Home Blog Pagina 265

Marco Aime: Sui sentieri incrociati per Timbuctù

Uno dei molti stereotipi che gravano sull’Africa, oltre all’idea inattuale di un mondo fatto di villaggi, è che sia un continente immobile, senza storia. Niente di più falso. Come si evince anche leggendo il bel libro di Marco Aime e Andrea de Giorgio Il grande gioco del Sahel (Bollati Boringhieri) che racconta il vivacissimo passato di quella striscia che attraversa 12 Stati – dal Gambia all’Eritrea – e che oggi purtroppo, è diventata una cicatrice sul mondo. Per molti secoli invece il Sahel significava «la fine del viaggio, la fine della sete, il riposo, la sicurezza, la ricchezza, l’altra faccia del deserto». Abbiamo chiesto a Marco Aime, antropologo culturale dell’Università di Genova, che abbiamo incontrato al festival Con-vivere a Carrara, di aiutarci a capire.

Nell’immaginario collettivo Timbuctù ha sempre rappresentato un affascinante altrove, ma poco si conosce la sua storia di città di cultura che vantava prestigiose università. Professor Aime come è avvenuto che il Sahel da oasi di cultura e del traffico dell’oro sia diventato il luogo del traffico della coca e dei nuovi schiavi?
Timbuctù è un nome che è entrato nella fantasia. Molta gente non sa dov’è, ma sa che è lontana. Nel 1300 aveva due università, esattamente quando nella nostra penisola cominciavano le repubbliche più antiche. In quelle università africane insegnavano intellettuali che venivano da tutto quel vasto mondo che andava dall’Andalusia all’India. Avicenna per esempio insegnava lì e vi lasciò trattati di astronomia.

Facciamo un passo indietro per poi arrivare all’oggi. Come era il Sahara nei secoli passati?
Il Sahara non è mai stato troppo deserto, è sempre stato abbastanza trafficato, fin dall’antichità. Spesso si è sentito dire che il deserto avesse isolato l’Africa, ma non è così. Sahel vuol dire sponda. Dal Mali arrivavano grandi quantità di oro. Il mito di Timbuctù entrò nell’immaginario occidentale anche grazie a un geografo catalano che la raccontò come l’Eldorado africano. Intorno all’anno mille era arrivata nel Sahel la scrittura insieme all’Islam. Timbuctù non nacque come villaggio, ma come città, ricca, letterata e colta. Ancora oggi i suoi abitanti sono un po’ come i fiorentini: “meglio di loro non c’è nessuno”, sono un po’ snob, aristocratici, memori dei fasti del passato. Tanto che quando te ne vai dalla città dicono che vai in campagna. Oggi la realtà è cambiata ma resta quel pensiero.

L’idea che Africa fosse isolata, dunque, non dice il vero?
L’Africa era perfettamente inserita nel mercato che collegava tutto il Mediterraneo e tutta l’Europa. Non comunicava solo con il Medio Oriente e con l’Asia. Lo scambio riguardava le merci ma anche le culture. Timbuctù è famosa anche per i manoscritti che conserva. Quanti siano nessuno lo sa. Si parla di decine di migliaia. Parliamo di una città letterata in cui si usava la scrittura comunemente e l’arabo come lingua ufficiale. Il commercio transahariano ha una caratteristica: filtra l’inutile. Attraversare il deserto è pericoloso. Ha senso sfidare il rischio solo per trasportare cose di alto valore. Il Sahara nel medioevo era presidiato dai Tuareg che controllavano un territorio. Per ogni tratto dovevi pagare loro un pedaggio. La protezione costava. E siccome la fatica era tanta, viaggiavano solo stoffe pregiate, oro, avorio, schiavi soprattutto. Ma anche rame e sale.

I Tuareg di fatto controllavano il deserto?
Esattamente. Noi li vediamo in modo romantico come gli uomini blu. Nella realtà locale sono percepiti come gente che taglieggiava nello scortare il trasporto delle merci. Il mito dei Tuareg nasce con il mito dell’oro e del sale. In questa area Timbuctù si giova di una posizione speciale. Il fiume nasce a 200 km dall’oceano Atlantico, ma invece di andare a ovest va a est e incontra un altopiano e fa un’ansa per poi scendere. La città sorge nel punto più a nord. È una sorta di hub, di piattaforma intermodale. Divenne uno snodo commerciale. Come tutte le città carovaniere cominciò a decadere nel 1600, quando il cammello perse la battaglia con la caravella, e tutto l’asse si spostò sull’Atlantico.

Oggi i trafficanti di coca, tabacco e nuovi schiavi seguono le mappe medievali?
Il traffico di coca arriva dalla Colombia con gli air cocaine, scaricati nel Sahel. La droga viene poi caricata sui camion. Sono gli stessi che a pagamento ospitano migranti.

Chi controlla questi traffici?
I gruppi jihadisti. Il Sahel sarà il nuovo Afghanistan. Tutti oggi parlano di Sahehilstan. Tutto è iniziato nel 2011 quando Gheddafi fu ucciso dai francesi. Nel sud della Libia c’era la sua guardia speciale di Tuareg, armati dai russi, i quali d’un tratto si trovarono senza avere un referente. Voltarono la testa verso sud e andarono in Mali occupando tre quarti del Paese. Poi arrivarono i francesi, anche perché nel deserto c’è l’uranio. Solo di recente Macron ha lasciato il Paese. “Ci costa troppo”, ha detto “e non riusciamo a risolvere niente”. Al posto dei francesi sono entrati i russi, i mercenari del gruppo Wagner. Nel Sahel si sono creati gruppi filo jihadisti. Non sono omogenei. Alcuni sono filo Al-Qā’ida, altri filo Isis . Dopo la crisi dello Stato islamico molti di loro si sono spostati nel deserto del Sahara per i traffici della coca. Proprio il traffico di coca in Europa li sta alimentando. Ed è paradossale che i percorsi che fanno oggi la droga e i migranti seguano le stesse tracce percorse nel medioevo.

Il Sahael è diventato anche un grande cimitero a cielo aperto…
Le notizie drammatiche che ci arrivano dal Mediterraneo sono una infima parte di quel che accade. Il Sahara è un vero cimitero e non sapremo mai quanti sono morti di fame e di stenti nel deserto. Non ci sarà mai una anagrafe. Spesso i trafficanti non intercettati da alcuna pattuglia scaricano i migranti nel deserto e scappano, lasciandoli morire. Il grande gioco del Sahel oggi vede al centro i jihadisti. Ma vi hanno messo le mani prima la Francia, e oggi la Russia e la Cina che ha un grosso peso in Africa e ed esercita un controllo sui giacimenti di uranio. Il Sahel è attraversato dal grande fenomeno migratorio che vede persone in arrivo dal Sudan, dall’Etiopia perché quelli sono i corridoi. Le tracce di un tempo oggi sono peggiori di allora, più crudeli.

Dal Mali e da altre zone arrivano notizie di una pervasiva penetrazione dei contractor della Wagner. Tanto che si diffondono magliette con la scritta “Je suis Wagner”. Cosa sta succedendo?
Da un certo punto di vista sono stati molto abili. Ma non dimentichiamo il crescente sentimento anti francese seguito all’uccisione di Gheddafi. Va anche ricordato che 14 Paesi, ex colonie africane, sono legati dalla moneta unica, il franco francese, il cui valore viene determinato da Parigi. È colonialismo economico. Nel febbraio 1992 ero in Benin e d’un tratto fu comunicato che il franco veniva dimezzato di valore. Immaginate milioni di famiglie che si sono trovate così metà dei soldi, perché Parigi ha deciso così. Gheddafi stava proponendo un nuovo modello di moneta panafricana. Non a caso i francesi attaccarono la Libia in quel momento. L’odio verso i francesi è alimentato da due parti in Mali: dai religiosi islamici e dai militari. Per cui il paradosso è che i russi appaiono come il nuovo, pur di non essere francesi…

Così si spiega perché tanti Paesi africani si sono espressi in sede Onu e altrove contro le sanzioni alla Russia?
Esattamente. La Cina da molti anni ha una massiccia presenza in Africa. Da un po’ c’è anche la Russia

E anche la Turchia?
Evidentemente. Il gioco è complesso.

L’Africa fa gola a molti?
Ha molte risorse e il Pil è in crescita. Il vero problema dell’Africa non è la ricchezza ma la distribuzione. Ci sono tante persone povere in Paesi ricchissimi. Il problema sono le grosse disuguaglianze legate a una scarsa rappresentatività sociale e alla scarsa alfabetizzazione. Anche se tutto sta migliorando. Sottolineo però che noi stiamo chiedendo all’Africa di fare quel passaggio che noi abbiamo fatto in secoli.

La scarsa rappresentatività sociale che favorisce le dittature cambierà con la crescita delle nuove generazioni?
È in atto un grande processo di cambiamento. Ora ci sono molte “democrature” o, per dirla con il premio Nobel nigeriano Soynka, ci sono tante «democrazie voodoo», ovvero finte democrazie in cui il leader coopta quattro cugini e si arrocca al potere. Questo è il limite. Ma non dimentichiamo che sono solo 60 anni che l’Africa è indipendente. Ormai il boom urbano è un fatto assodato. Sono sempre di più gli africani che vivono in città e sono soprattutto giovani. Hanno una visione diversa. Sono perfettamente globalizzati come i nostri giovani. Tutto ciò porterà a un cambiamento politico-economico dell’Africa. Però dobbiamo dare loro tempo. Non possiamo pensare che accada in pochi decenni. Dobbiamo tener presente anche che spesso gli Stati africani sono nati in maniera artificiale, non per un processo endogeno, ma per i comodi dei colonialisti.

Troppo spesso la cooperazione internazionale ha avuto un ruolo fallimentare? Basterebbe aiutare l’istruzione?
Secondo me basterebbe non sfruttarli. Teniamo conto che oggi nel nord del Congo ci sono i più grandi giacimenti di cobalto e servono per le batterie. L’80 per cento di quel cobalto è in mano ai cinesi. Alle multinazionali conviene un dittatore. Ripeto, smettere di sfruttarli farebbe molto di più delle finte cooperazioni.

Tra i settori in crescita c’è anche quello della moda?
Sicuramente c’è molta attenzione per l’abbigliamento, per lo stile. C’era nella tradizione e c’è nella vita urbana. Il settore della moda sta crescendo. L’Europa pare cominci a guardare agli stilisti africani e a importare qualche idea.

La moda si intreccia con la musica nel movimento della Sape di cui Papa Wemba è stato un grande interprete. Può dirci di più di questo fenomeno di cui parla African power dressing, (Genova university press), il libro di Giovanna Parodi da Passano che lei ha presentato?
La Sape è la moda dei giovani di Brazzaville che si vestono in modo elegante e vengono chiamati a matrimoni e feste per le loro scarpe lucidissime. Indossano giacche di colori sgargianti che su di noi farebbero effetto pagliaccio, ma sulla pelle scura risultano ben altrimenti. Hanno il culto della eleganza sfrenata, sono un po’ una élite.

Coltivano un’idea di eleganza che si lega a una visione pacifista?
Sì, c’è un gusto della bellezza molto dandy a Kinshasa e in altre città. Fonde stile occidentale ed elementi locali. Ma c’è anche un grande movimento di stilisti africani che propongono innovazioni molto interessanti.

La globalizzazione in questo caso non annulla le differenze. Rileggono la moda francese facendola propria, risemantizzandola. Che gioco c’è fra locale e globale?
La musica tradizionale africana è partita con gli schiavi. È passata attraverso i Caraibi, il Brasile le Americhe, ed è tornata da là. È stata rielaborata quando sono arrivati gli strumenti come la chitarra elettrica. Un amico congolese mi raccontava che negli anni 6o mentre in Italia ci si divideva tra fan dei Beatles e dei Rolling Stones, loro si dividevano tra fan di James Brown e Otis Redding, i due maghi del soul. La musica africana oggi è già passata attraverso tutte queste esperienze. La musica è una bella metafora della cultura africana, continuamente dà vita a generi diversi. C’è sempre stato questo rimescolamento, metabolizzazione da cui nasce sempre qualcosa di nuovo. Consiglio di leggere il bel libro di Steven Feld Jazz cosmopolita ad Accra (Il Saggiatore) che racconta questo movimento eccezionale di reinvenzione del jazz nella metropoli. Non c’è frontiera che tenga. La nostra musica – dal blues all’hip hop – arriva tutta da lì.

Fin dal Cinquecento quando arrivarono nelle corti musicisti neri e cambiarono la storia della musica…
La scala pentatonica nacque nell’ansa del Niger. E poi con gli schiavi africani arrivò Oltreoceano diventando blues, bossanova e tutti gli altri ritmi caraibici. Tutto si è basato su quella scala.

Afriche in transizione

Abituati come siamo a descrivere l’Africa solo attraverso le guerre, le carestie e la predazione delle sue risorse naturali, rischiamo di non cogliere la normalità della sua vita politica ed istituzionale ma soprattutto la grande vitalità delle sue forze sociali attraverso le varie e tormentate vicende storiche e politiche della vita del continente, dalle decolonizzazioni alla globalizzazione passando per i decenni perduti dello “sviluppo” (1960-1980).
La presunta staticità e ripetitività delle “cose africane” appartiene all’anacronistica narrazione occidentale ossia a quello sguardo archeologico denunciato dagli storici africani che, invece, invitano a restituire la storia ai popoli africani.
Per raccontare la politica nelle Afriche, abbiamo bisogno di uno sguardo dinamico in grado di interpretare la vita interna dei 54 Paesi del continente e saper cogliere il movimento che la attraversa. La politica africana non è solo il mimetismo istituzionale e costituzionale attuato al momento delle indipendenze; essa non può ridursi all’analisi del fallimento dei processi di costruzione nazionale o della tragica imposizione di uno sviluppo spinto dall’esterno come un semplice adeguamento ancillare alle economie egemoni. La polis africana non è solo una produzione esterna per via del neocolonialismo e dei condizionamenti di un sistema economico mondiale iniquo.
Dire politica in Africa significa osservare gli africani nei luoghi vivi dove rispondono alle sfide economiche e sociali quotidiane; nei luoghi dove spesso sono costretti ad ottimizzare l’anarchia inventando la sopravvivenza propria e della comunità; nei luoghi dove resistono agli shock esterni ed inventano una economia e nuove forme di società vernacolari, intrisi cioè del sudore e della polvere delle persone e delle comunità.
L’Africa, diceva il sociologo camerunese Ela, è una «pentola che bolle» e gli ingredienti più genuini di questa pietanza sono i fermenti dei movimenti sociali.

La politica nelle Afriche: spazio di contrasti
Quando si parla di politica africana, si pensa spesso a dittature, corruzione, massacri, opposizione imbavagliata… La decolonizzazione ha lasciato il posto a Stati i cui confini hanno talvolta diviso comunità che convivevano più o meno pacificamente. Le lotte per la gestione delle risorse e il potere causano conflitti sanguinosi e senza fine (Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo). Questa violenza e povertà contribuisce a gettare i giovani nelle braccia di estremisti religiosi e jihadisti (Boko Haram, Shebab, Daesh, Aqmi) o di milizie (nella regione dei Grandi laghi e in Mozambico); oppure costretti ad emigrare per esercitare il primo di tutti i diritti, il diritto alla vita.
Ma l’Africa è una terra di contrasti. In Sud Africa, Nelson Mandela è riuscito a smantellare pacificamente l’apartheid. Alcuni Stati tentano di conciliare lo sviluppo economico e sociale, come il Ghana o il Senegal. Altri ancora riescono a condurre esperienze democratiche e di “good governance” uniche come il Botswana, Capo Verde, Mauritius. In questi Paesi i leader vengono eletti liberamente e la popolazione riesce a partecipare. Purtroppo bisogna riconoscere che, nella maggior parte dei casi, dalla modernizzazione degli anni 60 allo Stato minimalista degli anni 80, passando per la dipendenza degli anni 70, tutti gli approcci che avevano messo lo Stato e le élite politiche (in varia misura) al centro dei processi di trasformazione democratica delle società africane sono falliti. Il problema sembra risiedere nella fragilità giuridica, politica, sociale ed economica dello Stato africano. Ma soprattutto dobbiamo interrogarci sulla natura spesso “off shore”, di queste élite africane che si accontentano di ritagliarsi per sé e per i gruppi d’interesse che rappresentano un ruolo di intermediari d’affari tra il mondo esterno e le ricchezze del Paese, rinunciando così a fare politica. Una élite che non è più in grado di essere lievito nella pasta proprio perché troppo lontana dalle aspirazioni profonde e dai bisogni essenziali del popolo che doveva tradurre in progetto politico. I processi politici, come del resto quelli economici e sociali, hanno nel continente una matrice intrinseca, degli sviluppi afrocentrici e delle manifestazioni proprie che meritano attenzione. In altri termini, la cornice globale e le strategie degli attori nuovi e vecchi del nuovo arrembaggio verso l’Africa s’intersecano con la “riproduzione politica locale” e con gli elementi di senso socio-antropologici, politico-istituzionali dei contesti nazionali africani in grande fermento.
Il fallimento dei processi di democratizzazione (non della democrazia) in Africa ha radici profonde di natura storica, antropologica, sociologica ma soprattutto economica. Quest’ultima è rintracciabile dal punto di vista cronologico nei “decenni perduti dello sviluppo” che hanno soffocato sul nascere i processi di costruzione dello Stato nazionale e la garanzia dei diritti sociali fondamentali con la conseguente mancata uscita di vaste porzioni di popolazioni africane dallo “stato di necessità”. Perché la democrazia ha due pilastri importanti: le libertà civili e i diritti sociali. “Basic needs are basic rights” dicono gli anglosassoni intendendo con questo che non vi è democrazia senza la piena soddisfazione dei bisogni essenziali di tutti i cittadini. E la democrazia africana – qualunque democrazia del resto – non sarà mai compiuta senza la piena inclusione di tutti nella Res publica, dove tutti sono riconosciuti e valorizzati in uno spazio di cittadinanza garantito da istituzioni forti e dalla salvaguardia del primo di tutti i diritti, il diritto alla vita.

Movimenti sociali e speranza democratica
In Africa, le lotte per la democratizzazione sono sempre più guidate dai movimenti sociali. A più di vent’anni dalle speranze suscitate dalle “transizioni democratiche” degli anni Novanta, il continente si trova ancora ad affrontare la questione dell’alternanza democratica. Tentativi di risposta con colpi di Stato, conflitti armati o compromessi politici intorno alla torta da spartirsi. Dovremmo allora considerare i movimenti sociali come gli ultimi baluardi delle lotte per la democratizzazione?
L’economia vernacolare nelle periferie abbandonate e nelle aree rurali parla di territori e comunità tutt’altro che rassegnate. Essa è la cattedra dei poveri che, nella loro disperazione, inventano forme nuove di economia (oikos nomos) con al centro i valori della reciprocità, dell’inclusione sociale e della comunione con l’ambiente. Quest’ultima non è una visione utopistica che nasconde la povertà, i conflitti, la destabilizzante implosione degli Stati-nazione. È una visione afro-realista che rifiuta di considerare le realtà del continente attraverso il prisma ridotto delle statistiche ufficiali. È una visione che guarda il continente dai luoghi concreti del suo calvario quotidiano per la sopravvivenza (dentro un campo profughi, in un quartiere povero delle grandi megalopoli, nei villaggi assillati dai cambiamenti climatici); e dentro questi luoghi si scorge l’Africa della resistenza e dell’innovazione.
I nuclei di resistenza e d’innovazione dentro le viscere del continente ci chiamano a riscoprire la valenza duale del concetto e della pratica della democrazia (potere del popolo), che significa rompere la logica delle élite off shore. Ciò che davvero serve al continente africano è una sana e buona politica. Le Afriche si salveranno se sapranno rompere la doppia solitudine dei popoli del continente. Popoli soli dinanzi ai meccanismi della geopolitica e di fronte ai meccanismi dell’economia mondiale (la globalizzazione economica senza politica né etica); ma soprattutto popoli soli di fronte ai loro dirigenti politici incapaci di essere in ascolto delle aspirazioni che provengono dalle società ed economie vernacolari.
Queste aspirazioni si esprimono nella vivacità e nell’attivismo dei movimenti di base che esprimono dissenso rispetto ai poteri costituiti e inventano forme inedite di partecipazione politica. Si tratta dei cosiddetti “movimenti cittadini”.
A sud del Sahara, i movimenti cittadini che portano le speranze dell’alternanza non sono una generazione spontanea. Il loro successo, in Senegal e Burkina Faso, sta in una storia di proteste, delusioni partigiane e in un contesto di minor ricorso alla violenza che in Centrafrica. I movimenti “y’a en a marre” (“Siamo stufi”) in Senegal e “Balai citoyen” in Burkina Faso hanno fatto irruzione nel panorama politico con formidabile efficienza. “Siamo stufi” è apparso in Senegal nel contesto della Primavera araba, il giorno stesso della caduta di Ben Ali in Tunisia. Pochi giorni dopo, Dakar doveva ospitare il World Social forum. Questa dimensione internazionale, che si era concretizzata nel riferimento alla “liberazione” tunisina e nelle alleanze a livello continentale, non deve però mascherare il carattere proprio nazionale della mobilitazione. Molto più di un effetto domino della Primavera araba: “Siamo stufi” e i “Balai citoyen” sono nati innanzitutto dal fallimento delle prime transizioni democratiche.
Questi movimenti sono caratterizzati da una dimensione apartitica, addirittura anti partitica. Vogliono fare politica in modo diverso. I partiti nati dall’onda democratica hanno spesso deluso, non sfuggendo alla “politica del ventre” e al clientelismo. Non tutti, però, contestano la necessità dell’istituzionalizzazione: in Benin per esempio “Alternatives citoyennes” si è costituita fin dall’inizio come partito politico. Nella Repubblica democratica del Congo, il movimento “Filimbi” riunisce un ampio fronte cittadino che va dalle associazioni ai partiti.
La dimensione generazionale è particolarmente marcata. I giovani esprimono il volto di un continente in fermento. Essi chiamano il nostro sguardo a rinnovare la nostra visione e la nostra azione, non per il continente, ma con il continente in fermento che non chiede “aiuti” ma chiede di essere riconosciuto nella sua soggettività creatrice. La nostra cooperazione dovrà essere interlocutrice delle istituzioni, ma soprattutto alleata dei popoli e delle loro speranze.

L’autore: Jean-Léonard Touadi è giornalista, docente universitario ed ex deputato. Autore di numerosi saggi sull’Africa, è storico curatore e conduttore della rassegna stampa africana su Radio radicale

Nel mirino di Putin i prossimi sono i gay

Aleksandr Khinstein, un deputato del partito al potere Russia Unita, è stato schietto: «Un’operazione militare speciale è in corso non solo sui campi di battaglia», ha detto, usando l’eufemismo approvato dal Cremlino per la guerra, «ma anche nella coscienza delle persone, nelle loro menti e nelle loro anime. Oggi lottiamo affinché in Russia invece di mamma e papà non ci sia ‘genitore 1’, ‘genitore 2’, ‘genitore 3’».

Per rendersi conto dei punti di contatto tra il sovranismo italiano e europeo con Vladimir Putin si potrebbe partire da qui. In Russia il mondo Lgbtqi+ è considerato un diabolico afflato proveniente dall’Occidente per distruggere la tradizione del Paese degli Zar. In questi giorni c’è in discussione un progetto di legge che vieterebbe “la propaganda gay” segnando un periodo ancora più difficile per una comunità già profondamente stigmatizzata. Le leggi vieterebbero la rappresentazione delle relazioni Lgbtq in qualsiasi media – servizi di streaming, piattaforme social, libri, musica, poster, cartelloni pubblicitari e film – e, temono gli attivisti, anche in qualsiasi spazio pubblico.

La proposta di legge è firmata da 400 componenti della Duma su un totale di 450. Difficile che non arrivi sulla scrivania di Putin per essere firmata. L’obiettivo è chiaro: creare un nemico interno per distogliere l’attenzione dalla guerra in Ucraina e per fomentare lo spirito di guerra anche all’interno del Paese. Come spesso accade per accendere la guerra interna basta puntare il mirino contro qualcuno che ha poche armi per difendersi. Il messaggio di Putin è tragicamente cretino pure funzionale: “cari russi, se perdiamo la guerra i vostri figli cambieranno sesso e affosseranno la nazione”.

Gli impauriti oppositori di Putin fanno notare che le nuove leggi potrebbero essere utilizzate per chiudere i festival del cinema e del libro, impedire i servizi medici e altro ancora. Violare le leggi comporterebbe pesanti sanzioni. Qualsiasi attività commerciale che mostrasse immagini di una famiglia con due madri o due padri, ad esempio, potrebbe essere multata fino a 5 milioni di rubli, ovvero circa 81.400 dollari. Gli individui sarebbero soggetti a multe fino a 400.000 rubli, circa 6.500 dollari. Ai film con persone queer potrebbe essere negata la distribuzione.

Maksim Olenichev, un avvocato specializzato in diritti Lgbtq, al NY Times ha spiegato che «il governo fondamentalmente dice che queste persone non hanno gli stessi diritti di tutti gli altri». «’Le persone Lgbtq non sono completamente umane.’ Questo è il modo in cui le persone giustificheranno gli abusi nei loro confronti. Lo scopo è rendere invisibili le persone Lgbtq in Russia».

Non è troppo difficile trovare similitudini.

Buon venerdì.

Nella foto: un attivista per i diritti Lgbt arrestato, Mosca, 27 maggio 2012

Il vento nuovo che arriva dall’Africa

Un immenso continente in trasformazione. Dove, sotto pelle, si stanno realizzando grandi cambiamenti, economici, sociali, politici, grazie al fermento di movimenti sociali dal basso che i giornali mainstream non registrano. Almeno non quelli italiani che parlano di Africa solo quando esplodono drammi umanitari (e senza individuarne le cause né le nostre responsabilità) o quando si tratta di paventare immaginarie invasioni di migranti.

Ma questo, come scrive Jean-Léonard Touadi ad apertura di questo nuovo numero di Left, non è la realtà delle Afriche. Ciò che non fa notizia – ma che ben presto la farà – è che nuove generazioni di africani stanno crescendo rapidamente e sono sempre più interconnesse, curiose, esigenti, piene di idee, desiderose di partecipare attivamente alla società, di poter costruire un futuro diverso.

I numeri sono impressionanti. Come scrive Marco Aime ne Il gran gioco del Sahel (Bollati Boringhieri) nel 1960 gli africani erano 230 milioni e le previsioni dicono che saranno più di due miliardi e mezzo nel 2050. Oggi sono un miliardo e 400 mln e il 50% ha meno di 15 anni.

Questa grande massa di giovani sempre più si sposta nelle città facendo delle megalopoli grandi laboratori di sperimentazione di nuove tendenze e di innovazione: dalla crescente digitalizzazione al boom di start up, dalla pervasiva diffusione degli smartphone alle sperimentazioni di nuovi linguaggi nell’arte, nella musica, nella moda, aprendo anche prospettive economiche. Di questo inedito scenario africano che tocca tanti aspetti diversi della vita ci raccontano qui antropologi, demografi, economisti, esperti nello sviluppo di energie rinnovabili, curatori artistici.

In un momento in cui l’Italia torna a chiudersi in una prospettiva autocratica abbiamo aperto le finestre ad aria nuova, raccontando questa grande trasformazione, che fra pochi anni ci riguarderà direttamente, toccando tutta l’anziana Europa che cambierà pelle, diventando sempre più meticcia. Con buona pace dei nazionalisti e sovranisti nostrani che saranno sempre più fuori dalla storia.

Certo, visto dall’Italia di oggi quel momento sembra lontano, pensando alla compagine di estrema destra che è appena salita al governo, minacciando blocchi navali e il ripristino dei decreti sicurezza contro i migranti che loro chiamano “irregolari”, salvo poi invocare flussi da sfruttare nei campi. Con tutta evidenza sul piano dei diritti civili e sociali il governo Meloni e dei suoi accoliti segna una regressione politica e culturale senza pari. Potranno fare molto danno se, come annunciano, metteranno mano alla Costituzione virandola in senso presidenzialista, se attueranno la secessione dei ricchi, ovvero l’autonomia differenziata che disarticola il principio costituzionale di uguaglianza. Potranno fare molto male ai diritti delle donne e alle conquiste riguardo ai diritti civili se applicheranno gli antistorici e antiscientifici dogmi religiosi e patriarcali della neo ministra della Famiglia e della natalità Eugenia Roccella, del sottosegretario alla presidenza Alfredo Mantovano e del presidente della Camera Lorenzo Fontana.

Nomima sunt consequentia rerum e come sono stati ribattezzati i ministeri già la dice lunga. Ministero del Mare e del sud, con nostalgie del ventennio, (ministero senza porti dacché Salvini li rivendica per il suo ministero delle Infrastrutture). Ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica che cancella la transizione ecologica (del resto la destra è sempre stata per le energie fossili come l’ex ministro Cingolani che, in continuità con il governo Draghi, farà da consulente). Ministero della Famiglia e della natalità affidato alla suddetta Roccella, spalleggiata da Gasparri che ripropone il suo famigerato ddl che dà personalità giuridica all’embrione, negando la nascita, confondendo feto e neonato contro ogni evidenza scientifica, suggerendo l’idea razzista che l’identità umana stia nel Dna e si trasmetta per via di sangue alla stirpe. Su tutto questo abbiamo scritto molto su Left.

Qui vi proponiamo di guardare avanti, di osservare e leggere quel che di vivo e vitale si sta muovendo fuori dai nostri confini. Sarà un viaggio speriamo entusiasmante come lo è stato per noi conoscere più da vicino quali e quante novità interessanti stanno arrivando dal grande continente africano.

Una cosa è certa: il nostro futuro ha a che vedere con l’Africa, che gioca un ruolo primario. Ed è un piacere scrivere di un continente di cui si parla poco e che ci permette di ampliare il punto di vista, superando una visione rigidamente eurocentrica. Nell’attuale potente processo di urbanizzazione africana giovani generazioni “globalizzate”, in contatto con il resto con il mondo, stanno sviluppando una visione politica. Certo se guardiamo la cartina del potere l’Africa, a sessant’anni dalle lotte per l’indipendenza, appare ancora segnata da dittature e governi corrotti utili alle multinazionali, segnata da forti disuguaglianze dovute a enormi ricchezze e risorse concentrate in poche mani.

Ma fermarsi a questa mappa geopolitica non permette di cogliere l’humus, il fermento, ciò che socialmente si muove sotto traccia e ben presto produrrà cambiamenti epocali. Non solo per i balzi in avanti che tanti Paesi africani stanno facendo grazie all’iniziativa di tantissimi giovani, che in assenza di lavoro, s’ingegnano inventando nuove imprese grazie alla rete e alle tecnologie a basso costo. Si è innestato un processo che sta andando avanti in maniera inarrestabile e che prefigura quel che potrà accadere da noi.

Non è un caso che in Africa gli smartphone abbiano soppiantato la telefonia fissa molti anni prima che in Europa. Non è un caso che l’idea di un money transfer digitale “solidale” sia partita dall’Africa (con m-pesa, per evitare i costosi circuiti bancari) e si sia poi diffusa nel mondo. Non è un caso se le nuove sfide digitali, comprese quelle che riguardano la digital art, che non ha bisogno di gallerie fisiche, siano partite proprio da lì. Ed è solo l’inizio.

Editoriale di Left n.31 del 4 novembre 2022
Copertina illustrata da Fabio Magnasciutti

Anche per il nuovo governo il 4 novembre è la “Giornata della cobelligeranza”

“Forze armate, missione sicurezza” è il titolo dello spot pubblicato sul sito ufficiale del ministero della Difesa in occasione del prossimo 4 novembre. Accompagna lo spot una nota rilasciata dal ministro della Difesa Crosetto: «Il 4 novembre, Giorno dell’unità nazionale e Giornata delle forze armate, è il riconoscimento di tutti i militari che, in Italia e all’estero, servono il Paese con passione, dedizione e sacrificio. Celebrare, oggi, il Milite ignoto rappresenta l’omaggio alla memoria dei caduti italiani nella Grande guerra, ma anche di tutte le guerre e missioni nazionali e internazionali. Ai militari, che hanno pagato con il prezzo della vita il loro servizio all’Italia, va la riconoscenza da parte di tutti i cittadini italiani».

La retorica di circostanza accompagna anche quest’anno le inutili stragi di ieri e di oggi nascondendo sotto il tappeto una tragica realtà. L’Italia, benché non sia mai stata minacciata o attaccata da nessuno è un Paese belligerante da almeno 31 anni ossia da quando partecipò alla prima guerra del Golfo. Da allora il nostro Paese ha cambiato modello di difesa plasmandolo sul modello anglo-statunitense e obbedendo all’esplicita richiesta che gli stessi Stati Uniti rivolsero agli alleati al summit Nato di Roma del 1991.

Nel corso di quel vertice venne peraltro sancita l’infausta espansione verso Est dell’Alleanza atlantica che risulta essere tra le cause della odierna escalation bellica. Anche in Italia la truppa è stata professionalizzata per trasformare le forze armate in un moderno corpo di spedizione da integrare nella nuova fase di espansione militare globale della Nato. È stata una follia dettata da un cieco e sordo servilismo atlantista. In 31 anni di belligeranza abbiamo infatti accumulato pesantissime e documentabili responsabilità di guerra.

Ma c’è di peggio: Stati Uniti, Regno Unito e Nato hanno riversato, nel corso delle guerre illegali portate avanti in questo periodo, centinaia di tonnellate di uranio impoverito su vastissimi territori in Iraq, Afghanistan e Balcani (Serbia, Kosovo, Bosnia). L’uso massiccio di armi all’uranio impoverito ha provocato in quei territori, e non solo, un disastro ambientale ed una vera e propria epidemia che ancora oggi continua a mietere decine di migliaia di vittime. Soltanto in Italia ci sono almeno 8mila ex militari colpiti da gravissime patologie legate all’esposizione a questo metallo pesante nel corso delle così dette “missioni di pace”. Altri 400 sono morti.

A tutti questi veterani i ministri e le ministre della Difesa hanno sinora negato verità e giustizia nonostante le centinaia di sentenze risarcitorie perse dallo stesso dicastero nei tribunali italiani di ogni ordine e grado compreso il Consiglio di Stato. Vedremo se il ministro Crosetto al di là della retorica da “fratello d’Italia” vorrà interessarsi della sorte e della mancata “sicurezza” di questi ex soldati che una volta ammalatisi o morti “per servire la Patria” sono poi stati scaricati come sacchi da trincea. Oppure vedremo quale approccio terrà di fronte alla “sicurezza” di ambiente, civili e del personale militare coinvolto nelle attività del poligono Nato di Capo Teulada in Sardegna, su cui la Procura di Cagliari ha aperto una inchiesta per disastro ambientale che ha visto indagati i generali Valotto, Errico, Rossi, Santroni e Graziano (già “promosso” alla presidenza di Fincantieri).

Infine forse ci potrà dire, il ministro Crosetto, se l’arrivo anticipato delle nuove armi atomiche statunitensi B61-12 nelle basi di Aviano (Pordenone) e Ghedi (Brescia) è stato concordato o subìto così come se il suo dicastero sia stato messo a conoscenza ed abbia eventualmente approvato l’uso della base siciliana di Sigonella per missioni di droni e pattugliatori statunitensi nel mar Nero mentre venivano attaccate navi russe dall’esercito ucraino.

A quanto pare la “sovranità nazionale” rivendicata dal suo partito sembra piuttosto limitata considerato che il nostro territorio continua ad essere utilizzato come rampa di lancio per una guerra tra superpotenze mentre i nostri contingenti vengono impiegati direttamente a ridosso dei confini con la Russia e gli invii di armi all’Ucraina continuano ad essere secretati come del resto gli stessi accordi che regolano la presenza militare statunitense nel nostro Paese.


* L’autore: Gregorio Piccin è Responsabile pace del Partito della rifondazione comunista – Sinistra europea

Il 5 novembre in piazza, per la pace. Una risposta a Flores D’Arcais

Due modi di intendere la pace e la guerra: a proposito dell’appello di Flores D’Arcais ed altri apparso su Micromega relativo alla manifestazione di “Europe for Peace. Tutti a Roma il 5 novembre“.

Cessate il fuoco e immediata conferenza internazionale di pace sono gli obiettivi per i quali Europe for peace ha indetto la manifestazione del 5 novembre. Flores D’Arcais e altri invitano a parteciparvi sulla base di una indicazione, implicitamente denigratoria di quegli stessi obiettivi, secondo la quale «pace vuol dire il ritiro dell’aggressore entro i suoi confini, ogni altra soluzione sarebbe un premio a chi la pace l’ha violata», dato che «quando una dittatura imperialista invade con il suo esercito una democrazia, e i cittadini di quest’ultima resistono eroicamente malgrado la schiacciante inferiorità bellica, la risposta, per ogni democratico, è adamantina».

Le differenze tra le due posizioni sono reali e profonde: quella di Flores D’Arcais segnata da manicheismo impolitico, bene contro male, di cui è facile mostrare la fragilità; quella di Europe for Peace che mentre condanna senza riserve la Russia guarda anche a cause e conseguenze della guerra, agli obiettivi da raggiungere con una conferenza internazionale di pace. Chi lo ha detto che l’Ucraina, la sua popolazione e i suoi confini si possono difendere solo con la guerra e non all’opposto tramite la mediazione internazionale che come primo obiettivo deve proporsi di garantire la sua integrità territoriale? Aiutando la popolazione sanzionando la Russia, puntando tuttavia ad affrontare contestualmente i problemi da cui la stessa guerra è stata originata: mancato rispetto degli accordi di Minsk, allargamento Nato, diritti minoranze russofone, referendum sotto controllo Onu, mancata ripresa dei trattati di non proliferazione nucleare e di sicurezza per tutti, aumento esponenziale spese militari a scapito di ambiente, fame, uguaglianza.

Come dice Bernie Sanders, con lo stesso realismo di Europe for Peace, «non abbiamo visto sanzioni contro gli americani quando hanno distrutto l’Iraq. Anche se la Russia non fosse stata governata da un oligarca corrotto e da un leader autoritario come Putin, Mosca continuerebbe ad avere interessi nella security policy dei propri vicini» (intervento al Congresso Usa, febbraio 2022). La scelta di inviare armi all’Ucraina è sbagliata – anche senza scomodare la Costituzione – per due semplici ragioni. La prima: bastano e avanzano quelle fornite all’esercito ucraino in enormi quantità da 10 anni a questa parte da Stati Uniti e Nato (senza consultare né Onu né Ue); la seconda: il contributo in armi dell’Europa ci rende patetiche comparse in un dramma governato politicamente e militarmente da altri (Usa e Nato) che impediscono in via di principio un ruolo politico autonomo dell’Europa stessa e dell’Onu nella ricerca di una soluzione pacifica. Impossibile non vedere che sono gli Stati Uniti a decidere se e quando fermare la guerra: non solo per tutelare il giusto diritto di quel Paese alla propria sovranità ma agli ulteriori scopi di riscrivere la geopolitica globale, favorire un riarmo generalizzato e rendere sempre meno evitabile la prossima guerra contro la Cina. Questo non giustifica in alcun modo la Russia ma spiega di che cosa stiamo parlando. Impossibile non vedere ma i firmatari dell’appello ci riescono. Come scrisse Musil parlando della crisi europea agli inizi del 900 “abbiamo visto molto ma di nulla ci siamo accorti”.

E a proposito di bene e male ricordo a Flores alcune vicende che illustrano l’indifendibilità delle posture manichee che mai aiutano ad essere obiettivi. Gli esempi sono tanti: ecco il primo. Il 26 febbraio 1991 in Kuwait l’aviazione Usa compì una strage di civili, nel tristemente celebre attacco all’Autostrada 80, passata alla storia come “Autostrada della morte”. Nello stesso giorno in cui questo accadeva Flores D’Arcais presentò alla direzione del Pds un ordine del giorno di sostegno incondizionato a quella guerra e mai disse, che io sappia, una sola parola contro la strage e i suoi responsabili. Né nessuno fu mai chiamato a risponderne.

Ma c’è anche una seconda motivazione. La manifesta illegittimità della guerra alla Serbia da parte di Nato e Stati Uniti – secondo la Carta delle Nazioni unite – è nota al mondo e non c’è bisogno sul punto di aggiunger parola. Anche in quel caso c’era un aggressore e un aggredito ma Flores D’Arcais sostenne l’aggressore argomentando che i crimini di Milosevic lo esigevano (si veda il suo articolo su Micromega, n.2/1999) incurante del fatto che si distruggeva così l’autorità dell’Onu e la legalità internazionale.

Infine una terza argomentazione: era il 17 gennaio 1991, e nei 43 giorni successivi durante la guerra del Golfo l’aviazione Usa e alleata (tra cui gli italiani) sganciò in Iraq 250 mila bombe comprese quelle a grappolo che causarono 100 mila morti militari e altrettanti civili, e moltissimi altri civili e bambini morirono poi causa un regime sanzionatorio applicato anche all’importazione di beni primari e farmaci. E si potrebbe continuare sui crimini nella Palestina occupata illegalmente, su quelli degli Stati Uniti svelati da Julian Assange, fondatore di Wikileaks, perseguitato dai responsabili di quei medesimi crimini e dal democratico imperialismo che ne è all’origine.

La morale che si può trarre da tutto questo si trova in Danilo Zolo e nel suo Chi dice umanità (Einaudi, 2000) dove si mostra come i problemi della convivenza nel mondo determinati dai conflitti per l’uso delle risorse vengono in genere resi irrisolvibili dagli eserciti dei “paladini del bene”. Così di guerra in guerra in una escalation senza fine, svuotando granai e riempiendo arsenali le ricchezze del mondo si sono concentrate nelle mani di pochissimi, 250 milioni di bambini vivono in zone letali di guerra, pandemie mancanza di cibo e di vaccini, distruzioni ambientali fanno il resto. Questo giustifica i crimini di Putin? No e ancora no. Ma nemmeno giustifica le amnesie, la cecità e un manicheismo che alimenta tutti gli imperialismi, non solo quello russo. E che rende impossibile giungere ad un cessate il fuoco, al superamento della nuova guerra fredda in cui gli imperialismi ci hanno cacciato, alla costruzione di una mediazione. I peggiori nemici dell’Ucraina e della pace sapete quindi dove trovarli.

La manifestazione del 5 novembre e la conferenza internazionale che viene chiesta rappresentano una svolta nella coscienza europea che nessun manicheismo riuscirà a fermare. Si vuole infatti non solo salvare vite, ripristinare la sovranità dell’Ucraina ma avviare anche la costruzione di nuove regole per la convivenza nel mondo basate su giustizia e uguaglianza , che tutti nessuno escluso siano tenuti a rispettare.

L’autore: Mauro Sentimenti, avvocato, è rappresentante del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale

Nella foto: manifestazione per la pace, Roma, 5 marzo 2022

Dopo i “taxi del mare”, le “navi pirata”

L’avevamo scritto: quando il governo Meloni sarà in difficoltà si butterà contro le Ong. L’ha già fatto. Del resto dopo pochi giorni dall’insediamento del nuovo governo e dopo aver sventolato la norma “anti rave” che già devono modificare perché non piace nemmeno all’interno della maggioranza sono già in stallo. Giorgia Meloni, sempre brava nel ruolo dell’untrice delle disperazioni, ha coniato una nuova definizione: «Se fai la spola tra le coste africane e l’Italia per traghettare migranti – ha accusato – violi apertamente il diritto del mare e la legislazione internazionale. Se poi una nave Ong batte bandiera, poniamo, tedesca, i casi sono due: o la Germania la riconosce e se ne fa carico o quella diventa una nave pirata». È la solita trita retorica di chi vigliaccamente non alza la voce contro i carcerieri libici e contro gli scafisti ma se la prende con le organizzazioni umanitarie che salvano meno del 15% degli sbarchi.

Del resto è comodo essere vigliacchi. Era comodo per Minniti, era comodo per Salvini, era comodo per Di Maio e ora è comodo per questi. Dai “taxi del mare” alle “navi pirata” è un percorso che dobbiamo portarci addosso come conseguenza dell’incompetenza e della disumanità. Così è bastata la prima dichiarazione non cerimoniosa della presidente del Consiglio per essere subito ricacciati nell’angolo dei dilettanti dal governo tedesco: «Per il governo federale – si legge – le organizzazioni civili impegnate nel salvataggio di migranti forniscono un importante contributo al salvataggio di vite umane nel Mediterraneo». «Salvare persone in pericolo di vita è la cosa più importante», prosegue il testo arrivato da Berlino. Che poi sottolinea: «Secondo le informazioni fornite da Sos Humanity sulla nave ‘Humanity 1’, battente bandiera tedesca, attualmente ci sono 104 minori non accompagnati. Molti di loro hanno bisogno di cure mediche». «Abbiamo chiesto al governo italiano di prestare velocemente soccorso», conclude la lettera.

Del resto sotto la propaganda c’è Piantedosi (la controfigura di Salvini messa al ministero del’Interno) che ha inviato una nota ufficiale all’Ambasciata della Repubblica Federale tedesca per chiedere di avere un quadro compiuto della situazione a bordo della “Humanity 1” in vista dell’assunzione di eventuali decisioni. La situazione è chiara: sulla Humanity 1 (bandiera tedesca) i naufraghi raccolti sono 179. La situazione a bordo si va facendo via via più difficile: ci sono oltre cento minori, il più piccolo di soli sette mesi, che stanno «soffrendo di stress psicologico. Hanno bisogno di un porto ora», dicono dalla nave. La Ocean Viking (bandiera norvegese) ospita invece 234 migranti. Sos Mediterranée, la ong francese che la gestisce, chiede da tempo un porto, considerando che tra i salvati c’è chi è in mare da ben 12 giorni. Sulla Geo Barents ci sono oltre 60 minori, tre donne incinte e casi che richiedono un intervento immediato.

Ma soprattutto c’è la legge: è un obbligo per gli Stati fornire il ‘place of safety’ alle navi che sono state impegnate in operazioni di ricerca e soccorso e che trasportano a bordo i sopravvissuti. Se Giorgia Meloni vuole risolvere il problema dell’immigrazione usata dalla Libia come rubinetto per ricattare l’Europa sarà costretta a fare politica, quella vera, nelle sedi europee. Le stesse sedi che ha irriso per anni per fomentare i suoi elettori e da cui si presenta oggi con il cappello in mano per chiedere aiuto.

Buon giovedì.

 

Enrico Galiano: La scuola del merito e della competizione non è scuola

«Lo vogliamo capire che la scuola non è un posto dove si vanno a selezionare i migliori, che pensarla così è il modo più antidemocratico che esista?» così Enrico Galiano ha commentato la scelta nuovo Governo di scegliere il nuovo nome “Ministero dell’Istruzione e del Merito” deciso dal governo Meloni che ne ha affidato la guida al leghista Giuseppe Valditara, già relatore della famigerata riforma Gelmini che molto sulla retorica del merito si basò con il risultato concreto di ampliare le disuguaglianze.

«Già nel 1958 nel libro The rise of meritocracy il sociologo Michael Young metteva in guardia rispetto al rischio della meritrocrazia. State attenti, diceva, state sostituendo i privilegi basati sul censo e l’appartenenza di classe con quelli basati sull’ingegno».

Invece che di merito lo scrittore e insegnante, autore di bestseller come L’arte di sbagliare alla grande ama parlare di originalità, talento, diversità, unicità di ciascun adolescente che la scuola ha il compito di aiutare a fiorire. Galiano in particolare ne parla molto nel suo nuovo libro Scuola di felicità per eterni ripetenti (Garzanti) in cui racconta frammenti di vista scolastica, incontri con i ragazzi che non ammettono infingimenti e che ti spingono a metterti in gioco, a calare ogni maschera, a lasciarti vivere fino in fondo.

«Quanti alibi per non amare» recitano i versi di Elio Pagliarani che lo scrittore e insegnante di Pordenone pone ad esergo del suo racconto scritto tra i banchi, cercando di stabilire un rapporto profondo con i ragazzi. Così, pagina dopo pagina, conosciamo ragazzine e ragazzini incredibili. Come Sara che andava a scuola tutti i giorni con la medesima maglietta perché le piaceva la macchia si latte e cacao sul colletto perché se l’era fatta un mattino che suo fratello l’aveva fatta tanto ridere. Conosciamo Lucia, con alle spalle una dura storia di abbandono ma che cerca la bellezza in ogni angolo e non sopporta che si vedano come piccole, che si diano per scontate, cose grandi come il rumore della neve sotto i piedi o la piadina con il prosciutto. Ogni incontro è l’apertura di una porta su un mondo interiore, è la scoperta di una luce negli occhi, un tuffo nell’incoscienza che non si lascia irretire dalla quotidianità piatta e dalla razionalità calcolatrice. Edoardo Galiano ha questo dono, di saperla cogliere a comunicare con parole vive.

Anche in questo libro, Scuola di felicità per eterni adolescenti che presentiamo il 3 novembre alle 18,30 alla libreria Read Red Road di Roma riesce a toccare corde profonde nonostante questa volta non sia un romanzo ma una sorta di saggio, dialogico e personale. Sono riflessioni che nascono dall’interesse verso i ragazzi, dal suo essere un professore che antepone l’ascolto, il rapporto con gli studenti. Solo così la trasmissione della conoscenza diventa una avventura appassionante in un rapporto reciproco in cui è  l’insegnante (come professionista e come persona) a imparare dai ragazzi.

«Sapete quante cose possiamo imparare da loro?»  domanda Galiano ai lettori nella prefazione di Scuola di felicità per eterni ripetenti. «La follia, per esempio. Noi che non impazziamo mai e proprio per questo rischiamo sempre di impazzire. Da loro potremmo imparare le risate quelle lunghe infinite ripassare un po’ l’arte di fare gli scemi perché  la sola cosa davvero scema  è smettere di ridere. Da loro potremmo imparare l’amicizia quel parlarsi molto più che parlarsi quel guardarsi, molto più che fratelli… da loro potremmo imparare l’onestà il pane al pane, le parole dirette e il bianco e nero. Da loro potremmo imparare quelle dormite lunghe infinite preziose cariche di sogni».

Quando lo abbiamo incontrato lo scorso settembre al Festival di Emergency (di seguito il video, qui l’intervista) gli abbiamo chiesto di questo suo amore per la magia della adolescenza, vulcanica stagione di grandi amori, di crisi, di trasformazione. Abbiamo parlato con Galiano di come questo loro essere spiazzanti e ricchi di intelligenza emotiva metta in crisi l’ordine razionale dei programmi, delle valutazione, dei test.

E qui torniamo alla questione iniziale, cos’è il merito? Come si misurerebbe? I ragazzi ti possono sorprendere esprimendo un pensiero diverso, apparentemente non conforme, non congruo, imprevisto ma che contiene invece una intuizione che illumina le cose con uno sguardo diverso. Ogni ragazzo è diverso, ha un suo modo di esprimersi.

«Sì, è un tema importante, si parla sempre di adolescenti in modo generico come se fossero una sorta di blob unico», risponde Galiano. Chiunque lavori con loro, ci viva insieme, sa che non ne esiste uno uguale all’altro. Sono sempre caratterizzati da differenze a volte anche abissali fra di loro. E questo è uno degli aspetti più affascinanti. Come insegnante ti mette in crisi vedere che lo stesso atteggiamento e approccio con uno funziona benissimo e con l’altro fa disastri. Devi stare sempre molto attento a replicare gli stessi metodi». Anche da qui la sperimentazione creativa di Galiano con i nuovi media per cercare di parlare con i ragazzi con la loro lingua. Un ricerca continua che l’ha fatto diventare uno degli insegnanti-scrittori più seguiti. La sua web serie Cose da prof ha superato venti milioni di visualizzazioni su facebook. Ma come dice lui stesso «quello era Jurassico», ora per comunicare con i ragazzi bisogna andare su tik tok e oltre. Ma soprattutto, oltre al linguaggio, oltre al mezzo, conta l’empatia, l’interesse per il vissuto dei ragazzi.

Su un punto Galiano torna sempre: l’importanza di prestare la massima attenzione a come si sentono i ragazzi, non solo a quello che fanno. «Servirebbe uno psicologo i ogni scuola e una formazione personale adeguata degli insegnanti riguardo alla psicologia degli adolescenti», ripete spesso. Specie dopo due anni di pandemia durante i quali anche i più piccoli sono stati privati della scuola e di occasioni di socialità così vitali a quell’età. Costretti a casa e fare lezione in dad hanno dato una grande prova di responsabilità. Ma nonostante questo sono stati descritti dai giornali mainstream come untori, come disattenti. «Ciò che ho notato durante la pandemia – racconta Galiano –  è che quanto all’attenersi alle regole mediamente hanno avuto comportamenti più rispettosi rispetto agli adulti. Viaggiando molto in treno mi è capitato raramente di osservare ragazzi senza mascherina, mentre molto più spesso ne ho visto i più grandi privi. Ma al di là di questi aspetti – approfondisce lo scrittore – ho notato che per loro è stato un momento più difficile che per noi. Perché a 15 anni la socialità non riveste la stessa importanza che a 35, a 40 o a 45. A 15 anni è acqua, pane è nutrimento senza il quale non sopravvivi. Ad alcuni di noi quarantenni ha fatto quasi anche un po’ bene un po’ di solitudine, un po’ di raccoglimento, magari perdi anche un paio di chili». Per i ragazzi no, non è stato così e l’isolamento è stata una grossa deprivazione. «Alcuni l’hanno presa molto male – chiosa Galiano -. Si sono chiusi in se stessi e hanno sofferto tanto, anche perché credo che la pandemia abbia portato alla luce tanti aspetti che erano latenti. Uno di questi era l’effettivo e totale disinteresse che la politica ha espresso nei confronti dei più giovani. È una cosa per me scandalosa. Anche durante le elezioni non se ne è sentito parlare veramente». Se non all’ultimo e tutto e in maniera strumentale con qualche bizzarra discesa su Tik tok, a cui i giovani – giustamente – non hanno abboccato. Perché tanto disinteresse della politica verso i giovani?  «Credo che sia per un motivo cinicamente matematico – conclude Galiano -. I giovani sono dieci milioni. La scuola è uno degli argomenti che nel dibattito politico arriva sempre per ultimo. Si sono fatte grandi discussioni se fare o meno il festival di Sanremo, ma non c’erano grandi discussioni su come riaprire le scuole. Questo disinteresse loro l’hanno sentito, non sono stupidi, se ne sono accorti, non è stato facile per loro».

Rave ed ergastolo, l’attacco di Meloni ai principi costituzionali parte da qui

L’introduzione del reato di rave party e il provvedimento sull’ergastolo ostativo, due delle prime misure del governo Meloni, sono pura propaganda securitaria, nonché pericolose forme di disciplinamento sociale. Ha ragione Gian Domenico Caiazza, avvocato presidente dell’Unione camere penali, intervistato da Giuseppe Salvaggiulo su La Stampa: «C’è un’idea populista della giustizia penale. Ormai con i decreti si fa di tutto. Dove sono i presupposti di straordinaria necessità ed urgenza? C’è un’emergenza rave party? Quanti ce ne sono, in Italia, ogni anno?».

Sono preoccupato: al netto delle pene spropositate, la norma potrebbe essere applicata in occasione di occupazioni di fabbriche, scuole, abitazioni. In questa norma si può prefigurare una sorta di possibile reato di chi è protagonista di critica sociale, ribellione, di dinamiche di lotta di massa.

Per quanto riguarda, in secondo luogo, il provvedimento sull’ergastolo ostativo è importante notare che il governo aggira (è stato poco sottolineato in queste ore) anche la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2019, la quale ha sostenuto che l’ergastolo ostativo è in contrasto con l’art. 3 della Convenzione, che vieta in modo assoluto trattamenti inumani o degradanti. È il medesimo contenuto dell’art. 27 della nostra Costituzione.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni afferma, con demagogia, che l’ergastolo ostativo è indispensabile per combattere le mafie, negando, con superficialità, il parere di tre presidenti emeriti della Corte costituzionale. Gli ergastolani ostativi, dopo trenta anni di carcere duro, non sono ammessi a «benefici penitenziari», a misure alternative al carcere (e, ovviamente, alla liberazione condizionale).

Mi è capitato di incontrare, nei miei seminari in carcere, molti dei più dei 1.200 ergastolani ostativi. Tutti ritengono che sia preferibile la pena di morte. Scrive Musumeci: «Se lo Stato uccide la speranza di riabilitazione ha già, con legittimità formale, spento la vita». Aldo Moro ha scritto pagine altissime di diritto ed umanità nella relazione alla Costituente in cui si dichiarava a favore dell’abolizione dell’ergastolo. L’art. 27 della Costituzione è chiarissimo nel tracciare la distinzione tra efficacia punitiva e riabilitazione. Anche nei casi dei delitti più efferati le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato».

Per l’appunto, la Convenzione europea ci chiede di valutare la persona , senza “inchiodarla” al reato commesso trenta anni prima. E chiede che il giudice possa riconsiderare caso per caso la situazione del detenuto, articolando la fattispecie senza, comunque, nessun automatismo concessivo.

È un grande tema, molto sofferto, che non merita la mediocre demagogia di Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia: è possibile una pena orientata costituzionalmente anche di fronte a reati gravissimi e, a volte, agghiaccianti? Una grande sfida per la legalità costituzionale. Si tratta di una decisione di civiltà giuridica. Uno Stato forte non deve temere se stesso e i propri giudici, né la liberazione di detenuti che hanno scontato, in carcere duro, decenni di pena.

Per prendere le distanze dal fascismo, Meloni lo supera a destra

Il primo atto del governo Meloni è quanto di più simbolico e certificativo di quel filo nero che lo lega ad un passato che non passa mai.
Viene introdotto nel codice penale il nuovo art. 434 bis che punisce le occupazioni abusive finalizzate ai raduni illegali: con una vera e propria truffa delle etichette raccontato in conferenza stampa dal trio Meloni, Piantedosi, Nordio come reato di rave-party.

Chi invade terreni o edifici, pubblici o privati, per svolgervi raduni ritenuti discrezionalmente dall’Autorità pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica, con un numero di persone superiore a cinquanta, sarà punito con la reclusione da 3 a 6 anni e con la multa da euro 1.000 a euro 10.000.
Questo provvedimento è l’impronta di un governo di estrema destra, liberticida, nostalgico, reazionario e illiberale.
Sotto il regime fascista, il regio decreto del 1926 sulla pubblica sicurezza, già puniva le pubbliche riunioni non preavvisate alle autorità, ma solo con l’arresto non inferiore a 1 mese e con un’ammenda.

Venendo a tempi più recenti in cui, sotto la luce dei principi costituzionali in materia penale, il legislatore ha raggiunto una maggiore consapevolezza sull’uso (e sull’abuso) dello strumento penale, dal 14/01/2000 è stato depenalizzato l’art. 654 del codice penale, che puniva le manifestazioni sediziose con l’arresto fino a un anno.
Oggi, chi vuole organizzare una riunione in luogo pubblico, ai sensi dell’art. 18 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (il famoso Tulps  del 1931, tuttora vigente) deve darne avviso, almeno tre giorni prima, al questore.
I contravventori sono puniti con l’arresto fino a 6 mesi e con un’ammenda.
Il questore, nel caso di omesso avviso ovvero per ragioni di ordine pubblico, di moralità o di sanità pubblica, può già impedire che la riunione abbia luogo e può, per le stesse ragioni, prescrivere modalità di tempo e di luogo alla riunione.
I contravventori al divieto o alle prescrizioni dell’Autorità sono puniti con l’arresto fino a un anno e con un’ammenda.

Inoltre, esiste già, nel codice penale, il reato di invasione di edifici (art. 633) che punisce con la reclusione da uno a tre anni chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati.
La pena è aumentata da 2 a 4 anni se, come avvenuto a Modena, il fatto è commesso da più di cinque persone.
È doveroso chiedersi, allora, visto che l’invasione di edifici e le riunioni non preavvisate alle autorità di pubblica sicurezza sono già sanzionate penalmente e in modo pesante (gli organizzatori del rave di Modena rischiano da 2 a 4 anni di reclusione avendo occupato, in numero certamente superiore a 5, senza titolo, una proprietà privata) perché il governo abbia sentito la necessità di introdurre un nuovo reato.

Ecco svelata la truffa delle etichette:
la verità è che non era affatto necessaria una nuova norma incriminatrice (di condotte che sono già vietate e pesantemente sanzionate dalla legge) ma il rave-party di Modena è stato solo il pretesto per una violenta manganellata al diritto di riunione e di libera manifestazione del pensiero.
La norma è indeterminata al punto che, finché la Corte Costituzionale non ne dichiarerà l’illegittimità, finirà per essere usata per reprimere ogni manifestazione organizzata del dissenso: dalle università alle piazze, dalle scuole alle fabbriche.
Si tratta di una norma che punisce, per esempio, il diritto di manifestare degli studenti nelle scuole (le cd. occupazioni) e il diritto dei lavoratori di scioperare e manifestare occupando le fabbriche. A ben vedere il governo, col trattamento sanzionatorio, va persino oltre il testo unico di epoca fascista.
Si può affermare che “il presidente” Meloni ha finalmente preso le distanze dal fascismo, ma superandolo a destra.

L’autore: Andrea Maestri è avvocato, ex deputato e membro Commissione Giustizia della Camera

Nella foto: La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno