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Da Giletti manca solo il fantasma formaggino

Dai, inutile nascondersi: i complotti in Italia proliferano perché sono munti allegramente da una masnada di giornalisti, giornali e televisioni che trovano un bacino interessante senza doversi mettere in concorrenza con chi studia, approfondisce e porta fonti e prove a sostegno delle proprie tesi. Nel mondo dei complotti, non è mica un caso, trovano spazio persone che nel mondo reale sarebbero simpatici scemi del villaggio e che invece si ritrovano a essere quasi profeti.

Non è questione solo di vaccini: il trucco di mettere sullo stesso piano chi esprime critiche strutturate e dubbi sostanziosi sulle decisioni del governo con quelli che credono che la terra sia piatta e il Covid non esista è un’offesa all’intelligenza ed è una forzatura che non rende onore alla platea.

Qualche giorno fa Enrico Mentana ha scritto: «Per me mettere a confronto uno scienziato e uno stregone, sul Covid come su qualsiasi altra materia che riguardi la salute collettiva, non è informazione, come allestire un faccia a faccia tra chi lotta contro la mafia e chi dice che non esiste, tra chi è per la parità tra uomo e donna e chi è contro, tra chi vuole la democrazia e chi sostiene la dittatura». Discorso largamente condivisibile (se non fosse per questa mania di inserire tra gli “stregoni” spesso anche persone che invece avanzano critiche con fondamento). Della stessa opinione anche la neodirettrice del Tg1 Monica Maggioni che dice: «Se ci va di mezzo la vita delle persone non puoi mettere sullo stesso piano uno scienziato e il primo sciamano che passa per strada. Deve tornare a contare la competenza, non tutte le opinioni hanno lo stesso valore». Anche qui si può largamente essere d’accordo se non fosse che in nome della “competenza” sono stati massacrati i diritti del lavoratori, solo per citare un esempio.

Ma il vero mungitore dei complotti rimane saldamente Massimo Giletti che nel suo programma è riuscito a invitare il peggio dei no vax a partire da Tuiach (uno che prima dei vaccini si occupava di anatemi contro gli omosessuali augurandogli la morte in nome di Dio e uno che nega l’olocausto), poi Puzzer (il capobanda di certi portuali a Trieste che voleva essere ricevuto dal Papa e dall’Onu in nome dei suoi 5 minuti di celebrità). Ora Giletti si supera: c’è un povero cretino (dentista) che a Biella decide di presentarsi al vaccino con un braccio di silicone. Viene denunciato per tentata truffa oltre che sospeso dal suo Ordine. Questo riesce addirittura a lamentarsi che i giornalisti gli avrebbero rovinato la vita. Avete capito? Un tizio che si presenta travestito si lamenta di essere vittima della sua stessa idiozia. Sarebbe una tragica storia che fa ridere per povertà morale degna di finire sulle pagine dei giornali di tutto il mondo per poi diventare materia di indagine e eventuale pena e invece Giletti decide di invitarlo in televisione.

Dice Giletti, rispondendo a Mentana, che lui invita questa gente per inchiodarle con le sue astutissime domande. Davvero, un campione: esporre a milioni di spettatori le teorie e i comportamenti amorali di qualche gruppo di disadattati dovrebbe essere addirittura educativo, secondo lui. Ci aspettiamo quindi che inviti musicisti senza bocca che suonano la tromba, qualcuno convinto che il cielo sia una tenda e magari qualche rapito da un extraterrestre. Ma questi, vedrete, a Giletti non interessano perché quello che conta è inseguire il sentimento più peloso dei social per raggranellare un po’ di consenso. Esattamente come fa in politica Matteo Salvini. A proposito: avete mai notato quanto si trovino amichevolmente bene i due? Sarà un caso, anche questo.

Buon martedì.

Nella foto: Matteo Salvini e Massimo Giletti, “L’Arena” 1 novembre 2015

 

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Viaggio nell’altra Verona, quella che combatte l’onda nera

Verona deve la sua fama mondiale a Shakespeare e alla leggenda di Giulietta e Romeo. La città patrimonio Unesco da inizio secolo racchiude oltre 2000 anni in storia in poco più di 200 chilometri quadrati. Ma il centro veneto è un caso unico nel panorama nazionale perché, nell’immaginario collettivo, viene spesso associato allo stereotipo del laboratorio della destra radicale.

In effetti nella città scaligera integralismo cattolico, estremismo, leghismo in salsa nativista e neofascismo si sono saldati un in mix letale dando luogo a un sovranismo in salsa provinciale molto pericoloso. Questo identitarismo esasperato, inizialmente sviluppatosi all’interno di formazioni minoritarie e coltivato nello stadio e nelle piazze, è riuscito da tempo a varcare la soglia di Palazzo Barbieri, sede dell’amministrazione comunale.

Tutto questo è documentato dall’ultimo libro del giornalista di Repubblica Paolo Berizzi, É gradita la camicia nera (Rizzoli, 2021): un racconto sulle trame nere della città veneta. La casa editrice, nelle ultime settimane, ha provato ad organizzare la presentazione del libro, ma a lungo senza riuscirci: nessuno a Verona sembrava disposto ad ospitare un evento che affronti l’argomento. Ora finalmente spunta la data del 15 dicembre quando il libro sarà presentato al Teatro Santissima Trinità da Maurizio Landini (Cgil) e Gianfranco Pagliarulo (Anpi). Ricordiamo che Berizzi è l’unico giornalista europeo ad essere sotto scorta per le minacce ricevute dai gruppi neonazisti.

Bene. Ora di tratta per di valorizzare chi ogni giorno lavora e combatte nel cuore della città, per rendere Verona un luogo migliore, aperto, solidale ed inclusivo. E che non strumentalizza le tradizioni locali per rilanciare una narrazione cittadina fatta di esclusione nei confronti del diverso, di tutto ciò che non conforme rispetto ai canoni comunemente accettati dai butei, termine dialettale veneto che sta per “ragazzi” .

«Un’altra Verona c’è, ma è schiacciata dall’arroganza e dalla presunzione di quell’altra parte di città» racconta Sofia Modenese, 27 anni, maestra elementare, ex attivista di Unione degli universitari (Udu) e fondatrice dell’associazione antifascista Yanez. Sofia vive in un paesino della provincia, Bovolone, e nel 2016 venne pubblicamente attaccata dagli indipendentisti veneti per le sue prese di posizione a favore dell’accoglienza di un gruppo di migranti in un capannone una cooperativa. «Si creano dei momenti di socialità e possibilità per chi vuole cambiare tutto quello che è stato l’ultimo periodo, abbastanza lungo, di una Verona nera. Che però poi così nera non è».

Associazioni di volontariato, movimenti ambientalisti, sindacati e organizzazioni antifasciste esistono, conferma Sofia. «Ma è un mondo frastagliato e diviso dall’arroganza della destra», che non riesce a compattarsi perché «anche solo trovare luoghi e sale per riuscire a fare tutte le nostre attività è difficile. Noi non abbiamo ancora una sede, e ce ne sarebbero di spazi che il Comune potrebbe dare in usufrutto. Ma non lo fanno».

«Dopo l’ennesima alluvione che ha colpito la città ad agosto, come Udu ci siamo riuniti insieme a Fridays for Future ed Extinction Rebellion per formare squadre di volontari pronti a portare aiuto. Durante la pandemia, con gli studenti universitari abbiamo organizzato un servizio di consegna della spesa per chi non poteva muoversi da casa», conclude poi la giovane.

Dopo la tagliola parlamentare che ha affossato il Ddl Zan, numerose persone si sono riunite in piazza Brà per far sentire la propria al grido di «Voi voto segreto, noi piazze piene». All’appello, lanciato dal mondo progressista veronese, hanno risposto oltre 600 persone.

Giovanni Zardini è uno storico attivista per i diritti Lgbtqi e presidente del Circolo Pink, che nasce nel 1985. Mi viene raccontata la storia di questa associazione delle sue tante battaglie. «Portiamo avanti azioni continue per contrastare omofobia e transfobia dilaganti in città. Verona nel ’95 approvò la mozione omofoba n.336, tutt’ora in vigore, e l’ultimo tentativo dei consiglieri di centrosinistra Federico Benini e Michele Bertucco di riportare questi testi in discussione in consiglio comunale hanno ricevuto un ennesimo stop».

Questo testo, spiega Zardini, non solo definisce l’omosessualità un comportamento contro natura, ma prevede il respingimento della risoluzione del Parlamento Europeo che invita gli Stati membri a porre fine alle discriminazioni giuridiche tra persone omosessuali ed eterosessuali. In seguito alla sua approvazione nacque il comitato “Alziamo la testa”, che il 30 settembre 1995 organizzò un corteo per chiederne l’abrogazione. «Fu la prima grande manifestazione Lgbt italiana organizzata fuori Roma», ricorda Gianni. «Vi presero parte oltre 5000 persone». Ma né questa manifestazione né le altre due che vennero organizzate nel 2001 e nel 2005 servirono a cambiare le cose.

Negli ultimi anni, l’ostilità di buona parte dell’amministrazione verso gay, lesbiche e trans è culminata nel 2018 con la proclamazione del capoluogo veneto come «città a favore della vita». Questa fu la spinta che portò all’organizzazione di una giornata di lotta intitolata “Molto più di 194” a cui parteciparono più di cinquemila persone. Eppure, né la manifestazione del 1995, né questa, né le centomila persone venute il 30 marzo 2019 a dimostrare il proprio dissenso contro l’organizzazione del World Congress of Families, sono riuscite a scuotere la giunta Sboarina e a farla demordere dai propri intenti.

Ma l’attività di Giovanni e gli altri va ben oltre. «Nel 2017 nasce il Pink refugees che è un servizio specifico per migranti Lgbtqi che arrivano dall’Africa» mi dice il numero uno del Pink, precisando poi che «dal 2017 a oggi abbiamo accolto quasi 300 persone, e a più di 100 di loro è stato riconosciuto lo status di rifugiato. Uniamo affermazione, resistenza e proposta- conclude -perché questa città non vive solo chiaramente di razzismo e fascismo, ma anche di proposte culturali. Ed è proprio dalla cultura che bisogna ripartire, perché il problema è culturale».

Un’altra “eccellenza” cittadina è la Ronda della carità, una realtà che si occupa da quasi 26 anni di assistenza alle persone senza fissa dimora che non hanno accoglienza all’interno dei dormitori. «Noi volontari consegniamo una media di circa 200 pacchi a sera» afferma Alberto Sperotto, il presidente, che tiene a specificare come i numeri siano aumentati dopo la pandemia. «Nel marzo 2020 facevamo più o meno 80 pasti a sera, a ottobre siamo arrivati quasi a 300. E la media adesso si sta stabilizzando sui 220 a notte». A Verona la Ronda ha un’alta reputazione, e i veronesi sono molto vicini alle sue attività, visti anche i numeri. I volontari sono circa 330, mentre più del 50% dei fondi che vengono raccolti arrivano direttamente da privati cittadini.

Ma le istituzioni come si pongono nei confronti di queste persone? «Con l’amministrazione si collabora anche se è pur vero che in città esiste un regolamento della polizia municipale, approvato ai tempi della giunta di Flavio Tosi – ex primo cittadino – che vieta il “bivacco”. Ma come si può equiparare chi va a sostare in Piazza Bra dopo aver partecipato ad un concerto all’Arena con chi lo fa perché non ha una casa?» domanda Sperotto, che conclude ricordando che il Comune spesso intraprende azioni di disturbo e di sgombero nei confronti delle persone che dormono all’interno delle strutture abbandonate senza proporre loro una alternativa.

Tornando alla domanda che ci siamo fatti all’inizio: Verona è quindi una città estremista e fascista? Federico Benini, consigliere comunale di opposizione del Partito democratico è categorico nell’escluderlo.

«Guardiamo il numero di voti che i due consiglieri comunali apertamente di estrema destra prendono: insieme non raggiungono le 500 preferenze. Di che cosa stiamo parlando?» sostiene. Benini, che i numeri li sa maneggiare bene, essendo anche titolare dell’Istituto di sondaggi Winpoll. «Non voglio contestare quello che scrive Berizzi, che ha fatto un’analisi accurata» prosegue il giovane politico, «ma l’idea che la mia città sia solo questo, non mi sento di dirlo. Verona è anche questo, ma è anche molte altre cose che però non fanno rumore perché fanno parte di storie e persone che fanno volontariato, che si adoperano per gli altri e che lavorano in silenzio senza fare delle azioni che destano clamore».

«Se Sboarina facesse dichiarazioni esplicitamente nostalgiche non vincerebbe le elezioni», dice l’esponente dem, «i veronesi non sono dei fascisti, perché se lo fossero voterebbero il solito candidato di Forza Nuova che ad ogni tornata elettorale non è andato oltre l’1%».

L’ultimo passaggio di Benini è sul futuro della città, che dovrà scegliere la nuova amministrazione nel 2022. Alle scorse elezioni, nel 2017 , il ballottaggio fu appannaggio del centrodestra: da una parte Federico Sboarina, attuale primo cittadino a capo di un fronte largo composto da civiche, Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia; dall’altra, Patrizia Bisinella, compagna dell’ex sindaco Flavio Tosi, sostenuta da liste civiche di destra. Il centrosinistra, diviso in due, non riuscì ad accedere al secondo turno. Ma stavolta, mi spiega Federico, è diverso, perché «cinque anni fa l’elettore di centrosinistra per quale motivo doveva dare il voto già sapendo che si sarebbe perso? Adesso ci sono dei presupposti diversi, abbiamo già individuato un candidato – l’ex calciatore Damiano Tommasi – appoggiato da una coalizione compatta che va dal centro alla sinistra e di cui il PD è il perno. Si sta già costruendo una proposta che ha lo scopo di essere competitiva e che può ambire alla guida della città».

Che dire, la sfida è molto ambiziosa, in una città in cui negli ultimi 15 anni circa il 65% delle persone ha dato la propria preferenza a liste di destra o centrodestra. Ma qui quello che dovrà fare la prossima amministrazione è chiaro: dovrà recidere una volta per tutte i legami tra la curva, i partiti estremisti e i mondi dell’integralismo cattolico con le istituzioni cittadini. E cominciare a dare voce all’altro pezzo di città, quella solidale, aperta, multiculturale e che non si barrica dietro alle usanze popolari per portare avanti discorsi carichi d’odio e di esclusione. Perché diciamolo: un’altra Verona esiste!

Cemento sull’isolotto di Santo Stefano. Cara Silvia Costa, ecco cosa significa “progresso sostenibile”

In quanto indirettamente nominati come “paladini dell’ambiente” i membri del Comitato Santo Stefano sentono di dover elaborare una breve risposta alla Commissaria Silvia Costa.

Se noi siamo paladini dell’ambiente la Commissaria è certamente paladina del progresso sostenibile. Riqualificare, restaurare e rendere fruibile un luogo “degradato”, queste le parole d’ordine del progetto per l’isolotto di Santo Stefano.
Le domande che ci poniamo noi “paladini dell’ambiente” sono: perché ancora consideriamo un luogo in mano alla natura come un luogo degradato? Le foglie a terra che in autunno cadono dagli alberi sono simbolo di degrado? La vegetazione fitta e non controllata dall’uomo lo è?
La sostenibilità, quella vera, nasce dall’accettazione che a volte lasciare i luoghi in mano alla natura è il gesto più alto che possiamo fare invece di continuare ad antropizzarli con la presunzione di renderli meno fragili e degradati (più di 35.000 visitatori l’anno, queste le stime del progetto a regime per l’isola di Santo Stefano).
Questa è, peraltro, una delle mission principali delle Aree Marine Protette/Riserve statali e regionali, marine e terrestri: luoghi in cui si è consapevolmente scelto di mettere al centro la tutela di habitat, ecosistemi e biodiversità, subordinando necessariamente uno sviluppo economico e sociale che deve essere garantito ma anche rispettoso del territorio e del mare (l’Isola di S.Stefano, per chi non lo sapesse, è uno di quei posti).
Permettere alle persone di visitare un luogo simbolo come il carcere di Santo Stefano è un impegno nobile e condivisibile, ma perché non limitarsi a quello? Perché progettare decine di posti letto ed impianti di condizionamento? Perché costruire impianti fognari e tubazioni per l’acqua? Perché porsi nelle condizioni di dover generare energia in loco o peggio ancora trasportarla con cavi sottomarini? Perché non scegliere in principio un approdo leggero evitando anche l’iter della V.I.A.?
Perché non si è scelto di lasciare alla natura il suo corso occupandosi solo di un restauro del complesso carcerario e di lievi lavori di messa in sicurezza per garantirne una fruibilità diffusa?
Da queste considerazioni nasce il dubbio che finché continueremo ad intendere il progresso come modo per creare ancora servizi ed indotti economici sarà molto difficile coniugarlo con la parola sostenibilità.
Si continua a pensare al futuro solo ed esclusivamente in funzione di un’economia lineare, lontani da un concetto di circolarità sul quale puntare per diventare un modello da replicare.
Cara commissaria, se noi siamo paladini dell’ambiente lei è paladina di un ossimoro.

«Occupare è un impegno civile. Altro che rito»

«A seguito di una votazione in cui è stata raggiunta la maggioranza dei consensi, insieme a 200 studenti e studentesse del liceo Righi, abbiamo deciso di occupare il nostro istituto. Dopo anni di mobilitazioni, dopo aver manifestato innumerevoli volte sotto al ministero dell’Istruzione e aver percorso in lungo e in largo le strade di Roma, noi studenti e studentesse del liceo Righi vogliamo porre fine agli interminabili “siamo tutti nella stessa barca” e “vi capiamo”. Mostreremo a tutti di cosa ha bisogno la scuola».

Inizia così l’articolata nota con cui, in uno dei più prestigiosi licei scientifici di Roma gli studenti hanno avviato bhu una occupazione in epoca di pandemia. Il liceo Righi, è stato il sedicesimo istituto romano ad essere occupato; seguito dal Giordano Bruno e dal Carducci, si è arrivati a 18 scuole mobilitate. Negativa la risposta di Mario Rusconi, presidente dell’Associazione nazionale presidi di Roma: «Si tratta di un rito che si ripropone prima delle vacanze natalizie con cui si fanno perdere giornate di scuola a quella stragrande maggioranza di studenti a cui non interessa questo tipo di contestazione – ha dichiarato all’AdnKronos -. È una minoranza di studenti che con arroganza, rispetto al più elementare dei principi democratici occupa le scuole magari anche nottetempo. Una prova tecnica per una “prospettiva politica” e non per ragionare sui problemi del mondo della scuola».

Recandoci al Righi, invitati, abbiamo trovato una realtà molto diversa. Centinaia di studentesse e studenti presenti, aule attrezzate per iniziative artistiche e culturali, altre chiuse con fascette di plastica dagli “occupanti” per evitare danni ai computer o ad altro materiale, persone che discutevano dei programmi scolastici inadeguati e che avevano studiato il Piano nazionale di ripresa e resilienza per comprendere quanto e come questo impatterà sulla scuola. «All’inizio non ci aspettavamo neanche questa presenza – racconta Tommaso accogliendoci e facendoci visitare l’istituto -. Il primo giorno abbiamo registrato oltre 500 ingressi, nonostante nella nostra scuola faccia sempre freddo e ci siano lavori di ristrutturazione da fare. E le presenze sono rimaste alte». Controllo del green pass e mascherina erano d’obbligo a dimostrazione di una responsabilità spesso assente in ambienti più “adulti”. Negli stessi giorni in cui il ministro della Transizione ecologica Cingolani criticava i programmi scolastici per cui «troppe volte si studiano le guerre puniche» e poco una non meglio precisata “cultura tecnica” tra le ragazze e i ragazzi si parlava d’altro. «I programmi sono inadatti alla…


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La scuola boccia Mario Draghi

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 19 Novembre 2021 Roma (Italia) Cronaca : Manifestazione degli studenti per chiedere maggiori investimenti nella scuola Nella Foto : la manifestazione di alcune scuole della capitale Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse November 19 , 2021 Rome (Italy) News : Student’s strike In the Pic : demonstration of some school of Rome

Dopo due anni di pandemia, i cui effetti continuano a manifestarsi, che ne è della scuola? Il senso di abbandono, di essere messi da parte, provato da insegnanti e studenti all’inizio di quel durissimo lockdown della primavera 2020 e poi continuato tra Dad, riaperture e chiusure, quarantene e banchi a rotelle, ricerca didattica e paradossi burocratici, ha trovato finalmente una risposta da parte dello Stato? Parrebbe proprio di no. E una conferma della fibrillazione che attraversa tutto il mondo della scuola è la proclamazione dello sciopero per il 10 dicembre.

Alcuni mesi fa la situazione sembrava diversa. Il 20 maggio era stato firmato dal ministro dell’Istruzione Bianchi e dai segretari generali dei sindacati Cgil, Cisl e Uil il “Patto per la scuola al centro del Paese”. Un titolo significativo, per un testo che conteneva 21 impegni precisi per rilanciare la scuola: dal reclutamento alla formazione, dalla riduzione delle classi numerose a «politiche salariali per la valorizzazione del personale dirigente, docente e Ata». Insomma, tanti buoni propositi in un momento in cui era iniziata la campagna vaccinale e si cominciava a intravedere una luce in fondo al tunnel.

Da quel Patto siamo arrivati alla legge di bilancio, definita dal sindacato un «autentico schiaffo per un milione e 200mila lavoratori e alle esigenze della scuola». La manovra da 33 miliardi non prevede infatti risorse per il rinnovo del contratto scaduto da tre anni e contempla solo un fondo per la “valorizzazione della professionalità dei docenti” di 240 milioni, che premia, si legge all’articolo 108, «in modo particolare la dedizione nell’insegnamento».

Un fondo di…


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L’unico Pnrr che funziona

Che alla fine della spesa di tutti i miliardi che ci arrivano dall’Europa il Paese rischi di essere ancora più diseguale lo continua a ripetere Frabrizio Barca (che di disuguaglianze se ne occupa con serietà) e lo stanno vivendo i lavoratori. Dicono che poi sarà tutto bellissimo, bisogna avere pazienza e sembra la favola della rana bollita.

Ma sicuramente c’é qualcuno che quatto quatto continua a incassare vittorie mentre intorno nessuno ne parla: Lorenzo Guerini. Un perfetto ministro della guerra che sembra trasparente eppure sta facendo ricchi i signorotti del settore, figlio della migliore (o peggiore, secondo i punti di vista) educazione democristiana per cui la pace si predica ma non bisogna mai commettere il peccato di farla davvero.

Come racconta l’osservatorio sulle spese militari italiane Milex nel corso del 2021 il ministro della Difesa del governo Draghi, Lorenzo Guerini, ha sottoposto all’approvazione del Parlamento un numero senza precedenti di programmi di riarmo: diciotto in tutto, di cui ben tredici di nuovo avvio, per un valore già approvato di oltre 11 miliardi di euro e un onere complessivo previsto di oltre 23 miliardi. Dando il via libera a questi programmi, quasi tutti trasmessi alle Camere a tambur battente nell’arco di otto settimane tra fine settembre e metà novembre (due trasmessi ad agosto), le Commissioni parlamentari competenti (Bilancio e Difesa) hanno autorizzato (o lo faranno entro fine anno) spese per quasi 300 milioni nel 2021 e oltre 400 milioni nel 2022. I pareri favorevoli sono stati espressi sempre all’unanimità.

A beneficiarne è soprattutto l’Areonautica militare per oltre 6 miliardi e mezzo di euro complessivi: dall’avvio della fase di ricerca e sviluppo del nuovo caccia di sesta generazione Tempest (2 miliardi dei 6 previsti) ai nuovi eurodroni classe Male, dai nuovi aerei da guerra elettronica Gulfstream alle nuove aerocisterne per il rifornimento in volo Kc-46, dal nuovo sistema di difesa aerea Nato al nuovo centro radar spaziale di Poggio Renatico.

Ben 2,4 miliardi di euro sono per i programmi interforze: i droni kamikaze per le forze speciali e soprattutto le nuove batterie missilistiche antiaeree basate sui missili Aster: il programma più caro, da oltre 2,3 miliardi di euro.

Come faceva notare Oxfam lo scorso aprile «se i governi rinunciassero alle spese militari per sole 26 ore, avremmo 5,5 miliardi di dollari a disposizione per salvare 34 milioni di persone dalla fame nei prossimi mesi in Paesi piegati da guerra, pandemia e cambiamenti climatici». Se poi teniamo conto che il cliente migliore rimane l’Egitto che ci uccise Giulio Regeni (dai 7,4 milioni di euro del 2017 ai 69,1 del 2018, agli 817,7 del 2019 sino a quasi un miliardo dello scorso anno) insieme a Paesi come il Qatar, il Turkmenistan, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, la Cina (peraltro oggetto di un embargo dell’Ue), la Turchia e Israele, ci possiamo rendere benissimo conto quanto interessi dalle parti del ministro Guerini la questione dei diritti umani.

Del resto stiamo parlando dello stesso ministero che in occasione della revoca dell’export di bombe e missili all’Arabia Saudita, accusata di crimini di guerra in Yemen dall’Onu ebbe il coraggio di scrivere: «Il dicastero della Difesa, in conclusione, rimarca come le recenti restrizioni imposte alle esportazioni verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, avendo suscitato perplessità presso le Autorità locali, possano configurare un potenziale rischio di natura economica per tutto il volume dell’export nazionale generalista verso i citati Paesi”. In parole semplici: sono preoccupati per le ricadute economiche, mica per i morti ammazzati.

Non è incredibile che di tutto questo non se ne parli? Non è incredibile che su questo tutto il Parlamento sia compatto e veloce?

Buona rinascita a tutti e buon lunedì.

 

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In fuga per la vita dalla Repubblica democratica del Congo

A group of Democratic Republic of Congo (DRC) asylum-seeker carry their belongings at the at the Bunagana border point in Uganda, on November 10, 2021 following a deadly fight between M23 rebels and DRC troops. - Thousands of people living near DR Congo's eastern border with Uganda fled their homes on November 8, 2021 after suspected insurgents attacked army positions, officials said. The attacks began at around 2000 GMT on Sunday with gunfire continuing into the night, sending desperate residents of Rutshuru territory in troubled North Kivu province fleeing over the border into Uganda. (Photo by Badru Katumba / AFP) (Photo by BADRU KATUMBA/AFP via Getty Images)

Dieumerci è il mio autista e mi indica l’altro lato della frontiera: un gruppo di montagne ricoperte di verde. Noi non possiamo attraversarla; nemmeno il mio passaporto opulento, rosso, mi può aiutare. La frontiera via terra è chiusa, causa Covid-19, ma per i circa 11mila profughi il governo ugandese ha aperto un corridoio umanitario.
Siamo a una decina di chilometri da Rutshuru a Nord del lago Kivu, nella Repubblica democratica del Congo (RdC), a pochi chilometri dal luogo dove è morto l’ambasciatore italiano Luca Attanasio.
Se voglio attraversare la frontiera, per vedere con i miei occhi cosa accade, posso tornare a Goma, capitale del distretto, e prendere un aereo.
Lui mi indica un punto imprecisato in mezzo alla foschia; il vento è fresco, siamo a milleduecento metri di altezza: da quella parte si nasconde la famiglia della sua ragazza, Yvette.
Era successo tutto troppo in fretta.
All’improvviso, a metà pomeriggio, del 7 di novembre; lei aveva sentito rumori di armi da fuoco. Proiettili, fucili mitragliatori e qualche esplosione: bombe a mano e bazooka. Il rumore si era avvicinato e lei aveva provato a informarne il fidanzato. Il telefono era morto, silenzio, come se la zona fosse stata sorpresa da un violento blackout.
Per prendere possesso del distretto sarebbe stato necessario conquistare alcuni luoghi strategici: l’ufficio del sindaco, il municipio, il quartier generale della polizia e quello dell’esercito. Interrompere le comunicazioni era parte della strategia.
Yvette, come i suoi vicini, era abituata a quelle scosse telluriche insorgenti: il segreto per sopravvivere è semplice: chiudersi in casa e allungarsi al suolo, sperando che i proiettili di rimbalzo colpiscano qualcun altro. In attesa che gli spari si rarefacciano e che uno dei due schieramenti alzi il proprio vessillo.
E poi?
E poi, non appena gli spari cessano, ci si ributta fuori a vivere, sostenendo di aver sempre dimorato sul carro del vincitore.
I racconti sono gli stessi da circa trent’anni.
La regione del lago Kivu è attraversata da un numero elevatissimo di gruppi armati (si parla di circa 300 organizzazioni che variano dai tre ai quattromila militanti).
Il gruppo armato M23, che ha rivendicato l’attacco del 7 e 8 novembre, ha conquistato almeno quattro villaggi. L’esercito regolare ha fatto una ritirata strategica, ma quanto di tutto questo sia vero non me lo può confermare nemmeno la mia guida. La guerra non si combatte solo con i proiettili, ma anche con i comunicati stampa.
Ogni gruppo attore della guerriglia regionale cerca di…


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Il genocidio mascherato

BRUSSELS, BELGIUM - JUNE 10: A statue of Belgian King Leopold II is defaced following an anti-racism protest, in solidarity with U.S. anti-racist protests over George Floyd's death, in Brussels, Belgium on June 10, 2020. (Photo by Dursun Aydemir/Anadolu Agency via Getty Images)

«Come forma e figura, atto e relazione, la colonizzazione è stata, per molti versi, una coproduzione di coloni e colonizzati. Insieme, ma con posizione diverse, hanno forgiato un passato. Tuttavia avere un passato in comune non significa necessariamente averlo in condivisione».
Si apre così il rapporto sul passato coloniale del Belgio nell’attuale Repubblica democratica del Congo depositato il 26 ottobre dalla commissione di esperti davanti al Parlamento belga; con una citazione del filosofo camerunense Achille Mbembe, in cui si trova riassunta l’essenza stessa di un fenomeno tanto complesso quanto violento, le cui conseguenze sono ancora vive nell’humus socio-culturale del paese africano.
Il panel di esperti della “Commissione speciale incaricata di analizzare lo Stato Libero del Congo e il passato coloniale belga in Congo” composto da studiosi, antropologi e storici del colonialismo, dietro incarico del governo di Bruxelles, ha tracciato in poco meno di 650 pagine uno spaccato analitico dell’esperienza coloniale raccolta tra il 1885, anno di istituzione dello “Stato Libero del Congo”, proprietà privata del re Leopoldo II, e il 1960, data ufficiale dell’indipendenza congolese.

Quanto si evince dal rapporto è l’ennesima conferma di una storia tristemente nota ma mai prima d’ora approfondita con tanta analisi: l’imperialismo belga ha rappresentato uno degli eventi più violenti, brutali e opprimenti della storia globale moderna e contemporanea.
Più di otto milioni di morti tra la popolazione locale, un sistema di tortura e violenza sessuale istituzionalizzato su ogni livello dello sfruttamento produttivo e un impoverimento trasversale di una terra naturalmente ricca (solo nel 1903 furono prodotte ed esportate ben 5.900 tonnellate di gomma, mentre tra il 1884 e il 1904 furono inviate in Europa 445mila zanne di elefante).

Uno scenario macabro che Mark Twain già nel 1905 ne Il soliloquio di re Leopoldo definiva «genocidio mascherato» e le cui conseguenze si respirano ancora oggi all’interno del Paese africano, caratterizzato da un sistema socio-politico che definire fragile è un eufemismo.
La Repubblica democratica del Congo, secondo il rapporto del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp), attualmente si classifica 175esima su 189 Paesi in termini di indice di sviluppo umano, con un tasso di analfabetismo che sfiora il 25% della popolazione (45% per le donne) e una media di settanta neonati ogni mille nati vivi che non superano l’anno di vita. Tutto questo mentre il sottosuolo ricco di minerali continua a garantire il 70% della produzione mondiale di cobalto (una delle materie prime essenziali per la fabbricazione di componenti elettroniche), con circa 100mila tonnellate di minerale estratte ed esportate nel solo 2020, e multinazionali come Tesla, Bmw e Samsung che si assicurano forniture astronomiche per…


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Feng Tang: La mia sfida contro il tempo

Amato e criticato per il suo stile sfrontato e irriverente, Feng Tang viene spesso presentato come una delle voci più interessanti e controverse della letteratura cinese contemporanea. Autore ancora poco conosciuto in Italia, gode di uno straordinario successo in patria: ha scritto romanzi, racconti brevi e poesie, i suoi lavori hanno ispirato serie tv e film di grande popolarità. In italiano è stato pubblicato il romanzo di formazione Una ragazza per i miei 18 anni e Palle imperiali, una raccolta di racconti, edita da Orientalia che sarà presentata a Più libri più liberi, a Roma il 6 dicembre. Quattro racconti che fendono il tempo aprendo un dialogo tra passato, presente e futuro, con storie di fantasia che smascherano la cruda realtà. La violenza delle immagini descritte si alterna ad una pungente ironia, in un continuo gioco di rimandi alla tradizione e al suo rovesciamento. Diverso nel genere ma non nello stile, Una ragazza per i miei 18 anni fa rivivere sulla propria pelle quella tempesta da cui si è travolti durante l’adolescenza. È un romanzo di formazione appartenente alla Trilogia di Pechino che racconta di Qiushui e del suo gruppo di amici, tra scuola, ragazzate e primi amori, la scoperta della sessualità e del mondo che li circonda, in un incontro-scontro con la società incastrata tra il vecchio e il nuovo. Seppur ancorati alla dimensione pechinese degli anni Ottanta-Novanta, i personaggi ci restituiscono emozioni e sensazioni familiari, facendo al tempo stesso scoprire al lettore la Cina di ieri.
In attesa di incontrarlo alla fiera della piccola e media editoria di Roma Feng Tang ci racconta la sua visione del mondo, della letteratura e dello scrivere.

Feng Tang, medico, imprenditore, scrittore affermato. Dopo il dottorato in medicina ha studiato business management negli Stati Uniti, come ha iniziato a scrivere?
In realtà cominciare è stato facile, tutto ciò che sento, ciò che mi appassiona, lo riverso nelle parole. Dagli Stati Uniti sono andato a lavorare ad Hong Kong proprio quando l’economia cinese stava decollando, un periodo in cui a Pechino si demoliva e si costruiva molto. Ogni volta che vi tornavo, scoprivo che quel vicolo non c’era più, quel salice era svanito, anche i tramonti di quando frequentavo le ragazze avevano cambiato colore. La Pechino della mia infanzia e adolescenza era stata spazzata via di colpo, rimaneva solo nei miei ricordi. Scavando nella memoria, tra le emozioni, ho cominciato a…


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Antonio Cederna, quante idee geniali per Roma

Si può affermare che Antonio Cederna sia la metafora dell’impegno di tutta una vita per la salvaguardia del patrimonio culturale e ambientale del Paese, portato avanti instancabilmente attraverso una immensa produzione di articoli, libri, scritti, interviste, iniziata sistematicamente sulla rivista Il Mondo, dal 1949 al 1966, poi sul Corriere della Sera e quindi su La Repubblica e L’Espresso; inoltre, nella partecipazione all’attività delle associazioni, a cominciare da Italia Nostra, e nel ruolo politico svolto da consigliere comunale e deputato.
Negli anni di collaborazione con Il Mondo si delinea il perimetro dei suoi interessi che, in fondo, coincidono con l’urbanistica moderna: moderna è l’aggettivo che Cederna non dimentica mai di abbinare all’urbanistica che ama. Un’urbanistica dagli orizzonti vastissimi: tutto lo spazio vissuto dall’uomo, la sua storia, le sue regole. Come esprime nell’introduzione del libro I vandali in casa (prima edizione 1956, nuova edizione Laterza curata da Francesco Erbani nel 2006), testo fondativo della moderna cultura urbanistica in cui Cederna sostiene l’inscindibile unitarietà degli insediamenti storici. Impostazione ripresa e perfezionata nella relazione scritta con Mario Manieri Elia per il famoso convegno di Gubbio dell’Ancsa, Associazione nazionale centri storico artistici, del 1960.
A Roma Cederna dedica il meglio di sé. «La mia Roma è quella che ci deve essere e quindi bisogna dare ogni sforzo perché diventi quella che deve diventare e non quella che molti cercano di distruggere»: così risponde in una intervista sulla rivista Ieri oggi e domani nel 1992.
Per Roma vogliamo ricordarlo, specialmente, nella circostanza dei cento anni della sua nascita (Milano 1921), rileggendo e facendo conoscere i suoi scritti affinché intervenga ancora, esortandoci (come usava fare) a non dimenticare che dobbiamo occuparci di Roma, indicando modelli e soluzioni possibili da attuare, per costruire con pazienza e coraggio il cambiamento.
I suoi scritti sono ancora vibranti e di piena attualità; ne possiamo usufruire anche grazie all’Archivio conservato presso l’Appia Antica, a Capo di Bove, disponibile on line (www.archiviocederna.it), e alle realizzazioni tecnologiche, come la storymap con la geolocalizzazione degli articoli, curata dal figlio Giulio.
Due suoi libri, Mirabilia urbis (Einaudi) e Mussolini urbanista (Laterza), trattano solo della capitale e senza misericordia: «Un’orrenda contraffazione di città», è una delle definizioni. Ma pochi hanno amato Roma con la sua lucida passione. L’idea che Cederna aveva della capitale del terzo millennio l’ha disegnata compiutamente nella proposta di legge per Roma capitale dell’aprile del 1989, nel ruolo di deputato indipendente del Pci, con una relazione che è…


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