detto antifascista. Ma ora è la seconda carica dello Stato e le sue affermazioni diventano gravissime di disconoscimento della lotta  partigiana contro il nazi-fascismo da cui nacque la Costituzione antifascista; Costituzione che il governo Meloni vuole cambiare, imponendo una virata presidenzialista.

Tutto questo purtroppo è il risultato di una lunga storia di picconamenti delle conquiste democratiche pagate con il sangue dai partigiani. Ormai quasi non si contano più gli attacchi al 25 aprile, festa della Liberazione al nazifascismo; “festa divisiva” dicono i nostalgici del fascismo.

E di nostalgici diretti e indiretti se ne contano tanti: da Berlusconi che sdoganò Alleanza nazionale a Dell’Utri che propalò il falso dei diari di Mussolini, per arrivare a Salvini che tante volte ha ammiccato al «me ne frego» di mussoliniana memoria, arrivando poi, dalla spiaggia del Papete a invocare i pieni poteri.

Per non dire della stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il cui partito, Fratelli d’Italia, conserva tutt’ora nel simbolo la bara stilizzata del duce dalla quale scaturisce la fiamma tricolore. Nel libro Io sono Giorgia, del resto, la premier si dichiara figlia spirituale di Giorgio Almirante.

Come ci ricorda Mimmo Franzinelli nel libro Il fascismo è finito il 25 aprile del 1945 (Laterza) il padre spirituale di Giorgia Meloni si impegnò durante il regime nella campagna antiebraica», fu «firmatario nella Rsi di bandi per la fucilazione dei renitenti alla leva e nel secondo dopoguerra» fu «dirigente del Msi in una strategia che combinava il manganello al doppiopetto, senza distanziarsi dal fascismo».

Da questo ampio fronte di destra arriva ora l’ennesimo attacco alla memoria storica resistenziale ad opera del presidente del Senato La Russa, che nel suo discorso di insediamento aveva giurato di essere il presidente di tutti e di “condividere parola per parola” il discorso della senatrice a vita Liliana Segre. Ma anche dicendo che la Costituzione andava “aggiornata” e ringraziando Luciano Violante che – ecco il vulnus-  già anni fa nel suo discorso di insediamento alla presidenza della Camera equiparava i partigiani ai ragazzi di Salò.

Da lì a valanga, una serie di scivolamenti, sostanziali e simbolici, di arretramenti  nel riconoscere la matrice antifascista e resistenziale della Repubblica italiana, avallata da un ampio arco parlamentare. Pensiamo per esempio alla recente istituzione della giornata nazionale degli alpini, che celebra loro pagina di storia più buia, ovvero quando furono mandati al massacro nel 1943, a sostegno dei nazisti per forzare il blocco dell’armata rossa.

A questa iniziativa si è aggiunta negli ultimi mesi una vera propria campagna di discredito e di delegittimazione  che l’Anpi, l’associazione nazionale partigiani ha subito dacché è in scesa in campo per la pace, per fermare l’aggressione di Putin all’Ucraina, proponendo la strada della diplomazia invece di quella delle armi.

Pietra dello scandalo – oltre al no alle armi per evitare una escalation del conflitto e salvare vite umane – fu anche il no dell’Anpi alle bandiere della Nato in piazza il 25 aprile, alleanza militare fondata nel 1949 (sic!) e che non vanta una storia esattamente esemplare, basti pensare alle bombe sganciate sul Kosovo.

L’Italia come è noto si è precipitata alla corsa alle armi aumentando la spesa militare fino al 2% del Pil, come richiesta Nato. Già il ministro Guerini aveva chiesto al Parlamento di portare la spesa militare annua da 25 a 38 miliardi come abbiamo documentato nei numeri scorsi di Left.

E ora con il ministro dell’Interno Crosetto, già lobbista delle armi, la spesa militare aumenterà ancora, come si evince dal programma di governo Meloni. Ma su tutto questo non è dato obiettare. Il neo ministro Crosetto minaccia querele a chiunque segnali l’inopportunità della sua nomina agli Interni segnalando un conflitto di interessi. Le ciniche ragioni delle armi e della guerra sarebbero incontestabili. Non ci arrendiamo a questo pensiero violento. Non è realtà umana sbranarsi gli uni gli altri, al contrario ci realizziamo nella socialità. Non è vero quello che c’è scritto nella Bibbia e che per secoli hanno ripetuto tanti pensatori, da Hobbes a Kant a Freud e Heidegger…

La verità è che la guerra non è mai uno strumento di risoluzione dei conflitti. Lo afferma con chiarezza l’articolo 11 della nostra Costituzione.

Perché non cercare di opporre alla violenza la forza non distruttiva della trattativa, della diplomazia coinvolgendo l’Onu (riformato e democratizzato) costruendo una conferenza internazionale di pace sul modello di Helsinki 1975? Costruire la pace attraverso gli strumenti della nonviolenza, del disarmo, della resistenza attiva, della costruzione di corpi civili di pace è la proposta dal basso di movimenti internazionali tra cui la Rete per la pace e il disarmo, che sarà rilanciata durante la grande manifestazione del 5 novembre a Roma.

Davide Dormino per Julian Assange, l’arte di alzarsi in piedi per i diritti umani

Essere informati è un diritto e un atto di resistenza e ci dà la possibilità di scegliere da che parte vogliamo stare e soprattutto con chi. Ne abbiamo parlato con l’artista Davide Dormino, autore di una importante opera e impegnato nella battaglia per la liberazione di Julian Assange.

Dopo oltre dieci anni va avanti la vicenda giudiziaria che colpisce il giornalista Julian Assange fondatore di Wikileaks, imprigionato in un carcere di massima sicurezza senza aver avuto un processo per aver aver diffuso documenti secretati dagli Usa che ci hanno permesso di venire a conoscenza di gravissimi crimini di guerra e violazioni dei diritti umani in Iraq, in Afghanistan a Guantanamo e non solo. Ora la sua condizione volge al peggio per le sue precarie condizioni di salute e per il fatto che, se estradato negli Usa, rischia 175 anni di carcere. Ci si aspetterebbe che tutto il mondo stesse con il fiato sospeso in attesa del risultato del ricorso all’Alto Tribunale del Regno Unito intrapreso dai suoi legali. Eppure non è così. La vicenda di Julian Assange, pur riguardandoci tutti, perché chiama in causa il valore fondamentale della libertà di stampa e di espressione, contemplato anche dall’Articolo 21 della nostra Costituzione, anziché suscitare scandalo e scalpore, sta lasciando molte persone indifferenti. Ma non tutti vista la folta partecipazione alla 24 ore non stop free Assange organizzata da Pressenza Left, Free Assange Italia e Amnesty Italia insieme a molti altri. All’iniziativa ha partecipato l’artista Davide Dormino, che ha realizzato una importante opera pubblica: Anything to Say?, che sta facendo il giro del mondo anche se forse, proprio nel nostro Paese, è ancora poco conosciuta.

Buonasera Davide, grazie per avermi accolto nel suo studio. Per cominciare a parlare del suo lavoro, le vorrei chiedere cosa unisce arte e politica.
Credo che ogni scelta che facciamo nella vita, sia politica. Quindi, tutto può assumere una connotazione politica. L’arte non può scappare da questa scelta. Le pratiche artistiche ci danno la possibilità di entrare in contatto con noi stessi di comprendere le nostre esigenze, mostrandoci anche le contraddizioni del mondo in cui viviamo. Ritengo che, l’Arte, nell’accezione più ampia del termine, sia tale quando ci fa interrogare sulla nostra esistenza, mostrandoci una nuova direzione possibile, arrivando, a volte, dove la politica fallisce. Di certo l’arte non salverà il mondo ma lo sguardo di chi lo guarda, forse sì.

Quindi, secondo lei, che ruolo ha l’artista oggi?
A mio parere, gli artisti, attraverso il loro immaginario, hanno il dovere di raccontare lo spirito del tempo e renderlo visibile al mondo. Indagando anche quei fenomeni che, senza la ricerca artistica, rischierebbero di rimanere celati.
Com’è nato il suo rapporto con l’arte?
Essere un artista, per me è un’attitudine naturale. Ho semplicemente ascoltato il mio corpo, assecondando un’esigenza interiore che mi ha portato alla scultura, una pratica quasi anacronistica, oggi. La scultura nasce per stare fuori ed in ogni mio lavoro ha sempre ricercato un’idea di monumentalità. Da qui deriva il mio interesse profondo per l’arte pubblica e la scultura ambientale, che ha la possibilità di arrivare ad un ampio numero di persone e relazionarsi con i luoghi. Il fatto che io sia un artista indipendente, da una parte complica le cose, dall’altra mi rende libero di scegliere che tipo di artista voglio essere; e questa, nonostante io mi possa definire artista ormai da parecchi anni, continua ad essere la domanda con cui mi sveglio ogni mattina.

Nello specifico, com’è nata Anything to Say?

Era il 2013, parlavo con un amico, scrittore e giornalista americano, Charles Glass delle vicende di WikiLeaks. Dei rischi che corrono i giornalisti che affrontano argomenti scomodi. Poi, finimmo inevitabilmente col parlare di libertà di pensiero e di espressione.
Un tema, come hai detto prima, che ci riguarda tutti. Iniziai a chiedermi perché, questo argomento così importante a livello universale fosse ignorato dalla maggior parte delle persone. Erano in gioco le nostre libertà, perché se nessuno può “controllare” i controllori, allora che democrazia è? Il giornalismo è il termometro della democrazia.
Ero stato profondamente colpito dalla storia di WikiLeaks; di Julian As-sange, suo fondatore, di Edward Snowden e Chelsea Manning, disposti a pagare un prezzo altissimo per aver rivelato al mondo delle verità nascoste. Quindi, ho sentito l’esigenza di celebrare il loro coraggio, cimentandomi nella realizzazione di un’opera che facesse luce su questa vicenda e, in qualche modo, potesse risvegliare la coscienza di chi non sa o non ha il coraggio di sapere.
Ci dica di più…
L’idea è nata come una folgorazione, un fulmine che mi ha colpito mentre ero in moto sulla tangenziale est di Roma. Accostai nella corsia di emergenza e disegnai su un foglietto tre figure in piedi su altrettante sedie. Ritrovai il foglietto in tasca la sera ed inizia ad interrogarmi. Perché li avevo rappresentati in piedi sulla sedia? Mi risposi che storicamente, le persone che spostano dei flussi di pensiero, non si siedono mai. Al contrario: stanno in piedi, si espongono, prendono una posizione. Poi capii che mancava qualcosa e mi è venuta in mente l’idea di porre accanto alle tre sedie, una quarta sedia, vuota. Come dicevo prima, nelle mie opere cerco di coinvolgere attivamente il pubblico, dal momento che, l’arte non deve essere solo un pezzo da museo intoccabile, ma qualcosa da impugnare, usare, con cui interagire. L’arte, a mio avviso, deve porre domande, innescare dubbi e riflessioni. In questo caso: prendere una posizione; cambiare un punto di vista; esporsi oppure no?
Così ha sviluppato l’idea di un monumento pubblico sui generis.
Volevo che quest’opera si differenziasse dalla canonica tipologia del monumento pubblico. Così, decisi di non porla sul piedistallo ma a livello strada, che fosse itinerante e annullasse la distanza con il pubblico.
Anything to Say? è realizzata in bronzo, eppure si tratta di un’opera itinerante, come spiega questo ossimoro?
Ho scelto di realizzarla in bronzo, perché il materiale che si adopera incarna il concetto stesso dell’opera. Nello stesso tempo, ho deciso che il gruppo scultoreo sarebbe stato itinerante. Una copia sola, in giro per il mondo.
Una scelta scomoda e difficile, tanto per i costi di realizzazione iniziali, quanto per quelli di movimentazione. Ce la può spiegare meglio? Perché non realizzarne diverse copie in un materiale più maneggevole?

Dunque, la scelta del bronzo è stata determinata dal fatto che volevo realizzare un monumento nel senso più classico del termine. Come quelli che, generalmente, si trovano nelle piazze. Il bronzo è un materiale pressoché eterno, istituzionale, pesante, pressoché indistruttibile e resistente alle intemperie. Ovviamente, tale scelta ha comportato un’ingente spesa per la realizzazione del gruppo, basti pensare che l’opera pesa una tonnellata.
Questo ne rende particolarmente complessa la movimentazione, sia da un punto di vista fisico, sia logistico. Infatti, per ogni nuova collocazione, è necessario sbrogliare le problematiche burocratiche legate ai permessi. Per esporla pubblicamente è sempre necessario un coinvolgimento delle istituzioni e mettere un’opera in piazza è sempre un atto politico. Qui si crea un primo, interessante, corto circuito, perché, anche se Anything to Say? ritrae tre personaggi scomodi, per gran parte del mondo controversi, abbiamo sempre ricevuto, da parte delle istituzioni, il permesso di esporla.
Mi hanno chiesto in diverse occasioni di realizzarne una copia, la prima fu l’Università di Berkeley, in California. Ma, alla fine, ho declinato l’invito. L’opera è unica, non riproducibile. Non so se un giorno Anything to Say? troverà una casa, un luogo idoneo ad accoglierla stabilmente ma per ora il suo compito è muoversi tra girare le piazze del mondo, ininterrottamente.
Per tornare al materiale?

Devo dire che la scelta non poteva che essere questa. Il bronzo detiene un pesante valore concettuale dal momento che, in passato, fu anche utilizzato per la realizzazione di palle di cannone. Mi risuonava l’idea di creare un’opera che fosse un’arma bianca. Perché, per me Anything to Say? è un’opera di costruzione di massa critica. Un’opera che, anche attraverso il peso e la durezza del materiale che la costituisce, esprime la forza, l’indistruttibilità e l’incorruttibilità di queste tre persone che, nella mia visione, sono tre eroi contemporanei. Una resistenza fisica per esprimere un concetto semplice in chiave ma monumentale.
La sua opera si caratterizza anche per un altro elemento di unicità. Come ha affermato lei stesso Anything to Say? ha un DNA classico ed uno spirito nuovo rivoluzionario che, a mio parere, si manifesta anche nel fatto che, pur avendo le sembianze di un monumento commemorativo non lo è affatto, perché è dedicato a dei personaggi ancora vivi. Come se lei stesse lanciando anche un ultima provocazione alle autorità…
Esatto! Mi preme sottolineare che Anything to Say? non è un monumento commemorativo perché Assange, Snowden e Manning sono ancora vivi. Anything to Say? è un monumento partecipativo che intende lanciare un campanello d’allarme. Per questo uso la monumentalità. I tre protagonisti, in scala reale, sono rappresentati in una posizione e con indumenti ambivalenti. Indossano tute e scarponi che possono essere interpretati, sia come gli abiti di militanti pacifisti, sia come quelli di prigionieri condannati al patibolo. Così come la loro posizione eretta sulla sedia, può essere letta tanto come un atto di coraggiosa leadership; quanto come l’attimo prima di un’esecuzione capitale.
Insomma è un’opera che non lascia spazio all’indifferenza
Proprio così. In quanto, opera di costruzione di massa critica, preferisco che generi fastidio e disapprovazione, ma mai indifferenza. Perché, a mio parere, ogni essere umano ha il dovere di alzarsi in piedi e prendere una decisione.

Conflitti, clima e Covid: le tre “C” che alimentano le migrazioni

«Stimati a 20,7 milioni nel 2000, negli ultimi due decenni il numero dei migranti forzati nel mondo è inesorabilmente quintuplicato, raggiungendo i 101,1 milioni a maggio del 2022, trainato dai grandi flussi di persone in fuga da varie aree del mondo, in particolare Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan, Myanmar e, non ultimo, Ucraina» spiega Antonio Ricci del Centro studi e ricerche Idos nell’appena uscito Dossier statistico immigrazione 2022, di cui giovedì 28 ottobre si è tenuta la presentazione al Nuovo teatro Orione di Roma.

Realizzato con i fondi otto per mille della Chiesa valdese e col sostegno dell’Istituto di Studi politici S. Pio V, il dossier, arrivato alla sua 32esima edizione, raccoglie contributi e ricerche di studiose e studiosi che hanno analizzato l’evoluzione e i dati dei fenomeni migratori nell’ultimo anno, fornendo un contesto internazionale ed europeo e facendo luce sulla situazione in Italia, tanto a livello nazionale quanto regionale.

«L’83% dei rifugiati – continua Ricci – è accolto in Paesi a reddito medio-basso e quasi i tre quarti (72%) vivono ora in uno dei Paesi confinanti col proprio Paese di origine». Alla fine del 2021, infatti, sarebbero solo 3,5 milioni i rifugiati e richiedenti asilo presenti nell’Unione Europea; tra questi ultimi i minorenni sono 183.720 (di cui 23.335 non accompagnati), con un rapporto di uno ogni tre richiedenti asilo. Ad aggravare le crisi alimentari e, di conseguenza, il numero dei migranti forzati, sono quelle che Francesco Petrelli di Oxfam Italia definisce le “tre C”: conflitti (nel 2022 l’Italia ha accolto 154mila profughi ucraini, in nove casi su dieci ospitati da connazionali, privati cittadini o enti del Terzo settore), clima (solo nel 2021 si sono registrati 24 milioni di rifugiati climatici, con una previsione di oltre 216 milioni di migranti nei prossimi trent’anni) e Covid-19.

La cifra dei residenti stranieri nell’Unione Europea nel 2021 si attesta a 37,4 milioni, concentrati per il 70% nei quattro maggiori Paesi di immigrazione comunitaria: Germania (10,6 milioni), Spagna (5,4 milioni), Francia (poco più di 5,2 milioni) e Italia (poco meno di 5,2 milioni). In Italia essi incidono per poco meno del 9% sulla popolazione complessiva, e sono per quasi il 50% europei, oltre la metà dei quali comunitari, seguiti con quote di oltre il 20% ciascuno da asiatici e africani, mentre gli americani sono uno ogni tredici.

Il dossier indaga anche la situazione occupazionale degli stranieri in Italia: il loro inserimento lavorativo obbedisce, da decenni ormai, «a un modello di segregazione lavorativa che li canalizza rigidamente verso professioni meno qualificate, più precarie, meno retribuite e più pericolose, con una scarsissima mobilità occupazionale anche per chi possiede una formazione superiore e molti anni di attività». Le più penalizzate sono le donne, che incidono per solo il 42,1% tra gli occupati e per ben il 52,5% tra i disoccupati. Uno dei dati più significativi, a tal proposito, è quello sulle inchieste giudiziarie contro lo sfruttamento lavorativo che, nell’81% dei 391 casi con nazionalità certa delle vittime registrati nel 2021, hanno riguardato proprio lavoratori stranieri, soprattutto richiedenti asilo.

«Dietro i numeri ci sono le persone» ha affermato Mussie Zerai, presidente dell’Agenzia di cooperazione Habeshia, durante il suo intervento alla presentazione del dossier. E tuttavia lo stesso Zerai, in collegamento dal Canada, ha ribadito l’importanza dei dati, citando uno studio dell’Istituto Cattaneo secondo cui gli italiani avrebbero una percezione moltiplicata del numero di immigrati, soprattutto i cosiddetti irregolari, presenti sul territorio nazionale. «Isteria ideologico-mediatica» la definisce Luigi Gaffuri, professore di Geografia urbana e regionale all’Università dell’Aquila, aggiungendo poi che l’uso strumentale dei fenomeni migratori, da parte di cittadini e talora istituzioni politiche, presuppone «la volontà di ignorare le rigorose analisi» messe a disposizione sull’argomento.

È quindi dai dati che prendono le mosse gli interventi di relatrici e relatori durante la presentazione: Luca Di Sciullo, presidente dell’Idos, ha ripercorso gli eventi che hanno contribuito, a livello globale, ad aggravare la «crisi dei migranti» che dovrebbe essere definita piuttosto «la crisi dell’Europa davanti alla questione dei migranti».

«L’Unione europea ha messo in atto politiche di respingimento e di espulsione violente lungo rotte marittime e terrestri, dentro e anche fuori dai confini comunitari, pagando miliardi di euro a Turchia, Bosnia, Libia ed altri Stati confinanti e rendendosi così ricattabile, di fatto venendo ricattata, da tutti loro. Purché a suon di bastonate, di bruciature, di denudamenti, di docce gelide, di torture, di stupri e tutta una serie di altre brutali aggressioni, ricaccino i migranti indietro e li tengano bloccati nei campi di detenzione forzata» ha aggiunto Di Sciullo. E quando il presidente dell’Idos ha menzionato l’imminente rinnovo, che avverrà automaticamente il 2 novembre, del Memorandum d’intesa Italia-Libia, dalla platea qualcuno ha gridato «Vergogna!», immediatamente seguito da un applauso.

Molti i temi toccati durante gli altri interventi: dai riferimenti alla nuova condizione di “migranti climatici” a cui hanno accennato Alessandra Trotta, moderatora della Tavola Valedese e Paolo De Nardis, presidente dell’Istituto di Studi politici S. Pio V, all’impossibile mobilità sociale per i giovani e le giovani stranieri, che spesso si rassegnano a percorsi di studio tecnici e professionali, ritenendo di non poter competere per professioni altamente qualificate, alla situazione di lavoro sommerso a cui spesso sono costrette le persone straniere, vulnerabili a causa del loro status giuridico incerto e irregolare.

A tale proposito la sintesi di Djarah Kan, scrittrice e giornalista, secondo cui «non ci si può meritare la cittadinanza» (con buona pace del neonato ministero dell’Istruzione e del merito), ha sottolineato la situazione dei giovani nati e cresciuti nel nostro Paese e ad oggi privati della cittadinanza italiana a causa della mancata riforma della legge n. 91 del 1992, di cui quest’anno ricorre il trentesimo anniversario


* In foto, alcuni migranti camminano sui binari della ferrovia nei pressi del confine tra Serbia e Ungheria, sulla “rotta balcanica”