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Lesa maestà

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 16-12-2021 Roma, Italia Cronaca Sciopero generale sindacati Cgil Uil Nella foto: manifestanti in piazza del popolo durante lo sciopero generale proclamato da cgil e uil contro i provvedimenti economici del governo Draghi Photo Mauro Scrobogna / LaPresse 16-12-2021 Rome, Italy News General strike unions CGIL Uil In the photo: demonstrators in piazza del popolo during the general strike proclaimed by the cgil and the uil against the economic measures of the Draghi government

Dice Matteo Salvini che quello di ieri è stato «uno sciopero farsa». Ci sta, bisogna avere lavorato per sapere riconoscere uno sciopero. Niente di male. Antonio Tajani dice che crede che «lo sciopero non abbia alcun senso: sia dannoso per la ripresa economica. Abbiamo prorogato lo stato di emergenza. Non è questo il modo per andare incontro ai lavoratori. È negativo per i lavori e il nostro Paese». Tajani fa il Tajani, ci sta, è pagato per quello: la ripresa economica per Tajani consiste nell’accontentare il suo elettorato e la disuguaglianza delle misure sicuramente non pende da quella parte.

Di certo lo sciopero di ieri è il primo atto di lesa maestà nei confronti del governo Draghi e molto chiaramente si sono potute vedere le parti in campo. Nessun leader di partito tranne Bersani e Fratoianni ha appoggiato esplicitamente lo sciopero. Pd e M5s da equilibristi auspicano “il dialogo”, peccato che le domande dei lavoratori (una distribuzione Irpef più equa, un maggiore contributo per le famiglie più povere per il rialzo dei consumi, una seria posizione sulle delocalizzazioni, maggiori stanziamenti per la sanità) siano chiarissime e a mancare siano le risposte. Ed è curioso che chi non risponde a una domanda si lamenti della mancanza di dialogo.

Inarrivabili quelli che dicono che non è il momento di scioperare: in Italia cinque milioni di lavoratori percepiscono un salario inferiore ai 10 mila euro lordi l’anno. Tra disoccupati e inattivi si contano quattro milioni di persone. Tre milioni sono i precari, 2,7 milioni i part time involontari. Il Censis ha elaborato dati Ocse da cui si deduce che siamo l’unico Paese industrializzato in cui, negli ultimi 30 anni, le retribuzioni sono calate (del 2,9%). Un arretramento che neanche in Grecia e in Spagna si è verificato. Francia e Germania hanno visto crescere i redditi da lavoro di oltre il 30%. In tutto questo stanno arrivando miliardi dall’Europa. Se non ora, quando?

Pessima, seppur prevedibile, la reazione dei giornali: Repubblica ieri non citava nemmeno lo sciopero, il Corriere della Sera ieri ne parlava a pagina 16 in poche righe, Il Messaggero un trafiletto sotto il titolo “disagi”. Se serviva uno sciopero per tastare il polso della stampa italiana eccovi serviti. Dario Di Vico ieri sul Corriere scriveva di  una «gauche italiana pervicacemente affezionata a una centralità del conflitto capitale-lavoro». Magari Di Vico, magari.

Una cosa è certa, questo Paese si è completamente disabituato alla cultura del conflitto (essenziale in democrazia). Il fatto che ora ci sia Draghi ha aggiunto l’aggravante della lesa maestà. Il presidente di Confindustria Bonomi ci ha fatto sapere di essere stato “triste” per lo sciopero. Sapesse come sono tristi i lavoratori sottopagati o disoccupati. Il punto è che di Paesi reali ce ne sono veramente due: gli sfruttati e gli sfruttatori. Una volta l’avrebbero chiamata “lotta di classe” ma se oggi ci si permette di scriverlo questi chissà come si intristiscono ancora.

Buon venerdì.

 

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Chi ha paura del conflitto sociale

Non è responsabile, non è opportuno, non in questo momento. Un incredibile fuoco di fila si è levato da quasi tutti i ranghi della politica e della stampa contro la decisione di Cgil e Uil di indire lo sciopero generale del 16 dicembre. Quasi fosse un gesto di lesa maestà invitare a manifestare i lavoratori e chi un lavoro non ce l’ha per far sentire la propria voce inascoltata dal governo. Come se scioperare fosse un diritto costituzionale subordinabile al mantenimento della pax draghiana, purché sia. Mentre andiamo in stampa mancano ancora 48 ore allo sciopero. Non sappiamo che seguito avrà. Ma non potevamo uscire in edicola all’indomani di questo importante appuntamento democratico senza rimarcare e denunciare i tentativi di boicottaggio che sono stati messi in campo a reti pressoché unificate. Colpiscono due immagini. Da un lato la responsabilità e l’impegno di Cgil e Uil che hanno convocato lo sciopero nel pieno rispetto delle regole anti Covid e tenendo fuori i lavoratori dei servizi essenziali.

Dall’altro la sdegnata reazione stile Ancien régime che hanno avuto quasi tutti i partiti dell’arco costituzionale, sulla stessa scia di Confindustria. Vade retro conflitto sociale e ogni sua espressione. Come se non fosse un elemento di dialettica democratica. Come se non fosse un elemento da leggere e interpretare, in una prospettiva dinamica di cambiamento politico progressista. Francamente sembra di essere tornati all’Ottocento. È questo il risultato di anni di disintermediazione e di esclusione dei corpi sociali di cui l’ex premier Renzi è stato un campione. Il governo dei migliori non si è comportato diversamente, convocando i sindacati sempre a “cose fatte”, per informarli delle decisioni prese. Fin qui ignorando del tutto l’ampia piattaforma proposta da Cgil Cisl e Uil, nonostante le questioni che riguardano il lavoro e la giustizia sociale siano quanto mai urgenti. È sotto gli occhi di tutti quanto le disuguaglianze si siano acuite durante la pandemia.

In Italia ci sono 5 milioni di poveri e non basta certo il reddito di cittadinanza a risolvere questa enorme ingiustizia. È sotto gli occhi di tutti che fasce amplissime di popolazione – disoccupati, lavoratori precari, intermittenti, a chiamata, lavoratori poveri – sono anche prive di rappresentanza politica tanto che molti di loro non votano. Forse è per questo che i partiti che sostengono il governo Draghi se ne disinteressano, puntando tutto sui ceti medio alti e lasciando che la destra populista di Fratelli d’Italia soffi sul malcontento. Nel grave deficit di democrazia che l’Italia sta attraversando con un governo di unità nazionale che comprende Lega e Forza Italia mentre l’“opposizione” è in mano alla destra di Giorgia Meloni, l’impegno anche politico della Cgil ci appare ancor più significativo. Ora non si tratta di fondare un partito del lavoro, non si tratta di tornare ai tempi in cui il sindacato funzionava da cinghia di trasmissione.

Ma è indubbiamente importante (specie in questo momento in cui i partiti di centrosinistra si sono allontanati dal mondo del lavoro) che il sindacato, oltre ad occuparsi di ciò che gli è più specifico, ponga una questione più ampia di equità fiscale, di giustizia e di trasformazione sociale. Questo leggiamo nelle ragioni urgenti ed essenziali che hanno portato Cgil e Uil a indire lo sciopero generale. Le questioni e le proposte sono tante, per una equa riforma del fisco, una riforma delle pensioni pensando anche a una pensione di garanzia per di giovani, per combattere «la pandemia sociale e salariale».

Che fine hanno fatto i provvedimenti promessi dal governo per fermare la strage di morti sul lavoro? Che fine ha fatto il decreto contro le delocalizzazioni selvagge promesso dal governo? Dalla Caterpillar alla Better, dalla Whirpool alla Speedline, sono migliaia i posti di lavoro a rischio nel nostro Paese a causa di un capitalismo predatorio di multinazionali che, pur avendo ricevuto aiuti pubblici ed essendo in attivo, decidono di chiudere per andare a produrre in Paesi dove la mano d’opera costa di meno. Mentre il governo anche su questo non batte un colpo, responsabilmente non solo pensando alla propria sorte, ma per tutelare l’occupazione e il tessuto produttivo del Paese, il collettivo dei lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio, con l’aiuto di giuristi, ha messo a punto una proposta di legge per bloccare le delocalizzazioni selvagge.

Il loro testo, dopo essere stato depositato alla Camera e al Senato, è diventato un emendamento alla Legge di bilancio, (depositato dal senatore di Potere al popolo Matteo Mantero, insieme alla senatrice Paola Nugnes di Sinistra italiana) ed è stato ammesso alla discussione in Commissione. Abbiamo raccontato fin dall’inizio la vicenda emblematica della Gkn, continueremo a farlo. Così come continuiamo (anche su questo numero) ad occuparci dello sfruttamento dei rider e delle inumane condizioni di lavoro che sono costretti ad accettare. Sulla scia della legge spagnola del governo Sanchez a cui ha lavorato la ministra Yolanda Diaz, Bruxelles sta lavorando a una direttiva che obbliga le piattaforme digitali a contrattualizzare i rider come lavoratori dipendenti riconoscendo loro diritti come ferie, malattia ecc.

Ce lo chiede l’Europa. L’Italia cosa fa? Bruxelles sta lavorando anche a una direttiva per salari minimi equi ed adeguati. La Germania del neo cancelliere Olaf Scholz ha innalzato il salario minimo a 12 euro l’ora. Ce lo chiede l’Europa, l’Italia che fa?


L’editoriale è tratto da Left del 17-23 dicembre 2021

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Armiamoci e pagate

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 04 Novembre 2021 Roma (Italia) Cronaca : Deposizione di una corona, da parte del presidente Sergio Mattarella sulla Tomba del Milite Ignoto in occasione del 'Giorno dell'Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate' all’Altare della Patria. Nella Foto : la cerimonia Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse November 04, 2021 Rome (Italy) News : Deposition of a crown by President Sergio Mattarella on the Tomb of the Unknown Soldier on the occasion of the 'Day of National Unity and Day of the Armed Forces' at the Altare della Patria. In the Pic : the ceremony

Cacciabombardieri, droni, missili, mezzi blindati, radar ed elicotteri: un vero e proprio catalogo dei più aggiornati sistemi d’arma, come mai si era visto nel nostro Paese. In meno di sei mesi, da agosto in poi, il Parlamento è stato letteralmente inondato di richieste per nuovi sistemi d’arma che faranno felici non solo la Difesa e le Forze armate ma anche – e forse soprattutto – l’industria a produzione militare.
Con le ultime trasmissioni di documento dell’inizio di dicembre (tutte comunque da approvare entro la fine dell’anno) sono infatti arrivati al numero record di 23 i programmi che il ministro Lorenzo Guerini ha inviato alle Camere nel 2021. Il controvalore complessivo confermato (e quindi ormai definitivo) ricostruito dall’Osservatorio Mil€x sulle spese militari supera di poco i 12 miliardi di euro (12,14 per la precisione) con autorizzazioni di spesa annuale per oltre 300 milioni nel 2021 e per quasi mezzo miliardo nel 2022. Se anche le tranche successive dei programmi avviati verranno successivamente approvate si potrebbe arrivare poi ad un onere complessivo previsto di circa 24,4 miliardi di euro.

In prima fila come beneficiaria di queste decisioni troviamo l’Aeronautica militare, con programmi per oltre 6 miliardi e mezzo di euro. Si parte dall’oneroso avvio della fase di ricerca e sviluppo del caccia di sesta generazione Tempest (2 miliardi sui 6 totali previsti) e dai nuovi eurodroni classe Male (quasi 2 miliardi anche in questo caso) per arrivare ai nuovi aerei per guerra elettronica Gulfstream e alle nuove aero-cisterne per il rifornimento in volo Kc-46. Senza dimenticare il nuovo sistema di difesa aerea Nato e il centro radar spaziale di Poggio Renatico. Un’altra grossa fetta della torta – circa 2,4 miliardi – è appannaggio dei programmi interforze: droni kamikaze per le forze speciali e nuove batterie missilistiche antiaeree improntate sul sistema dei missili Aster. Quest’ultimo è il sistema con lo stanziamento più cospicuo tra tutte le richieste avanzate: oltre 2,3 miliardi solo per la sua prima fase. I restanti programmi fanno capo a Marina militare ed Esercito, con stanziamenti di circa un miliardo per ciascuna Arma. Per la prima ci sono le nuove navi ausiliarie e da supporto logistico, i nuovi radar missilistici per le fregate Orizzonte e la nuova rete di radar costieri mentre l’Esercito si vede attribuire fondi per i nuovi blindati Lince 2, gli elicotteri Aw-169 e il nuovo posto di comando per le missioni. Stessi elicotteri e blindati, oltre a camionette e autocarri, anche per i Carabinieri che sono destinatari di due programmi per poco più di 300 milioni di euro totali.

Da dove vengono i soldi
Se le decisioni definitive, in termini di tipologia di armamento e di quantità, sono da attribuirsi all’attuale governo Draghi va però sottolineato come la possibilità di spendere così tanti soldi in armamenti derivi da decisioni prese nel passato. Infatti è proprio sul 2020 e sul 2021 che iniziano ad essere iscritti nei bilanci in maniera consistente i fondi per investimenti pluriennali decisi ed impostati già a partire dalla fine 2016. L’Osservatorio Mil€x ha ricostruito la destinazione dei circa 144 miliardi di euro che, dal governo Renzi in poi, sono stati iscritti su speciali capitoli di bilancio atti a sostenere investimenti infrastrutturali di ampio respiro: circa un quarto dei fondi complessivi, per un totale di 36,7 miliardi, sono stati destinati alla Difesa.

Una quota maggioritaria di questi fondi – quasi 27 miliardi di euro in totale – hanno come destinazione proprio i programmi di armamento, ed è per questo che nel giro di soli tre anni i soldi a disposizione per investimenti armati sono passati da circa 5 miliardi di euro a oltre 8 miliardi di euro all’anno. Nel corso dei prossimi anni questo tipo di iniezione di finanziamento crescerà ulteriormente passando dal miliardo di euro appostato sul 2021 (e che ha permesso in particolare di coprire costi di programmi elicotteristici, di aerei e di sistemi di combattimento) a cifre previste tra i 2 e i 2,5 miliardi all’anno dal 2028 in poi. Non…


L’inchiesta prosegue su Left del 17-23 dicembre 2021

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Se avessimo il coraggio di fare la pace

In this Thursday, March 12, 2020 photo, children play on the rubble of houses destroyed by airstrikes, in Idlib, Syria. Idlib city is the last urban area still under opposition control in Syria, located in a shrinking rebel enclave in the northwestern province of the same name. Syria’s civil war, which entered its 10th year Monday, March 15, 2020, has shrunk in geographical scope -- focusing on this corner of the country -- but the misery wreaked by the conflict has not diminished. (AP Photo/Felipe Dana)

Già li sento: ancora un articolo sulle armi sulla guerra, ancora lo spazio di un buongiorno usato per questo quando si potrebbe benissimo criticare qualche influencer sperando di accumulare così punti da influencer e fare tantissimi clic? Lo so, mi spiace, il tema mi sta tremendamente a cuore perché non riesco a capacitarmi del tempo e dello spazio dato ai 500 euro al mese per qualche poveraccio (e pochi, pochissimi truffatori fisiologici) mentre si tace sulla spesa militare e soprattutto sui danni collaterali che portano le armi, ovvero la guerra.

Del resto qui in Italia c’è stato il tempo dove si spendeva una lacrima per Gino Strada dappertutto, anche i suoi nemici più ostinati, e ora pochi si prendono la briga di farsi carico della sua riflessione sul valore della pace. Anche in Parlamento i pacifisti sono merce rarissima. Il progetto è praticamente compiuto: rendere “idealista” un proposito politico è il modo migliore per neutralizzarlo.

Ve li ricordate gli articoli ogni volta che un premio Nobel dice qualcosa? Benissimo, qui di Nobel ne abbiamo 50 (dicasi 50) che dicono di avere trovato una soluzione con un’arma bianca infallibile: la logica. I 50 Nobel hanno scritto un appello (che trovate qui) per ridurre le spese militari e leggerlo attutisce la sensazione di essere alieni:

«La spesa militare, a livello globale, è raddoppiata dal 2000 ad oggi, arrivando a sfiorare i duemila miliardi di dollari statunitensi all’anno. Inoltre, è in aumento in tutte le aree del mondo. I singoli governi sono sotto pressione e incrementano la spesa militare per stare al passo con gli altri Paesi. Il meccanismo della controreazione alimenta una corsa agli armamenti in crescita esponenziale, il che equivale a un colossale dispendio di risorse che potrebbero essere utilizzate a scopi migliori.

In passato, la corsa agli armamenti ha spesso condotto a un’unica conseguenza: lo scoppio di guerre sanguinose e devastanti. Noi vogliamo presentare una semplice proposta per l’umanità: che i governi di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite si impegnino ad avviare trattative per una riduzione concordata della spesa militare del 2 per cento ogni anno, per cinque anni.

La nostra proposta si basa su una logica elementare:

  • Le nazioni nemiche ridurranno la spesa militare, e così facendo rafforzeranno la sicurezza dei rispettivi Paesi, pur conservando l’equilibrio delle forze e dei deterrenti.
  • L’accordo siglato servirà a contenere le ostilità, riducendo il rischio di futuri conflitti.
  • Enormi risorse verranno liberate e rese disponibili, il cosiddetto «dividendo della pace», pari a mille miliardi di dollari statunitensi entro il 2030.

La metà delle risorse sbloccate da questo accordo verrà convogliata in un fondo globale, sotto la vigilanza delle Nazioni Unite, per far fronte alle istanze più pressanti dell’umanità: pandemie, cambiamenti climatici e povertà estrema. L’altra metà resterà a disposizione dei singoli governi. Così facendo, tutti i Paesi potranno attingere a nuove e ingenti risorse, che in parte si potranno utilizzare per reindirizzare le notevoli capacità di ricerca dell’industria militare verso scopi pacifici nei settori di massima urgenza.

La storia dimostra che è possibile siglare accordi per limitare la proliferazione degli armamenti: grazie ai trattati Salt e Start, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica hanno ridotto i loro arsenali nucleari del 90 percento dagli anni Ottanta ad oggi. I negoziati da noi proposti avranno una buona possibilità di successo, perché fondati su un ragionamento logico: ciascun attore sarà in grado di beneficiare dalla riduzione degli arsenali del nemico, e così pure l’intera umanità. In questo momento, il genere umano si ritrova ad affrontare pericoli e minacce che sarà possibile scongiurare solo tramite la collaborazione. Cerchiamo di collaborare tutti insieme, anziché combatterci».

In mezzo a troppe ciance la trovo una delle lettere più belle, coraggiose e lucide di questi ultimi mesi.

Buon giovedì.

Qui i firmatari:

  1. Hiroshi Amano (Nobel per la fisica)
  2. Peter Agre (Nobel per la chimica)
  3. David Baltimore (Nobel per la medicina)
  4. Barry C. Barish (Nobel per la fisica)
  5. Steven Chu (Nobel per la fisica)
  6. Robert F. Curl Jr. (Nobel per la chimica)
  7. Johann Deisenhofer (Nobel per la chimica)
  8. Jacques Dubochet (Nobel per la chimica)
  9. Gerhard Ertl (Nobel per la chimica)
  10. Joachim Frank (Nobel per la chimica)
  11. Sir Andre K. Geim (Nobel per la fisica)
  12. Sheldon L. Glashow (Nobel per la fisica)
  13. Carol Greider (Nobel per la medicina)
  14. Harald zur Hausen (Nobel per la medicina)
  15. Dudley R. Herschbach (Nobel per la chimica)
  16. Avram Hershko (Nobel per la chimica)
  17. Roald Hoffmann (Nobel per la chimica)
  18. Robert Huber (Nobel per la chimica)
  19. Louis J. Ignarro (Nobel per la medicina)
  20. Brian Josephson (Nobel per la fisica)
  21. Takaaki Kajita (Nobel per la fisica)
  22. Tawakkol Karman (Nobel per la pace)
  23. Brian K. Kobilka (Nobel per la chimica)
  24. Roger D. Kornberg (Nobel per la chimica)
  25. Yuan T. Lee (Nobel per la chimica)
  26. John C. Mather (Nobel per la fisica)
  27. Eric S. Maskin (Nobel per l’economia)
  28. May-Britt Moser (Nobel per la medicina)
  29. Edvard I. Moser (Nobel per la medicina)
  30. Erwin Neher (Nobel per la medicina)
  31. Sir Paul Nurse (Nobel per la medicina e presidente emerito della Royal Society)
  32. Giorgio Parisi (Nobel per la fisica)
  33. Jim Peebles (Nobel per la fisica)
  34. Sir Roger Penrose (Nobel per la fisica)
  35. Edmund S. Phelps (Nobel per l’economia)
  36. John C. Polanyi (Nobel per la chimica)
  37. H. David Politzer (Nobel per la fisica)
  38. Sir Venki Ramakrishnan (Nobel per la chimica e presidente emerito della Royal Society)
  39. Sir Peter Ratcliffe (Nobel per la medicina)
  40. Sir Richard J. Roberts (Nobel per la medicina)
  41. Michael Rosbash (Nobel per la medicina)
  42. Carlo Rubbia (Nobel per la fisica)
  43. Randy W. Schekman (Nobel per la medicina)
  44. Gregg Semenza (Nobel per la medicina)
  45. Robert J. Shiller (Nobel per l’economia)
  46. Stephen Smale (Medaglia Fields per la matematica)
  47. Sir Fraser Stoddart (Nobel per la chimica)
  48. Horst L. Störmer (Nobel per la fisica)
  49. Thomas C. Südhof (Nobel per la medicina)
  50. Jack W. Szostak (Nobel per la medicina)
  51. Olga Tokarczuk (Nobel per la letteratura)
  52. Srinivasa S. R. Varadhan (Premio Abel per la matematica)
  53. Sir John E. Walker (Nobel per la chimica)
  54. Torsten Wiesel (Nobel per la medicina)
  55. Roberto Antonelli (Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei)
  56. Patrick Flandrin (Presidente dell’Académie des Sciences, Francia)
  57. Mohamed H.A. Hassan (Presidente della World Academy of Sciences)
  58. Annibale Mottana (Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei)
  59. Anton Zeilinger (Presidente dell’Academy of Sciences, Austria)
  60. Carlo Rovelli and Matteo Smerlak, organizzatori.

Nella foto: bambini a Idlib, Siria, dopo un attacco aereo, 12 marzo 2020


Per approfondire leggi Left del 17-23 dicembre 2021

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Tunisia, un altro anno senza parlamento. L’allarme della società civile: È un colpo di Stato

Demonstrators gather during a rally against Tunisian President Kais Saied in Tunis, Tunisia, Sunday Nov. 14, 2021. Thousands of Tunisians rallied on Sunday against a presidential power grab in the only democracy to have emerged from the Arab Spring uprisings a decade ago. (AP Photo/Hassene Dridi)

Il vento di cambiamento in Tunisia si trascina la sabbia del deserto. L’unica democrazia del mondo arabo è minacciata in questi giorni dalle dichiarazioni del presidente della repubblica Kais Saied, il quale ha affermato che «Il problema in Tunisia oggi è un problema costituzionale, dovuto alla Costituzione del 2014 che si è rivelata non più valida e non può continuare ad essere attuata perché priva di legittimità». Il presidente, che il 25 luglio scorso ha congelato il Parlamento e licenziato il primo ministro, il 22 settembre ha pubblicato un’ordinanza presidenziale (n. 117) che gli conferisce quasi la totalità dei poteri.

In un discorso alla nazione la sera del 13 dicembre ha comunicato il termine delle misure eccezionali: il lavoro del Parlamento sarà sospeso fino a prossime elezioni, previste per il 17 dicembre 2022, che si svolgeranno sulla base di una nuova legge elettorale. Dall’1 gennaio al 20 marzo, invece, si terranno le consultazioni per la stesura di una nuova costituzione, verrà aperta una piattaforma elettronica attraverso la quale i cittadini potranno inviare i loro suggerimenti e, il 25 luglio, si terrà un referendum per confermare le proposte. Un piano ben strutturato quello di Saied, che mostra una cura particolare per la scelta delle date, tanto da voler spostare una delle ricorrenze più importanti per il popolo tunisino, l’anniversario della rivoluzione, dal 14 gennaio al 17 dicembre.

Il segretario generale del partito di Corrente Democratica Ghazi Chaouachi, giudica questa decisione una «falsificazione della storia», in quanto il 17 dicembre corrisponde a quando Mohamed Bouazizi si immolò dandosi fuoco nel 2010, l’inizio della rivolta; il 14 gennaio 2011, invece, rappresenta per tutti i tunisini la caduta del regime dittatoriale di Ben Ali, la Rivoluzione dei Gelsomini. Chaouachi teme inoltre che le dichiarazioni di Saied rappresentino una pericolosa deviazione del potere verso il consolidamento di un governo individuale.

Mentre il presidente della Repubblica riceveva al Palazzo di Cartagine, durante il Consiglio nazionale di sicurezza, il professore di diritto costituzionale Amin Mahfouz, per confrontarsi sui lavori della nuova costituzione, la sede del partito Ennahda (Rinascita), primo partito del Paese, andava a fuoco. L’incendio è divampato nel pomeriggio di giovedì 9 dicembre, provocato da un ex membro del movimento che si è immolato all’interno dei locali del quartiere centrale di Montplasir. Stando alle ricostruzioni e alle testimonianze, l’uomo ha compiuto il gesto disperato perché era stato abbandonato dal movimento e voleva tornare a vivere una vita dignitosa, condizione che rappresenta tanti cittadini che non hanno visto e non vedono garantiti diritti e dignità, sentendosi dimenticati dallo Stato. Pur non essendoci una connessione diretta tra l’accaduto e le dichiarazioni di Saied, che ha mostrato la sua vicinanza alle 18 persone rimaste ferite, il caso ha voluto che l’incendio della sede di Ennahda al centro della capitale avvenisse proprio mentre il presidente “incendiava” la Costituzione a Cartagine, simbolo che qualcosa sta bruciando in Tunisia.

La Tunisia, ricordiamo, ottiene l’indipendenza dalla Francia il 20 marzo del 1956 e, l’anno successivo, il presidente progressista Habib Bourguiba proclama la repubblica, gettando le basi della Tunisia moderna. Nel 1987, l’allora primo ministro, Zine El-Abidine Ben Ali destituisce Bourguiba e prende il suo posto; il suo governo si rivela un regime autoritario e tirannico che porta alla rivoluzione nel 2010. La Tunisia sembra essere l’unico Paese in cui la primavera araba sboccia realmente e si assiste a una svolta democratica, nel 2011 si svolgono le prime elezione che generano un forte entusiasmo. Inizia il processo di stesura della Costituzione, che vede la partecipazione di tutti, dei partiti politici e della società civile. Il popolo tunisino ha scritto la Costituzione più democratica del mondo arabo, che adesso rischia di essere cambiata dal presidente eletto alla fine del 2019, Kais Saied, professore di diritto costituzionale che su quella Costituzione ha giurato.

La sua scelta di sospendere i lavori del Parlamento a luglio era stata ben accolta dalla popolazione, delusa per la mala gestione della crisi sanitaria e della campagna vaccinale da parte del governo. Nei mesi successivi però si nota una scissione all’interno del Paese, da una parte ci sono i sostenitori di Saied e dall’altra chi lo accusa di colpo di stato. Si alternano manifestazioni a favore del presidente e proteste contro l’una o l’altra misura adottata, fino alla nomina della nuova premier a settembre, Najla Bouden, prima donna a rivestire tale ruolo nel mondo arabo, la quale viene incaricata di formare un nuovo governo. Il governo, di 24 ministri tra cui otto donne, viene nominato con decreto ministeriale e non sottoposto all’ottenimento della fiducia in aula, dal momento che il Parlamento è sospeso. La premier Bouden appoggia le decisioni di Saied e assicura che stanno lavorando per far fronte alla fragile situazione sociale. Dopo un periodo di calma apparente, i cittadini sono tornati in piazza il 14 novembre, davanti al Parlamento, guidati dal movimento “Cittadini contro il colpo di stato” per chiedere il ritiro delle misure eccezionali.

La Tunisia oggi è una democrazia fragile, che si trova ad affrontare diverse problematiche economiche e sociali. Uno dei problemi più evidenti e forti è la disuguaglianza esistente tra regioni diverse del Paese, l’economia è in crisi, il caro vita pesa tantissimo perché dopo la legge finanziaria del 2019 è stato tassato tutto il possibile e gli stipendi restano molto bassi. Dopo gli attacchi terroristici al museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse, è crollato anche il turismo, una delle maggiori fonti di guadagno, contribuendo alla situazione economica critica della quale però approfittano molte aziende estere (si contano oggi più di 800 aziende italiane con sede in Tunisia).

L’altra grande sfida che affrontano oggi i tunisini è rappresentata dall’alto tasso di disoccupazione, motivo di scioperi e movimenti di protesta in diverse regioni del Paese. I disoccupati reagiscono alla dichiarazione del presidente della Repubblica, il quale si è espresso sull’inapplicabilità della legge 38. Tale legge, ratificata dal parlamento tunisino a luglio del 2020, prevede l’assunzione di 10mila laureati disoccupati da almeno dieci anni nel pubblico impiego, è stata approvata da Saied e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Il presidente, appoggiato dai suoi sostenitori, in un secondo momento ha affermato che la legge è stata emanata «per vendere illusioni e speranze» e non per essere realmente attuata, in quanto la situazione odierna del settore pubblico impedisce l’assunzione di personale. Rachid al-Ghannouchi, storico leader di Ennahda, accusa Saied di aver preso un impegno con i cittadini, che sono scesi in piazza in questi giorni con lo slogan «Resistenza solidale per la dignità, la libertà e la giustizia sociale».

Il movimento “Cittadini contro il colpo di stato”, guidato da Jouhair Ben M’barek, ha annunciato tramite la pagina social l’inizio di manifestazioni continuate a partire da venerdì 17 dicembre fino al 14 gennaio, date simbolo della rivoluzione. Il punto d’incontro sarà davanti al Teatro Nazionale, anche questo luogo emblematico e punto di riferimento, spazio d’incontro durante la rivoluzione contro Ben Ali, obiettivo dell’attacco della prima kamikaze donna nel 2018. Il 17 dicembre sfileranno su Avenue Bourguiba anche tre partiti politici (il partito di Corrente Democratica, il partito Repubblicano e il Forum Democratico per il lavoro e le libertà), per protestare contro il colpo di stato in occasione dell’anniversario dello scoppio della rivoluzione.
Un altro anno senza Parlamento, un governo scelto dal presidente che mette in discussione la Costituzione e appelli social per scendere in piazza. Il futuro della Tunisia è delicato e incerto, sembra chiaro che la rivoluzione non sia mai finita e che, nel nome della democrazia, continuerà.

Nella foto: Tunisi, manifestazione del 14 novembre 2021 promossa dal movimento “Cittadini contro il colpo di Stato”

 

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Perché lo sciopero?

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 27-11-2021 Roma #CambiaManovra -Manifestazione di Cgil, Cisl, Uil contro la Legge di Bilancio Nella foto Un momento della manifestazione Photo Roberto Monaldo / LaPresse 27-11-2021 Rome (Italy) Demonstration by trade unions against the Budget Law

Che il nostro Paese negli ultimi anni abbia perso molta cultura dello sciopero (e del lavoro) è evidente semplicemente osservando la classe dirigente che ci ritroviamo ma che uno sciopero determini la fine della luna di miele col governo dei migliori evidentemente dà fastidio a molti se è vero che in questi giorni fioccano gli editoriali zeppi di “disagi” provocati dallo sciopero proclamato da Cgil e Uil. Ieri qualche illuminato addirittura proponeva uno sciopero “lavorante” per non provocare troppi fastidi. So che a prima vista la proposta potrebbe ingolosire, peccato che non abbia nulla a che vedere con lo sciopero, appunto.

Ma in tutto questo baccano sullo sciopero la grande maggioranza dei media e dei politici si sono dimenticati di evidenziare le ragioni della protesta. Che strano, non sia mai che poi la gente rischi di essere d’accordo con i sindacati. Perché scioperano? Principalmente per due ragioni: perché la riforma dell’Irpef non tocca le tasche di chi guadagna meno di 15mila euro (a proposito dell’avversione verso i poveri che da queste parti raccontiamo da mesi) e perché la crisi energetica (sempre a proposito della “transizione ecologica” per cui l’Europa sta tornando fuori parecchi soldi) alla fine la pagano i cittadini (anche qui senza nessuno contributo di solidarietà dei più ricchi per il disaccordo del centro destra e d’Italia viva, che è sempre centrodestra).

Per quanto riguarda l’Irpef le simulazioni parlano chiaro: risparmia soprattutto il ceto medio, ovvero la fascia che ha un reddito lordo annuo compreso tra i 28mila e i 50mila euro. Si andrà da un risparmio di circa 320 euro all’anno per chi ha un reddito di 30mila euro fino a un massimo di 920 euro per chi ha un reddito di 50mila euro. Per le due fasce più basse i risparmi saranno minori: per chi ha un reddito di 20mila euro si stima un risparmio di 100 euro. Sono scelte, scelte politiche, e in politica esiste il diritto di non essere d’accordo, per fortuna. I sindacati pensano che bisognasse «far crescere i redditi a partire da quelli più bassi». Semplice, lineare. Tanto per capirsi.

Sul secondo punto il presidente del Consiglio Mario Draghi invece aveva proposto di escludere per un anno dalla riduzione dell’Irpef i redditi oltre i 75 mila euro e di usare quei soldi come “contributo di solidarietà” per permettere alle fasce più deboli di affrontare il problema dell’aumento dei costi dell’energia. Il segretario Landini l’ha spiegato piuttosto chiaramente: «Questo è un problema molto serio – ha dichiarato -. In questo Paese la maggioranza che sostiene il governo non sa cosa vuole dire vivere con 20, massimo 30 mila euro all’anno. La riforma fiscale del governo è profondamente sbagliata perché anziché ridurre le aliquote andava allargata la base imponibile dell’Irpef e accentuata la progressività del sistema». Il governo ha deciso quindi di aiutare le famiglie più bisognose nel pagamento delle bollette con 2 miliardi di euro complessivi. Anche in questo caso basta fare due calcoli per capire che basterebbero forse fino a marzo.

Questi sono i motivi dei “disagi”. Di questo in un Paese con una responsabile cultura politica e dello sciopero dovreste sentire parlare. Poi si può essere d’accordo o meno ma no, quello che sta accadendo in questi giorni non è una questione di code, ritardi e disservizi. Almeno per non andare fuori tema.

Buon mercoledì.

 

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Il ministero della Difesa arma i militari libici e l’Europa paga

Poiché probabilmente non basta il calpestamento dei diritti umani in Libia e poiché poco hanno inciso le polemiche per i soldi che il nostro governo continua a regalare alla cosiddetta Guardia costiera libica (che altro non è che un manipolo di criminali) lo scorso 20 ottobre la Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere del ministero dell’Interno ha dato avvio alla stipula di un Accordo di collaborazione con l’Agenzia industrie difesa, nell’ambito del programma di “supporto alla gestione integrata del confine e delle migrazioni in Libia” cofinanziato dall’Unione europea e dal governo italiano (ha preso il via il 15 dicembre 2017) nel quale si stipula una collaborazione  con l’Aid – Agenzia industrie difesa, l’ente che gestisce gli stabilimenti del ministero della Difesa e che fornisce mezzi e sistemi bellici alle forze armate per i programmi di formazione, addestramento e riarmo della Guardia costiera libica contro migranti e migrazioni.

C’è tutto in un’inchiesta di Stampalibera.it qui ma vedrete che difficilmente la notizia raggiungerà i giornali nazionali o provocherà un pur piccolo tormento all’interno del nostro Parlamento. Il programma è uno dei tanti progetti che l’Unione europea ha finanziato a supporto delle fragilissime e controverse istituzioni libiche Come scrive Antonio Mazzeo «La Prima Fase vede un contributo diretto UE di 42.223.927 euro tramite il Fondo Fiduciario d’Emergenza per l’Africa istituito dalla Commissione Europea il 20 ottobre 2015 “per affrontare le cause profonde della migrazione illegale in Africa”. L’implementazione delle attività e la gestione tecnica, logistica e amministrativa del progetto è affidata al Ministero dell’Interno della Repubblica italiana che ha garantito un contributo finanziario di 2.231.256 euro».

Nella scheda predisposta dalla Commissione europea si legge che «tra i suoi principali obiettivi ci sono il rafforzamento degli enti libici competenti nella sorveglianza marittima e delle operazioni Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso, nda) e nel contrasto dei transiti di frontiera irregolari; la realizzazione delle infrastrutture di base che consentano alla guardia costiera libica di organizzare nel migliore dei modi le attività di sorveglianza delle frontiere; l’assistenza nella definizione e dichiarazione della Regione Sar di competenza libica con adeguate procedure operative; lo sviluppo delle attività di controllo delle frontiere terrestri nel deserto, focalizzando l’attenzione nelle aree dei confini meridionali assai colpite dagli attraversamenti illegali». Detto in parole povere siamo alle solite: si tratta di catturare e riportare nei lager libici i poveri disperati che riescono a mettersi in mare (spesso pagando gli stessi scafisti che poi si travestono da militari) fottendosene di ciò che dice e scrive tutta la comunità internazionale. Un genocidio non solo tollerato ma addirittura organizzato e pagato dall’Europa.

La fase 2 del Progetto di gestione delle frontiere infatti, scrive Mazzeo, «giustifica il sostegno alla famigerata guardia costiera libica con la necessità di “rafforzare le operazioni di ricerca e soccorso e ridurre ancora di più il numero delle persone che muoiono in mare”, fornendo contestualmente “una risposta alla crisi della migrazione nel Mediterraneo centrale nel rispetto della legge internazionale e dei diritti umani”. I mezzi e le modalità dell’aiuto italiano e Ue? L’impostazione e l’equipaggiamento di un “Centro mobile Mrcc (Maritime rescue coordination centre)”, la fornitura di “nuove unità navali Sar” (non meno di tre) e “l’implementazione di attività comuni di manutenzione e riparazione delle unità in Libia”».

Per superarsi in ipocrisia addirittura scrivono che «ulteriore obiettivo trasversale della Fase II del progetto è il miglioramento delle condizioni dei diritti umani dei migranti e dei rifugiati, specialmente per le donne e i minori, cercando di garantire che le autorità libiche indirizzino la loro azione nel rispetto dei diritti umani in occasione delle intercettazioni Sar e durante le procedure di sbarco in cooperazione con Oim e Unhcr». Peccato che ogni interferenza libica in mare (e soprattuto ogni deportazione in Libia) non possa essere migliorata “nei diritti umani” visto che è illegale per natura.

Non si trovano nemmeno più le parole per scrivere un accanimento contro la disperazione come questo. E l’indifferenza è una colpa che non si estinguerà facilmente.

Buon martedì.

Nella foto: frame da un video di Sea Watch su un attacco della guardia costiera libica in zona Sar maltese contro un’imbarcazione di migranti, 1 luglio 2021 (vedi qui)

 

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Roma, ultima frontiera

The Gazometro or gasometer of Rome

«Che poi vista da qui al tramonto, con lo scirocco che tiene a bada la puzza, le luci in lontananza, i rumori in sottofondo, con tutti questi campi e l’attesa delle volpi, la città appare bellissima».
È un condensato poetico di tutto il romanzo il finale di Se bruciasse la città, il nuovo romanzo di Massimiliano Smeriglio, fra senso di naufragio e bellezza che non lascia scampo. Uscito il 9 dicembre per l’editore Giulio Perrone, è un canto d’amore, ruvido e potente, per Roma, per le sue periferie, i suoi quartieri di “nuova” generazione di cui lo scrittore indaga le contraddizioni, senza sottacerne la ferocia.
Fin dal suo esordio con Garbatella combat zone (Voland, 2010) la Capitale è il cuore, la scena pulsante, direi la vera protagonista della scrittura di Smeriglio, alimentata da passione politica e abbondanti lettura di narrativa americana. «Quello per Roma è un amore tossico», ironizza lo scrittore e parlamentare europeo. «E spesso, negli ultimi anni è un dolore. Lo è vedere la città perdere la coscienza di sé, della propria identità, del proprio modo di essere».
Da qui la dedica del libro: «Alla mia città, che non vuole vivere e non vuole morire»?
Roma è una città destinata ad esserci sempre ma ciò non significa che la città sia viva. Stiamo parlando di Roma, è evidente, ma io questo nome non lo uso mai, perché penso che sia un titolo che dovremmo meritarci. In questa fase non corrisponde alla storia, all’ambizione, al ruolo che questa città dovrebbe avere nel mondo. Ma per me rimane un luogo con potenzialità enormi.
Potenzialità anche dentro quella terra desolata che è oggi l’estrema periferia?
Anche dentro l’agro romano, dove c’è tutto e il contrario di tutto: ci sono i rifiuti tossici e c’è una terra che non è più in grado di produrre nulla. Tuttavia, se uno si ferma un secondo, dentro quel paesaggio c’è una dimensione che toglie il fiato. I protagonisti di Se bruciasse la città però non sono per nulla consapevoli del luogo che abitano. Ma le persone sono i luoghi che abitano. E questo genera una atmosfera di spaesamento.
Certa periferia sconta non tanto la distanza geografica dal centro, quanto la distanza dai servizi, dai luoghi di cultura, dalla possibilità di esercitare i propri diritti?
Mi interessava raccontare una realtà di quartiere dove non c’è più neanche una dimensione minima di storia orale, di racconto. Accade quando il quartiere non è più tale ma è la borgata di ultima generazione, dove puoi trovare abitazioni povere ma anche ville con piscina. Ci possono…


L’intervista prosegue su Left del 10-16 dicembre 2021

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Legge di bilancio e Meridione, una norma tarata male

Scenic panoramic view of Cefalu town by the sea in Sicily, Italy

Sempre più grave, sempre più pressante, sempre più sconvolgente è l’attacco che il governo Draghi, con la complicità di tutti o quasi i partiti presenti nel Parlamento, sta portando al Mezzogiorno. Nella Legge di bilancio, infatti, viene riproposto un metodo di ripartizione dei fondi pubblici che danneggia il Sud, non riconoscendogli quanto gli spetterebbe di diritto. Per capire cosa è successo, però, occorre fare un passo indietro.

La modifica del Titolo V della Costituzione, avvenuta nel 2001, doveva portare alla definizione dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) che avrebbero dovuto essere uno strumento per garantire l’applicazione, in tutte le Regioni, degli stessi standard minimi di qualità per i servizi pubblici essenziali (come istruzione, salute, assistenza sociale, ecc.). Una volta definiti questi standard minimi, lo Stato sarebbe dovuto intervenire per sostenere finanziariamente quei territori che ne avessero avuto necessità al fine di fornire i servizi della qualità stabilita. Tuttavia, in 20 anni, i Lep non sono mai stati definiti.

Successivamente la legge sul federalismo fiscale del 2009 prevedeva che lo Stato colmasse integralmente – tramite un fondo perequativo – il gap tra la capacità fiscale e il fabbisogno degli enti locali. Anche questo però non è avvenuto. Addirittura quando nel 2015 il leghista Giorgetti, attuale braccio destro di Draghi, chiese una simulazione della perequazione al 100% i dati non vennero mai resi pubblici, perché «se fosse stata applicata la legge Calderoli ai comuni del Sud sarebbero arrivati decine e decine di milioni in più, anche centinaia» come rivelato da Sigfrido Ranucci nell’inchiesta di Report sul federalismo fiscale che andò in onda nel novembre 2019. In un’audizione del 2015 alla Commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo da lui presieduta all’epoca, l’onorevole Giorgetti chiese cosa succederebbe «se applicassimo non il 20 per cento, ma il 100 per cento della perequazione». Quale sarebbe l’effetto di una perequazione piena? Per poi commentare…


L’articolo prosegue su Left del 10-16 dicembre 2021

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Ubriacarsi di parole con Alessandro Bergonzoni

Le parole sono mondi, e i mondi sono parole. Sono fatti di parole, perché li nominiamo all’infinito, e dunque li creiamo e ricreiamo. Ovvero, li facciamo divertire. Con il linguaggio. Ed è proprio la L di linguaggio la consonante chiave che ne apre lo scrigno. È lei, ad esempio, a dividere, in inglese, i mondi (worlds) dalle parole (words). E i grandi, in letteratura, nel pensiero, inventano mondi nuovi inventando, scoprendo, parole nuove. Ovvero, mettendole a nudo.

Questo capita a Joyce, questo capita a Dante, questo capita a Bruno. E capita perché, come ci hanno spiegato i fisici che studiano la composizione dell’universo definendone la sostanza “granulare”, gli scrittori e i pensatori, quelli grandi, sanno pure che il linguaggio è esso stesso granulare. È fatto di particelle minime, particelle che si incontrano e ne compongono la materia. Lettere, segni, grafemi. Le lettere sono il microcosmo in cui si riflette, in maniera frattalica, il macrocosmo della scrittura.

Lettere che sono esse stesse nomi, ma sono anche missive: impostate e recapitate, quando va bene, per mutare scenari. Ma gli scenari mutano anche quando mutano le lettere. E le lettere, in uno storico spettacolo di Alessandro Bergonzoni – spettacolo che per una settimana ha stregato gli spettatori del Teatro Vittoria a Testaccio, nella capitale – hanno danzato, capitombolando tra mondi e stravolgendo aspettative. Un eterno tramontare. Sin dal titolo: Trascendi e sali, ci fa ascendere. Come ascende l’artista all’inizio sull’impalcatura: sale e scende, condendo di sensi i nostri pensieri. Perché, come dice in un passaggio memorabile, «le scale se non le sali non sanno di niente».

È uno spettacolo immortale e sempre cangiante, che sa far trascendere e trasumanare, mutando sostantivi in verbi, fondendo parole, scomponendole, arieggiandole: regalando, ovvero, assai più che un’ora d’aria in questo sprigionamento totale del linguaggio.
È una teoria di possibili impossibilità, quella che mette in scena Bergonzoni. Con interludi in cui la comicità fa sul serio. E ri-vela, ossia, vela due volte quello che è il cono d’ombra delle parole. In scenari in cui queste, le parole, emergono dall’oscurità allo schiarimento: a volte, tramite un…

nella foto di Chiara Lucarelli: Alessandro Bergonzoni in “Trascendi e sali”


L’articolo prosegue su Left del 10-16 dicembre 2021

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