Home Blog Pagina 343

L’inganno della decarbonizzazione basata sulla cattura e stoccaggio e uso della CO2

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 03-12-2021 Roma, Italia Politica Fondazione Guido Carli - il mondo nuovo la ripartenza Nella foto: Roberto Cingolani ministro transizione ecologica Photo Mauro Scrobogna / LaPresse 03-12-2021 Rome, Italy Politics Guido Carli Foundation - the new world the restart In the photo: The Minister for Ecological Transition Roberto Cingolani

Ipotizza qualcuno che i 150 milioni di euro indicati nell’articolo 153 della legge di Bilancio possano essere destinati al finanziamento del maxi deposito di CO2 che Eni intende realizzare nell’Alto Adriatico. Dal ministero, interrogati, per ora non rispondono. Si sente in giro un gran vociare a sostegno dell’uso e stoccaggio della CO2 (il cosiddetto Ccus, Carbon capture use and storage) come tecnologia per produrre idrogeno da metano che verrebbe incontro alle esigenze della cosiddetta transizione ecologica, quella che dalle nostre parti sta diventando sempre di più un alibi per continuare a produrre anidride carbonica contribuendo all’attuale trend di crescita esponenziale del disastro ambientale. E perseverando scelleratamente a privatizzare utili e socializzare i costi.

Un lungo elenco di docenti universitari e di ricercatori (vi metto l’elenco qui sotto per non ingolfare l’articolo) ha scritto in questi giorni un appello al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al presidente del Consiglio Mario Draghi per smontare la tesi di chi sostiene che la cattura e stoccaggio del carbonio (Ccs) e il suo eventuale utilizzo (Ccus) è un’importante tecnologia di riduzione delle emissioni che può essere applicata a tutto il sistema energetico come un’utile “soluzione ponte” in grado di contribuire alla riduzione delle emissioni, affiancando le rinnovabili nel difficile percorso della transizione. Per una serie di motivi.

Primo. Le compagnie petrolifere sono tra le principali responsabili delle emissioni di gas climalteranti di cui abbiamo imparato a riconoscere e misurare gli effetti – disastrosi – su scala planetaria. Le attività di produzione di energia sono responsabili del 75% delle emissioni di gas serra dell’Ue (Eea, European economic area, 2021) ed oggi il sistema energetico dell’Ue si basa per tre quarti sui combustibili fossili. È irragionevole chiedere che l’industria del petrolio debba innanzitutto rimettere ordine in casa propria, attingendo a risorse proprie senza scaricare sulla fiscalità generale l’onere degli investimenti necessari per la decarbonizzazione? È socialmente accettabile, dunque, che siano proprio le vittime delle emissioni di gas climalteranti a dover risarcire i “carnefici”, già abbondantemente assistiti con 19 miliardi di euro l’anno di Sussidi ambientalmente dannosi, sopportando per una seconda volta il costo dell’abbattimento della CO2?

Secondo. L’iniezione e lo stoccaggio della CO2 nei pozzi in via di esaurimento o già esauriti daranno nuova linfa alle attività estrattive di gas e petrolio. Non è casuale che lo stoccaggio del carbonio sotterraneo su scala commerciale sia stato finora effettuato solo in giacimenti di petrolio o gas operativi (recupero avanzato di petrolio/gas) e non in altre formazioni geologiche. Un dubbio ed una domanda sorgono spontanei: Eni intende forse incrementare i quantitativi estratti e prolungare il ciclo di vita dei giacimenti nell’Alto Adriatico iniettando e stoccando CO2 nei suoi pozzi più longevi? È socialmente accettabile continuare ad estrarre quantità aggiuntive di gas e nuovo petrolio per altri 25 anni grazie alla tecnologia del Ccus?

Terzo. La cattura, il trasporto e lo stoccaggio della CO2 sono parte di un processo circolare che vede al suo centro la produzione di idrogeno da fonti fossili (idrogeno blu). Finanziare il Ccus significherebbe dunque dare la stura alla produzione di idrogeno blu e, di conseguenza, all’estrazione ed al consumo di gas in un orizzonte temporale che si spinge fino al 2050, ben oltre, quindi, il punto di non ritorno. Sono questi i tempi di una transizione sostenibile? Anche questo è socialmente accettabile?

Quarto. Lo stoccaggio di CO2 in pozzi in via di esaurimento o già esauriti esime i concessionari di coltivazione dall’effettuare costosissime attività di ripristino ambientale: dai 15 ai 30 milioni di euro per singola piattaforma, secondo il Roca di Ravenna (Ravenna Offshore Contractors Association – Energy Contractors). Considerato che le piattaforme di Eni in mare sono 138 (fonte: Progetto Poseidon, Eni), riconvertire le stesse piuttosto che smantellarle eviterebbe costi stimabili mediamente in oltre 3,15 miliardi di euro. Perché polverizzare gli investimenti già fatti in opere per la ricerca e l’estrazione di idrocarburi – si chiedono gli iscritti al partito fossile – quando quelle stesse infrastrutture potrebbero essere riutilizzate per stoccare la CO2? Per quale ragione – si interrogano invece altri -, per evitare di appesantire i bilanci delle compagnie Oil&Gas, la collettività dovrebbe contribuire al finanziamento di costosissimi progetti privati di cattura, trasporto, iniezione e stoccaggio di CO2? Siamo alle solite: si privatizzano i profitti e si socializza tutto il resto, esternalità negative comprese. Quale straordinaria concentrazione di intelligenze sarebbe in grado di farlo digerire all’opinione pubblica?

Quinto. Eni sa perfettamente, e non da ieri, che il Ccus costituisce un’arma formidabile per sviluppare un nuovo mercato, con potenzialità e profittabilità come pochi altri. Eni ed Enel ci avevano già lavorato sopra, giungendo a perfezionare nel 2008 un accordo strategico di cooperazione per lo sviluppo delle tecnologie di cattura, trasporto e stoccaggio dell’anidride carbonica. La CO2 estratta dalla centrale Enel a carbone di Brindisi, una volta liquefatta, avrebbe dovuto essere un giorno stoccata da Eni nel giacimento esaurito di Stogit a Cortemaggiore.

Due anni prima, nel 2006, al termine degli studi condotti sui possibili depositi sotterranei della CO2 nel quadro del progetto Confitanet, a cui prese parte anche l’Eni, l’Ingv (Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia) era giunto ad affermare che «I potenziali di stoccaggio nel nostro paese ci permetterebbero tranquillamente di mandare avanti le nostre centrali a carbone ed a gas naturale con criteri Zeffpp (Zero emissions fossil fuel power plant) e di ripulire i cieli dalle ingenti emissioni delle nostre raffinerie», mentre nell’ottobre del 2007 Il Sole 24 Ore si era spinto fino a prefigurare la nascita di un mercato della CO2 di dimensioni planetarie «fatto di impianti innovativi per la cattura e il trattamento delle emissioni di centrali a carbone di nuova generazione, di gasdotti per la CO2, pompaggio negli strati geologici profondi (acquiferi salini sotto i 1500 metri, a prova anche di rischio sismico), di unità di controllo e monitoraggio dei depositi, non molto diversi da quelli oggi utilizzati per il metano dalla Stogit» in cui «…  i gestori elettrici che l’adotteranno non dovranno più acquistare i certificati verdi, ma anzi ne riceveranno gratuitamente perché dotati di impianti che vanno ben oltre i limiti di emissioni prefissati nel trattato (di Kyoto)». Se questo un giorno dovesse accadere, sarebbe da biasimare? Tutto sommato la nostra è un’economia di mercato… Le cose non stanno esattamente così. In un Paese in cui la partita energetica la giocano in pochi (Eni, Snam, Terna ed Enel), con il placet di governo, Parlamento, Arera (Autorità di regolazione per energia reti e ambiente), Autorità per la concorrenza e Cassa depositi e prestiti; in cui il mancato insediamento della Commissione Pniec-Pnrr sta causando gravi ritardi nel processo di autorizzazione di centrali solari con potenza maggiore di 10 Mw; in cui Stato e Regioni non riescono a trovare la quadra sul permitting di impianti per la produzione di energia da fonte rinnovabile; in cui appare sempre più inverosimile raggiungere l’obiettivo, tanto caro al ministro Cingolani, di 114 gigawatt rinnovabili al 2030, il Ccus si candida ad essere una comoda scorciatoia (in attesa del nucleare, ovviamente!) e rischia di compromettere seriamente un serio percorso di decarbonizzazione del sistema di produzione e consumo che dovrebbe avere invece nella razionalizzazione/taglio selettivo dei consumi energetici, nella ricerca dell’efficienza e nella crescita della generazione distribuita i pilastri di un modello energetico realmente sostenibile.

Si attendono risposte. Buon lunedì.

Nella foto: il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani

I firmatari della lettera

  • Vincenzo Balzani, Professore Emerito, Dipartimento di Chimica “G. Ciamician”, Università di Bologna
  • Alessandra Bonoli, Docente di Ingegneria delle Materie Prime e in Resources and Recycling, Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e Materiali, Università di Bologna
  • Enrico Gagliano, Docente a Contratto in Diritto dell’Energia e dell’Ambiente, Università di Teramo
  • Alessandro Abbotto, Docente di Materiali Organici per Energie Rinnovabili, Università di Milano-Bicocca
  • Raffaele Giuseppe Agostino, Docente di Fisica Sperimentale, Dipartimento di Fisica, Università della Calabria
  • Nicola Armaroli, Chimico, Dirigente di Ricerca del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Bologna
  • Ugo Bardi, Docente di Chimica Fisica, Dipartimento di Chimica, Università di Firenze
  • Alberto Bellini, Docente di convertitori, macchine e azionamenti elettrici, Dipartimento di Ingegneria dell’Energia Elettrica e dell’Informazione “Guglielmo Marconi”, Università di Bologna
  • Enrico Bonatti, Senior Scientist, Lamont Doherty Earth Observatory, Università della Columbia, CNR ISMAR, Bologna
  • Enrico Brugnoli, CNR Istituto di Ricerca sugli Ecosistemi Terrestri, in atto Addetto Scientifico presso l’Ambasciata d’Italia a Mosca
  • Federico Butera, Professore Emerito, Politecnico di Milano
  • Carlo Cacciamani, Fisico, Responsabile della Struttura IdroMeteoClima, Arpa Emilia Romagna
  • Romano Camassi, Ricercatore, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Sezione di Bologna
  • Sebastiano Campagna, Direttore del Dipartimento di Scienze Chimiche, Biologiche, Farmaceutiche ed Ambientali, Università di Messina
  • Luigi Campanella, già presidente della Società Chimica Italiana, Docente di Chimica dell’Ambiente e dei Beni Culturali, Università “La Sapienza”, Roma
  • Francesco Domenico Capizzi, Chirurgo, Presidente SMIPS (Scienza Medicina Istituzioni Politica Società), Bologna
  • Ingrid Carbone, Ricercatore presso il Dipartimento di Matematica e Informatica, Università della Calabria
  • Daniela Cavalcoli, Docente di Fisica della Materia, Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi”, Università di Bologna
  • Paola Ceroni, Docente di Chimica Generale e Inorganica, Dipartimento di Chimica “G. Ciamician”, Università di Bologna
  • Marco Cervino, Ricercatore pubblico all’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima (ISAC-CNR), Bologna
  • Donata Chiricò, Ricercatore Dipartimento di Culture, Educazione e Società, Università della Calabria
  • Salvatore Coluccia, Professore Emerito, Dipartimento di Chimica, Università degli Studi di Torino
  • Giuliana Commisso, Ricercatore in Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università della Calabria
  • Giuseppe De Natale, Dirigente di ricerca dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e già Direttore dell’Osservatorio Vesuviano
  • Elisabetta Della Corte, Ricercatore in Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università della Calabria
  • Claudio Della Volpe, Docente di Chimica Fisica Applicata, Università di Trento
  • Gianfranco Denti, Docente di Chimica Generale ed Inorganica, Università di Pisa
  • Enzo Di Salvatore, Docente di Diritto Costituzionale e Comparato Facoltà di Giurisprudenza, Università di Teramo
  • Walter Ganapini, Membro Onorario, Comitato Scientifico, Agenzia Europea dell’Ambiente
  • Alessandro Gaudio, Ricercatore in Scienze letterarie presso il Dipartimento di Culture, Educazione e Società, Università della Calabria
  • Domenico Giordano, Docente di Diritto Commerciale Facoltà di Giurisprudenza, Università di Teramo
  • Daniela Imbardelli, Ricercatore di Chimica Fisica del Dipartimento di Chimica presso la Facoltà di S.M.F.N., Università della Calabria
  • Massimo La Deda, Docente di Chimica Generale e Inorganica presso il Dipartimento di Chimica e Tecnologie Chimiche, Università della Calabria
  • Pierandrea Lo Nostro, Docente di Chimica Fisica, Dipartimento di Chimica “Ugo Schiff”, Università di Firenze
  • Giulio Marchesini Reggiani, Docente di Scienze Dietetiche, Dipartimento di Medicina e Chirurgia (DIMEC), Università di Bologna
  • Nadia Marchettini, Docente di Scienze Chimiche presso il Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente, Universitàdi Siena
  • Giuseppe Marino, Docente di Analisi Matematica presso il Dipartimento di Matematica e Informatica, Università della Calabria
  • Vittorio Marletto, Dirigente dell’Osservatorio Clima Arpae Emilia Romagna, Bologna
  • Silvia Mazzuca, Docente di Biologia e Botanica presso il Dipartimento di Chimica e Tecnologie Chimiche, Università della Calabria
  • Isabella Nicotera, Docente di Chimica Fisica presso il Dipartimento di Chimica e Tecnologie Chimiche, Università della Calabria
  • Libero Nigro, Docente di Ingegneria Informatica presso il Dipartimento di Ingegneria Informatica, Modellistica, Elettronica e Sistemistica, Università della Calabria
  • Giuseppe Antonio Nisticò, Docente di Fisica Matematica presso il Dipartimento di Fisica, Università della Calabria
  • Maurizio Prato, Docente di Chimica Organica presso il Dipartimento di Scienze Chimiche e Farmaceutiche, Università di Trieste
  • Giuseppe Ranieri, Docente di Chimica Fisica Ambientale presso il Dipartimento di Chimica e Tecnologie Chimiche, Università della Calabria
  • Massimo Scalia, Docente di Fisica Matematica presso il Dipartimento di Matematica, Università “La Sapienza”, Roma
  • Leonardo Setti, Docente del Dipartimento di Chimica Industriale, Università di Bologna
  • Gianni Silvestrini, Direttore scientifico Kyoto Club, Politecnico Milano
  • Francesco Stoppa, Docente di Petrologia e Petografia, Dipartimento di Scienze Psicologiche, della Salute e del Territorio, Università di Chieti- Pescara
  • Micol Todesco, Geologa presso l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Bologna
  • Sandro Tripepi, Docente di Zoologia presso il Dipartimento di Biologia, Ecologia e Scienze della Terra, Università della Calabria
  • Sergio Ulgiati, Docente di Chimica Ambientale e Analisi del Ciclo di Vita presso il Dipartimento di Scienze e Tecnologie, Università degli Studi di Napoli Parthenope
  • Margherita Venturi, Docente di Chimica all’Università di Bologna
  • Annamaria Vitale, Docente di Sociologia dell’Ambiente, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università della Calabria

 

💥 Porta Left sempre con te, regalati un abbonamento digitale e potremo continuare a regalarti articoli come questo!

🆙  Bastano pochi click!

🔴  Clicca sull’immagine oppure segui questo link > https://left.it/abbonamenti

—> Se vuoi regalare un abbonamento digitale, scrivi a [email protected] oppure vai nella pagina abbonamenti, clicca sull’opzione da 117 euro e inserisci, oltre ai tuoi dati, nome, cognome e indirizzo mail del destinatario <—

Il Genio sul letto di Procuste

Pazzia e genialità: due parole il cui accostamento sembra ormai diventato cosa ovvia, risaputa. In molti libri, mostre, film, articoli di giornale viene riproposto questo antico legame, un abbinamento che è garanzia di sicuro effetto. Ma come nasce questo collegamento? Ed è vero che pazzia e genialità non possono esistere l’una senza l’altra? Sono passati cento anni da quando uno psichiatra svizzero di nome Walter Morgenthaler pubblicò nel 1921 un libro dal titolo Arte e follia in Adolf Wolfli. Ogni lunedì mattina Wolfli, malato rinchiuso per più di 35 anni nel manicomio di Waldau vicino Berna, riceve una matita e due grossi rotoli di carta di giornale. Con questi mezzi, come guidato da un irrefrenabile impulso a disegnare, produrrà una sterminata collezione di disegni in cui Morgenthaler intravedeva i segni precursori del cubismo di Picasso.

Solo un anno dopo Karl Jaspers, filosofo e psichiatra tedesco, nel suo celebre libro Genio e follia, scriverà che così come la perla nasce dal difetto della conchiglia allo stesso modo la schizofrenia può produrre opere di incomparabile bellezza: la malattia non determinerebbe in maniera diretta la creatività ma potrebbe liberare, in coloro che sono dotati di talento, forze che altrimenti sarebbero rimaste sconosciute. Frase apparentemente ad effetto che sembra in qualche modo ribaltare quella concezione puramente organicista dei primi del Novecento che attribuiva alla malattia una funzione negativa equiparabile a una demenza e i cui portatori erano rinchiusi nei manicomi relegati ai margini della società. La follia del genio romantico ottocentesco, che da solo sfidava il senso comune e le norme convenzionali, veniva assimilata alla solitudine autistica del malato, la sperimentazione del nuovo linguaggio artistico anticlassico del manierismo cinquecentesco, accostata al manierismo psicopatologico dello schizofrenico.

Così però, come la perla che nasce dalla conchiglia nasconde il difetto che l’ha creata, anche l’idea di Jaspers cela un inganno. Sia la creatività dell’artista che la produttività dello schizofrenico hanno in comune la rottura e la ribellione a schemi e regole convenzionali. In virtù di questa similitudine diventava possibile assimilare il geometrismo astratto di Wolfli con il cubismo di Picasso. Quello che produce la patologia è solo un cambiamento delle strutture e delle regole formali. Le forze disgregatrici della malattia costringono alcuni malati a un tentativo estremo di trovare un nuovo senso alle proprie esperienze stabilendo legami inusuali e bizzarri fino alla creazione di parole nuove (neologismi) o nuove modalità raffigurative. Tale produzione però non è dovuta al ricorso a un pensiero irrazionale ma al contrario al frutto di una iperiflessività: una perdita di spontaneità che conduce a…

Nella foto: Vincent van Gogh, A pair of boots, 1887


L’articolo prosegue su Left del 10-16 dicembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Peppe Provenzano: Così il Pd ricuce lo strappo con i lavoratori

Spesso è nel mirino delle destre, infastidite dal suo eccessivo rigore antifascista (come quando ha definito Fratelli d’Italia “fuori dall’arco democratico e repubblicano”, dopo le reazioni ambigue di Meloni all’aggressione alla Cgil). Ma talvolta viene osteggiato anche nel centrosinistra, in virtù delle sue posizioni considerate eccessivamente “estremiste”. Il “discepolo” e amico di Emanuele Macaluso, ex ministro per il Sud nel Conte II e attuale vicesegretario del Pd, Giuseppe Provenzano, ha di fronte a sé una missione non semplice. Quella di riavvicinare i lavoratori ad un partito che per qualche decennio si è dimenticato di loro. A partire dallo stimolo di un sondaggio della rivista Usa Jacobin e di YouGov, che indica quali sono le tematiche e il lessico di sinistra che più attraggono la working class (v. l’approfondimento a pag. 30, ndr), gli abbiamo chiesto qual è la ricetta che intende seguire e quale direzione sta prendendo il Partito democratico su diritti sociali e civili.

Secondo una rilevazione Ipsos, se votassero solo gli operai il Pd si fermerebbe all’8,2%. Perché?
La frattura tra voto operaio e sinistra non è nuova. E credo si sia approfondita con la nascita del Pd, che si era fondato su un’ambiguità, ossia sull’idea che non esiste conflitto tra Capitale e Lavoro. E che non aveva posto sufficientemente al centro della sua proposta politica il tema della lotta alle disuguaglianze sociali, in una fase in cui esplodevano, con la crisi economica del 2008. Questa frattura ha rischiato di diventare insanabile negli anni del renzismo. Per le parole pronunciate allora, per un Jobs Act di cui, persino al di là del merito di quella riforma, bisogna ricordare la carica ideologica di attacco al lavoro e al sindacato che ha rappresentato.

È come se per lungo tempo ci si sia dimenticati dei lavoratori…
C’è stato un mancato riconoscimento del mondo operaio, della sua condizione, che è la prima forma di ingiustizia. Le forze del centrosinistra degli anni Novanta e Duemila avevano persino smesso di pronunciare la parola “operai”. C’era una vera e propria rimozione di questo tema, come se…


L’intervista prosegue su Left del 10-16 dicembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

La chiamano pace, si legge petrolio

Ma dove vanno a finire i soldi per le nostre missioni di guerra che qui tutti si ostinano a chiamare missioni di pace? A mettere il naso tra i costi ci ha pensato Greenpeace che ha pubblicato un rapporto che ancora una volta, accade quasi sempre, dimostra come le azioni siano molto diverse dalle parole a dai buoni propositi che vengono divulgati: il 64% del budget italiano per le missioni militari (circa 797 milioni di euro) è stato speso «per operazioni volte a tutelare la “sicurezza energetica” del Paese» ovvero per tutelare gli interessi fossili inviando militari a proteggere le attività di ricerca, estrazione e importazione di gas e petrolio. La Spagna  ha speso 274 milioni di euro, pari al 26 per cento, la Germania 161 milioni di euro, pari al 20 per cento della sua spesa annuale per le missioni militari. Tutti assieme, nel 2021 i tre Paesi spendono oltre 1,2 miliardi di euro per missioni militari “fossili” – un totale di più di 4 miliardi di euro negli ultimi quattro anni (2018-2021).

Per questo Greenpeace chiede uno stop immediato alla protezione militare degli asset petroliferi e gasiferi. Nell’era della crisi climatica, una tale politica non si limita a dissipare fondi pubblici, ma mette anche a repentaglio la salute umana, perché sostiene il consumo di risorse che rappresentano un reale pericolo per il pianeta.

Per il 2021, l’Italia ha approvato 40 missioni militari per una spesa di circa 1,2 miliardi di euro. Il fulcro dell’impegno tricolore è il cosiddetto “Mediterraneo allargato”, con il maggior dispiegamento in Iraq e Libia, due Paesi che insieme garantiscono circa un terzo delle importazioni petrolifere italiane. Malgrado i gravi scontri, l’anno scorso Eni ha estratto 61 milioni di barili di petrolio equivalente dai giacimenti libici. Lo stretto legame tra il dispiegamento militare e gli interessi dell’azienda è particolarmente evidente nel caso della missione “Mare sicuro”: anche se il nome potrebbe evocare il salvataggio dei migranti, la prima “attività” ufficiale dell’operazione è la «sorveglianza e protezione delle piattaforme dell’Eni ubicate nelle acque internazionali prospicienti la costa libica». La relazione governativa precisa che la missione «assicura con continuità la sorveglianza e la protezione militare alle piattaforme dislocate nelle acque internazionali antistanti le coste libiche, la protezione al traffico mercantile nazionale operante in area». Tra i compiti della missione, anche quelli connessi alla controversa missione a supporto della Guardia costiera libica, che ogni anno suscita proteste fuori e dentro il Parlamento, ma poi viene immancabilmente approvata. Audito in Parlamento, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha confermato che “Mare Sicuro” è un dispositivo «a protezione degli interessi nazionali nell’area». “Interessi” che la bozza di discorso inviata ai giornalisti dettagliava in nota: «Impianti petroliferi, traffico mercantile, attività di pesca».

Tra le nuove missioni militari del 2020, il governo ha inserito l’impiego di «un dispositivo aeronavale nazionale per attività di presenza, sorveglianza e sicurezza nel Golfo di Guinea». L’operazione, in seguito chiamata Gabinia, è stata confermata anche per il 2021, con un impegno finanziario più che raddoppiato (da 9,8 milioni di euro a 23,3 milioni). Malgrado le acque in questione siano infestate dai pirati, il primo compito della missione è «proteggere gli asset estrattivi di Eni, operando in acque internazionali». La necessità di difendere il naviglio mercantile nazionale dagli attacchi dei pirati compare solo al secondo posto. Come precisato da un dossier del Senato, Eni ha piattaforme offshore in Nigeria e in Ghana.

Come scrive Greepace poi non è necessario scomodare i cospirazionisti per collegare l’intervento italiano in Iraq al petrolio. A sancire inequivocabilmente quel legame è stato lo stesso ministro della Difesa illustrando le missioni militari alle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato: «Il crollo dell’Iraq, dal punto di vista securitario, avrebbe il potenziale di coinvolgere e travolgere l’intero Medio Oriente», spiegava Guerini nel giugno 2020. «Per l’Italia, questo scenario metterebbe a repentaglio la nostra sicurezza energetica essendo l’Iraq, infatti, il nostro primo fornitore di greggio, rappresentando quindi – in termini “geo-energetici” – un partner di strategica importanza per i nostri approvvigionamenti. In tal senso, la nostra significativa presenza militare si traduce anche quale elemento fondamentale di una strategia di avvicinamento tra Roma e Baghdad volta a stabilire solide e più profonde relazioni in tutti gli ambiti». Anche nel 2021, il ministro ha presentato l’impegno italiano in Iraq con argomentazioni esplicitamente energetiche: «Nel quadrante mediorientale è confermato il nostro impegno in Iraq, Paese di elevata priorità strategica, sia sul piano degli equilibri regionali, sia a tutela dei nostri interessi nazionali, a partire dal tema prioritario degli approvvigionamenti energetici». La stessa relazione governativa, trasmessa alle Camere nel luglio 2021, considera l’instabilità politica dell’area mediorientale «una fonte di criticità per l’Italia in materia di sicurezza, di flussi migratori e politica energetica, che identifica Libia, Iraq e Penisola Arabica quali punti cardine per la sicurezza dei nostri approvvigionamenti».

Per quanto riguarda il Mediterraneo orientale anche quest’anno Guerini ha ribadito l’importanza energetica del Mediterraneo orientale: «Il Mare Nostrum è oggi protagonista di un processo di territorializzazione mirato ad acquisire il controllo delle cospicue risorse energetiche presenti, attraverso una competizione sempre più accesa tra attori regionali e potenze esterne». In questa competizione l’Italia intende avere un ruolo: come annunciato già nel 2020, «al fine di assicurare una maggiore presenza, sono già state previste, nell’ambito di operazioni in corso ed esercitazioni già programmate, periodiche elongazioni nell’area da parte di assetti nazionali marittimi».

Sommando tutte le missioni “fossili” citate, si arriva a circa 749 milioni di euro nel 2021, 523 nel 2020, 489 nel 2019 e 529 nel 2018, pari al 64% della spesa totale per le missioni militari del 2021, al 50% per il 2020, al 47,6% per il 2019 e al 51% per il 2018. A queste cifre va aggiunta la quota parte dei costi di supporto per le operazioni militari italiane all’estero, registrate alla voce «stipulazione dei contratti di assicurazione del personale, trasporto del personale, dei mezzi e dei materiali e realizzazione di infrastrutture e lavori connessi con le esigenze organizzative e di sicurezza dei contingenti militari nelle aree in cui si svolgono le missioni internazionali» (pari a 76 milioni di euro l’anno). Si può quindi concludere che le missioni a protezione delle fonti fossili siano costate alle casse italiane circa 797 milioni di euro per il 2021, 560 per il 2020, 525 per il 2019 e a 568 per il 2018.

Petrolio e armi, il binomio perfetto. Bella questa transizione ecologica e questo impegno per la pace, vero?

Buon venerdì.

Nella foto: piattaforma Eni in Ghana, 28 novembre 2017

 

💥 Porta Left sempre con te, regalati un abbonamento digitale e potremo continuare a regalarti articoli come questo!

🆙  Bastano pochi click!

🔴  Clicca sull’immagine oppure segui questo link > https://left.it/abbonamenti

—> Se vuoi regalare un abbonamento digitale, scrivi a [email protected] oppure vai nella pagina abbonamenti, clicca sull’opzione da 117 euro e inserisci, oltre ai tuoi dati, nome, cognome e indirizzo mail del destinatario <—

Andrea Masini: Quella mostruosa cecità nei confronti della realtà umana dei bambini

Pope Francis blesses a child during an audience with the participants of homeless jubilee in the Paul VI Hall at the Vatican, Friday, Nov. 11, 2016. (AP Photo/Alessandra Tarantino)

Quotidianamente, purtroppo, i media riportano uno stillicidio di casi di violenza sui minori: stupri, pedopornografia, tratta, sfruttamento, abusi di ogni genere. Tuttavia raramente la stampa si sofferma sulla ricerca delle cause, su cosa spinge un adulto a brutalizzare un bambino, sui tanti perché che sorgono spontanei di fronte a questo orrore. Un orrore che nel caso della pedofilia accade spesso in famiglia, come emerso nel recente agghiacciante caso della chat su Telegram in cui, stando a quel che si legge sui giornali, dei genitori si scambiavano immagini di violenze sui propri figli oltre che suggerimenti e dritte per non farsi scoprire dalle forze dell’ordine. Ma in Italia, come in tutti gli altri Paesi ancora a tradizione cattolica, la pedofilia e la pedopornografia sono profondamente radicate anche negli ambienti ecclesiastici.
Sia nel caso della pedofilia in ambiente familiare che di quella di matrice clericale, come hanno dimostrato studiosi come Eva Cantarella, la storia non è di oggi o degli ultimi decenni ma attraversa senza soluzione di continuità i tanti secoli che ci separano dagli albori della civiltà occidentale. Viene da chiedersi, allora, qual è la considerazione che si ha del bambino alle nostre latitudini ma anche se c’è un modo per tutelarlo da violenze indicibili e traumi che, come vedremo, sono devastanti. Per provare a orientarci abbiamo rivolto queste e altre domande allo psichiatra e psicoterapeuta Andrea Masini, direttore della rivista scientifica Il sogno della farfalla e docente della scuola di psicoterapia dinamica Bios Psiché.
«Il bambino nella nostra cultura è sempre stato considerato poco e male – precisa immediatamente Masini -. Per cui è sempre stato “visto” come un uomo che deve ancora realizzarsi. Nessuno ha mai riconosciuto al bambino la piena realizzazione della sua realtà umana fin dalla nascita e quindi durante tutta l’infanzia».
Dagli studi della storica Cantarella, ma non solo, abbiamo scoperto che le radici “culturali” di questa scarsa “considerazione” della realtà del bimbo affondano nel periodo della Grecia classica. Cosa ne pensa?
Nei confronti del mondo greco antico abbiamo certamente un grande debito di riconoscenza per averci fornito le basi del nostro sapere di uomini occidentali e razionali, ma non si può ignorare che dalla razionalità del pensiero di Platone, di Socrate e di Aristotele deriva, appunto, la pedofilia. A livello filosofico fu teorizzato che è molto più progredito l’amore per il fanciullo rispetto all’amore per la donna, considerata specie inferiore rispetto al maschio razionale. Così è nata la paideia, intesa come educazione del bambino, che comprendeva il rapporto “sessuale” con il maestro. Questa storia e queste dinamiche di sottomissione sono state poi riproposte e sempre negate per secoli fino ai giorni nostri. Basta vedere cosa è accaduto per esempio nella Chiesa francese o cosa accade oggi in Afghanistan ai bambini. Questo ci suggerisce che probabilmente nei secoli scorsi la pedofilia era una prassi totalmente annullata, non denunciata, come se non esistesse. E ci suggerisce anche che oggi stiamo facendo un salto in avanti poiché certi orrori inizino a essere scoperchiati.
Lo psichiatra Massimo Fagioli ha definito la pedofilia «l’annullamento della realtà umana del bambino».
Il lavoro che ha fatto Fagioli sull’immagine del bambino, ma anche della donna, è un rovesciamento culturale gigantesco. Oggi dobbiamo continuare a proporre cos’è questo annullamento, cioè il non riconoscere, non vedere la realtà umana del bambino, per far sì che venga in primis riconosciuto l’obbrobrio della storia del mondo greco. In Occidente non abbiamo mai voluto fare i conti con questo bagaglio culturale. Ed è accaduto che l’annullamento dell’identità del bambino perpetrato dalla filosofia platonica sia arrivato ai giorni nostri dopo essere stato ripreso a inizio Novecento da Freud con i suoi lavori sulla “sessualità” infantile.
Ci dica di più.
Utilizzando una serie di luoghi comuni della sua epoca, Freud formulò una vera e propria teoria della sessualità infantile che è arrivata ai giorni nostri così come lui l’ha proposta. Come fosse una scoperta, come fosse una cosa scientifica. Mentre non ci si rende conto che livello di annullamento sia parlare di sessualità infantile. I bambini non hanno sessualità. Non la devono e non la possono avere. Perché non hanno le competenze fisiche oltre che mentali, che si svilupperanno alla pubertà. È qui che comincia la sessualità.
Uno stupro, una violenza, può essere definito “atto sessuale”?
Assolutamente no. Anche qui dovremmo riuscire a chiarire i termini che – ripeto – ha chiarito solo Fagioli. Non si può mettere insieme violenza e sessualità. La parola sessualità implica l’assenza di qualunque violenza. La parola violenza esclude la possibilità che ci possa essere qualche dinamica di tipo sessuale. Ma nel nostro pensiero comune le due parole vengono associate. “Violenza sessuale”. Sono due termini totalmente inconciliabili. La violenza è violenza. Per anni è sembrato che l’aggiunta della parola “sessualità” volesse in parte mistificarla. Ci sono state sentenze in cui la donna vittima è stata considerata complice della violenza subita perché avrebbe indotto l’uomo a comportamenti violenti tramite la sessualità. Ma questo è un pasticcio teorico inaccettabile. Se c’è violenza non c’è sessualità. Se c’è sessualità non ci può essere violenza.
“È il bimbo che mi ha provocato”. Tante volte, non solo attraverso le nostre inchiesta su Left, è emerso che dichiarazioni del genere sono state fatte da sacerdoti pedofili. La donna e il bambino descritti dall’uomo come istigatori. Come possiamo commentare?
La donna e il bambino violentati, ritenuti responsabili della violenza contro se stessi: è un pensiero orrendo. E nei confronti del bimbo lo è ancor di più perché – come detto – nel bambino non c’è sessualità. Quindi non ci può mai essere alcuna istigazione. Invece questa idea è presente anche nella cultura del Novecento francese, nell’esistenzialismo. Foucault e altri hanno proposto dinamiche di questo tipo. Ma sono inaccettabili dal punto di vista teorico, psichiatrico e anche culturale.
Una persona che ha subito uno stupro in età prepubere, cosa si trova a dover affrontare?
Ogni vittima ovviamente nel corso della vita farà appello a tutte le proprie risorse psicologiche per superare il trauma. Ma noi psichiatri valutiamo che le conseguenze sono devastanti. Perché c’è un’impossibilità per il bambino di gestire, di reggere questo tipo di violenza che non è solo fisica. Peraltro quando un bambino è vittima di un’aggressione fisica diretta questa viene compresa ed elaborata più facilmente – anche perché c’è l’appoggio e la difesa del mondo circostante (genitori, familiari etc). L’aggressione di un pedofilo, invece, come dicevamo, è sempre stata sottovalutata dalla società. Quindi da una parte il bimbo rischia di confondersi e dall’altra spesso manca il sostegno stesso delle persone che gli stanno vicino. Più volte mi è capitato di sentirmi raccontare con grande sofferenza la violenza subita da uno zio o da un parroco tanti anni prima. Dietro l’atto c’è una violenza psicologica che provoca danni profondissimi. Che non sono solo quelli di bloccare la sessualità.
Come si può intervenire?
Si può intervenire solo a livello psichiatrico e psicoterapico. Pensiamo solo alla confusione che una violenza determina sulla formazione dell’identità. «Chi sono io? Sono attratto da un adulto del mio sesso o del sesso opposto?» si “chiede” la vittima.
Uno studio realizzato dalla Commissione australiana d’inchiesta sugli abusi nazionali di matrice clericale, conferma quello che dice lei. Da un campione di 4.445 persone è emerso che sono passati in media 33 anni prima che le vittime riuscissero a parlare della violenza subita.
Perché così tanto tempo?
È il tempo che occorre a una persona per acquisire – nonostante il trauma – una propria solidità. Quella necessaria per poter riaffrontare il racconto e le reazioni della gente di fronte alla sua denuncia. Questo, ma in maniera più grave, è molto simile alla violenza “sessuale” che subiscono le donne. C’è tutto quel connubio di vergogna, di paura, sensi di colpa che rendono molto complicato riuscire a denunciare, a raccontare, a condividere con qualcuno.
Anche con i genitori?
Purtroppo sì. I bambini molto spesso non vengono creduti, se non addirittura colpevolizzati. Oggi si comincia per la prima volta a sentire di rari ed eccezionali casi in cui la madre si scontra con il padre, accetta la volontà del figlio e si va a scontrare con il parroco presunto violentatore. I casi che vengono denunciati hanno quasi sempre questa dinamica ma non sono certo la maggioranza. Purtroppo si tratta di un’esigua minoranza di persone che hanno una certa sensibilità. La maggioranza tende a colpevolizzare il bambino, a nasconderlo, a non vedere la realtà, a negarla.
Chi è il pedofilo?
Il pedofilo ha una patologia psichiatrica gravissima che però può essere “compresa” in senso scientifico come un disturbo di personalità, tipo psicopatia. I pedofili sono degli psicopatici, sono dei malati che mettono insieme una grave malattia e una lucidità di comportamento propria dei criminali. E con lucidità scelgono le vittime, consapevoli del reato che compiono e dei rischi che possono correre. Nell’Ottocento li chiamavano “criminali nati” ma oggi sappiamo che psicopatici si diventa, non ci si nasce. A volte, nel caso dei pedofili, sono delle persone abusate a loro volta da bambini. In loro c’è una catena di malattia, di dolore e di delinquenza molto marcate. Trent’anni fa ci fu il caso piuttosto noto di Luigi Chiatti. Lui da bambino era stato abusato e adottato, e uccise due bambini. Prima però tentò di violentarli ma anche di convincerli a una relazione. Un misto di psicosi, delirio e lucida delinquenza. È stato un caso molto paradigmatico, molto studiato. Aveva il delirio di voler costruire una comunità di bambini prendendoli alle loro famiglie e portandoli a vivere tutti insieme. Una cosa che non sta né in cielo né in terra ovviamente.
Leggendo i Rapporti investigativi sulla pedofilia nel clero, viene da dire che spesso ai sacerdoti pedofili la comunità di bambini da gestire è stata messa su un piatto d’argento…
Anche loro hanno deliri di questo genere: ricostruire delle comunità in cui stanno con i bambini. È chiaro inoltre che i numeri impressionanti emersi in Francia di recente – ma era già accaduto in Germania, Usa e altrove – dimostrano che ci deve essere un legame tra la diffusione della pedofilia nel clero e la cultura della Chiesa, la sua organizzazione, la formazione impartita ai sacerdoti. Ci dev’essere un nesso altrimenti non si spiegano questi numeri mostruosi.
Le gerarchie ecclesiastiche hanno sempre detto che si tratta di casi isolati. Aiutati in questo, specie in Italia, dal modo in cui i media trattano queste vicende, spesso relegate nelle pagine di cronaca locale e mai contestualizzate fino in fondo.
Ma no! Si tratta di una prassi criminale diffusa che evidentemente si lega in qualche modo alla cultura cattolica e all’organizzazione della Chiesa cattolica.
Difatti, solo per fare un esempio numerico, il recente rapporto francese parla di circa 3mila preti coinvolti e 210mila vittime: cioè per ogni pedofilo, settanta bambini violentati.
Per me questo è l’aspetto criminale della malattia mentale. La serialità sottolinea drammaticamente l’aspetto criminale. Non riescono a fermarsi. O li ferma la magistratura o non riescono a fermarsi. In questo misto di criminalità e di patologia. Loro hanno perduto l’infanzia. In questo modo criminale vorrebbero ricostruire un rapporto con l’infanzia che hanno perduto. È una dinamica violentissima. Così come lo stupratore delle donne vorrebbe creare un rapporto con le donne ma lo fa in un modo violentissimo e criminale.
A proposito di “cultura” religiosa, ancora oggi lo stupro subito da un bambino, per la Chiesa, dal papa in giù, è considerato ed è trattato innanzitutto come un peccato.
Qui c’è tutta la cecità del pensiero religioso nei confronti del bambino. Difficile stabilire quanto questa idea di “peccato” venga utilizzata appositamente da parte della Chiesa per mistificare e nascondere il gigantesco problema al suo interno. È possibile che i vertici siano consapevoli che la pedofilia rischi di travolgere definitivamente l’istituzione, intaccando irrimediabilmente la fiducia della gente. Quindi la confusione tra “peccato”, cioè delitto contro la morale, e crimine contro una persona inerme può essere frutto di una strategia lucida e fredda per tutelarsi. Ma dall’altra parte testimonia l’incapacità del pensiero religioso di vedere il bambino, che come la donna non esiste. La religione, quella monoteista in particolare, vede solo il maschio adulto. E questo ha delle ricadute importanti, appunto, anche sulla formazione dei preti che vengono addestrati a muoversi in mondo totalmente maschile, dove esistono solo uomini. È una mostruosità, è contro la natura umana.
Ritorniamo, in conclusione, a parlare delle vittime di una violenza subita da bambini. Spesso vengono loro diagnosticate una sindrome acuta post traumatica da stress e amnesia traumatica. Ce ne può parlare?
La psichiatria deve fare ancora tanta strada per capire la patologia mentale in generale ma queste in particolare. Però entrambe le definizioni possono essere utilizzate per aiutare a comprendere. La sindrome post traumatica da stress suona come una cosa lieve ma è una diagnosi che può essere utilizzata per le vittime dei campi di concentramento che, come ha raccontato Primo Levi, portano dei segni profondissimi per tutta la vita.
Lo stress quindi può essere più o meno grave?
Certamente. Per farsi un’idea queste sono diagnosi che si usano per le persone vittime di terremoti, guerre ed emigrazione forzata. E questo può aiutarci a capire cosa vive la vittima di uno stupro pedofilo. Aggiungerei che il dramma e lo stress della persona che ha dovuto affrontare un lager o un terremoto vengono compresi dal mondo circostante. Mentre per quanto riguarda le vittime di un pedofilo c’è tutto quell’equivoco di cui si parlava all’inizio che rende maggiore la loro sofferenza.
Cosa si intende invece per amnesia traumatica?
Si tratta di una dinamica che anche io ho riscontrato nelle vittime. “Comincio a ricordare di mio zio” mi sono sentito dire. Ma per anni lo avevano dimenticato. La nostra mente ha questo potentissimo meccanismo di difesa che consiste nel cercare di “dimenticare” ciò che ha fatto star male. E questo spiega anche perché prima che una persona riesca a ricordare, a prendere consapevolezza, a rimettere a fuoco quello che è successo ci vogliono anni. Accade anche in chi ha subito una guerra o vissuto un lager. Cercano di dimenticare. Ben diversa è la dinamica dell’annullamento nella quale c’è una completa sparizione del fatto ma soprattutto si realizza una dinamica di anaffettività che di solito non è quella implicata in un processo traumatico. Il punto sta proprio nel “dimenticare” – non c’è un’altra parola – quello che è stato il trauma. Poi, dove le condizioni lo consentono, a poco a poco riemerge. E siccome per anni è rimasto nell’inconscio, deve riemergere dall’inconscio.


L’intervista èstata pubblicata su Left del 10-16 dicembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Giornata mondiale dei diritti umani: il tradimento dell’Europa

GRODNO REGION, BELARUS - NOVEMBER 27: Migrants receive humanitarian aid donated by Grodno people as migrants continue to wait at a closed area allocated by Belarusian government the Belarusian-Polish border in Grodno, Belarus on November 27, 2021. The migrant crisis on the border of Belarus with Poland, Lithuania, and Latvia escalated on November 8. This year, Polish border guards have prevented more than 35,000 attempts to illegally cross the Polish-Belarusian border, which is 400 times more than last year. (Photo by Sefa Karacan/Anadolu Agency via Getty Images)

A dicembre si concentrano le date in cui l’Onu riafferma l’universalità dei diritti. Fare un bilancio in una condizione pandemica nuova che si va a sommare ad emergenze democratiche, alimentari, ambientali di ogni tipo, non è semplice e non induce all’ottimismo. Il 10 dicembre è riconosciuto come “Giornata internazionale dei diritti umani”, un termine esteso quanto disatteso. La data fu scelta da parte dell’Assemblea generale Onu come anniversario dell’adozione della Dichiarazione universale stipulata nel 1948. Nel 1950 tutti gli Stati furono invitati a celebrarla.

Per sfuggire dalla retorica ipocrita meglio partire da un luogo preciso, finito di recente al centro dell’attenzione mediatica: il confine fra Polonia e Bielorussia, in cui i richiedenti asilo vengono cinicamente utilizzati da due regimi diversamente reazionari. Ad allarmare le cancellerie occidentali, oltre che quella polacca, sono meno di 5mila persone, in gran parte provenienti da Medio Oriente e Afghanistan, nuclei familiari che si trovano prevalentemente ancora al confine e che rischiano di morire assiderati. In pochi riescono ad entrare in Polonia. A proposito di diritti il primo dicembre, tanto per lanciare un segnale all’Unione europea, il presidente polacco Andrzej Duda ha firmato un disegno di legge con cui si vieta l’accesso all’area di confine con la Bielorussia a giornalisti e operatori di Ong. Un divieto “discrezionale”. Sarà la Guardia di frontiera a decidere se accordare o meno l’ingresso e a chi. Già alcuni media hanno cercato un’interlocuzione con le autorità ricevendo in cambio un indirizzo mail da cui nessuno risponde. Le motivazioni addotte dal ministro dell’Interno Mariusz Kaminski sono quelle che da decenni ogni governo utilizza per misure liberticide, “ragioni di sicurezza”. Lo stato di emergenza, dichiarato il 2 settembre, è stato superato dal provvedimento che ora comprende 183 villaggi di confine per un’area di 3 km di profondità.

Quelli che il governo chiama “tentativi di accesso irregolare” sono circa 150 al giorno: con questo risibile pretesto ci si chiude al mondo. Oltre lo splendido esempio delle “lanterne verdi” (accese fuori dalle case pronte a ospitare i profughi) è significativa la posizione del Garante polacco per i diritti umani che ha contestato la legge perché limita le libertà a tempo indeterminato. Le persone in fuga – con l’irrigidirsi delle temperature e l’arrivo della neve – vanno diminuendo ma sono centinaia gli agenti di frontiera che continuano a presidiare la foresta gelata al confine, anche per bloccare le azioni solidali degli attivisti che disobbediscono al governo o dei passeur che cercano di lucrare sul dramma dei profughi. La commissaria Ue agli Affari interni Ylva Johanson, intervenendo a Bruxelles su «misure straordinarie e temporanee per aiutare Polonia, Lituania e Lettonia a gestire le richieste d’asilo», ha definito la fase al confine come di…


L’intervista prosegue su Left del 10-16 dicembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Gli ipocriti

Il Parlamento italiano avvierà un’indagine pubblica sulla pedofilia. Lo ha dichiarato il primo ministro Mario Draghi in seguito all’ondata di indignazione manifestata dall’opinione pubblica per lo shock provocato da un documentario intitolato Non dirlo a nessuno in cui si dà voce alle vittime di stupri che coinvolgono il clero italiano e si punta il dito contro la pratica di spostare preti pedofili da una parrocchia all’altra. Il video, trasmesso su Youtube, in pochi giorni ha avuto oltre 20 milioni di visualizzazioni. Draghi ha annunciato la convocazione di una Commissione parlamentare ad hoc dopo una riunione del suo gabinetto, vice primi ministri compresi, con i presidenti dei due rami del Parlamento, Casellati e Fico.

Come riporta l’agenzia Nova, la commissione «si occuperà di tutti, ovviamente senza escludere il clero, ma anche di coloro che appartengono alla comunità artistica o al corpo docente e sono in contatto con minori», ha specificato il premier. L’ambito operativo della commissione, più in dettaglio, sarà presto reso noto. L’obiettivo non è quello di «stigmatizzare qualcuno, ha sottolineato Draghi. «Si tratta di un fenomeno che purtroppo, statisticamente, si manifesta in diversi ambienti, da sradicare senza sconti per nessuno». Uno scopo collaterale ma altrettanto importante è quello di stanare i casi di insabbiamento. «Non ci saranno più concessioni al silenzio, non si può tacere su simili questioni. Sono fondamentali per la normalità della vita sociale», ha aggiunto il presidente del Consigli. Il capo dell’esecutivo ha assicurato che in Commissione saranno chiamati anche esponenti dell’opposizione.

Ecco, avete appena letto una fake news, o meglio, una notizia fantascientifica. Per ritornare nella realtà dovete sostituire “Italia” con “Polonia”, “Mario Draghi” con “Mateusz Morawiecki” e “clero italiano” con “clero polacco”. Già perché questo è accaduto davvero diversi mesi fa nella Polonia ultra-cattolica, terra del papa santo Giovanni Paolo II – che notoriamente non fu un paladino della lotta contro la pedofilia all’interno della sua Chiesa.

E che dire di quanto accaduto in Francia con la pubblicazione del rapporto Ciase all’inizio di ottobre? La storia è nota ma vale la pena sintetizzarla. Dopo la scoperta di una settantina di casi avvenuti nell’ultimo decennio, e lo scandalo del vescovo di Lione, Barbarin, accusato di aver protetto un prete pedofilo seriale, la Chiesa francese ha commissionato un’indagine indipendente. In 3 anni di inchiesta è stata accertata l’esistenza di circa 3mila preti pedofili ed è stata fatta una stima di circa 210mila vittime.

Lo scandalo che ne è seguito è arrivato a mettere finalmente in discussione anche il sacramento della confessione. Già perché, come denunciamo da anni su Left è nell’ambito della confessione (ovvero in un rito dall’inizio e dalla fine indefiniti) che avvengono gran parte degli stupri e delle violenze nel clero. La segretezza che grava sul rito è lo scudo dietro cui le gerarchie ecclesiastiche hanno protetto, nel mondo, migliaia di sacerdoti pedofili. E continuano a farlo.

A parte questo, il fatto cruciale è che in Italia, invece, nonostante siano almeno 300 i sacerdoti denunciati negli ultimi 20 anni (stando agli archivi d’agenzia e al database di Rete L’Abuso) e intere diocesi siano state coinvolte in presunti insabbiamenti – come quella di Verona (caso dei sordomuti dell’istituto Provolo), Milano (don Galli), Enna (don Rugolo) solo per citarne alcune – non c’è traccia dell’intenzione da parte delle autorità civili, men che meno di quelle ecclesiastiche, di mettere un punto e avviare un’indagine conoscitiva su scala nazionale quanto meno per mappare il fenomeno criminale della pedofilia di matrice clericale.

Sarebbe un segnale importantissimo, sarebbe un efficace deterrente, sarebbe il primo vero mattoncino su cui costruire la prevenzione degli abusi. Lo dimostrano i risultati delle inchieste che dal Duemila in poi sono state realizzate in mezzo mondo: Stati Uniti, Irlanda, Germania, Regno Unito, Australia, Belgio, Olanda, Rep. Dominicana, Cile, Argentina, Brasile.

Da noi niente. Come se il problema non esistesse. O come se i bambini non esistessero?
«Troppi sacerdoti (negli Usa, ndr), tra il 4 e il 6% nell’arco di 50 anni (1950-2000), hanno agito contro il Vangelo e contro le leggi. Dal momento che i vescovi americani hanno preso sul serio la lotta contro questo male, dal 2002, non ci sono quasi più accuse di nuovi casi… Mi preme dire che l’Italia non ha ancora vissuto un tale momento di verità riguardo l’abuso sessuale e lo sfruttamento del potere riguardo il passato». Questo non lo diciamo noi di Left… L’ha detto il 21 agosto 2018 padre Hans Zollner, psicologo membro della Pontificia commissione per la tutela dei minori e presidente del Centre for child protection della Pontificia università gregoriana. In pratica Zollner ha detto che sarebbe sciocco pensare che in altri Paesi come l’Italia non sia accaduto lo stesso ma non si fa nulla. Sono passati oltre tre anni da quella sua dichiarazione inquietante senza che chi di dovere l’abbia raccolta e trasformata in un’inchiesta concreta.

Attualmente il clero italiano è composto da circa 52mila persone. Il 4-6% sono 2-3mila individui. In Francia a fronte di circa 3mila pedofili sono state individuate 210mila vittime. Non sono elementi sufficienti per preoccuparsi? Noi riteniamo di sì e andiamo anche oltre la “semplice” preoccupazione. Nella giornata mondiale per i diritti umani indetta dalle Nazioni unite che ricorre il 10 dicembre siamo infatti qui a pretendere – nuovamente – dal “nostro” Stato laico l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla pedofilia di matrice clericale. Ora e subito.

Come ha dimenticato di far notare Lucetta Scaraffia in un articolo sulla Stampa dell’11 novembre – in cui lei si chiede come mai nel nostro Paese non sia stata avviata alcuna inchiesta sugli abusi del clero e perché i giornali a parte il suo non indaghino (!) – è questa una battaglia che purtroppo a livello mediatico solo il nostro settimanale sta portando avanti da anni con convinzione e dati alla mano. Senza guardare in faccia nessuno.

Left infatti tra le altre cose ha contribuito all’indagine conoscitiva promossa da Rete L’Abuso che nel gennaio del 2019 ha portato il governo italiano di fronte al Comitato Onu per i diritti dell’infanzia con l’accusa di fare poco o nulla per garantire l’incolumità ai bambini che frequentano chiese, parrocchie, oratori, scuole religiose etc, e per sollecitare il Vaticano e la Chiesa italiana a una maggiore responsabilità.

Già, Scaraffia, c’eravamo noi a Ginevra, all’incontro che lei cita nel suo articolo, con le nostre inchieste a rappresentare le istanze delle vittime a fianco di Francesco Zanardi, il presidente di Rete L’Abuso. «Persona certo meritevole ma così coinvolto personalmente – lui stesso, da bambino ha subito gli abusi di un prete – da indurre molti a mettere in dubbio le sue informazioni» scrive Scaraffia.

Davvero si pensa che Zanardi non sia credibile in quanto vittima? Evidenziamo questo perché pensiamo che l’assenza di fiducia nei confronti di chi denuncia di aver subito uno stupro sia una delle matrici “culturali” del problema da risolvere. Questa “idea” come emerge nella nostra storia di copertina ricade con violenza sia sui minori che sulle donne. E chi sostiene di averne a cuore l’incolumità non può non prenderne atto.

Quanto ai doveri delle nostre istituzioni, l’inchiesta parlamentare sarebbe un segno concreto di adesione convinta alla Convenzione Onu del 1948, convenzione che porta con sé quella sui diritti dell’infanzia del 1989 (anche questa ratificata dall’Italia). In questa c’è scritto che ogni bambino deve poter crescere in un ambiente sano e ricevere affetto e che ha il diritto di essere protetto da qualsiasi abuso o sfruttamento.

La “sicurezza” che tanto sta a cuore ai partiti di governo non riguarda forse anche i minori? La Lega sempre in prima linea sui “fatti” di Bibbiano perché non alza mai la voce quando c’è di mezzo un prete o un monsignore? Un bimbo di otto anni non ha forse diritto di giocare nel campetto dell’oratorio o di partecipare a un campo scout senza correre il rischio di essere violentato dall’“educatore” in tonaca o dal laico devoto che “insegna” religione?

Come mai i diritti umani dei bambini troppo spesso finiscono nel dimenticatoio? Ad alcune di queste domande vogliamo provare a rispondere avvalendoci del contributo dello psichiatra e psicoterapeuta Andrea Masini, direttore della rivista di psichiatria e psicoterapia Il sogno della farfalla e docente della scuola di psicoterapia dinamica Bios e psichè. Nell’attesa che governo e Parlamento rispondano al quesito nostro e di tantissime vittime: perché in Italia non è mai stata avviata un’inchiesta sulla pedofilia nel clero? Cosa aspettate?


L’editoriale è tratto da Left del 10-16 dicembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

 

💥 Porta Left sempre con te, regalati un abbonamento digitale e potremo continuare a regalarti articoli come questo!

🆙  Bastano pochi click!

🔴  Clicca sull’immagine oppure segui questo link > https://left.it/abbonamenti

—> Se vuoi regalare un abbonamento digitale, scrivi a [email protected] oppure vai nella pagina abbonamenti, clicca sull’opzione da 117 euro e inserisci, oltre ai tuoi dati, nome, cognome e indirizzo mail del destinatario <—

Pedofilia nella Chiesa italiana, perché non si può più rimandare una commissione parlamentare d’inchiesta

Foto Fabrizio Corradetti/LaPresse 14 ottobre 2018 Ciita' del Vaticano, Italia Vaticano Piazza San Pietro Santa Messa e Canonizzazione dei Beati Paolo VI, Oscar Arnulfo Romero Galdamez Nella foto: Vescovi Photo Fabrizio Corradetti/LaPresse October 14 th, 2018 Roma, Italy Vatican St. Peter's Square Holy Mass and Canonization of the Blessed Paul VI, Oscar Arnulfo Romero Galdamez In the photo: Bishops

Don Nicola De Blasio: arrestato con l’accusa di pedopornografia online; don Livio Graziano: indagato per abusi su minore; don Emanuele Tempesta: arrestato per abusi su minore; don Vincenzo Esposito: indagato in carcere per induzione alla prostituzione minorile; don Giuseppe Rugolo: a processo per violenza sessuale aggravata su minori presso il Tribunale di Enna; infine un sacerdote, il cui nome non è stato reso noto dalle forze dell’ordine, arrestato in Salento nel settembre scorso con l’accusa di abusi su minore, e un ex sacerdote già cappellano dell’ospedale Perrino di Ostuni (Francesco Legrottaglie) arrestato due settimane fa perché trovato in possesso di un ingente quantitativo di immagini e video di natura pedopornografica. Per Legrottaglie si tratta della terza volta. Era già finito in manette nel 2015, sempre per detenzione di materiale pedopornografico, e nel 1992 quando era cappellano militare a Bari, per “atti di libidine” compiuti su due ragazzine qualche tempo prima, quando era parroco ad Ostuni.

Questa breve cronaca si riferisce a sette presunti casi di pedofilia e/o violenza su minori, collegati più o meno direttamente all’ambiente ecclesiastico, accaduti in Italia tra la fine di agosto 2021 e i primi giorni dello scorso dicembre. I presunti crimini sono accaduti in sette diocesi diverse. Diligentemente i media locali hanno ricostruito le vicende che hanno condotto agli arresti; laddove c’è già un processo in corso ne stanno dando conto e sicuramente informeranno i propri lettori circa l’eventuale condanna o assoluzione del presunto reo. Ma difficilmente chi vive a Benevento, dove è stato arrestato don Nicola De Blasio, saprà di don Emanuele Tempesta, arrestato a Busto Garolfo (Milano); chi vive in provincia di Perugia – dove è stato arrestato don Vincenzo Esposito – conoscerà la storia di don Livio Graziano finito nei guai ad Avellino, e così via.

Fin tanto che le “storie” di pedofilia nel clero saranno ricostruite senza essere contestualizzate in una trama complessiva, mancherà una visione d’insieme del fenomeno criminale.

E l’opinione pubblica italiana resterà ferma nella convinzione che certi episodi siano casi isolati e che diversamente dai cittadini francesi, tedeschi, irlandesi, belgi, olandesi, australiani, statunitensi etc – Paesi in cui sono state svolte inchieste istituzionali su base nazionale che hanno ricostruito fatti accaduti negli ultimi cinque decenni – noi possiamo stare tranquilli: da noi la pedofilia di matrice ecclesiastica è solo un fenomeno marginale.

Ma è davvero così? Proviamo a dare una risposta a questa domanda. In Francia la Commissione Ciase, che dal 2018 al 2021 ha indagato sui presunti crimini pedofili all’interno della Chiesa francese dagli anni 50 in poi, è stata incaricata dell’inchiesta, resa pubblica all’inizio dell’ottobre scorso, sulla base della denuncia di una settantina di casi nell’ultimo decennio e sulla spinta dello “scandalo Barbarin”, il vescovo di Lione riconosciuto responsabile di aver “insabbiato” per anni le denunce contro un prete pedofilo seriale. Al termine dell’indagine, come è tristemente noto, sono stati individuati circa 3mila sacerdoti pedofili e stimate almeno 210mila vittime. In proporzione, numeri simili erano stati riscontrati tra l’inizio e la metà dello scorso decennio al termine delle indagini in Irlanda e Germania, oppure nello Stato Usa della Pennsylvania nel 2018.
Da noi, come abbiamo denunciato tante volte su Left, non esistono statistiche ufficiali sulla pedofilia in generale, men che meno su quella di matrice clericale. Né il governo italiano né la Conferenza episcopale italiana si sono mai preoccupati di valutare le dimensioni e la diffusione di questo crimine.

Sul versante “laico” la situazione è ancora molto lacunosa. Nel 2007 è stato istituito l’Osservatorio per il contrasto della pedofilia e della pornografia minorile presso il ministero per le Pari opportunità. Nello stesso anno in quella sede sarebbe dovuta entrare in funzione una banca dati – si legge sul sito del ministero – «volta ad organizzare in modo sistematico il patrimonio informativo proveniente dalle diverse amministrazioni per il monitoraggio del fenomeno e delle azioni di prevenzione e repressione ad esso collegate». L’Osservatorio avrebbe anche dovuto redigere «una relazione tecnico-scientifica annuale a consuntivo delle attività svolte per il monitoraggio e il contrasto degli abusi su bambini e adolescenti nel nostro Paese». Usiamo il condizionale perché dal 2007 al 2021 l’Osservatorio per il contrasto della pedofilia ha funzionato di fatto solo pochi mesi nel 2020 e al momento non è possibile sapere quando riprenderà l’attività dato che anche il sito è offline.

Manca insomma un sistematico monitoraggio e una reale condivisione di dati tra organismi istituzionali e associazioni di volontariato che si occupano di tutela dei minori e delle vittime (come per es. Telefono Azzurro o rete L’Abuso). In assenza di una banca dati nazionale che permetta una rilevazione omogenea e un monitoraggio della casistica, i numeri disponibili sono pochi e non esaustivi. È questo un altro motivo per cui passa l’idea, nell’opinione pubblica, che si tratti di un fenomeno circoscritto a determinati ambiti che di volta in volta finiscono alla ribalta della cronaca (come la scuola o la Chiesa), o specifiche realtà di degrado sociale. «Mentre i dati – come denuncia sovente Telefono Azzurro – ci dicono chiaramente che si tratta di un fenomeno pervasivo, purtroppo presente in tutti i contesti nei quali ci siano bambini».

Sul versante ecclesiastico la situazione è altrettanto lacunosa. Fino a oggi solo due diocesi italiane, in seguito a decine di denunce che peraltro erano rimaste inascoltate per anni, hanno deciso di istituire una commissione d’inchiesta: Bressanone nel 2012 e Verona nel 2013. In entrambi i casi – ormai datati – gran parte delle denunce sono risultate fondate ma la prescrizione ha negato la possibilità di ottenere giustizia alle vittime.

Si è trattato peraltro di commissioni che hanno agito a livello “locale”. La Conferenza episcopale italiana, a differenza di quella francese o tedesca o statunitense solo per fare qualche esempio, non ha mai ritenuto necessario allargare lo “sguardo” sul complesso delle oltre 220 diocesi esistenti nel nostro Paese. E lo ha ribadito con forza anche il 14 ottobre scorso il cardinale presidente, Gualtiero Bassetti, quando gli è stato chiesto se non ritenesse necessario prendere esempio dai colleghi d’Oltralpe. «È pericoloso affrontare la piaga della pedofilia in base a statistiche. La conoscenza del fenomeno, a mio avviso, va fatta scientificamente, non per indagini» ha detto Bassetti. Due domande veloci al capo della Cei: pericoloso per chi? La statistica non è una scienza? «Noi – ha proseguito l’arcivescovo di Perugia – abbiamo fatto la cosa più importante in questo momento: se c’è un fiume che va fuori si mettono gli argini. E stiamo facendo, in accordo con la Santa Sede, un lavoro importantissimo di prevenzione, di monitoraggio nelle diocesi, con esperti che valutano subito i casi». Nessun cenno, fateci caso, alla possibilità di iniziare a collaborare concretamente con la magistratura italiana e denunciare i casi sospetti. No, questi – per la Chiesa italiana – vanno valutati da non meglio precisati esperti.

Senza intento polemico ci verrebbe da dire che il risultato di questo «lavoro importantissimo di prevenzione» andrebbe fatto valutare alle vittime dei sette personaggi di cui abbiamo parlato all’inizio nel caso dovessero risultare colpevoli. Ma tant’è. Per Bassetti l’inchiesta nazionale non s’ha da fare.

Con buona pace del presidente della Cei, qualche dato noi però vogliamo darlo se non altro perché riteniamo le fonti altamente qualificate. Nel 2012 per esempio, monsignor Mariano Crociata, allora segretario generale della Conferenza episcopale, ammise l’esistenza di almeno 135 casi di pedofilia emersi dal 2000 in poi e trattati dalle diocesi italiane. Non si può sapere se qualcuno di questi è finito anche sotto la lente della magistratura italiana, tuttavia seguendo costantemente le cronache la media di un caso di pedofilia clericale al mese è piuttosto costante negli anni Duemila. Probabilmente però si tratta di una stima al ribasso. Lo ricaviamo dalla dichiarazione di un altro insospettabile, il gesuita tedesco mons. Hans Zollner, rilasciata ad AgenSir, l’agenzia dei vescovi italiani, nell’agosto del 2018. «Troppi sacerdoti nello Stato della Pennsylvania, tra il 4 e il 6% nell’arco di 50 anni, hanno agito contro il Vangelo e contro le leggi. Sarebbe stupido pensare che in altri Paesi come l’Italia non sia accaduto lo stesso» ha detto Zollner che, oltre a essere uno psicologo e quindi a conoscere il fenomeno della pedofilia nei suoi molteplici aspetti, è membro della Pontificia commissione per la tutela dei minori (istituita del 2015 da papa Francesco) e presidente del Centre for child protection della Pontificia università gregoriana.

Per farsi un’idea di cosa può voler dire la percentuale del 4-6% ricordiamo che in Italia attualmente risiedono circa 52mila ecclesiastici. Finché questo dato non sarà smentito (e ad oggi nessuno lo ha fatto), magari da una Commissione parlamentare d’inchiesta, può voler dire che negli ultimi 50 anni il clero italiano ha dovuto fare i conti con 2-3mila sacerdoti pedofili. Come in Francia (ma 50 anni fa i preti in Italia erano circa il doppio…). Quindi la domanda è: davvero la situazione è sotto controllo e il nostro Paese è un’oasi “felice” solo sporadicamente sfiorata da quelle vicende criminali che negli ultimi anni hanno inferto ferite profondissime al tessuto sociale in gran parte dei Paesi a tradizione cattolica?
Come vedremo nell’intervista allo psichiatra Andrea Masini, i pedofili sono dei predatori opportunisti. Se messi in condizione di esercitare potere e di crearsi l’opportunità, continueranno ad assecondare il proprio “disegno criminale”. Sono cioè assimilabili a dei serial killer. Quindi, quante sono le vittime in Italia considerando che in Francia è emerso un rapporto di 1:70 (3mila preti pedofili, 210mila vittime)? Si badi bene che nonostante le dimensioni la stima non è irreale, purtroppo. In Irlanda – Paese di 5mln di abitanti, cioè 1/12esimo della popolazione italiana – in un arco temporale di 50 anni sono state documentate quasi 40mila vittime di preti pedofili. E questo è emerso, nel 2010, grazie al lavoro di due diverse commissioni d’inchiesta di Dublino, strumento che come abbiamo detto in Italia non si è mai voluto utilizzare.

Noi di Left riteniamo che la politica e le istituzioni non si possano più sottrarre da questa responsabilità: chiediamo che sia istituita al più presto una commissione parlamentare d’inchiesta sulla pedofilia nella Chiesa italiana.


L’inchiesta è stata pubblicata su Left del 10-16 dicembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

La festa è finita

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 07-12-2021 Roma Conferenza stampa di Cgil e Uil sullo sciopero generale del 16 dicembre Nella foto Maurizio Landini, Pierpaolo Bombardieri Photo Roberto Monaldo / LaPresse 07-12-2021 Rome (Italy) Press conference of the Cgil and Uil trade unions on the general strike organized on 16 December In the pic Maurizio Landini, Pierpaolo Bombardieri

C’è un passo dell’ultimo rapporto Censis che sembra essere sfuggito ai draghisti, dice: «…il nostro Paese non può essere intrappolato in parole tanto rassicuranti, quanto povere di significato, utili a enfatizzare un impegno generico di programmazione, ma difficilmente capaci di riconnettere la società in un partecipe desiderio di ricostruzione… Tutti avvertono, invece, che per rimettere in cammino l’economia e risaldare la società occorrono interventi concreti e in profondità, che il puro gioco di controllo e mediazione delle variabili sociali è fuori dal tempo».

L’Italia è il Paese con il tasso d’occupazione tra i più bassi d’Europa. L’unico in Ue dove i lavoratori guadagnano meno di 30 anni fa. Questo deve essere sfuggito alla narrazione imperante. L’Italia è il Paese con la maggioranza di donne tra i disoccupati, qui dove i giovani non studiano e non lavorano. E dove almeno 100mila giovani ogni anno se ne vanno invece all’estero per trovare un lavoro dignitoso. L’Italia è il Paese del precariato raccontato come eccitante campo di sfida in cui chi non riesce è semplicemente un perdente che se la deve prendere con se stesso. L’Italia è il Paese dove solo 13 bambini su 100 al Sud trovano un asilo pubblico. L’Italia è il Paese in cui aumentano i poveri che si cibano alle mense o che vivono con gli scarti. È il Paese in cui la patrimoniale ogni volta solleva un vespaio e viene respinta con sdegno dal presidente del Consiglio Mario Draghi. Poi Draghi promette un contributo di solidarietà che invece non arriva per il voto contrario del centrodestra.

L’Italia è il Paese che non riesce a trovare un freno alle delocalizzazioni selvagge mentre qualcuno propone di diventare come certi Paesi senza diritti e con salari da fame per essere più “attrattivi”. L’Italia è un Paese da mettersi le mani sui capelli ogni volta che si ipotizza quali saranno le pensioni per i giovani che stanno cominciando a lavorare ora ed è quel Paese in cui perfino ammalarsi diventa un costo. L’Italia è quel Paese in cui si parla di transizione ecologica continuando a pubblicizzare il nucleare e non si capisce chi e come potrà trovare un futuro nei nuovi mestieri dedicati all’ambiente. L’Italia è quel Paese in cui frequentare le università è un privilegio ben caro. L’Italia è quel Paese in cui il grado d’istruzione è tra i più bassi d’Europa e si discute se la Terra è piatta in prima serata televisiva.

L’Italia è quel Paese in cui si chiede di sognare facendo il rider che, vedrai, ti farà diventare milionario, dove per un giovane con contratti precari è un’illusione farsi una famiglia (tradizionale o meno) ed è quasi impossibile riuscire ad accedere a un mutuo per un casa. L’Italia è il Paese in cui non si riesce a porre un freno a coloro che vivono di rendite su beni pubblici.

In tutto questo in Italia arrivano una pioggia di miliardi che verranno gestiti da una maggioranza che non esiste, solo di comodo, e da un presidente del Consiglio che vorrebbe limitarsi a fare le somme e le sottrazioni.

In questo Paese vi stupisce uno sciopero generale? La luna di miele si è consumata, la festa è finita e quelle parole del rapporto Censis suonano come un cupo ammonimento da intendere velocemente.

Buon giovedì.

 

Nella foto: Matteo Salvini e Massimo Giletti, “L’Arena” 1 novembre 2015

 

💥 Porta Left sempre con te, regalati un abbonamento digitale e potremo continuare a regalarti articoli come questo!

🆙  Bastano pochi click!

🔴  Clicca sull’immagine oppure segui questo link > https://left.it/abbonamenti

—> Se vuoi regalare un abbonamento digitale, scrivi a [email protected] oppure vai nella pagina abbonamenti, clicca sull’opzione da 117 euro e inserisci, oltre ai tuoi dati, nome, cognome e indirizzo mail del destinatario <—

La politica flebile

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 16-11-2021 Roma Programma tv “Porta a Porta” Nella foto Carlo Calenda Photo Roberto Monaldo / LaPresse 16-11-2021 Rome (Italy) Tv program “Porta a Porta” In the pic Carlo Calenda

Ci avevano detto che la politica, di colpo, era diventata una roba serissima. Sarebbe stata una bella notizia dopo anni passati tra i “vaffanculo”, il Papeete, le scissioni per la creazione di partiti con qualche piccolo leader e le sue vestali e dopo anni passati a vedere i meme  su Facebook per umiliare gli avversari.

Ci avevano detto che ora era il momento del “merito”, di quelli bravi, di quelli che fanno le cose per bene e d’improvviso persino i guasconi sembravano essere diventati bravi ragazzi. E con questo feticcio del merito e della serietà ci siamo ritrovati tra i nuovi protagonisti quel Calenda che era “così bravo” da rispondere a tutti, sempre calmo a spiegare le cose, insieme agli altri che avevano capito bene che sembrare professorali (più che professionisti) era la moda della stagione.

Invece continuiamo a essere nella politica flebile, con e prima più di prima, con l’unica differenza che questi sanno usare il congiuntivo. Ciò che è accaduto per le elezioni suppletive su Roma con Conte che avrebbe dovuto candidarsi e con Calenda che dice “allora mi candido anch’io” come due maschi alfa che si sfidano a duello (usando il campo nobile che dovrebbe essere la politica) è solo l’ultimo di una serie di eventi che dimostra benissimo come la strategia sia sempre quella della scaramuccia, come non esista pensiero ma solo pulsione, come alla fine non ci sia differenza tra il populismo popolare e il populismo delle élite, con l’unica differenza che il secondo traveste il classismo da ideologia.

Non è nemmeno un caso che Calenda si ritrovi a scrivere «Ogni 5S dovrebbe restare fuori da qualsiasi incarico superiore alla vendita di lattine di chinotto allo stadio. E mi impegnerò attivamente per conseguire questo risultato», un post che nemmeno Renzi nei suoi momenti di formicolio peggiore riuscirebbe a partorire. Questi sognano un’oligarchia che preveda un diritto di voto in base al censo ma poiché non hanno il coraggio di tenere una posizione così vergognosa fingono di voler parlare di competenze.

In questo quadro sarà difficilissimo il percorso di avvicinamento allo sciopero generale dei sindacati. Molti proveranno (e ci riusciranno) a spostare il dibattito sugli scioperanti che non sono altro che l’ennesima dimostrazione dei fannulloni che loro continuano a vedere dappertutto. Rimanere nel merito delle cose sarà difficilissimo, esattamente come avveniva con i saltimbanchi di prima. L’unica differenza è che questi non si farebbero mai fotografare a petto nudo in spiaggia. O forse no, se cercate bene trovate anche questo.

Buon mercoledì.

Nella foto: Matteo Salvini e Massimo Giletti, “L’Arena” 1 novembre 2015

 

💥 Porta Left sempre con te, regalati un abbonamento digitale e potremo continuare a regalarti articoli come questo!

🆙  Bastano pochi click!

🔴  Clicca sull’immagine oppure segui questo link > https://left.it/abbonamenti

—> Se vuoi regalare un abbonamento digitale, scrivi a [email protected] oppure vai nella pagina abbonamenti, clicca sull’opzione da 117 euro e inserisci, oltre ai tuoi dati, nome, cognome e indirizzo mail del destinatario <—