Scrivo da Lubumbashi, la terza città della Repubblica Democratica del Congo, alla quasi conclusione dei dieci giorni di lancio della settima edizione della Biennale di Lubumbashi, intitolata Toxicity (Toxicité in francese), titolo che mette in opera un cortocircuito di senso traducibile in italiano come Tossicittà (biennaledelubumbashi.com).
Lubumbashi, ex Elizabethville del Congo Belga, era un’area che venne urbanizzata negli ultimi decenni dell’Ottocento, scoperto il rame, dai coloni di Leopoldo II di Belgio. Il rame ha sancito la nascita della città e trasformato la rivoluzione industriale in Europa e l’immagine stessa delle sue capitali. Difficile non pensare alla ville lumière osservando la collina di scavo (il terril), landmark di Lubumbashi formatosi con l’estrazione del rame e la vicina ciminiera: l’immaginario della Parigi modernista delle avanguardie, incarna di colpo, in questa città, il suo lato oscuro, quello dello sfruttamento coloniale delle miniere di rame e dell’estrattivismo delle economie imperiali europee.
La Biennale Toxicity si fa pensiero sul mondo a partire dalla città del rame e del cobalto, capitale della provincia del Katanga, la regione da cui aziende minerarie internazionali del XX secolo avrebbero poi estratto l’uranio (quello venduto dai Belgi agli Stati Uniti per le bombe di Nagasaki e Hiroshima veniva da qui) ed oggi, non lontano, il litio. La tossicità si respira quotidianamente nella polvere carica di arsenico e piombo ed è insita nel terreno da cui emergono pietre di metalli pesanti. Tossica è l’economia modernista delle ciminiere, il cui fumo generava inquinamento insieme a certezze di prosperità e ricchezza, fino a che la loro dismissione successiva alla guerra civile degli anni Novanta ha fatto sì che non fumassero più – e che la crisi economica divenisse visibile e respirabile. Ma la tossicità è anche metafora. Quella esistenziale di uno dei Paesi più ricchi del mondo sfruttato dal funzionamento coloniale dell’economia del modernismo e neocoloniale del presente liberista (pensando alla narrazione delle automobili elettriche che non inquinano, dovremmo osservare le trasformazioni del territorio della vicina Manono dove recentemente è stato scoperto un giacimento di litio). La tossicità del pensiero moderno che ha concepito l’impianto urbanistico segregato di Elizabethville, basato su un finto fatto scientifico: le zanzare non possono volare più di 700 metri. E così la “ville des blancs”, con le ville le cui facciate ricordano le case delle Rue Haute di Bruxelles, e “la ville des indigènes”, sono separate da una zona franca profonda un chilometro per evitare che le zanzare che pungevano gli “indigeni”, pungessero anche i bianchi. La tossicità dell’estrattivismo delle risorse dell’immaginario, con le storie di artisti e fotografi globali di passaggio che raccontano l’Africa delle ingiustizie e dei disastri, senza dare visibilità agli immaginari resilienti che la vivono quotidianamente.
Con la voce e le immagini di artisti congolesi e internazionali, la Biennale ha lanciato la settima edizione il 6 ottobre scorso, nello spazio dedicato al suo progetto formativo e di lunga durata, “Ateliers Picha”. La Biennale di Lubumbashi nasce nel 2008 con l’idea di dare spazio agli immaginari generati in questo contesto, come Rencontres Picha. Due fotografi allora emergenti tornano dai Rencontres de Bamako e decidono con i loro compagni di organizzare una cosa simile, uno spazio in cui invitare altri artisti e visionari dall’Africa e dal mondo e connettere le proprie immagini, scambiando storie e forme di resistenza. Nasce così Picha, in Swahili “immagine” (e sullo swahili che si parla in questa parte del Congo, lingua imposta dagli imperi coloniali per dare ordini ai lavoratori delle miniere, bisognerebbe aprire un capitolo troppo lungo per questo spazio), l’organizzazione che alimenta la Biennale da 14 anni. «Immagine come mezzo e città come palco» spiega il manifesto di questa organizzazione di artisti, scrittori, producers, che hanno abbracciato insieme l’utopia di poter decodificare la colonialità insita nella vita quotidiana: nelle scuole in cui si parla ancora di Leopoldo come un modernizzatore, nelle chiese in cui si dominano desideri e aspirazioni con prassi di contenimento dell’immaginario, nella forma della città.
Dopo la prima Biennale, Picha ha aperto uno spazio laboratoriale, cioè studio collettivo di creazione e ricerca sperimentale su media e idee, e pur poggiandosi sulle spalle fragili di una organizzazione indipendente che nel mondo anglosassone sarebbe definita “grassroots”, conta sul sostegno di una rete locale ed internazionale di artisti, curatori, scrittori di altissimo livello. Ateliers Picha nasce per accompagnare e far crescere una nuova generazione di artisti congolesi. Dal 2019 ne sono direttrice artistica ed insieme a un gruppo di quindici giovani artisti, scelti insieme a Picha, abbiamo lavorato alla produzione delle loro opere nella sezione più corposa della Biennale.
A loro si sono aggiunti artisti più affermati, per animare dei workshop di produzione site-specific: Franck Moka, Isaac Sahani Dato, Frank Mukunday e Sarah Kadima dalla stessa Repubblica democratica del Congo; Luigi Coppola e Maria Iorio/Raphale Cuomo da Belgio e Svizzera. Si parla di ciminiere che non fumano più, di piante che riparano il territorio (in un bellissimo progetto di Luigi Coppola), di storie precoloniali tra uomini e cani, di storie e figure politiche e culturali locali dimenticate e da far riemergere, di intere comunità salvate dal lavoro ostinato e illegale dei raccoglitori precari di spazzatura. Piuttosto che concentrarci sulla produzione di una mostra per la Biennale, abbiamo sviluppato dei percorsi lenti e di lunga durata, seguendo l’idea di un Symbiotic Planet che allude a prassi di condivisione, cooperazione ed evoluzione collettiva. Appropriandoci di una scoperta dalla biologa Lynn Margulis come metafora, abbiamo operato in un pianeta simbiotico, dove l’evoluzione di uno aiutasse l’evoluzione di tutti, creando un territorio fertile, sano e in cammino verso una migliore condizione collettiva.
Possibile immaginare l’unione e lo sforzo collettivo come antidoto alla tossicità del nostro presente? In questo percorso l’Endosimbionte di Margulis sembra essere anche metafora e sintesi dell’operato di Picha nel suo contesto: partecipazione e condivisione sono possibilità tangibili per la co-creazione di migliori spazi di vita, in cui pensare, radicare, creare e migliorare il reale. Ma è anche un immaginario che proprio da questo contesto così carico di implicazioni anche per il resto del mondo – il mondo è un sistema, quello che succede a Lubumbashi è il lato oscuro del sistema di governance globale che trasforma il pianeta – sembra indicare vie futuribili di convivenza per un pianeta in rovina.










