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Una Repubblica fondata sulla strage

Filippo Falotico aveva 20 anni. Viveva con la famiglia. Amava le gru. Appena aveva potuto, aveva cominciato a lavorare nell’azienda del padre che noleggia gru come montatore. Operaio specializzato. Marco Pozzetti era di Carugate in provincia di Milano. Aveva 54 anni. E poi c’era Roberto Peretto, di Cassano d’Adda (Milano), 52 anni. Tutti e tre sono morti sul colpo da una gru crollata a Torino per cause ancora da accertare che è collassata ribaltandosi in strada. Quasi miracolati due passanti: un uomo di 33 anni estratto vivo dalle lamiere della sua auto travolta da alcuni pezzi della gru, e una donna di 61 anni colpita da un calcinaccio. Le urla per strada dei passanti sono un inferno.

L’emergenza nazionale sono le morti sul lavoro di un sistema che va cambiato, che tutti dicono di cambiare e che non cambia mai. Ogni volta che qualcuno propone interventi di legge uno stuolo di imprenditori (e i loro camerieri in Parlamento) ci dicono che la sicurezza rallenta la loro dea Produttività. Ogni volta siamo qui, sempre, il giorno dopo a piangere. Passano gli anni e siamo sempre qui a discutere dei subappalti selvaggi, dei controlli che mancano, della “patente a punti” per la sicurezza delle imprese che Confindustria e compagnia bella ritengono “discriminatoria”. Tutti che parlano dei no vax e nessuno che si prende la briga di occuparsi dei no lex che stanno sui cantieri (mentre il doping dei cantieri li sta moltiplicando in tutta Italia).

Si parla della gru di Torino ma 3 giorni fa è  morto un operaio edile di 59 anni a Ischia, mentre lavorava in un cantiere di Forio; sulla statale Appia all’altezza di Massafra è morto un uomo di 51 anni mentre spostava una gru da un camion, Pierino Oronzo di 55 anni è morto ustionato nel Salernitano mentre stava effettuando lavori di posa di una guaina su un immobile, Adriano Balloi, 60 anni, di Tortolì, è rimasto incastrato sotto un escavatore.

«Abbiamo iniziato una vigilanza da qualche mese da cui risulta che oltre 9 imprese edili su 10 non sono regolari». Il dato è annunciato dal direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl), Bruno Giordano, intervistato dal Tg3 sulla sicurezza nei cantieri e le morti sul lavoro.

Bisognerebbe pubblicare anche le loro buste paga sui giornali, insieme alle foto. Bisognerebbe scrivere a caratteri cubitali anche i loro stipendi. Sempre che una busta paga ce l’abbiano davvero, poiché due di queste sei vittime lavoravano in nero.

Chissà se vedendo i loro stipendi quelli che contestano i lavoratori scesi in piazza o quelli che continuano a raccontarci che in Italia la gente si lamenta perché non ha voglia di lavorare non si vergognerebbero almeno un po’ di essere i mefitici cantori di una Repubblica fondata sulla strage.

Siamo a più di mille morti, quest’anno. La ripresa, qui da noi, la vedi nell’impennata delle vittime collaterali.

Buon lunedì.

Nella foto: Roberto Peretto, Marco Pozzetti e Filippo Falotico

Lena Merhej: «Racconto Beirut e le sue mille culture»

Un disegno è certamente fermo, forse colorato. Immaginate invece di seguire il processo creativo in movimento, dalla prima linea all’ultimo punto di colore. È proprio quello che è accaduto il 4 dicembre, uno spettacolo unico di live drawing guidato dalla mano di Lena Merhej, abilmente accompagnata dalla musica di Afif Ben Fekih. Non si erano mai incontrati prima, ma in perfetta armonia hanno dato vita a una trascinante esplosione di colori e note all’interno di Kif Kif, uno spazio multiculturale del quartiere Pigneto di Roma. L’evento ha segnato l’ultima tappa del tour del graphic novel edito da Mesogea Marmellata con laban (come mia madre è diventata libanese), che ha portato l’autrice Lena Merhej, insieme alla traduttrice Enrica Battista, in giro per l’Italia: Napoli, Palermo, Rovereto, Bologna, Pisa e infine Roma. «Penso che incontrare tutte queste persone, discutere con loro della storia (del libro) e rispondere alle domande sulla scrittura e su cosa significhi essere una scrittrice mi ha davvero fatto riflettere. Per quanto riguarda le risposte, ci sto ancora lavorando, ma penso che qualcosa stia cambiando ed è bello!», racconta l’autrice a Left dopo l’incontro romano.

Lena Merhej, classe 1977, è una illustratrice e fumettista libanese che attualmente vive a Marsiglia. Nasce come grafica, poi si interessa all’illustrazione per l’infanzia, quindi alla scrittura di storie e infine al fumetto. Ha sempre letto fumetti in francese e, a un certo punto, è nato in lei il desiderio di iniziare a scrivere, anche se in un primo momento è stato difficile proporsi, essendo sempre stata solamente un’illustratrice.
Ha elaborato il suo primo graphic novel nel 2006, durante la guerra con Israele; la storia è nata da una reale esigenza e urgenza di scrivere e ha intitolato l’opera Credo che saremo tranquilli alla prossima guerra. Nel 2007, insieme ad altri artisti, ha fondato in Libano una rivista di fumetti per adulti, Samandal, che sarà pioniera nel mondo arabo diffondendo una scena di fumetto underground indipendente. Nel 2011 pubblica il graphic novel Marmellata con laban, nel quale racconta di sua madre, tedesca, arrivata in Libano negli anni della guerra civile. Il libro è approdato in Europa nel 2018, tradotto prima in francese, poi in spagnolo e, esattamente dopo dieci anni, è arrivata la prima pubblicazione italiana a cura di Maria Rosaria Greco. La traduttrice dall’arabo Enrica Battista racconta di aver conosciuto Lena come illustratrice di libri per bambini e ragazzi, a Beirut, e di aver così iniziato a seguire la sua produzione fino alla svolta fumettistica.
Una ricca carriera quella di Lena Merhej, alla quale chiediamo come sia cambiato oggi il suo rapporto con il libro da quando è uscito in Libano: «Al tempo desideravo terminare qualcosa che…


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Vladan Radovic: Dipingere con la luce

Vladan Radovic è oggi uno dei più influenti e innovativi autori della fotografia del cinema italiano. Il volume Arcobaleni grigi e nuovi colori, conversazione con Vladan Radovic, curato da Ludovico Cantisani per Artdigiland edizioni, ne ripercorre la carriera dagli insegnamenti del leggendario Peppino Rotunno, al Centro sperimentale di cinematografia, fino alla recentissima serie Romulus, passando per i sodalizi con Francesco Munzi, Laura Bispuri e Matteo Rovere, gli incontri con Paolo Virzì, Gianni Zanasi, Salvatore Mereu, Ruggero Dipaola, Saverio Costanzo, l’avventura nella commedia con Sydney Sibilia. Fino al Traditore di Marco Bellocchio, che Vladan ha accompagnato a Cannes nel 2019. Aspetti tecnici ed estetici della fotografia, vengono approfonditi in un vero e proprio “state of the art” del cinema italiano contemporaneo. Il libro, realizzato con il sostegno di Arri e D-Vision Movie People, sarà presentato domenica 19 dicembre alle ore 18 alla Casa del Cinema, a Roma

Radovic, come è nata l’idea di questo libro?
Ho sempre scoperto tante cose del mio lavoro attraverso i critici cinematografici. Succedeva spesso durante i festival. Il giorno dopo la proiezione con molta curiosità andavo a leggere come la critica avesse giudicato il film e quando trovavo osservazioni sulla fotografia mi rendevo conto della lettura e della potenza che poteva avere un’immagine. Quando Ludovico Cantisani, giovane critico cinematografico, mi ha proposto insieme a Silvia Tarquini, l’editrice, di fare questo libro intervista ho accettato perché sapevo che avrei scoperto le cose nuove sul mio lavoro.

Che cosa non sapeva di aver realizzato?
Io normalmente faccio la trasposizione dalle parole alle atmosfere visive ma in questo caso dovevo fare il processo inverso; descrivere il mio lavoro a parole, senza l’ausilio di luce. Mi ha fatto scoprire molte cose del mio lavoro. Le immagini che creo durante le riprese del film non sono belle se sono troppo ragionate, cerco di affidarmi all’istinto a qualcosa di non concreto e questo tipo di processo creativo mi dà dei risultati originali. Spesso questi risultati, come dicevo prima, vengono riscoperti dai critici e solo in quel momento ho un’idea chiara di…

Nella foto di Francesca Fago: Romulus Caravaggio


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Elda Alvigini debutta con “InutilmenteSfiga”

SAMSUNG CSC

InutilmenteSfiga è il nuovo spettacolo con cui l’attrice, autrice e regista Elda Alvigini torna in scena, il 19 dicembre a Roma, one night in Largo Venue (con la produzione del Teatro le Maschere dove approderà tra il 10 e il 13 marzo 2022).

InutilmenteSfiga è diverso dai suoi precedenti spettacoli. Può spiegarci come è nato?
InutilmenteSfiga nasce nell’estate 2015, grazie a diverse persone che mi hanno spinto ad uscire dalla “zona di comfort” chiedendomi, non solo di scrivere, ma di mettermi alla prova come attrice con la stand-up comedy. In particolare, è stata la collega Cristiana Vaccaro a darmi il la, coinvolgendomi in una manifestazione estiva di teatro. Certo, coltivo da anni la passione per la scrittura e ho sempre contribuito alla stesura dei miei spettacoli, però quell’invito ha rappresentato l’occasione per “fare di più” come autrice e come attrice. Rispetto al teatro tradizionale, nella stand-up comedy l’attore è solo di fronte al pubblico, senza la mediazione – protezione degli apparati scenici.

Cosa ha significato per lei scrivere lo spettacolo interamente da sola?
La scrittura ha assunto un valore catartico. Mi è servita per esorcizzare una serie di vicende negative. Mettendole nero su bianco, le ho elaborate, osservate da un altro punto di vista, insomma, ho fatto una separazione. Penso che la comicità autentica consista in un ribaltamento della prospettiva che deriva da un profondo lavoro interiore, un processo di trasformazione e crescita personale. La capacità di cambiare punto di vista, per me, è correlata alla capacità di reagire, indispensabile in una realtà che ci mette continuamente alla prova. Una qualità costitutiva dell’essere umano ma comunque diversa in ogni persona, a seconda della propria immagine interna, della visione del mondo, delle priorità che ci si pone. Inoltre, affrontare degli eventi gravi, difficili, è sicuramente complesso ma, nello stesso tempo, può diventare un’opportunità per crescere, superare i propri limiti e, magari, scoprirsi migliori di quello che si pensava. Alla luce di queste considerazioni posso dire che la risata del pubblico per me è una vittoria, la conferma che il mio messaggio è arrivato al cuore e che il ribaltamento che ho attuato è stato efficace e benefico anche per altri.

Come ha reagito Elda Alvigini alla pausa forzata a causa del Covid?
La reazione principale è stata quella di…


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Le radici arabe della scienza europea

Polylobed arches are finely engraved with quranic golden inscriptions

Molti lo hanno definito il “rinascimento islamico” e considerano la scienza prodotta nel corso dei primi secoli dell’Islam come una ripartenza – un rinascimento, appunto – della scienza mediterranea fiorita in epoca ellenistica. Alcuni nomi – al-Khwārizmī, il grande matematico; al-Kindī, il grande fisico; al-Farghani e soprattutto al-Battānī, i grandi astronomi; ibn Sīnā, noto in Occidente come Avicenna, è un grande alchimista; i grandi medici, come al-Bīrūnī – sono degni di figurare nei manuali di storia della scienza accanto agli Euclide e Archimede o Galileo e Newton.
Già, perché la definizione di “rinascimento islamico” della scienza è certo intrigante, ma coglie solo una parte della realtà. L’Islam, infatti, non si limita a prendere il testimone della scienza lasciato cadere dai Greci e, soprattutto, dai Romani. Ma mostra una sua propria “creatività scientifica”. Il “rinascimento islamico” ha infatti molti caratteri originali, che vengono alla luce per la prima volta in un mondo tanto variegato che spesso, esteso com’è dalla penisola iberica all’Indo e al Gange, ha in comune solo la lingua araba. Inoltre questi caratteri originali si fondano e si fondono sia su e con elementi della scienza ellenistica sia su e con elementi della scienza prodotta in altre regioni del mondo. In Cina, in India e, soprattutto, in Persia.
Più che di un rinascimento, dunque, quella realizzata dai matematici, dagli astronomi, dai chimici, dai medici dell’Islam è una vera e propria rivoluzione. Un ramo importante di quel ricco cespuglio di rivoluzioni – mai del tutto indipendente, ma mai del tutto linearmente conseguenti – che caratterizzano la storia della scienza…
Gli Arabi non combattono, ma accettano le altre religioni presenti nei vasti territori occupati. Tollerano, in particolare, le religioni monoteistiche, quella ebraica e quella cristiana. Certo, nel nuovo impero molte sono le conversioni all’Islam. Ma nessuna o quasi è forzata: «Non deve esserci costrizione nella religione», sostiene il dogma musulmano. Analoga tolleranza – anzi, un’autentica generosità -i conquistatori esprimono in ambito culturale. L’Islam non impone alcun che a chi musulmano non è. E sebbene le classi dominanti arabe siano militari e si arricchiscano con i bottini di guerra, nel corso dell’espansione non si verifica alcuna operazione sistematica di distruzione. La tolleranza consente il contagio culturale. E, in definitiva, la nascita di una nuova cultura – la cultura islamica – che assume in sé i saperi e le visioni del mondo dei popoli conquistati, ma non è la semplice somma di quelle culture.
La lingua araba, la lingua del Corano, è il…


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Stare bene a scuola, oltre la pandemia

TURIN, ITALY - SEPTEMBER 13: Young people wear protective masks inside a school classroom with separate desks for social distancing measures to prevent COVID 19 inside on September 13, 2021 in Turin, Italy. An estimated four million students return to school in Italy as classes reopen. The vaccine certificate, called green pass in Italy, is compulsory for teachers and for anyone accessing schools, parents included. 93% of school staff are vaccinated and two-thirds of young people between 12 and 19 have received their first dose. The gradual re-opening will see all educational institutions reopen by the 20th of September. (Photo by Stefano Guidi/Getty Images)

Come prevedibile, il rientro a scuola in presenza è stato difficile. Con l’avvicinarsi dell’anno scolastico, al di là dell’aspetto organizzativo, si era già creata un’atmosfera di preoccupazione per il vissuto psicologico dei giovani. Il quadro che si presentava vedeva il ministero impegnato nel potenziamento degli sportelli di ascolto, i genitori allarmati, gli insegnanti in difficoltà e i dirigenti in bilico nello scontro sempre più frequente fra famiglia e scuola: offrire ascolto ai genitori o sostenere i docenti? Ma è responsabilità del Covid e della didattica a distanza? O per comprendere la situazione occorre pensare che le criticità di oggi vengono da lontano?

La sintomatologia ansiosa a scuola è significativamente cresciuta e nostro compito è cercare di individuare precocemente i casi, saper offrire risposte e ridurre al minimo le conseguenze. Tuttavia, senza negare la realtà, è bene non credere al messaggio negativo totalizzante che ci circonda. Intanto, non tutti i ragazzi hanno vissuti emotivi che destano preoccupazione: accanto a chi appare più sofferente ed ha bisogno di aiuto, vi è, secondo le ricerche che hanno indagato dalla prima alla terza ondata, una buona parte di giovani che ha saputo e sa reagire bene. Una percentuale di studenti che appare svogliata e demotivata può, infatti, anche essere espressione di un rapporto esatto con la realtà. Sarebbe forse dissonante e incongruo vederla spensierata.

Vi sono poi giovani che, francamente sofferenti, destano maggiore preoccupazione. Ma anche in questo caso le cause hanno radici profonde. La Società italiana di neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza ha da poco concluso un congresso dal quale è emerso non solo il dato attuale, ossia che nei primi 9 mesi del 2021 i ricoveri hanno superato quelli di tutto il 2019; ma anche il quadro pregresso, ossia che negli ultimi dieci anni sono raddoppiati i casi di ragazzi seguiti in neuropsichiatria. Non è tanto l’attualità che va allora letta con sguardo clinico, quanto una tendenza. Non un aspetto puntiforme da impatto Covid, quanto piuttosto un andamento in crescita del malessere. La pandemia di per sé non fa disturbo psichico: il Covid è il terremoto che fa crollare la casa pericolante quando vi siano vulnerabilità associate e la Dad ha aperto il vaso di Pandora della scuola.
In ambito scolastico sarebbe opportuno lavorare su due piani: da una parte mantenere un atteggiamento positivo e valorizzare i…


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Il caso Assange e la parodia della giustizia

A view of a banner Julian Assange supporters fixed to a railing, outside the High Court in London, Friday, Dec. 10, 2021. Britain’s High Court is set to rule on whether to overturn an earlier decision and allow WikiLeaks founder Julian Assange to be sent to the United States to face espionage charges. A lower court judge earlier this year refused an American request to extradite Assange to the U.S. to face spying charges over WikiLeaks’ publication of secret military documents a decade ago. (AP Photo/Frank Augstein)

Il 10 dicembre 2021, Giornata internazionale dei diritti umani, l’Alta corte del Regno Unito ha accolto l’appello degli Stati Uniti contro la decisione di non estradare Julian Assange, rimandando dunque l’esame a una corte di grado inferiore.

A ricorrere all’Alta Corte era stato il team legale statunitense, che si opponeva al divieto di estradizione fondato sul possibile pericolo di suicidio di Assange nelle carceri degli Usa. I giudici britannici hanno accolto le rassicurazioni sul trattamento in carcere di Assange, una volta che fosse estradato negli Usa.

Siamo di fronte a una vera e propria parodia della giustizia. L’Alta corte britannica ha scelto di accettare le presunte rassicurazioni degli Usa secondo le quali Assange non sarebbe posto in isolamento all’interno di una prigione di massima sicurezza. Il fatto che gli Usa si siano riservati il diritto di cambiare idea in qualunque momento significa che tali rassicurazioni valgono meno del pezzo di carta su cui sono state scritte.

Se estradato negli Usa, Assange potrebbe affrontare 18 capi d’accusa: 17 ai sensi della Legge sullo spionaggio – e si tratterebbe del primo soggetto editoriale incriminato in tale modo – e uno ai sensi della legge sulle frodi e gli abusi informatici. A prescindere dalle rassicurazioni di cui sopra, rischierebbe di subire gravi violazioni dei diritti umani tra cui condizioni detentive, come l’isolamento prolungato, che potrebbero equivalere a maltrattamento o tortura.

La richiesta di estradizione da parte degli Usa si basa, come noto, su accuse riferite direttamente alla pubblicazione di informazioni riservate da parte di Assange nell’ambito del suo lavoro con Wikileaks: oltre 251mila documenti diplomatici statunitensi, molti dei quali etichettati come “confidenziali” o “segreti” e relativi a crimini di diritto internazionale commessi dalle forze Usa in teatri di guerra. Su tali crimini, per inciso, non…

*L’autore: Riccardo Noury è portavoce Amnesty International Italia 

 


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Emissioni di guerra

An oil platform in Israel's offshore Leviathan gas field is seen from on board the Israeli Navy Ship Atzmaut as a submarine patrols, in the Mediterranean Sea, Wednesday, Sept. 1, 2021. One of the navy’s most important responsibilities is protecting Israel’s natural gas platforms in the Mediterranean Sea, which now provide some 75% of the country’s electricity. (AP Photo/Ariel Schalit)

«In questo nuovo mondo, di fronte a questa sua atipica ma quotidiana conflittualità, ambiguo ed insidioso connubio tra pace e guerra, l’Italia ha il diritto ed il dovere di far sentire la sua costante presenza, di intervenire per portare un contributo originale di valori e di opere alla costruzione del proprio benessere e di quello di tutti gli altri popoli».
Questa frase campeggia nel sito del ministero della Difesa italiano nella sezione “Missioni di pace nel mondo, Ieri e Oggi”. È la retorica del peacekeeping. Oramai è una costante di ogni intervento militare, soprattutto per i Paesi europei, dove la società civile è sempre meno incline ad accettare l’utilizzo e il sacrificio dei propri soldati in contesti di crisi lontani. Ma se oramai l’abuso di questa formula e l’evidente ipocrisia del mondo occidentale hanno reso questa scusa sempre più debole agli occhi dell’opinione pubblica, un recente rapporto pubblicato da Greenpeace (The sirens of oil and gas in the age of climate crisis) ha strappato gli ultimi residui di quel velo di Maya che copre l’interventismo militare dei Paesi più industrializzati. Interventismo, per inciso, sempre a danno di regioni del pianeta ricche di risorse, idrocarburi in primis.

Questo ovviamente vale sia per l’Unione europea che, soprattutto, per l’Italia. Vediamo in che termini. Secondo il report, circa il 66% delle operazioni militari europee servono in massima parte a tutelare attività di ricerca, estrazione e importazione di gas e petrolio nel nostro continente. E il nostro Paese è ai primi posti tra i 27 con il 64% del budget militare impiegato in operazioni di tutela della nostra «sicurezza energetica». In pratica parliamo di circa 797 milioni spesi nel 2021 (2,4 miliardi negli ultimi 4 anni). Seguono la Spagna con 274 milioni di euro (26%) e la Germania 161 milioni (20%). I ricercatori di Greenpeace (guidati per la sezione italiana da Sofia Basso) hanno passato al setaccio i documenti e le schede di missione inviate dal governo italiano al Parlamento e se ovviamente nessuna di queste ha l’esclusivo obiettivo di proteggere le piattaforme Eni, la sicurezza energetica compare spesso tra i fini da raggiungere.

Il caso più eclatante è Mare sicuro, la missione che si svolge nel mar Mediterraneo a largo delle coste libiche. Sempre secondo il sito del ministero «i compiti della missione sono le attività di supporto e di sostegno alla Guardia costiera e alla Marina militare libiche per il contrasto dell’immigrazione illegale e del traffico di esseri umani»; mentre, secondo i…


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Cuba, il vaccino per i bambini ignorato dall’Occidente

A nurse shows a vial of the Cuban made Soberana-02 vaccine for COVID-19 before giving a girl a dose of it in Havana, Cuba, Tuesday, Aug. 24, 2021. (AP Photo/Ramon Espinosa)

Pochi giorni fa M. è tornato finalmente a respirare da solo, senza l’aiuto di macchine, respiratori automatici o dei caschi usati nelle terapie sub-intensive. M. è un ragazzino di soli 11 anni che dall’8 novembre è ricoverato nella rianimazione dell’Ospedale pediatrico Santobono di Napoli dopo essersi ammalato di Covid. All’arrivo era in una situazione difficilissima, a rischio della sua stessa vita. Da qualche giorno, per fortuna, è in costante miglioramento. Festeggerà finalmente il suo undicesimo compleanno, anche se lì in reparto e senza poter ovviamente soffiare sulle candeline. E anche se lo farà in ritardo rispetto alla sua data di nascita, 20 novembre, lui, la sua famiglia e i suoi amici hanno di che esser felici e di che festeggiare.
M. non è purtroppo l’unico bambino in Italia ad aver sofferto e a soffrire a causa del Covid-19. Per quanto il coronavirus finora abbia inciso meno nei bambini che negli adulti, nel nostro Paese nella fascia d’età 0-19 abbiamo già pianto 35 morti. I numeri poi di bambini o adolescenti passati per terapie intensive (252), ospedalizzati (2.088) o comunque contagiati (235.157) che fornisce l’Istituto superiore di sanità restituiscono il quadro di un virus che non dispensa i bambini.

Alla luce di questi dati, a fronte della campagna di vaccinazione dei minori over 12 e del dibattito su quella per i minori under 12 rasenta l’incomprensibilità il silenzio che avvolge i vaccini non occidentali destinati a queste fasce di età, in particolare il cubano Soberana 02, che ha una caratteristica che lo rende di fatto unico al mondo. Si tratta, infatti, dell’«unico vaccino coniugato contro Sars-Cov-2, disegnato pensando direttamente alla popolazione pediatrica», per usare le parole del ricercatore del Cnr Fabrizio Chiodo, che ha partecipato in prima persona allo sviluppo dei vaccini con l’istituto epidemiologico Finlay de L’Avana. Tanto più appare sconcertante la “censura” occidentale se si considera che nelle ultime settimane la situazione dei contagi nella popolazione più giovane risulta in costante peggioramento. Se a fine ottobre il 24% dei contagiati era under 20, a fine novembre la percentuale era già salita al 30%, con particolare rilievo per la fascia 5-11 anni, che conta quasi il 50% dei contagi registrati nella popolazione minorenne.
Più aumentano i contagi tra giovani e giovanissimi, più avanza il…


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Guerini, il fuoriclasse del galleggiamento

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 12-10-2016 Roma Politica Camera dei Deputati - Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi riferisce sul prossimo Consiglio Europeo Nella foto Matteo Renzi, Lorenzo Guerini Photo Roberto Monaldo / LaPresse 12-10-2016 Rome (Italy) Chamber of Deputies - Statements of the Prime Minister Matteo Renzi on the next European Council In the photo Matteo Renzi, Lorenzo Guerini

Siamo nell’epoca in cui la tiepidezza è una virtù. Non è una roba nuova: la scala dei grigi ha partorito presunti leader che avevano così le mani libere per poter dire tutto e il contrario di tutto e quando la politica diventa semplicemente l’arte del galleggiamento e dell’autopreservazione essere incolori e insapori è un asso nella manica. Ora mettiamoci anche l’avvento dei migliori, il fingersi tecnici per non essere costretti a prendere posizioni politiche e così avrete il menu perfetto per sfondare.

La starlette di questo tempo è senza ombra di dubbio il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, e il fatto che non ne abbiate mai sentito parlare significa che l’immersione è stata vincente: fare politica senza farsi vedere è una medaglia da indossare, di questi tempi. Mica per niente Guerini ama definirsi «politico di provincia», sempre intento a smussare lo smussabile per arrotondarsi e stare bene su tutto. Così quel giovane consigliere comunale a Lodi nel 1990 è riuscito a passare indenne alle tempeste senza sgualcirsi il colletto. Ragioniere, laureato in Scienze politiche alla Cattolica di Milano, ufficialmente assicuratore di professione ma da sempre politico a tempo pieno Lorenzo Guerini è lo scaricatore di amicizia più veloce del west solo che a differenza del suo antico nume tutelare Matteo Renzi riesce a farlo con una grazia morbidamente cattolica che non gli incrina la nomea del bravo ragazzo. Da politico più potente del lodigiano si è scrollato di dosso Gianpiero Fiorani (mentre quello affogava con la Banca Popolare di Lodi) come se fosse uno sbuffo di forfora.

Rieletto sindaco nella sua città promise solennemente a tutti gli iscritti del Partito democratico che mai e poi mai avrebbe ceduto alle tentazioni romane. Promessa non mantenuta. Mentre fingeva di essere il ragazzetto di provincia con le braghette corte prese la vice direzione del partito e divenne l’amico più fidato di Matteo Renzi (un altro con una visione mefistofelica dell’amicizia in politica) per il quale tesseva trame adottando sempre il solito copione: mentre Renzi faceva lo spaccone lui ripeteva ossessivo la sua litania di dover «trovare una sintesi» e di «lavorare per un’intesa». Fa niente che poi nel frattempo Renzi abbia ribaltato tutto per davvero, martellando un Pd poi lasciato malconcio: Guerini riesce a mantenere sempre intatta la sua fedina politica, un fantasma sempre capitato lì per caso. Dentro il Pd dopo il successo di Renzi con il 40% alle europee molti sorridevano sentendo “Arnaldo” (così lo chiamava Renzi in omaggio a Forlani) ripetere che…


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