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ImmaginAzione all’opera

Scrivo da Lubumbashi, la terza città della Repubblica Democratica del Congo, alla quasi conclusione dei dieci giorni di lancio della settima edizione della Biennale di Lubumbashi, intitolata Toxicity (Toxicité in francese), titolo che mette in opera un cortocircuito di senso traducibile in italiano come Tossicittà (biennaledelubumbashi.com).
Lubumbashi, ex Elizabethville del Congo Belga, era un’area che venne urbanizzata negli ultimi decenni dell’Ottocento, scoperto il rame, dai coloni di Leopoldo II di Belgio. Il rame ha sancito la nascita della città e trasformato la rivoluzione industriale in Europa e l’immagine stessa delle sue capitali. Difficile non pensare alla ville lumière osservando la collina di scavo (il terril), landmark di Lubumbashi formatosi con l’estrazione del rame e la vicina ciminiera: l’immaginario della Parigi modernista delle avanguardie, incarna di colpo, in questa città, il suo lato oscuro, quello dello sfruttamento coloniale delle miniere di rame e dell’estrattivismo delle economie imperiali europee.

La Biennale Toxicity si fa pensiero sul mondo a partire dalla città del rame e del cobalto, capitale della provincia del Katanga, la regione da cui aziende minerarie internazionali del XX secolo avrebbero poi estratto l’uranio (quello venduto dai Belgi agli Stati Uniti per le bombe di Nagasaki e Hiroshima veniva da qui) ed oggi, non lontano, il litio. La tossicità si respira quotidianamente nella polvere carica di arsenico e piombo ed è insita nel terreno da cui emergono pietre di metalli pesanti. Tossica è l’economia modernista delle ciminiere, il cui fumo generava inquinamento insieme a certezze di prosperità e ricchezza, fino a che la loro dismissione successiva alla guerra civile degli anni Novanta ha fatto sì che non fumassero più – e che la crisi economica divenisse visibile e respirabile. Ma la tossicità è anche metafora. Quella esistenziale di uno dei Paesi più ricchi del mondo sfruttato dal funzionamento coloniale dell’economia del modernismo e neocoloniale del presente liberista (pensando alla narrazione delle automobili elettriche che non inquinano, dovremmo osservare le trasformazioni del territorio della vicina Manono dove recentemente è stato scoperto un giacimento di litio). La tossicità del pensiero moderno che ha concepito l’impianto urbanistico segregato di Elizabethville, basato su un finto fatto scientifico: le zanzare non possono volare più di 700 metri. E così la “ville des blancs”, con le ville le cui facciate ricordano le case delle Rue Haute di Bruxelles, e “la ville des indigènes”, sono separate da una zona franca profonda un chilometro per evitare che le zanzare che pungevano gli “indigeni”, pungessero anche i bianchi. La tossicità dell’estrattivismo delle risorse dell’immaginario, con le storie di artisti e fotografi globali di passaggio che raccontano l’Africa delle ingiustizie e dei disastri, senza dare visibilità agli immaginari resilienti che la vivono quotidianamente.

Con la voce e le immagini di artisti congolesi e internazionali, la Biennale ha lanciato la settima edizione il 6 ottobre scorso, nello spazio dedicato al suo progetto formativo e di lunga durata, “Ateliers Picha”. La Biennale di Lubumbashi nasce nel 2008 con l’idea di dare spazio agli immaginari generati in questo contesto, come Rencontres Picha. Due fotografi allora emergenti tornano dai Rencontres de Bamako e decidono con i loro compagni di organizzare una cosa simile, uno spazio in cui invitare altri artisti e visionari dall’Africa e dal mondo e connettere le proprie immagini, scambiando storie e forme di resistenza. Nasce così Picha, in Swahili “immagine” (e sullo swahili che si parla in questa parte del Congo, lingua imposta dagli imperi coloniali per dare ordini ai lavoratori delle miniere, bisognerebbe aprire un capitolo troppo lungo per questo spazio), l’organizzazione che alimenta la Biennale da 14 anni. «Immagine come mezzo e città come palco» spiega il manifesto di questa organizzazione di artisti, scrittori, producers, che hanno abbracciato insieme l’utopia di poter decodificare la colonialità insita nella vita quotidiana: nelle scuole in cui si parla ancora di Leopoldo come un modernizzatore, nelle chiese in cui si dominano desideri e aspirazioni con prassi di contenimento dell’immaginario, nella forma della città.

Dopo la prima Biennale, Picha ha aperto uno spazio laboratoriale, cioè studio collettivo di creazione e ricerca sperimentale su media e idee, e pur poggiandosi sulle spalle fragili di una organizzazione indipendente che nel mondo anglosassone sarebbe definita “grassroots”, conta sul sostegno di una rete locale ed internazionale di artisti, curatori, scrittori di altissimo livello. Ateliers Picha nasce per accompagnare e far crescere una nuova generazione di artisti congolesi. Dal 2019 ne sono direttrice artistica ed insieme a un gruppo di quindici giovani artisti, scelti insieme a Picha, abbiamo lavorato alla produzione delle loro opere nella sezione più corposa della Biennale.

A loro si sono aggiunti artisti più affermati, per animare dei workshop di produzione site-specific: Franck Moka, Isaac Sahani Dato, Frank Mukunday e Sarah Kadima dalla stessa Repubblica democratica del Congo; Luigi Coppola e Maria Iorio/Raphale Cuomo da Belgio e Svizzera. Si parla di ciminiere che non fumano più, di piante che riparano il territorio (in un bellissimo progetto di Luigi Coppola), di storie precoloniali tra uomini e cani, di storie e figure politiche e culturali locali dimenticate e da far riemergere, di intere comunità salvate dal lavoro ostinato e illegale dei raccoglitori precari di spazzatura. Piuttosto che concentrarci sulla produzione di una mostra per la Biennale, abbiamo sviluppato dei percorsi lenti e di lunga durata, seguendo l’idea di un Symbiotic Planet che allude a prassi di condivisione, cooperazione ed evoluzione collettiva. Appropriandoci di una scoperta dalla biologa Lynn Margulis come metafora, abbiamo operato in un pianeta simbiotico, dove l’evoluzione di uno aiutasse l’evoluzione di tutti, creando un territorio fertile, sano e in cammino verso una migliore condizione collettiva.

Possibile immaginare l’unione e lo sforzo collettivo come antidoto alla tossicità del nostro presente? In questo percorso l’Endosimbionte di Margulis sembra essere anche metafora e sintesi dell’operato di Picha nel suo contesto: partecipazione e condivisione sono possibilità tangibili per la co-creazione di migliori spazi di vita, in cui pensare, radicare, creare e migliorare il reale. Ma è anche un immaginario che proprio da questo contesto così carico di implicazioni anche per il resto del mondo – il mondo è un sistema, quello che succede a Lubumbashi è il lato oscuro del sistema di governance globale che trasforma il pianeta – sembra indicare vie futuribili di convivenza per un pianeta in rovina.

Anche la moda in Africa è politica

«Perché non vedere l’ambizione all’eleganza come espressione della volontà di sopravvivere?». Inaspettato, e stimolante, l’interrogativo della fashion designer e filmmaker maliana Awa Meïté, pone delle domande. Sulla forza creatrice della bellezza, certo, ma soprattutto sulle ragioni che nel suo mondo fanno della ricerca dell’eleganza una esigenza, una questione vitale. Come spiegare altrimenti una tale enfasi sul modo di apparire?

Partendo dal Mali, pur con i limiti di ogni generalizzazione, potremmo andare oltre fino ad affermare che l’aspirazione all’eleganza, e segnatamente la ricerca di un look d’impatto attraverso lo stile appariscente degli abiti, da quelli di parata a quelli di strada, è modalità ricorrente attraverso cui in Africa, nelle culture black delle diaspore e nelle travagliate comunità di migranti, si rafforza la componente performativa, negoziale e relazionale di identità composite.

In altre parole, la messa in scena del corpo attraverso un abbigliamento d’effetto, e fortemente assertivo, appare come una pratica diffusa nei contesti di socializzazione, di aggregazione e competizione in quell’ampia e diversificata galassia in cui oggi molti si riconoscono come appartenenti a una comunità nera globale, all’interno della quale, come ben dice la scrittrice e sceneggiatrice anglo-nigeriana Theresa Ikoko: «Si sente una connessione» . E dove, il «diritto all’immaginazione», di cui ci parla Arjun Appadurai (2001), fondamentale nella costruzione di identità in grado di reggere le sollecitazioni e le ansie della globalizzazione, trova proprio nell’inventività del vestirsi una delle sue forme espressive, in modo particolare nelle metropoli dell’Africa occidentale e centrale, dove diviene una sorta d’intonazione generale parte del patrimonio creativo.

«Espressione della volontà di sopravvivere». L’ enfasi non è fuori luogo, anzi. Queste forme di espressività sono atti performativi che trasformano chi li produce, valorizzando il singolo – le apparenze contano come mise en place di sé – e nello stesso tempo portano avanti una serie di istanze collettive. Così, dati gli stretti rimandi fra corpo, persona e personalità e considerato il ruolo cruciale del pubblico che assiste, la performance estetica ed emozionale del corpo rivestito con outfit eclatanti – in cui abbigliare è abbagliare (e qui il richiamo obbligato è alla celebre Sape, la moda dei dandy congolesi) – incarna l’intenzione strategica del performer in risposta al contesto e sta lì a mostrare che il corpo vestito in quella maniera è un corpo in azione. Insomma, nei diversi scenari in cui si dispiega e interagisce l’abbigliarsi è una forma efficace di agency, non solo per essere visti, ma per allargare la sfera di azione e di relazione della persona in un mondo fortemente globalizzato, interconnesso anche nella spettacolarità generalizzata e nella tensione permanente che l’apparire o il rischio dell’invisibilità comportano.

Il corpo vestito, dunque, come primo luogo in cui si incarnano identità problematiche e in movimento, prodotte dalle connessioni e dalle tensioni tra mondi locali e più ampi scenari storici, economici, politici. Un corpo motore di creatività e moltiplicatore di presenza sociale, che si sperimenta in performance condizionate dal giudizio estetico e orientate in qualche misura dalle reazioni di chi guarda, assiste, partecipa. Un corpo immerso in un corso di vita fluido, operante e incorporante ciò che lo circonda. La questione non può quindi ridursi a un semplice trasporto diffuso per l’eleganza spettacolare. Se l’inclinazione al vestirsi per fare colpo si aggancia allo spirito del tempo (dress to impress) lì però non si esaurisce. Nel nesso fra corpo e vestito vi è la costruzione del sé pubblico, individuale e comunitario, di classe e di genere, l’incorporazione di modi di vivere, sentire e di pensare nei quali singoli e intere comunità possono ritrovarsi, una stratificazione storico-culturale fatta di eredità assunte e dismesse, rivendicate e subite. Come dimostra tutta la storia dell’abbigliamento e dei commerci di tessili e filati, vestire il corpo è una vicenda di incessanti appropriazioni e trasformazioni.

In molte tradizioni di pensiero africane la costruzione culturale del corpo ruota intorno all’esigenza di potenziarlo. Attrezzare il corpo, infatti, contribuisce non poco a esaltarne la potenza esistenziale e creativa. Va in questa direzione l’incorporazione di segni-forza, non di rado anche di origine straniera, come è stato il caso, in epoca coloniale, di stoffe, tenute e divise di origine europea che in quanto altre erano oggetto di fascinazione e appropriazione. Attualmente la fascinazione è quella fashion esercitata dal sistema globale della moda, con la ripresa dei segni cult dell’oggi, in qualche misura ancora in funzione di segni-forza, prodotti di una modernità globale e cosmopolita diventati elementi fondamentali di una modernità locale.

Sullo sfondo delle pratiche e manovre in atto sul terreno poroso e in continua evoluzione dell’abbigliamento nei mondi locali c’è tutto ciò che contribuisce a creare l’ambiente visivo nel quale viviamo. Si va dal campo delle estetiche del quotidiano a quello dei creativi africani della moda e dell’arte che lavorano sulle trasformazioni materiali e simboliche del corpo attraverso l’abbigliamento. Dai corpi rivestiti che cercano visibilità sociale e una maggior presa sulla propria esistenza sulla scena pubblica, passando anche dalla loro riproduzione in immagine attraverso una molteplicità di media, alla scena estetica contemporanea africana e delle diaspore. Una scena affollata, che offre innumerevoli opportunità di collaborazione fra artisti, fotografi, registi, fashion filmmaker, stilisti, fashion designer, designer tessili, attivisti visuali, coreografi, performer. Che si tratti degli afrodiscendenti delle diaspore, degli afropolitan affermati e ben integrati nei circuiti internazionali, o di chi vive in Africa – tutti operano all’interno di configurazioni culturali mondiali in cui mass media e social media, flussi globali di persone e cose, immagini e informazioni, generano una connettività diseguale ma generalizzata.

Nelle mani dei creatori odierni, segni e pratiche dell’abbigliamento si rivelano straordinari dispositivi per affrontare nodi cruciali della società contemporanea, rileggere diversamente il passato, raccontare il presente raccogliendone le sfide, provare ad andare oltre misurandosi con la sperimentazione di scenari sociali ed estetici alternativi, afrocentrici e utopici che, all’insegna del Blacks to the future, mescolano il passato culturale africano con il futuro della fantascienza. Defraudati del loro passato, gli artisti dell’Africa e delle diaspore rivendicano il diritto a immaginare un mondo futuro africano. Pionieri su questa strada gli esponenti della corrente culturale, sociale e artistica dell’Afrofuturismo, nata come spazio di resistenza nera negli anni Settanta del secolo scorso dalla sinergia di scrittori, musicisti e artisti afroamericani. Nel loro solco, oggi diversi altri artisti frequentano questo campo di esplorazione estetica e politica dove la sfida è reinventare la realtà attraverso la “lente culturale nera”.

Archiviata ormai, già a partire dagli anni a ridosso dell’indipendenza, la schematica contrapposizione fra tradizione e modernità, nel fervore artistico che si muove tra Africa e altrove – e che riflette la crescente natura transnazionale dell’arte contemporanea – rimangono ancora in ogni caso le dolorose collisioni tra passato e presente. Così come rimangono le risonanze del passato, anche se all’interno di linguaggi estetici attualissimi e globali, nelle scelte estetiche visionarie di più artisti africani e caraibici le cui diverse produzioni risultano apparentate nel rimettere in gioco una spiritualità dinamica che poggia su fondamenta precoloniali, e che riconduce a contesti in cui la potenza fisica è tradizionalmente associata a forze spirituali e in cui la linea fra realtà e immaginazione sfuma. Da segnalare in particolare, a questo proposito, il fashion film d’autore diretto dalla fotografa e artista visiva Kristin-Lee Moolman per Alchemy, la collezione A/W 2021 – disegnata con l’apporto di una guaritrice tradizionale – del giovane fashion designer sudafricano Thebe Magugu.

Da sottolineare inoltre è il gran numero dei creatori che nelle loro opere affrontano tematiche identitarie. Sono in buona parte autori che prendono in considerazione il ruolo cruciale delle stoffe nella rappresentazione e riproduzione delle identità coloniali e postcoloniali africane, esplorando in modo critico e ridefinendo in chiave visiva l’ambigua relazione fra l’arte fotografica del ritratto e dell’autoritratto (e i suoi effetti performativi-trasformativi) e i tessuti – in prevalenza quelli vissuti come “autenticamente africani” perché assunti convenzionalmente come indicatori di “africanità” in nome di una “tradizione” più o meno costruita o ricostruita (spicca la presenza ubiquitaria del wax print o african print). Anche laddove il richiamo è a culture dell’abbigliamento specifiche, difficilmente restano relegate alla dimensione locale ma come nel caso, ad esempio, degli ormai diffusissimi bogolan, indigo e kente vengono rinnovati e rilanciati su una scena più ampia, anche per rispondere alla sete di novità che muove il mercato dell’arte e della moda.

Nel sistema sempre più integrato dell’arte della moda e del design, oggi trovano ampio spazio anche temi di grande rilevanza sociale e politica come quelli dell’inclusività, dell’equità e dei diritti sociali e culturali. Collegata al resto del mondo e consapevole dell’avvenuta uscita di scena dell’occidente come unica misura del mondo, una giovane e militante generazione di artisti (fra loro numerose le donne), in continuità e discontinuità al contempo con le generazioni di artisti “born free” (nati dopo l’indipendenza) che l’hanno preceduta, spesso partendo da vissuti strettamente personali, riesce a trascendere la specificità della esperienza individuale per inserirsi in un dialogo globale – sempre più aperto alle eredità culturali non eurocentriche – intorno alle più incisive istanze sociali e politiche. Sono artisti che combinano la riflessione sociale con la sperimentazione formale attraverso una produzione che comprende installazioni e collage multimediali, performance, fotografie, immagini digitali, video, film, disegni, incisioni, pittura, scultura (ma anche danza, musica, poesia).

Fra le note dominanti spiccano le problematiche attuali inerenti alla differenza di genere e alla sessualità femminile, con il cursore spesso puntato sulle istanze della comunità Lgbtq (un nome per tutti la sudafricana Zanele Muholi). In breve, a dominare è la criticità delle identità, personali, culturali, razziali e di genere: a partire dalle discriminazioni sessuali a quelle razziali, con rimandi tanto alle storiche sopraffazioni nei confronti dei neri – la tratta atlantica ma non solo – , quanto ai soprusi perpetrati nelle odierne migrazioni all’esterno e all’interno del continente africano.

Nella produzione degli artisti, memoria e vita dei tessuti e agency del vestiario e del corpo diventano potenti strumenti per decentrare la prospettiva occidentale, rifiutare radicati paradigmi escludenti, arrivando a ribaltare la percezione negativa della Blackness spostandola dai margini della storia al centro della scena, fare i conti con vecchi e nuovi colonialismi e insieme, per citare Alessandro Triulzi, «con l’ambiguo immaginario di possesso e di dominio» (2005) che continua a influenzare il prisma visivo degli ex colonizzatori e, in qualche modo, sembra ancora condizionare lo sguardo degli ex colonizzati.

L’autrice: Giovanna Parodi da Passano è docente di Antropologia. Questo testo è tratto dal dossier n. 95 (dicembre 20/21) di Africa e Mediterraneo. Su questo tema Parodi da Passano ha curato il volume African Power Dressing (Genova university press)

Nella foto: l’autoritratto dell’attivista visuale Zanele Muholi, Tate modern gallery di Londra, 3 novembre 2020

Giuliano Martiniello: Fame di agricoltura (ecologica)

Sconfiggere la fame, raggiungere la sicurezza alimentare e promuovere l’agricoltura sostenibile. È l’obiettivo 2 dell’Agenda 2030 dell’Onu, fissato nel 2015 e lontano dall’essere realizzato. «Il rapporto della Fao del 2019 stimava che circa 700 milioni di persone hanno sofferto la fame, una cifra aumentata di circa 150 milioni alla fine del 2021 soprattutto a causa degli effetti catastrofici della pandemia da Covid 19 e dei fenomeni meteorologici estremi legati al climate change. Il loro numero cresce più rapidamente in Africa dove si stima che il 20% della popolazione è sottoalimentata, una persona su cinque», afferma Giuliano Martiniello, professore associato in Scienza ed economia politica all’Università internazionale di Rabat, in Marocco, dopo esperienze di ricerca e insegnamento in Libano, Uganda e Sudafrica. «Se questa tendenza attuale dovesse continuare, nel 2030 più della metà delle persone nel mondo che soffrono la fame in modo cronico si troveranno in Africa», aggiunge. Le prospettive sono dunque drammatiche, se consideriamo anche l’ultimo allarme lanciato a settembre da Fao e Wfp sulla carestia nel Corno d’Africa.

Professor Martiniello, sicurezza alimentare e agricoltura sono correlate. Qual è la situazione, in generale, dell’Africa?
I 54 Paesi hanno ecosistemi, dotazioni di risorse, conoscenze e colture agricole differenti, ma quello che emerge è una tendenza continentale di impoverimento dei mondi rurali, di contadini, gruppi-agropastorali, pescatori e comunità indigene.

Cosa ha determinato questo impoverimento?
Le riforme di ristrutturazione neoliberale degli ultimi trent’anni che hanno indebolito fortemente il settore agricolo. Si chiedeva in sostanza agli Stati di intervenire di meno nel settore agricolo per lasciarlo solo all’iniziativa privata. Gli Stati oggi investono cifre irrisorie in agricoltura. A questa mancanza di politiche, si è aggiunto un processo di marginalizzazione politica degli abitanti delle zone rurali che rappresentano ancora la maggioranza delle popolazioni nazionali. Quindi siamo al paradosso: le strategie di sopravvivenza e riproduzione sociale si fondano sull’agricoltura ma lo Stato non investe in sviluppo rurale e sottrae risorse ai produttori. E poi c’è il disastro climatico, che ha cominciato a fare le vittime soprattutto fra i piccoli produttori.

Come è stato affrontato finora il problema della sicurezza alimentare?
C’è stato un discorso egemonico propalato in genere dalle istituzioni finanziarie internazionali e dalle agenzie di sviluppo globale secondo cui la crisi alimentare è il risultato di un disequilibrio tra una popolazione crescente e una bassa produttività agricola. Un discorso molto tecnicista e produttivista, nel senso che l’antidoto alla crisi è massimizzare la produttività agricola attraverso due strategie: la prima è l’espansione del land grabbing, l’acquisizione cioè di terre attraverso gli Stati da parte delle compagnie multinazionali straniere o dei gruppi di capitale nazionale che impongono un modello agroindustriale basato sulla produzione di monoculture a grande scala e quindi sull’utilizzazione intensiva di energia, di acqua e di suolo.

E la seconda strategia?
La propagazione della rivoluzione verde in Africa che, ricordiamo, è un piano di modernizzazione agricola di origine coloniale cominciato negli anni 50 e 60, fondato sull’utilizzo di fertilizzanti commerciali, concimi a base di combustibili fossili e prodotti agrotossici. Ora, è vero che ci sono stati dei progressi nella riduzione della povertà e della fame a livello globale, ma sono il risultato delle azioni di due grandi nazioni come la Cina e l’India. In Africa questi progressi non ci sono stati.

Che cosa pensa dell’Alliance for a green revolution in Africa (Agra) lanciata nel 2006 dalla Fondazione Gates?
Rappresenta un esempio di convergenza di interessi politici, economici e ideologie tra i governi africani, i donatori internazionali e i filantrocapitalisti. L’obiettivo era raddoppiare la produttività delle colture e le entrate per 30 milioni di nuclei familiari rurali, riducendo per più della metà l’insicurezza alimentare in più di 20 Paesi africani entro il 2020. Secondo i filantrocapitalisti e molte agenzie di sviluppo, il problema resta di natura tecnica (bassa produttività del lavoro, tecnologie arretrate, bassa rendita delle sementi contadine). Invece io sostengo che il problema sia al tempo stesso politico, economico e storico. Bisogna comprendere le cause strutturali e il carattere della crisi alimentare in Africa con altre analisi: sul periodo coloniale e post coloniale che di fatto ha trasformato i Paesi africani in importatori di cibo piuttosto che esportatori, e sui cambiamenti delle relazioni sociali rurali – controllo, accesso e uso della terra -, nonché sulle trasformazioni agrarie e ambientali e sulle mutazioni dei sistemi agricoli locali sempre più orientati verso culture di esportazione.

Che cosa ha prodotto Agra?
Di recente uno studio di Timothy A. Wise dell’Istituto per l’agricoltura e la politica commerciale (Iatp) degli Usa ha dimostrato, a differenza di quanto era stato prospettato, che la produttività delle colture è aumentata lentamente, la povertà nei Paesi dove Agra ha operato resta elevata e che addirittura il numero di persone che soffrono la fame è cresciuto. Agra si è concentrata soprattutto sul mais, come risposta al problema della fame. Ma nonostante la pioggia di finanziamenti – un miliardo all’anno di Agra e un altro miliardo sotto forma di sovvenzioni da parte degli Stati – i contadini poveri non hanno beneficiato di questo intervento. Anzi, molti dei piccoli produttori in realtà si sono indebitati perché costretti all’acquisto di sementi, fertilizzanti ecc. Investire così tanto sul mais ha determinato poi il declino di colture nutritive resistenti al clima come il miglio e il sorgo. Oppure la manioca, un alimento base, utilizzato durante le carestie. Insomma, l’idea di un modello universale che funziona ovunque è il tallone di Achille di questo modo di vedere le dinamiche della trasformazione rurale.

A giugno a Lusaka dieci Paesi hanno discusso sullo sviluppo dell’agricoltura conservativa: proteggere i suoli e diversificare le colture. Si apre uno spiraglio?
Intanto va detto che le politiche della rivoluzione verde sono sempre state contestate dalle organizzazioni contadine africane. L’Alleanza per la sovranità alimentare – circa 200 milioni di contadini, pescatori e gruppi agropastorali – ha denunciato che Agra impone un modello di scienza e tecnologia occidentali che impattano sulla capacità delle comunità e degli Stati di scegliere liberamente la modalità attraverso cui nutrirsi e produrre. Da qui si è acceso il dibattito sulle alternative. Che sono molte: l’agricoltura biologica, la permacoltura e soprattutto l’agroecologia che permette agli agricoltori di apportare le innovazioni necessarie ma coltivando con la natura, non contro la natura. Le grandi piantagioni devono assicurare prodotti sul mercato dell’agribusiness per 12 mesi all’anno, il suolo viene continuamente “spinto” fino a perdere il suo humus, le sue capacità e funzioni, fino a degradarsi. Lavorare con la natura significa promuovere pratiche appoggiandosi sulle conoscenze degli agricoltori locali, favorendo un’agricoltura mista piuttosto che monocolture, che al tempo stesso aiuta a creare compost, biofertilizzanti e altre tecniche che tendono a marginalizzare i concimi a base di combustibili fossili. Uno studio dall’università di Essex un paio di anni fa ha documentato che 300 grandi progetti di agricoltura ecologica in più di 50 Paesi poveri hanno fatto registrare un aumento medio del 79% della produttività con costi al ribasso e rendite al rialzo. Esistono quindi alternative agroecologiche sostenute da piccoli produttori e ricercatori sensibili, movimenti sociali e rurali. Il problema è che si scontrano contro le ideologie e gli interessi politici ed economici che sono dietro al modello attualmente dominante.

Clima, la conferenza delle contraddizioni

Per mille ragioni, il 23 settembre scorso il movimento Fridays for future ha manifestato in centinaia di piazze di tutto il mondo per protestare contro l’inerzia dei governi nella lotta al cambiamento climatico. Gli effetti del riscaldamento globale colpiscono già, secondo gli esperti delle Nazioni Unite, la vita di più di tre miliardi di persone nelle aree maggiormente esposte. La Conferenza annuale sui cambiamenti climatici, che si svolge a Sharm el-Sheikh in Egitto dal 6 al 18 novembre (Cop27), rappresenta la nuova occasione per portare i Paesi responsabili delle emissioni di gas serra a ridurre l’impatto delle loro attività sul clima. Cina, Stati Uniti, Unione europea, India, Russia e Giappone contribuiscono, da soli, al 66% delle emissioni globali di CO2. Il contesto nel quale si svolge la Cop27 è però meno favorevole rispetto a quello che ha preceduto la Cop26 un anno fa.

Il Glasgow climate pact, ovvero il testo di compromesso uscito dalla Cop26, ha stabilito l’impegno a ridurre gradualmente il ricorso al carbone e i sussidi alle fonti fossili. Per quanto riguarda la diminuzione delle emissioni di CO2 in atmosfera, sono state decise riduzioni con l’obiettivo di arrivare entro il 2050 ad un incremento non superiore a 1,5°C. L’impegno degli Stati industrializzati a creare un fondo di 100 miliardi di dollari annui per i Paesi maggiormente colpiti dall’impatto del cambiamento climatico, impegno solo parzialmente attuato, è stato rinnovato e posticipato al 2023, con un raddoppio della quota annuale destinata alla finanza climatica. Si è dato inoltre il via alla realizzazione di un mercato globale del carbonio, sul modello realizzato con il protocollo di Kyoto, per mettere a disposizione degli Stati risorse finanziarie per le misure di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico.

La Cop27 si svolgerà in un contesto diverso e fortemente condizionato dalla guerra in corso tra Russia e Ucraina, catastrofica anche per la lotta al cambiamento climatico. Dall’inizio della guerra le lobby delle fonti fossili hanno accumulato enormi benefici economici grazie agli aumenti costanti del prezzo del gas. Al contrario, le istituzioni internazionali e i movimenti che si battono per realizzare una società climaticamente neutra si sono trovati di fronte ad una vertiginosa “marcia indietro” dei Paesi industrializzati, la cui unica preoccupazione sembra ora legata al prezzo e alla disponibilità del gas e altri combustibili fossili, incluso il carbone.

Due considerazioni sembrano totalmente scomparse dalle scelte strategiche compiute negli ultimi mesi, in particolare, dai Paesi dell’Unione europea: in primo luogo, la considerazione che la crisi climatica è un’emergenza assoluta perché il tempo a disposizione per risolverla è estremamente limitato; in secondo luogo, che l’uscita dalla crisi climatica richiede un rapporto nuovo tra gli Stati, per il suo carattere globale che non permette soluzioni a carattere nazionale o continentale. E anche la competizione economica alla base degli attuali sistemi di produzione e scambio di beni non sembra possa rappresentare un modello efficace per invertire la rotta. La cooperazione tra gli Stati resta l’elemento essenziale e probabilmente l’unica vera chiave per dare soluzione alla crisi in atto, così come l’assunzione di maggiori responsabilità da parte di tutti i governi in relazione alle cause che sono all’origine del riscaldamento globale.

Secondo gli esperti dell’Onu, che hanno curato i tre volumi del VI Rapporto di valutazione dell’Ipcc sui cambiamenti climatici, pubblicati tra il 2021 e il 2022, i flussi finanziari destinati alle misure per il contenimento dell’innalzamento della temperatura entro 1,5°C sono da tre a sei volte inferiori a quelli necessari per raggiungere tale obiettivo al 2050. Se si considera che il 50% della popolazione mondiale contribuisce solo al 15% delle emissioni di gas serra di tutto il pianeta, e ne subisce molto spesso gli effetti più devastanti, l’atteggiamento dei governi dei Paesi avanzati, inclusi quelli europei, appare oltre che irresponsabile per certi aspetti incomprensibile.

Le azioni di mitigazione, vale a dire il taglio delle emissioni per ridurre l’innalzamento della temperatura, non possono essere rinviate, perché in tal caso anche le misure di adattamento richiederebbero, per essere efficaci, enormi quantità di risorse finanziarie. In mancanza di investimenti immediati e significativi, i costi delle misure di adattamento per limitare gli impatti del cambiamento climatico sulle infrastrutture, sui sistemi di produzione e sulla qualità della vita delle popolazioni di tutto il mondo saranno sempre maggiori e sempre meno sostenibili sotto il profilo finanziario, sia per i Paesi meno sviluppati sia per quelli industrializzati. Questa constatazione emerge chiaramente dal VI Rapporto Ipcc, risultato del lavoro interdisciplinare di numerosi scienziati di tutto il mondo, approvato dai rappresentanti di oltre 190 Stati.

Ciononostante, i governi dei Paesi industrializzati sembrano ancora incapaci di investire sufficienti risorse finanziarie per le azioni di contrasto al cambiamento climatico e di adattamento agli effetti che ne derivano: desertificazione, emergenze idriche, scioglimento dei ghiacciai, ondate di calore, alluvioni, innalzamento del livello del mare, erosione della fascia costiera, perdita di biodiversità terrestre e marina. Tali investimenti andrebbero a vantaggio delle economie che gli stessi governi dicono di voler tutelare.

Anche i Paesi africani, pur chiedendo di accedere maggiormente alle risorse messe a disposizione dalla “finanza climatica” e soprattutto l’attivazione del meccanismo di compensazione “Loss and damage”, vorrebbero evitare il progressivo abbandono dei combustibili fossili, ritenendo tale prospettiva una minaccia per lo sviluppo dell’Africa. I ministri dell’economia dei Paesi africani, riunitisi al Cairo per concordare una posizione comune in vista dei negoziati della Cop27, puntano proprio sul gas come fonte energetica di transizione, per garantire a 600 milioni di abitanti del continente africano di accedere all’energia elettrica. Alcuni osservatori considerano però difficile che il gas possa fornire elettricità alle popolazioni presenti in aree rurali molto vaste e prive di infrastrutture, che potrebbero invece essere più facilmente raggiunte, e a costi inferiori, dall’energia prodotta in loco da fonti rinnovabili.

Dall’altra parte del Mediterraneo, i governi europei e il Parlamento dell’Ue hanno recentemente approvato la proposta della Commissione europea di includere il gas fossile e il nucleare tra le fonti di energia di transizione che possono contribuire alla decarbonizzazione dell’economia, proposta molto dibattuta all’interno della stessa Commissione europea, tanto da non essere stata adottata all’unanimità. Nell’ambito della cosiddetta tassonomia europea, gas e nucleare sono stati inseriti tra le attività considerate sostenibili. La tassonomia europea, vale a dire la classificazione delle attività economiche, ha lo scopo di orientare i flussi di capitale verso investimenti sostenibili, gestire i rischi finanziari connessi ai cambiamenti climatici e fornire trasparenza e sicurezza agli investitori.

Per quanto riguarda il gas naturale, uno studio recente commissionato dal Wwf (si veda il report Le emissioni di metano in Italia) ha messo in evidenza come le emissioni di metano, che incidono per il 20% sulle emissioni globali, abbiano un potenziale di riscaldamento di molte volte superiore a quello della CO2 e di altri gas serra. Minori concentrazioni di metano in atmosfera, secondo il rapporto del Wwf, porterebbero ad una più rapida riduzione dell’innalzamento della temperatura, rendendo questo tipo di mitigazione particolarmente efficace nel breve periodo. Questa previsione sarebbe confermata dagli esperti Ipcc che hanno rimarcato la necessità di eliminare un terzo delle attuali emissioni di metano entro il 2030. A questo riguardo, Stati Uniti e Unione europea hanno lanciato nel 2021 il “Global methane pledge” che prevede l’impegno, sottoscritto nel corso della Cop26 da più di 100 Paesi Italia inclusa, a ridurre le emissioni di metano entro il 2030 di almeno il 30%.

La guerra in corso, come si è detto, sembra aver determinato ripensamenti notevoli e passi indietro anche da parte di attori che fino a pochi mesi fa sembravano disponibili ad impegnarsi in modo significativo per ridurre le emissioni di gas serra in atmosfera. La guerra, al di là delle cause di natura economica, politica e strategica che ne sono all’origine, sembra abbia determinato una reazione contro il processo di transizione, ormai inarrestabile, verso modelli di produzione diversi da quelli attuali. Il passaggio da sistemi di produzione lineari basati sulle fonti fossili a nuovi sistemi circolari basati sulle fonti rinnovabili sarà probabilmente caratterizzato, per diverso tempo, da balzi in avanti e battute d’arresto, talvolta drammatiche come la guerra in corso.

Anche nel recente passato sono accaduti fatti politici che hanno rallentato il processo di transizione verso una economia decarbonizzata. Basti ricordare che un anno dopo la storica Conferenza delle parti che portò all’accordo di Parigi (Cop21), che prevedeva per la prima volta decisioni vincolanti per combattere il riscaldamento globale, la presidenza Trump ritirò gli Usa dall’accordo. Un anno dopo l’iniziativa dell’Unione europea, senza precedenti, di finanziare gli investimenti per la ripresa post pandemica attraverso un debito comune (Pnrr), lo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina ha riportato indietro di qualche decennio le lancette della storia. Molti Paesi europei, Italia inclusa, stanno attualmente destinando parti consistenti dei loro bilanci ad investimenti nel settore militare, sottraendo risorse preziose alla lotta contro il cambiamento climatico, che dovrebbe essere considerata di interesse pubblico prioritario sia a livello nazionale sia a livello globale.

Ma non è solo la guerra che potrebbe ostacolare i tentativi che saranno compiuti alla Cop27 per rafforzare la cooperazione tra gli Stati e dare slancio alla transizione verso un’economia decarbonizzata. La posizione dell’Egitto, che ospita e presiede la Cop27, potrebbe indebolire le prospettive di un accordo ambizioso. Il governo egiziano non gode attualmente di stima da parte dei governi occidentali, soprattutto per il mancato rispetto dei diritti umani denunciato, tra gli altri, da Amnesty International. In Italia sono tristemente note le vicende che hanno riguardato l’assassinio di Giulio Regeni e la detenzione preventiva per 22 mesi dello studente dell’Università di Bologna Patrick Zaky, tuttora trattenuto in Egitto in attesa di processo, per aver pubblicato un articolo sul sito libanese Daraj. Inoltre, la scelta del governo egiziano di inserire tra gli sponsor della Cop27 la società Coca-Cola ha destato scalpore, considerati i miliardi di bottiglie di plastica immesse ogni anno sul mercato (che richiedono peraltro l’impiego di fonti fossili) e la gravità del fenomeno dell’inquinamento da plastiche.

Pur in un quadro non particolarmente promettente, la Cop27 è comunque al centro di diverse iniziative politiche da parte di movimenti e organizzazioni non governative. Nelle scorse settimane, 400 Ong hanno inviato una lettera ai capi delegazione dei Paesi che parteciperanno alla Cop27 per chiedere l’applicazione dei principi della giustizia climatica, della solidarietà e della cooperazione. Inoltre, centinaia di giovani provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente si sono dati appuntamento al Climate camp di Tunisi, per iniziare una lotta collettiva sulla “giustizia climatica”, lotta che verrà portata in Egitto per chiedere alla Cop27 di dare risposte concrete ai Paesi che non sono responsabili dell’emergenza climatica, ma che ne subiscono gli impatti più rilevanti.

Da tempo i Paesi più esposti agli effetti del cambiamento climatico premono affinché il meccanismo di compensazione “Loss and damage” venga posto al centro dei negoziati della Cop27. Pur essendo previsto dall’accordo di Parigi sin dal 2015, il meccanismo di compensazione, che dovrebbe sostenere i Paesi meno sviluppati nell’affrontare i danni subiti a causa degli effetti del riscaldamento globale, è rimasto del tutto inattuato. Ciò per la mancanza dei fondi promessi dai Paesi il cui sviluppo industriale e tecnologico ha determinato il cambiamento climatico in atto. La grettezza dei Paesi industrializzati, sintomo anche di un’evidente miopia politica e strategica, ha impedito il raggiungimento di un accordo nelle scorse Conferenze delle parti sul meccanismo di compensazione e potrebbe ancora ostacolare una decisione nella prossima Conferenza. Il tema della giustizia climatica continuerà comunque, oltre la Cop27, ad animare la discussione intergovernativa e le iniziative di cooperazione tra gli Stati, strada obbligata per uscire dal tunnel della crisi climatica.

La ricchezza inespressa del sole e del vento

Sole, acqua, vento. Sono gli elementi indispensabili per la produzione di energia pulita. L’Africa – per usare un eufemismo – ne dispone in abbondanza. E proprio a partire da questo può innescarsi una rivoluzione nel continente. Da territorio troppo spesso calpestato e sfruttato, ad avanguardia capace di avviare un nuovo modello di sviluppo, a partire dalle rinnovabili. Non si tratta di un percorso facile, ma c’è chi ci crede e lavora ogni giorno per rendere possibile questo cambiamento. «L’Africa ha un potenziale enorme per quanto riguarda le rinnovabili, che va ben oltre la domanda “interna” – spiega a Left Francesco La Camera, general director di Irena -. Mi riferisco al solare, all’eolico, ma anche all’idrogeno verde, di cui tanto si parla».

L’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili, Irena, di cui La Camera è al vertice, è un organismo che coinvolge 167 Paesi e l’Unione europea, supportandoli nell’affrontare la transizione ecologica. «Abbiamo realizzato un modello che compara due scenari – approfondisce La Camera – uno “ambizioso”, in cui si ipotizza che i Paesi africani rispettino gli Accordi di Parigi sul clima e che la transizione ecologica sia accompagnata da politiche proattive mirate a massimizzarne i benefici, l’altro basato sul mantenimento dello status quo. Nel primo scenario, secondo le nostre stime, si avrebbe una maggior crescita del 6,4% di Pil per il continente e il 3,5% in più di posti di lavoro in tutta l’economia, e si tratterebbe di lavoro di qualità». Per comprendere come si potrebbe arrivare ad una svolta così radicale, però, occorre squadernare alcune cifre che ci aiutano a cogliere la realtà attuale.

Entro il 2050 in Africa vivranno oltre due miliardi di persone e due bambini su cinque tra quelli nati in tutto il mondo nasceranno qui. Il tasso di elettrificazione dei Paesi Sub sahariani, però, si ferma al 46%. Ben 570 milioni di persone non hanno accesso all’energia elettrica (stando agli ultimi dati a disposizione, del 2019) e 906 milioni di persone ancora non hanno accesso a servizi di cucina moderni, sono costretti cioè a ricorrere a carbone e biomasse per scaldare il cibo, con un impatto importante su inquinamento e salute (la Banca mondiale stima ogni anno centinaia di migliaia di morti premature provocate da questa situazione). In tale contesto, stando a un report di Irena, l’Africa può contare solo sul 3% del totale globale di capacità installata di energia da fonti rinnovabili.

Negli ultimi anni questa capacità è cresciuta, ma il trend è ancora relativamente contenuto. Tra il 2010 e il 2020 c’è stato un incremento del 7%. Gran parte di questa crescita è dovuta, però, all’implementazione di grandi progetti realizzati in singoli Paesi, in particolare impianti idroelettrici e fotovoltaici su scala industriale. A livello regionale, l’Africa meridionale è quella con maggior capacità installata di energia green, con 17 Gw, ovvero un terzo circa del totale, mentre il Nord Africa può contare su 12,6 Gw.
Ma quali sono gli Stati più avanzati sul terreno delle rinnovabili? Se guardiamo al solare, il Sud Africa da solo detiene il 57% della capacità installata, seguito da Egitto (16%) e Marocco (7%). Un podio che cambia di poco se consideriamo l’eolico: al primo posto troviamo sempre il Sud Africa con il 41% della capacità installata, poi c’è il Marocco (22%) e l’Egitto (21%). Secondo le stime di Irena, il potenziale tecnico relativo all’energia legata al vento in Africa potrebbe arrivare a 461 Gw. Secondo gli ultimi dati a disposizione, alla fine del 2020 la potenza installata era di soli 6,5 Gw.

Per quanto riguarda invece l’idrogeno “verde” – ottenuto da un processo di elettrolisi dell’acqua che può essere alimentato da fonti rinnovabili – sono diversi i progetti sul tavolo. Nel 2021 il ministero della Ricerca tedesco ha firmato con la Namibia una partnership per finanziare studi sulle migliori tecnologie in questo ambito, annunciando un investimento da 40 milioni di euro. L’Egitto e lo Zimbabwe, dal canto loro, hanno già installato oltre 100 megawatt di elettrolizzatori. In Mauritania, invece, il governo ha stipulato un accordo con un’azienda australiana per un progetto da 30 Gw per 40 miliardi di dollari, ossia un valore pari a cinque volte (ebbene sì) l’economia dello Stato africano. Chi decide di investire su queste nuove forme di energia, però, si trova di fronte alcuni ostacoli. «Innanzitutto quello delle grid, le reti – avverte La Camera -, occorre infatti che siano interconnesse, flessibili e bilanciate, per poter gestire l’energia prodotta. Poi c’è il tema dello storage, delle batterie che devono immagazzinarla. Infine quello del legal environment, ossia del sistema delle leggi del Paese in cui si implementa la produzione di rinnovabili, e dunque delle procedure, della trasparenza, ecc.».

Resta poi un’“ultima” – per modo di dire – questione: le finanze necessarie agli investimenti. Dei 2,8 trilioni di dollari investiti in energie rinnovabili in tutto il pianeta tra il 2000 e il 2020, si legge ancora nel dossier di Irena, solo il 2% è stato indirizzato in Africa (escludendo dal computo i grandi impianti idroelettrici), pari circa a 60 miliardi, nonostante l’enorme potenziale continentale e l’enorme necessità di fornire servizi energetici moderni a centinaia di milioni di persone. Oltre il 90% di questa cifra – circa 55 miliardi di dollari – è stato investito tra il 2010 e il 2020 in progetti concentrati in una manciata di Paesi africani.

Per permettere un cambio di passo, Irena ha attivato diversi strumenti. «L’agenzia nasce come un think tank con il compito di promuovere le rinnovabili nel mondo – chiarisce il general director – concentrato in particolare sui “knowledge products”, ossia rapporti su capacità installata, scenari, prezzi, ecc. Strumenti che permettono di orientare gli investimenti, dunque gli impegni dei governi e delle organizzazioni multilaterali finanziarie. Poi abbiamo lanciato la Climate investment platform, assieme al Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) e all’organizzazione Sustainable energy for all, in collaborazione col Green climate fund (Gcf), per incrementare gli investimenti nelle rinnovabili nei Paesi in via di sviluppo. E questa è solo una delle nostre partnership».

Per capire come si orienteranno gli investimenti nel mondo delle rinnovabili, in Africa e non solo, sarà importante valutare l’esito della Cop27, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici in programma dal 6 al 18 novembre 2022 a Sharm El Sheikh. «Sarebbe fondamentale passare da un atteggiamento negoziale della comunità internazionale a una vera e propria implementazione degli impegni presi – sostiene La Camera -. È ormai chiara la promessa di non sforare gli 1,5 gradi di riscaldamento globale e molti Paesi hanno fissato la carbon neutrality per il 2050, ora bisogna trasformare questi impegni in realtà». A favorire un certo pragmatismo, secondo La Camera, c’è una nuova consapevolezza diffusa riguardo l’insostenibilità di sistemi centralizzati basati sui combustibili fossili. «La guerra in Ucraina ha certificato la fine di questo modello e questo vale anche per l’Africa. Si dovrà inevitabilmente procedere verso un panorama energetico composto da più attori, più aperto, meno soggetto al potere di pochi. In questo nuovo quadro, le rinnovabili saranno indispensabili e l’Africa può fare molto».

Secondo La Camera, per il continente sarebbe anche un’occasione per disincentivare quel «atteggiamento predatorio con cui i Paesi dell’Occidente hanno spesso utilizzato le sue materie prime curandosi solo marginalmente dello sviluppo dei suoi Paesi». Ciò non vuol dire, sia chiaro, che l’Europa non potrebbe trarre benefici dallo sviluppo dell’energia verde in Africa. Progetti di interconnessione tra i due continenti per trasportare energia (non solo, ma anche, energia pulita) sono già in cantiere. Nei prossimi mesi partiranno i lavori per stendere quattro cavi sottomarini che collegheranno la rete elettrica del Regno Unito con quella del Marocco, per un tragitto di circa 3.800 chilometri a largo delle coste di Portogallo, Spagna e Francia. Mentre la Tunisia ha da poco presentato all’Unione europea una richiesta di finanziamento per il progetto di interconnessione elettrica con la Sicilia chiamato “El Med”. L’opera consiste nella posa di un cavo di circa 200 chilometri, potrebbe costare circa 800 milioni di euro e la data di conclusione dei lavori è fissata per il 2027.


Nella foto: un impianto eolico a Lekela in Egitto, a circa 300km dal Cairo. 12 ottobre 2022

Il flusso vitale

Le più recenti stime delle Nazioni Unite ci dicono che attualmente la popolazione africana ha un’età media di 19,7 anni, che circa la metà ha meno di 15 anni e che supera di poco un miliardo e 400 mln di persone, in linea con le previsioni dei due ultimi report di Un-Desa (la Divisione popolazione dell’Onu) pubblicati nel 2017 e 2020. Questo significa che, se le stime di Un-Desa saranno rispettate, nel 2050 gli africani saranno più di 2,5 mld. Basandosi su questi dati, in due articoli pubblicati sul sito di Neodemos, centro studi che si pone l’obiettivo di diffondere e divulgare le analisi sulle tendenze demografiche in Italia, in Europa e nel mondo, il demografo dell’Università di Firenze e direttore della rivista online specializzata niussp.org, Gustavo De Santis, ha fatto una previsione dei flussi migratori dall’Africa verso l’Europa per i prossimi 30 anni arrivando a interessanti conclusioni. Cosa dobbiamo attenderci? Partendo da questa domanda De Santis ha previsto che il saldo migratorio sarà «nell’ordine di mezzo milione di immigrati all’anno, che porterebbe gli africani in Europa dagli attuali 9 a circa 25 milioni, il 5% del totale dei residenti nel Vecchio continente». Un afflusso, secondo l’esperto, «non solo sopportabile, se ben gestito, ma addirittura benefico».

Era la fine del 2019. Due mesi dopo tutto il mondo ha iniziato a fare i conti con la pandemia da Covid-19 e poi, nel febbraio del 2022, con le conseguenze dell’invasione russa in Ucraina. Per iniziare, chiediamo a De Santis se questi due eventi, tuttora in corso, hanno la “forza” di modificare le sue previsioni.
«Non penso che i dati siano cambiati in maniera significativa, anche guardando alle ultime stime delle Nazioni Unite. I numeri sono in linea con quelli precedenti. Ragionevolmente i due fenomeni non hanno un grandissimo effetto sulle migrazioni africane». Come mai? «La guerra interessa solo marginalmente l’Africa. La pandemia incide perché ha portato a una chiusura dei flussi e un maggior restringimento degli accessi in Europa e questo può fare da tappo temporaneamente ma non allentare la pressione. Stiamo parlando di una pressione demografica in forte crescita, quindi potrà rallentare per un anno o due ma il fenomeno si presenterà lo stesso. Per questo tendo a pensare che quanto previsto nel 2019 resterà sostanzialmente valido anche in futuro».

Però, osserviamo, le speculazioni sulle materie prime, che hanno preso a pretesto le restrizioni determinate dal conflitto in Ucraina, hanno causato enormi rialzi dei prezzi a cominciare da quello del grano, con importanti ricadute su diversi Paesi dell’Africa sub sahariana “storicamente” alle prese con problemi di approvvigionamento alimentare. «Vanno considerati diversi effetti – osserva De Santis -. Da una parte c’è stato un impoverimento di tutto il mondo e dell’Africa in particolare. E quindi una maggior pressione migratoria per fame. Di contro è in atto un rallentamento delle economie dei Paesi sviluppati, con conseguente minore richiesta di forza lavoro. Sono due forze contrarie e in questo momento è difficile dire quale delle due prevalga».
La popolazione europea che oggi è pari a circa 445 mln di persone diminuirà di circa 40mln entro il 2050; quella africana, come abbiamo visto, quasi raddoppierà nello stesso periodo di tempo. Venendo alla domanda che ha dato il la ai suoi articoli, anche pensando a certi slogan propagandistici di chi è ora al governo in Italia e alle politiche migratorie restrittive di Bruxelles, chiediamo a De Santis cosa dobbiamo attenderci nei prossimi anni: “Porti chiusi”, “invasioni” o altro? «La mia risposta è “una via di mezzo”. L’Europa – e l’Italia – non hanno motivo di preoccuparsi per questi dati e per i flussi migratori che ne conseguiranno. Direi piuttosto che dovremo rallegrarci se gli africani sceglieranno di emigrare alle nostre latitudini».

Qualche esempio? «Guardiamo al welfare e al mercato del lavoro. In Italia e in Europa il numero degli anziani aumenta e quello dei giovani adulti diminuisce. Ai fini del mercato del lavoro è una grossissima distorsione. E da questo punto di vista poiché le persone che arrivano dall’Africa non hanno 50 anni ma ne hanno 20 il loro interesse per noi è una boccata d’ossigeno. Anche ai fini del welfare siamo in presenza di una grossa distorsione e senza gli arrivi che ci sono stati fin qui la situazione pensionistica sarebbe stata ancora più grave. Per non dire della situazione sanitaria. Abbiamo gli ospedali che si riempiono e pochi infermieri, pochi dottori. Abbiamo inoltre tante persone anziane in casa da sole. Chi bada loro? Chi svolge questi servizi di assistenza? Figli e nipoti non più. Le donne giustamente lavorano e hanno una vita autonoma. Per questo dico che dobbiamo “approfittare” di questa circostanza favorevole rappresentata dalle migrazioni africane che per i prossimi 30 anni può contribuire a risolvere parecchi dei nostri problemi economici e sociali. Nel complesso le forze agiscono nel senso giusto. Noi abbiamo bisogno che vengano e loro hanno bisogno di venire. Con un po’ di intelligenza e attenzione le cose si possono combinare bene».

Vale a dire? «Che in termini demografici questa situazione non risolve le cose per sempre ma ci può dare il tempo di aggiustare il tiro e sistemare quello che non va. In primis deve aumentare il tasso di lavoro femminile che in Italia è particolarmente basso, e si deve anticipare l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, che oggi è ben oltre i 30 anni». Qui entrano in gioco le scelte politiche. «Sì ma bisogna tener conto che a destra anche se formalmente c’è un’avversione verso l’immigrazione è ben chiaro che il mondo dell’industria tanto contrario non è perché ha, o quanto meno avrà, bisogno sempre più di manodopera».
Fatto sta che il centro sinistra dai memorandum con le milizie libiche in poi, con le proprie politiche migratorie ha sempre più spesso superato a destra anche i conservatori che oggi sono di nuovo al governo. «La vita vera – chiosa De Santis – dice che le pressioni di mercato e demografiche finiscono per prevalere e se non ci adattiamo bene finiremo per soffrire, noi e i potenziali immigrati».

Occorrerebbe una visione di lungo periodo che però, come più volte abbiamo denunciato su Left, è probabilmente la più grave mancanza di cui soffrono sia la politica italiana che quella europea. «Tutte le fasi demografiche hanno dei cicli – riprende lo studioso -. Se guardiamo la storia ce ne accorgiamo: Paesi di emigrazione come l’Italia sono poi diventati di immigrazione. Solo che questi cicli sono molto lunghi. I nostri figli vedranno un mondo molto diverso da quello che conosciamo noi. Una volta si pensava all’Africa come fosse un insieme di Paesi di serie B, perché poveri, sottosviluppati, con poca istruzione. Tutto questo sta cambiando velocemente e tra qualche anno si vedranno gli effetti. La mia previsione è che diminuiranno gli africani interessati a emigrare perché avranno opportunità di lavoro in casa e l’Africa diventerà un concorrente serio dal punto di vista della produzione industriale, così come lo sono diventati i Paesi asiatici nell’ultimo decennio».

Il demografo dell’Università di Firenze ha previsto che entro il 2050 circa il 5% della popolazione europea sarà composta da immigrati dall’Africa. Ma più in generale dove emigrano gli africani? «Le reti migratorie ormai sono estesissime. Già prima della pandemia con il miglioramento dei mezzi di trasporto (più efficienti, rapidi, economici) le reti migratorie si sono estese da quasi qualunque punto del mondo a quasi qualunque altro. Il Covid poi ha reso tutto più difficile ma secondo me appena finirà questa “crisi” tutto tornerà come prima». Una volta si migrava praticamente solo verso i Paesi più vicini, come sono i flussi all’interno dell’Africa? «I Paesi più vicini sono certamente quelli più facili da raggiungere ma i movimenti interni sono comunque considerati per gli standard degli studiosi molto bassi. Un africano che emigra raramente va in un altro Paese africano, a meno che non sia dovuto a particolari urgenze (guerra, persecuzioni, siccità, carestie etc). Se la motivazione è di carattere economico e l’emigrazione è pianificata invece vanno, io dico giustamente, verso i Paesi più ricchi. Dove cioè pensano di poter guadagnare di più e quindi possono mandare più soldi a casa».

Anche l’Europa è vicina. «Sì ma a parità di sforzo conviene andare dove è più remunerativo e adesso, tutto sommato, la fatica di arrivare in Europa per un africano è comparabile con quella che deve fare per arrivare in America del Nord. E tra poco lo stesso accadrà con i Paesi emergenti e ricchi dell’Asia». Anche in Giappone e Cina? «Il Giappone che un tempo aveva una demografia brillante oggi è un Paese con una popolazione mediamente molto anziana, più dell’Italia. Al momento praticamente non ha stranieri (prettamente per motivi culturali), ed è molto densamente popolato (quindi “fisicamente” non ha molto posto per accogliere persone) però i giapponesi invecchiano sempre più, sono ricchi e non fanno figli». Quindi cosa succederà? «La mia previsione è che cominceranno ad accogliere molti migranti. Certo, principalmente dalle aree vicine. Ma non è detto che non attrarranno persone anche dall’Africa».

E la Cina? «La Cina ha avuto un fortissimo calo della fecondità, che ora è comparabile a quella italiana. Non oggi ma fra qualche anno anche loro avranno grossi problemi causati dall’invecchiamento della popolazione. Visto il legame forte che hanno stabilito con l’Africa dove hanno fatto tantissimi investimenti, non mi stupirei se cominciasse un movimento migratorio da questo continente anche verso la Cina che peraltro ormai comincia a essere un Paese ricco. Inoltre non c’è un sistema pensionistico come il nostro; la Cina è molto indietro e questo vuol dire che presto ci saranno problemi seri di welfare che, come qui da noi, i flussi migratori dall’Africa possono contribuire a risolvere».

Smart city made in China

Fuori dal finestrino blocchi residenziali si susseguono tutti uguali, fatta eccezione per il colore: alcuni gialli, altri verdi, altri ancora blu. Parallelepipedi incorniciati da ampi viali e aiuole ben curate. Ogni tanto qualche passante interrompe la monotonia di un paesaggio altrimenti spettrale, scandito da persiane chiuse e strade deserte. Così nel 2012 la Bbc ritraeva Nova Cidade de Kilamba, nuovissima area residenziale fuori Luanda composta da 750 condomini di otto piani, una dozzina di scuole, più di 100 attività commerciali e due centrali elettriche.

Progettata per ospitare fino a mezzo milione di persone, Kilamba è stata costruita in meno di tre anni dalla statale China international trust and investment corporation (Citic) con l’obiettivo di alleggerire la densità abitativa della capitale angolana. Un retaggio della guerra civile che dal 1975 al 2002 ha visto masse di persone riversarsi nella città per sfuggire agli scontri e cercare lavoro. Costo dichiarato del progetto: 3,5 miliardi di dollari. La formula prestiti cinesi in cambio di petrolio angolano – in auge nei primi anni Duemila – avrebbe coperto parte della spesa. Nel tempo, tuttavia, non solo i prezzi altalenanti del greggio hanno messo il governo angolano in serie difficoltà. Molti edifici hanno cominciato a manifestare gravi difetti strutturali, oltre a presentare segni di degrado per mancanza di manutenzione collettiva. Frequenti episodi di microcriminalità, sporcizia e incapacità gestionali delle autorità locali, concorrono oggi a rendere la città una soluzione meno allettante di quanto non lo fosse fino a un paio di anni fa.

Kilamba non è l’unica città sino-africana. Solo in Angola ne sono sorte circa una decina. Tutte rispondono all’esigenza di decomprimere i nuclei urbani, dopo decenni di crescita ipertrofica. Come dimostra la “Nova Cidade”, non sempre l’obiettivo è stato raggiunto con successo. Nel 2015, con l’esposizione fotografica Facing East: Chinese urbanism in Africa, gli architetti Michiel Hulshof e Daan Roggeveen evidenziavano l’effetto alienante dei “cloni” urbani cinesi nel contesto africano: agglomerati di palazzi anonimi destinati a diventare in buona parte “ghost town”.

Con una crescita del 3,2%, l’Africa è la regione con il tasso di urbanizzazione più elevato al mondo, ben al di sopra della media globale del 2%. Attualmente, 472 milioni di persone vivono nelle città africane. Numeri che dovrebbero quasi raddoppiare entro il 2035. Entro quell’anno Lagos, Kinshasa e Dar es Salaam, raggiungeranno lo status di megalopoli con una popolazione stimata intorno ai 10 milioni di abitanti. Secondo il Global cities institute, nel 2100, tredici delle più grandi metropoli del mondo si troveranno proprio in Africa. Come guidare l’esodo dalle campagne verso le città senza provocare la nascita di baraccopoli e insediamenti urbani densamente popolati? Come evitare gli errori di Kilamba?

Da anni, diversi ricercatori cercano risposte nell’esperienza cinese. Nonostante il differente contesto socio-economico, Cina e Africa sono accomunate dalle grandi dimensioni geografiche, caratteristiche demografiche simili e ritmi di urbanizzazioni ugualmente ambiziosi. Queste affinità, rendono il gigante asiatico un interessante caso di studio. Soprattutto per quanto riguarda la realizzazione di collegamenti di trasporto, e una gestione urbana decentralizzata che lascia alle autorità municipali la libertà di sperimentare.

Dopo due decenni di espansione incontrollata, transizione economica, squilibri sociali e problematiche ambientali hanno assunto grande rilevanza nel dibattito cinese sull’urbanizzazione. Nel 2014, varando il primo documento di macro-pianificazione cinese dedicato interamente allo sviluppo urbano, Pechino ha messo in chiaro che lo sviluppo delle città in futuro dovrà essere guidato da innovazione tecnologica e produttiva, attenzione alla salvaguardia della natura, efficientamento energetico e della mobilità, nonché maggiore cura degli interessi delle classi svantaggiate. Lo stesso vale per l’Africa.

La “vecchia” e decadente Kilamba è il passato. Per comprendere il futuro delle città sino-africane bisogna guardare molto più a Nord. Per la precisione 50 chilometri a est del Cairo, dove dal 2015 la Cina sta collaborando alla costruzione di un nuovo centro amministrativo per decongestionare la capitale egiziana. Qui i parallelepipedi angolani hanno lasciato il posto a grattacieli specchiati. L’edificio più alto di tutta l’Africa – ben 385 metri – si trova qui. Dotata di centri per il monitoraggio delle infrastrutture e la sicurezza, sistemi di pagamenti cashless, e tetti ricoperti da pannelli solari, la nuova città sarà collegata alla Zona di cooperazione economica e commerciale di Suez così da diventare – nei piani del presidente egiziano Al Sisi – un ponte fra Europa, Nord Africa e Medio Oriente. Secondo le proiezioni del governo, il progetto non solo creerà 75mila mila nuovi posti di lavoro. Dovrebbe persino arrivare a contare per un terzo dell’economia nazionale.

“Il Cairo 2” è il prodotto della Nuova via della seta, quella strategia di politica estera lanciata nel 2013 da Pechino per sostenere la penetrazione internazionale delle aziende cinesi e dei suoi standard industriali attraverso la costruzione di grandi opere infrastrutturali in Asia, Europa e Africa. Ma tra accuse di neocolonialismo e rallentamento dell’economia cinese, sei anni fa il progetto ha progressivamente spostato il proprio baricentro dal settore costruttivo a quello digitale. Secondo alcune stime, ammontano a quasi 8,43 miliardi di dollari gli investimenti tecnologici effettuati dalla Cina nel continente. Oggi le aziende cinesi sono coinvolte nella realizzazione di “smart city” in Etiopia, Kenya, Mozambico, Angola, Zambia, Zimbabwe, Sud Africa, Ghana e Nigeria. Data center “made in China” stanno spuntando in Kenya, Gibuti, Tanzania, Zambia, Zimbabwe, Sud Africa, Nigeria, Ghana e Mali.

Come sempre quando ci sono di mezzo i capitali cinesi, nuovi problemi sostituiscono i vecchi, e nuovi dubbi si aggiungono alle vecchie perplessità: se ai tempi di Kilamba era la scarsa qualità delle costruzioni a suscitare qualche alzata di sopracciglio, adesso a impensierire gli analisti è soprattutto l’utilizzo potenzialmente coercitivo delle infrastrutture digitali.
Nel luglio 2021 i governi di Cina e Burkina Faso hanno lanciato il progetto “Smart Burkina”, teso a incorporare elementi di gestione della “città intelligente” nella capitale Ouagadougu, e a Bobo-Dioulasso, la seconda città più grande del Paese. Con un costo di circa 80 milioni di euro, l’apparato sarà realizzato da Huawei e China international telecommunication construction corporation. Il piano prevede nuovi sistemi di monitoraggio del traffico sulle strade pubbliche e invio della polizia destinati a ridurre i tempi di risposta in caso di necessità. Lo scopo ufficiale è soprattutto quello di migliorare la qualità della vita e mantenere la sicurezza nel Paese stremato dal terrorismo islamico. Ma non mancano le critiche di chi teme un impiego meno virtuoso di telecamere e fibra ottica. In Zambia e Uganda il nome di Huawei è associato a controversi episodi di spionaggio contro attivisti e oppositori politici.
Secondo un’inchiesta di Le Monde, tra il 2012 e il gennaio 2017, Pechino avrebbe condotto regolari operazioni di intelligence ai danni dell’Unione africana attraverso l’hackeraggio dei computer installati nel quartier generale di Addis Abeba, uno dei tanti palazzi del potere finanziati dalla Cina. Indovinate un po’ le apparecchiature di che marca sono.

Un continente digitale

L’Africa – spesso ancora immaginata come arretrata e pre-moderna – è per tanti versi all’avanguardia dell’attuale rivoluzione digitale.
La storia inizia già negli anni Ottanta, quando alcuni giovani africani adottano precocemente la tecnologia video per la produzione di film, anticipando il superamento del supporto pellicola. Nel 1987, in Ghana, William Akuffo, un giovane senza alcuna formazione in campo cinematografico, realizza il film Zinabu, la storia di un povero meccanico che diventa improvvisamente ricco grazie ai poteri magici di una strega. Qualche anno dopo, nel 1992, a Lagos, in Nigeria, Kenneth Nnebue, un imprenditore di materiale mediatico attivo nell’economia informale, produce Living in bondage, la storia di Andy, che – un po’ come il protagonista di Zinabu – è un giovane povero che accetta di entrare in un culto segreto, pur di migliorare la sua situazione economica.

Questi due lungometraggi – realizzati con una semplice videocamera – segnano l’inizio di una nuova era. Il loro enorme successo presso il pubblico locale – che vede finalmente rappresentate sullo schermo le storie della cultura popolare, sulla sofferenza della povertà, ma anche sul sogno di una vita decorosa impossibile da realizzare tramite vie lecite – dà infatti il via alla ricchissima produzione audiovisiva del continente. Radicati nella classe sociale medio-bassa urbana, questi video a basso costo offrono una rappresentazione dell’Africa contemporanea alternativa a quella dominante nei media occidentali, dove il continente tende ad apparire come un enorme spazio di dolore e catastrofe, guerra e crisi umanitaria, abitato da vittime da salvare e carnefici da combattere. Lontani da questa estetica che suscita alternativamente pietà o paura, con una miscela di melodramma, effetti comici e realismo, le fiction africane raccontano la lotta quotidiana per sfuggire all’indigenza degli strati svantaggiati delle metropoli post-coloniali. Violenza, soprusi e conflittualità intersecano la scarsità materiale, impedendo di confinare i poveri nel ruolo di pure vittime sofferenti, oggetti e mai soggetti di azione. In altri casi, mostrano la vita agiata delle classi medio-alte, che frequentano ristoranti, centri commerciali e ville, in città che appaiono siti del consumismo globale simili a tanti altri, con l’Africa che “si banalizza”, cessando di essere luogo dell’estremo, “altro per eccellenza”.

Il campo della telefonia mobile è ugualmente vibrante. Più del 75% della popolazione africana, secondo le statistiche dell’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu) possiede un cellulare, rivelando un panorama ben lontano da quell’apartheid tecnologica dell’Africa nell’età dell’informazione, immaginata da molti. Come risultato di strategie di mercato messe in atto da compagnie private straniere, la telefonia mobile è ora diffusa nelle aree urbane e rurali, fra giovani e anziani, poveri e ricchi, uomini e donne, sebbene con una certa disparità. Questa diffusione ampia e trasversale è in netto contrasto con l’uso ristretto della telefonia fissa, che era invece rimasta confinata negli strati sociali più benestanti. È così che, fin dal suo arrivo in Rwanda alla fine degli anni Ottanta, il cellulare rappresenta l’unico telefono posseduto dalle persone, anticipando quanto poi successo nel resto del mondo, con la graduale scomparsa dei dispositivi fissi. Anche in questo caso, gli africani non hanno un ruolo importante solo nella veste di consumatori ma pure in quella di produttori.

A seguito della diffusione degli smartphone, dagli anni Dieci del Duemila, in diverse città africane sono nate start-up che sviluppano applicazioni, con la formazione di hub tecnologici con nomi evocativi come, per esempio, Silicon mountain (Camerun), Silicon savannah (Kenya), Silicon lagoon (Nigeria), Silicon desert (Namibia), Silicon Cape (South Africa). Mentre alcuni di questi sono grandi poli tecnologici, finanziati anche da capitale straniero, altri sono piccoli centri scarsamente equipaggiati, nati grazie a iniziative bottom-up. Entrambi sono situati in contesti più ampi caratterizzati da creatività diffusa e pratiche di innovazione dal basso, che portano alla sperimentazione di nuove immagini del futuro, contribuendo, in alcuni casi, a quei processi di “decolonizzazione dell’informatica” auspicati da molti.

D’altro canto, la rivoluzione tecnologica ha anche i suoi lati oscuri, tanto che si inizia a parlare di un nuovo “scramble for Africa” e a denunciare forme di colonialismo digitale e dei dati, questa volta a opera delle tech-company globali. Gli ingenti investimenti sul continente di colossi del web come Microsoft, Google e Meta e i loro progetti per “connettere i non connessi” (per esempio, attraverso strumenti come Starlink o gli “internet balloon”) costituiscono anche strategie per aumentare la produzione (e quindi l’estrazione e vendita) di dati nel continente. La generale mancanza di una legislazione sulla protezione della privacy facilita queste pratiche di espropriazione che possono avvenire anche in collaborazione con i governi locali. Ne è un esempio l’accordo fra la compagnia cinese Cloud Walk e il governo dello Zimbabwe, che ha dato accesso ai dati facciali dei suoi cittadini per lo sviluppo di un sistema di riconoscimento biometrico da impiegare nelle elezioni (e nella sorveglianza). Lo stesso servizio Free basics di Facebook – che consente di navigare gratuitamente in una serie di siti internet (che varia da Paese a Paese) – rientra in questa logica. Neppure il campo dell’umanitario è immune da queste dinamiche, come suggeriscono le partnership strette dall’Onu con Amazon, Ibm, Google e Microsoft, per citare solo alcuni nomi fra i più noti. Per esempio, la registrazione dei rifugiati sul continente e la distribuzione di aiuti nelle situazioni di crisi avviene tramite strumenti biometrici, come lo scan dell’iride, mentre dai social media sono estratti dati per sviluppare applicazioni di intelligenza artificiale in grado di prevedere flussi migratori ed emergenze.

Queste operazioni, che avvengono tramite il coinvolgimento di compagnie private, portano con sé il rischio di “function creep”, ovvero l’uso di dati sensibili raccolti con un fine per raggiungere tutt’altro obiettivo. Fra i vantaggi che le compagnie private ottengono dalle collaborazioni nel campo dell’umanitario, vi è inoltre la possibilità di testare su popolazioni fragili – e quindi meno tutelate – tecnologie innovative sperimentali, prima di diffonderle fra altri utenti, portando in luce un ulteriore aspetto della posizione all’avanguardia dell’Africa rispetto al digitale.
Infine, vale la pena ricordare che in Africa si trovano alcune delle più importanti miniere di materie prime per la produzione dell’infrastruttura e degli strumenti digitali – come i giacimenti di cobalto nella Repubblica democratica del Congo, essenziali per le batterie al litio – così come le più grandi discariche di e-waste al mondo, come quella di Agbogbloshie in Ghana, ad Accra, la città da cui, più di trent’anni fa, tutto è iniziato.

L’autrice: Giovanna Santanera, antropologa, è ricercatrice all’Università di Milano-Bicocca. Ha pubblicato il libro “Camerun digitale. Produzione video e diseguaglianza sociale a Douala” (Meltemi 2020)

Nella foto: Opere digitali Nft legate alla Blockchain approdano alla Biennale d’arte di Venezia (fino al 27 novembre), grazie al Padiglione del Camerun. Si tratta di alcune realizzazioni di Angéle Etoundi Essamba esposte nella mostra “Il tempo delle chimere”

Il secolo africano

Questo è il secolo dell’Africa. Ne sono certi molti analisti a partire da quelli del Fondo monetario internazionale. I primi cento anni del terzo millennio vedranno come protagonista lo sterminato continente, smentendo lo stereotipo di un’economia incapace di sostenersi e sempre e solo basata su aiuti che arrivano dall’esterno. Invece la rivoluzione in atto è già visibile oggi analizzando i macro dati economici e in particolare quelli del comparto delle start-up, vale a dire le aziende di piccole dimensioni che si lanciano sul mercato sull’onda di un’idea innovativa nel campo delle nuove tecnologie. Sono infatti in questo momento la locomotiva di economie galoppanti come quelle del Sud Africa, della Nigeria e del Kenya. Secondo il sito Statista che si occupa di dati di mercato, nel 2022 questi tre Paesi hanno il substrato infrastrutturale migliore e il maggior numero di aziende tecnologiche di tutta l’Africa. Presto, inoltre, il boom demografico trasformerà molte delle economie subsahariane nelle più grandi e dinamiche del mondo.

Secondo il Population division dell’Onu, la popolazione africana crescerà in poco meno di un secolo di quattro volte rispetto all’attuale 1,2 miliardi. In questo caso il valore da tenere d’occhio è il cosiddetto Indice di dipendenza, cioè il numero di persone non attive lavorativamente rispetto a quelle attive. Nel 2010 l’Africa aveva uno degli indici peggiori, con 80 persone impossibilitate a lavorare su 100 (a causa della percentuale altissima di minori) contro il 47% del Vecchio continente. A fine secolo questo valore sarà ribaltato. Mentre il resto del pianeta vedrà un aumento vertiginoso delle persone anziane, l’Africa diventerà un “paradiso” della produttività, con un Indice di dipendenza del 56% contro l’82% del Sud America e l’80% dell’Europa. Una condizione che rende già oggi la creazione di nuove attività un fatto relativamente comune. Non a caso il tasso medio di imprenditorialità è tra i più alti al mondo e l’Africa subsahariana, secondo il MasterCard Index of women entrepreneurs 2021, possiede anche il più alto tasso al mondo di donne coinvolte in attività imprenditoriali, circa il 26%. L’Italia, per esempio, non si spinge oltre il 22%, secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio sull’imprenditoria femminile di Unioncamere.

La spinta, che riguarda soprattutto i giovani, a giocare la carta dell’attività autonoma arriva dalla strutturale mancanza di lavoro ma anche dalle opportunità offerte dal mercato e dalla crescente digitalizzazione. Il mercato in crescita sta calamitando anche investimenti e fondi speculativi esteri, soprattutto dagli Stati Uniti, il cui valore totale è cresciuto da meno di 190 milioni di dollari nel 2015 a oltre due miliardi nel 2021. La progressiva lievitazione degli investimenti ha portato anche ad un fatto straordinario, cioè alla nascita dei cosiddetti nuovi “unicorns”, società private valutate oltre il miliardo di dollari. Nel 2021 sono state quattro le start-up africane “unicorno”, un record assoluto per il continente. Per farsi un’idea, attualmente nel mondo esistono circa 900 società unicorno per un valore complessivo di 3mila miliardi di dollari.

Un futuro ipotetico troppo speranzoso? Negli anni Ottanta non erano in molti a scommettere su Cina, India e l’Indonesia, oggi traino dello sviluppo tecnologico mondiale. Ma è anche vero che non è tutto oro quello che luccica.
Secondo l’African private equity and venture capital association, gli investitori Usa hanno effettuato il 42% delle operazioni di capitale di rischio in Africa dal 2017, rispetto al 20% degli investitori locali, costringendo gli imprenditori locali a dipendere da stranieri e non solo economicamente.

E se Herbert Schiller nel 1976 teorizzava l’E-colonialism, cioè un colonialismo culturale verso i Paesi più poveri, veicolato dalla superiorità tecnologica, oggi si percepisce un’intromissione “bianca” molto più strutturale e meno teorica. Secondo Roble Musse, imprenditore e scrittore di un best seller sulla Silicon valley, è in atto una vera e propria colonizzazione delle aziende start-up africane, che sempre più spesso vedono sedere nelle posizioni di comando stranieri per lo più occidentali. Nei dati che riporta nel suo libro, Un-Silicon valley, il 70% delle start-up in Kenya (per fare un esempio) che hanno ricevuto investimenti superiori a un milione di dollari nel 2018, è stato guidato da un fondatore straniero bianco, nonostante la comunità di immigrati “bianchi” nel Paese costituisca solo lo 0,15% della popolazione. Per Musse non è un problema di preparazione, poiché il Kenya possiede uno dei tassi di alfabetizzazione più alti del mondo, ma di razzismo strutturale insito nel mercato globale, governato per lo più da bianchi privilegiati.

L’ingerenza del mondo occidentale non è il solo ostacolo al futuro di una new economy africana. I più scettici indicano la mancanza di infrastrutture come uno dei più grossi ostacoli, affermando che il continente non è ancora pronto per l’era digitale. Purtroppo la connessione satellitare 4G è ancora una chimera e lo sarà quasi sicuramente, secondo gli esperti, per almeno altri 10 anni. Un problema non da poco in un mondo che usa ormai come unico metro di misura la velocità dei dati.

Un problema ma anche un affare che deve aver compreso il colosso digitale Google che ha investito più di un miliardo di dollari in 4 macro aree, per (come si legge nel sito), «…supportare le aziende nella trasformazione digitale, investire in imprenditori per stimolare le tecnologie di prossima generazione e supportare le organizzazioni non profit che lavorano su alcune delle maggiori sfide del continente». In concreto, Google ha costruito un’infrastruttura – un cavo sottomarino – posizionandosi come uno dei principali fornitori di connettività in Africa e assumendo le vesti di finanziatrice, con prestiti a basso interesse alle piccole imprese e investimenti nelle start-up più promettenti nate in Africa. A Nairobi si sta costruendo il primo centro di sviluppo nel continente e Charles Murito, capo degli affari di governo e delle politiche pubbliche per l’Africa subsahariana presso Google, ha affermato: «Questo centro lavorerà per creare prodotti e servizi per il continente oltre che per il resto del mondo». La multinazionale di internet ha previsto l’ineluttabile ascesa della digitalizzazione africana e con questi investimenti avrà un posto di privilegio quando la maggioranza della popolazione avrà accesso ad internet e al mondo dell’e-commerce: un affare potenzialmente multi miliardario. Anche Microsoft ha compreso l’importanza del mercato africano, investendo oltre 100 milioni di dollari in molti dei 643 hub tecnologici presenti in Africa, il vero motore di questa ascesa tecnologica. Secondo un censimento finanziato da Briter Bridges e AfriLabs, circa il 25% di questi hub risulta essere poco più di un coworking, ma rappresentano un’incredibile opportunità di crescita per il settore, attirando più facilmente capitali stranieri.

La crescita economica sembra essere quindi imminente ma non priva di pericoli. Il già citato esempio cinese dimostra come le grandi aziende straniere scendano spesso a patti con regimi autoritari. L’assioma crescita economica-diritti civili non è ovunque garantito e Paesi come il Sudan, lo Zimbabwe e il Ciad sono ancora alla mercé di signori della guerra e repentini colpi di Stato. Inoltre una crescita economica incontrollata, simile a quella novecentesca europea, potrebbe dare un’ulteriore spinta ai cambiamenti climatici che già minacciano la sopravvivenza di milioni di persone. L’impatto varia da Paese a Paese: si va dalla siccità all’innalzamento del livello del mare, ai cicloni e alle inondazioni. La maggior parte degli africani ha inoltre a che fare con temperature in aumento e anomalie delle precipitazioni. Insomma oltre che un nuovo mondo di start-up tecnologiche, l’Africa deve scoprire un nuovo modo di concepire il progresso tecnologico e di crescita economica, e perché no insegnarcelo.

Innovazione dal Mediterraneo in giù

La storia dell’Africa subsahariana è fatta da Stati, imperi e civiltà che si sono in gran parte sviluppati senza dar vita a forme di scrittura originali (con le notevoli eccezioni dell’Egitto antico e dell’Etiopia). Nonostante ciò, si sono potute formare organizzazioni statuali complesse, capaci di trasmettere per secoli la memoria, la storia, i saperi. La registrazione e la trasmissione delle informazioni si basava sull’oralità ma anche su mnemotecniche veicolate nei rituali da espressioni musicali, coreutiche, corporee o attraverso il ricorso a segni e simboli inscritti nella forma degli oggetti, sui corpi stessi delle persone e sul paesaggio, spesso utilizzato come un “testo” non verbale su cui tracciare e tramandare la storia. Sono state le “religioni del Libro” (Islam e Cristianesimo nelle sue diverse forme) a importare la scrittura e la sua logica nell’Africa sub-sahariana. Questo fenomeno è andato di pari passo con l’espandersi del commercio di lunga distanza, che ha precocemente inglobato l’Africa nell’“economia mondo” per lasciare infine il campo alla colonizzazione europea. La diffusione della scrittura (indispensabile per la conversione) ha creato un nuovo ambiente comunicativo radicalmente diverso. L’espandersi della moneta, lo sviluppo capitalistico dei mercati, l’imposizione di confini rigidi, il controllo e la burocratizzazione degli apparati statuali sono gli elementi fondamentali della «Grande trasformazione» (Polanyi) che ha investito il continente nel XIX secolo.

Tuttavia, le peculiari forme di trasmissione e comunicazione dei saperi che per secoli avevano garantito la riproduzione sociale e culturale sono in gran parte sopravvissute al cambiamento. In generale il sopraggiungere della scrittura ha rimodellato la dimensione istituzionale, senza però penetrare in profondità nella vita sociale. Gli africani pur essendo in maggioranza scolarizzati si mostrano tuttora piuttosto refrattari al libro, che localmente si manifesta in primo luogo nella pubblicistica delle religioni “universali”. I saperi tradizionali e gli antichi culti ancor oggi diffusamente praticati non sono mai stati canonizzati e continuano a essere veicolati in forme fluide, aperte, flessibili e performative. La resistenza nei confronti della scrittura e delle sue implicazioni istituzionali e giuridiche non si estende però alle tecnologie comunicative nel loro insieme. Tutt’altro! I media non scritti sono stati accolti con grande entusiasmo e in particolare la radio ha avuto un’enorme fortuna fin dalla sua introduzione, grazie alla semplicità e all’economicità della sua tecnologia ma soprattutto al ruolo centrale dell’oralità, divenendo certamente il canale privilegiato della comunicazione di massa. A partire dagli anni 90 del Novecento, la rivoluzione digitale si è poi fatta strada a passi da gigante in contesti in cui la telefonia fissa era praticamente inesistente e la Tv o il cinema si limitavano a un uso ristretto in città (dove c’è corrente di rete).

Grazie ai costi ridotti e alla possibilità di utilizzo nei contesti più remoti (per ricaricali è sufficiente un piccolo pannello fotovoltaico), i cellulari e poi gli smartphone hanno avuto un grandissimo successo. Oggi si calcola che siano presenti in Africa 900 milioni di abbonamenti telefonici singoli (su 1 miliardo e 240 milioni di abitanti). Tra il 2004 e il 2007 il mercato della telefonia mobile è cresciuto in Africa a un tasso triplo rispetto al resto del mondo. A fronte di una sostanziale carenza di infrastrutture comunicative, sempre più africani accedono al web soprattutto attraverso lo smartphone. Ci sono ovviamente differenze locali nell’accesso alla rete che però sta crescendo rapidamente (in Kenya ad esempio tocca ormai il 45% della popolazione).

È importante, per comprendere la portata di questo fenomeno, incrociare questi dati con quelli demografici: la popolazione dell’Africa sub-sahariana cresce con una media di 4,6 figli per donna. Questo significa che circa la metà della popolazione è sotto i 18 anni. I giovani costituiscono la grande maggioranza e sono ovviamente molto interessati al web e alle opportunità economiche e culturali che offre. I numeri lasciano intuire la crescita esponenziale di un mercato che sarà enorme nei prossimi anni, nonostante manchino i dati e i meccanismi di profilazione necessari al suo sviluppo. Il processo di digitalizzazione dell’Africa subsahariana è descritto con l’immagine del leapfrogging, il “salto della rana” con cui ha scavalcato la scrittura e i media tradizionale per lanciarsi in un nuovo mondo dominato dal digitale. Osservare queste tendenze ci può fornire chiavi di lettura per comprendere processi che forse si verificheranno anche in Occidente.

Qualche esempio: in Uganda si è sviluppato, a partire dal XV secolo, uno dei regni più importanti e più studiati dell’Africa: il Buganda (da qui l’attuale nome del Paese). Era una società centralizzata sulla base di una monarchia sacra. Nonostante l’assenza di scrittura, la storia e la genealogia dei sovrani del Buganda ci sono note anche grazie a un sistema di “tracciamento” dei capi sul territorio. Ogni sovrano costruiva la sua capitale in una località. Alla sua morte le sue reliquie venivano conservate nel palazzo che si trasformava in un tempio, dove i medium continuavano a dare voce allo spirito del sovrano. Il nuovo re, emerso dopo un periodo di competizione caotica e spesso violenta tra i successori, costruiva altrove la sua capitale con il suo palazzo. In questo modo il territorio del regno è stato disseminato di templi che conservano la memoria dei sovrani, che i sudditi possono “leggere”. I regni ugandesi sono stati aboliti nel periodo drammatico che ha seguito la decolonizzazione, per essere restaurati in forma culturale nel 1993. I medium della religione tradizionale hanno allora ritrovato le loro funzioni che implicano anche la trasmissione della memoria e della storia attraverso i culti di possessione, praticati in uno scenario religioso dove oggi convivono islam, cristianesimo, pentecostalismo, induismo, ebraismo e culti tradizionali. Un pluralismo religioso garantito dalla costituzione. In questo come in altri settori, l’Uganda ha cercato una via africana al progresso che sembra dare buoni risultati. Negli ultimi 10 anni l’economia del Paese è cresciuta del 5,8%, uno dei tassi più alti del continente, nonostante la povertà sia molto diffusa. Uno dei fattori di crescita è la diffusione delle tecnologie informatiche in vari settori della vita economica e culturale: le tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i social network hanno trovato applicazioni in ambito agricolo, sanitario, nel commercio, nella delivery, nella mobilità, nella produzione audio-visiva, nella vita religiosa, grazie all’attività di start up che hanno cercato soluzioni ad hoc alle esigenze locali.

Uno degli esempi più interessanti è quello del mobile money, il trasferimento di denaro elettronico realizzato attraverso le compagnie telefoniche. Ideato dalla kenyana Safaricom nel 2007, questo sistema mpesa (in swahili) si è diffuso rapidamente in Africa e poi nel mondo. È un esempio interessante di come la creatività e la capacità di innovazione africana possano fluire verso il Nord invertendo lo stereotipo evoluzionista del “sottosviluppo” (J. e J. Comaroff, Teoria dal Sud del mondo, Rosenberg&Sellier, 2019). Il costo eccessivo dei servizi bancari fa sì che solo un terzo degli africani possieda un conto corrente. In Uganda questa percentuale scende all’11%, contro un numero di utilizzatori di mobile money che ha raggiunto il 56% della popolazione. Inoltre, gli effetti di questa semplice e poco costosa circolazione del denaro sono estremamente rilevanti in ambito migratorio, favorendo le rimesse che costituiscono una parte rilevante delle economie africane. Anche per questo il denaro mobile, più che conformarsi al modello europeo di un Homo oeconomicus motivato esclusivamente dal profitto, pare andare incontro alla fondamentale esigenza di reciprocità che ha contraddistinto da secoli le economie africane, consentendo la circolazione familiare delle risorse e la soddisfazione degli obblighi nei confronti del clan e dei capi tradizionali, nell’ambito di un’economia concepita come “affettiva”. Non per niente, lo slogan con cui Safaricom pubblicizzava mpesa è “Send money home”.

L’autrice: Cecilia Pennacini è ordinaria di antropologia culturale all’Università di Torino. Collabora con la Rai. Fra i suoi libri Filmare le culture (Carocci) L’Africa delle città curato con A. Gusman (Accademia University Press). Questo suo testo inedito, che pubblichiamo, è stato scritto in occasione della sua partecipazione al festival Con-vivere di Carrara 2022