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I bambini e le donne afgane sono sempre le prime vittime

Afghan women and children receive bread donations in Kabul's Old City, Afghanistan, Thursday, Sept. 16, 2021. (AP Photo/Bernat Armangue)

Il 15 agosto, quando i talebani hanno preso il controllo di tutto l’Afghanistan, i Paesi europei hanno evacuato migliaia di persone dall’aeroporto internazionale di Kabul. L’Italia è stato uno dei Paesi che hanno contribuito di più, favorendo la partenza di oltre 5mila afgani che avevano lavorato con il governo italiano e di numerose persone che erano ad alto rischio. Il governo italiano ha compiuto un atto di grande responsabilità nei confronti dei rifugiati afgani e ha prestato loro particolare attenzione. Ad esempio, ha operato procedendo molto rapidamente per l’ottenimento dello status di rifugiato che già è stato riconosciuto a molti, inoltre è stato fornito loro un alloggio e una modesta quantità di denaro come sostegno finanziario. Sebbene i rifugiati afgani siano molto felici della calorosa accoglienza che è stata loro riservata – e tra questi ci sono anch’io – ci sono ancora molti problemi da affrontare. Le case spesso non sono adeguate, soprattutto quando si ricongiungono tutti i nuclei familiari, pesa il problema del dover imparare una lingua e la difficoltà di trovare un lavoro.

Sono ancora poche le opportunità, da questo punto di vista. Iniziare un percorso totalmente nuovo senza conoscere la lingua e lo stile di vita di un altro Paese rende molti rifugiati afgani preoccupati, perché non sanno per quanto tempo l’assistenza sarà disponibile, come troveranno un’occupazione e come faranno a realizzare la loro aspirazione a potersi mantenere da soli.

Perdere 20 anni di sforzi e risultati raggiunti, attraversare un futuro incerto e dover ripartire dall’inizio ha reso depressi la…

 

* L’autrice: Maryam Barak è una giornalista afgana rifugiata in Italia, collabora con la Bbc


L’articolo prosegue su Left del 24 dicembre 2021, che resterà in edicola fino al 6 gennaio 2022

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Se questa signora può essere una Presidente

Nel toto-nomi per il Quirinale è spuntata da qualche giorno Letizia Moratti. A estrarla dal cilindro è stata Giorgia Meloni (anche se lei nega) sempre intenta a differenziarsi dai suoi alleati di centrodestra per provare a imporre la propria leadership. Di Letizia Moratti sappiamo già tutto dal punto di vista politico: il suo essere sindaca a Milano che le è costata una sonora sconfitta con Giuliano Pisapia nell’elezione successi, il suo essere al fianco di Berlusconi con una pessima riforma della scuola e tutto il resto. Letizia Moratti è l’assessora alla sanità che in Regione Lombardia è stata chiamata per sostituire Gallera dopo un’infinita sequela di errori.

Com’è messa la Lombardia? La Lombardia registra 12.955 nuovi positivi, record assoluto in regione dall’inizio della pandemia, con 205.847 tamponi per un tasso di positività in crescita del 6.2% (ieri 5,7%). I casi positivi degli ultimi sette giorni sono 51.456, con un incidenza di 513 per 100mila abitanti, ma i ricoverati nei reparti ordinari sono 1.408 (+56 rispetto a ieri), con una percentuale di occupazione di posti letto pari al 13,8%. Sono 162, invece (due in meno di ieri), i ricoverati in terapia intensiva, con un’occupazione dei posti letto del 10,6%. La variante Omicron è presente in circa il 40% dei nuovi casi.

Com’è messa la Lombardia? Male, malissimo, di nuovo. La risposta alla nuova (prevista) ondata è pessima: il portale dell’Ats per prenotare i tamponi da giorni non funziona bene. Su Milano si registrano code chilometriche per effettuare il tampone (quando ci si riesce) nelle farmacie, nei laboratori, nelle cliniche e nei drive trough. In giro si leggono testimonianze di prezzi folli applicati dai privati. In una nota Roberto Carlo Rossi, presidente dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Milano descrive la situazione: «Da oltre due settimane riceviamo continue segnalazioni di medici che denunciano il malfunzionamento del portale Ats Milano per la prenotazione dei tamponi. Questo non solo crea grandi difficoltà ai medici, di tempo e di risorse, ma li rende anche ‘colpevoli’ di fronte ai pazienti, ulteriormente aumentando il contenzioso medico-paziente, già reso artatamente incandescente da alcune dichiarazioni sconsiderate dell’Assessore al Welfare. Una situazione ingestibile, che si nota dalle lunghe file davanti alle farmacie». «Un incontro in Regione – prosegue la nota – ha messo, positivamente, una ‘pezza’ autorizzando la richiesta del tampone con semplice foglio di ricettario o semplice e-mail del medico al paziente, ma resta il rischio che le strutture non accettino questa modalità e soprattutto fuori dai punti tampone, al freddo, si stanno formando code che durano anche molte ore».

«È una situazione tragica, drammatica. La farmacia sta soffrendo – spiega Licia Travierso, titolare di una farmacia a Porta Venezia, Milano -. Ogni giorno accedono circa 300 persone, lavoriamo fino a esaurimento scorte. Spero che questa situazione possa finire quanto prima ma la vedo molto molto difficile».

Avete sentito Letizia Moratti sul punto? Avete sentito Fontana? Avete sentito Bertolaso? Forse c’è qualcosa di più urgente di giocare alla corsa (impossibile) al Quirinale. Sembra incredibile ma la Lombardia è ancora in tilt. Ancora una volta.

Buon venerdì.

Malalai Joya: Quelli che sono terrorizzati dalle donne libere e laiche

Malalai Joya visits a girls school in Farah province in Afghanistan Feb.19, 2007: Malalai Joya visits a girl's school in Farah province in Western Afghanistan

Riuscire a raggiungere Malalai Joya, una delle più importanti e indomite attiviste e politiche afgane, non è stato facile. I mesi trascorsi dopo il ritorno dei talebani al potere hanno portato l’Afghanistan nella fame e nella paura ma tante e tanti sono coloro che rischiano ogni minuto la vita e non si arrendono. La voce di questa donna è risuonata molte volte negli anni: nel 2003 venne eletta, con una campagna elettorale realizzata in clandestinità, nella Loya jirga, una “assemblea” simile al Parlamento, in cui accanto ad eletti siedono personalità importanti. Lei proveniva dalla provincia di Farah, giovanissima e determinata a scontrarsi col potere patriarcale di clan e signori della guerra. Durante il suo mandato – presidente Karzai e Paese occupato dalle forze occidentali – ha subito numerosi attentati, fino ad essere cacciata perché aveva reagito agli insulti e alle ingiurie. All’epoca venne più volte in Europa poi, col peggioramento delle condizioni in Afghanistan, la sua presenza si è diradata.

Nell’aprile del 2018 e poi l’anno successivo, la intervistammo su Left, trovandola tanto combattiva quanto pessimista per il futuro. I fatti purtroppo le hanno dato ragione e anche la fuga occidentale come il ritorno dei talebani non l’hanno troppo colta di sorpresa.
«Negli ultimi 20 anni, dall’occupazione Usa/Nato, presentata come “guerra al terrore”, non c’è stato un serio impegno nel voler sconfiggere i talebani. Gli stessi occupanti li hanno sostenuti in modi diversi, sia direttamente che indirettamente, e il denaro che hanno dichiarato di aver speso in nome della lotta al terrorismo è andato anche nelle tasche dei talebani. C’è stato il caso in cui addirittura i media in Afghanistan hanno dovuto riferire che alcune aree sotto il controllo talebano hanno ricevuto container pieni di armi e attrezzare militari con l’utilizzo di elicotteri “sconosciuti”. Non c’era nulla che potesse essere nascosto agli occhi degli Stati Uniti e delle loro agenzie di intelligence. Ed era prevedibile che sarebbe partito un nuovo progetto, attraverso il Pakistan, per distruggere il nostro Paese lasciandolo nelle mani dei talebani e della loro mentalità medievale, mediante un vergognoso accordo sostenuto dal regime fantoccio di Ashraf Ghani».

Cosa è cambiato in questi cinque mesi?
Il popolo afgano vive in una situazione disastrosa, inimmaginabile. La gente soffre di insicurezza, povertà, disoccupazione, subisce la corruzione e la privazione dell’istruzione per le ragazze. La musica è tornata ad essere proibita, i diritti umani, in particolare quelli delle donne sono violati in continuazione. È straziante vedere che per la povertà le persone stanno vendendo ogni loro cosa, persino i propri organi e i figli, per pochi soldi. Secondo il Wfp (Programma alimentare mondiale), solo il 2% degli afgani, a causa della crisi economica, ha sufficiente accesso al cibo e oltre 14 milioni di bambini avranno problemi di malnutrizione. La grande massa di persone che fuggono all’estero per chiedere asilo, principalmente giovani, è…


L’intervista prosegue su Left del 24 dicembre 2021, che resterà in edicola fino al 6 gennaio 2022

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Laiche e resistenti, Malalai Joya e le altre

La crisi umanitaria afgana è la peggiore che si sia mai vista, ammettono le Nazioni unite: «Un milione di bambini rischia di morire di fame nei prossimi mesi».
Dopo 40 anni di guerra e cinque mesi di governo talebano l’Afghanistan è al collasso sanitario, economico, politico. Povertà, fame, mancanza di servizi essenziali, violenza quotidiana contro le donne alle quali è impedito studiare e lavorare liberamente, violenze e abusi sui bambini venduti come merce, repressione di ogni dissenso e persecuzione di giornalisti e attivisti…

Gli unici ad avere mani libere sono i trafficanti di droga. Quando lo scorso 15 agosto i talebani hanno preso il potere, di fronte alla strage all’aeroporto, e alla rappresaglia in cui hanno perso la vita anche bambini e civili colpiti dal fuoco amico Usa, abbiamo detto mai più! Ma ben presto su questo martoriato Paese si sono spenti i riflettori internazionali e in questo rigido inverno la popolazione si trova ad affrontare una situazione drammatica, con disoccupazione e prezzi degli alimenti alle stelle, con quotidiane e gravi violazioni dei diritti umani, come denuncia su Left la ex parlamentare, insegnante e attivista Malalai Joya, ora costretta a vivere in clandestinità. Ne raccoglie il testimone in Italia, dove ha trovato rifugio, la giovane giornalista afgana Maryam Barak. Come raccontiamo nella storia di copertina il suo doloroso percorso ha molte affinità con quello dello scrittore Alì Ehsani, che dall’Afghanistan fu costretto a scappare nel 1997 a soli 8 anni, con il fratellino, dopo aver perso i genitori e la casa in un bombardamento. Due storie che ci dicono quanto poco la situazione sia cambiata negli ultimi vent’anni, nonostante tanta retorica sull’esportazione della democrazia.

«L’occupazione militare delle forze Nato (2001 – 2021) ha prodotto centinaia di migliaia di vittime dirette e indirette, a causa degli scontri a fuoco e dei bombardamenti, ma anche della fame, della mancanza di acqua e di infrastrutture», denuncia la Coalizione della società civile afgana per la laicità e la democrazia in un documento rivolto ai governi e alle istituzioni europee.

Una sciagura sono state anche la coltivazione e il commercio dell’oppio. Un ulteriore impoverimento della popolazione è stato provocato «dalla riconversione forzata delle coltivazioni, della trasformazione dei contadini proprietari in manodopera costretta a lavorare sotto minaccia», si legge nel documento della Coalizione rilanciato dal Cisda (Coordinamento italiano di sostegno alle donne afgane). «Avviata dai signori della guerra già ai tempi dell’invasione sovietica, la coltivazione di oppio ha registrato un’impennata nel corso del ventennio dell’occupazione occidentale». La responsabilità è stata del governo afgano sostenuto dagli americani e ora è dei talebani dell’Emirato islamico, «tra i narcotrafficanti più potenti al mondo».

Ma il Paese è anche profondamente segnato dalle guerre per procura. Gli Stati Uniti hanno agito sul territorio attraverso Pakistan e Arabia Saudita e, anche dopo la loro ritirata, continuano a contendersi questa area geopolitica con Cina, Iran, Russia e Pakistan. Come abbiamo scritto in altre due numeri dedicati all’Afghanistan, con gli accordi di Doha, gli Usa di Trump strinsero un patto con i fondamentalisti, finanziandoli mentre pubblicamente lanciavano la guerra al terrore. Questo doppio gioco ha di fatto bloccato l’avvio del processo democratico e dell’emancipazione femminile, denuncia Malalai Joya. Dopo il ritiro degli Usa e delle altre forze Nato la popolazione afgana si è trovata consegnata a Russia, Cina, Turchia e Iran, potenze che violano i diritti umani e disposte ad allearsi con i Talebani. Intanto dal Pakistan si fa avanti l’Isis-Khorasan che predica il jihad a livello mondiale. In tutto questo l’Unione europea non fa sentire una propria voce, se non cercando di bloccare il flusso delle migrazioni forzate dall’Afghanistan.

Che fine hanno fatto i valori di laicità, democrazia e rispetto dei diritti umani di cui l’Europa si fa vanto? Da convinti europeisti constatiamo con dolore come l’Ue stia abdicando a se stessa lasciando che migliaia di profughi siano stretti nella morsa della neve lungo la rotta balcanica e al confine fra Bielorussia e Polonia.

Schiere di politici italiani di destra si sono lanciati in una crociata in difesa degli auguri di «Buon Natale», che la Commissione europea chiedeva di sostituire con un più inclusivo «Buone feste», ma non muovono un dito per chi, in carne ed ossa, oggi si trova senza soccorsi al freddo e al gelo. Si preferisce salvare il rito, infischiandosene delle persone.
Ribellandoci a questa logica disumana e ipocrita torniamo a dare voce a chi difende i diritti umani e rivendica il “diritto di non credere” e che – come documenta il Rapporto sulla libertà di pensiero realizzato da Humanists international – ancora oggi è discriminato e oppresso in molti parti del mondo.

In Afghanistan in particolare le forze laiche e progressiste (molte guidate da donne) sono gravemente minacciate. Eppure come Malalai Joya continuano a lottare contro l’Emirato Islamico, costruendo reti di scuole clandestine per le ragazze, aiutando le donne che sono vittime di violenza, impegnandosi a sostenere l’autodeterminazione del popolo afgano, attivando reti internazionali di sostegno in Europa. «Il coraggio e la resistenza delle donne contro i misogini talebani sono una fonte di speranza per il futuro dell’Afghanistan», dice Malalai, la nostra “donna dell’anno”. Ci uniamo alla sua voce e a quella delle donne di Rawa-Revolutionary association of the women of Afghanistan. Sosteniamole.

Il ritratto di Malalai Joya qui pubblicato è stato realizzato da Fabio Magnasciutti per Left

 


L’editoriale è tratto da Left del 24 dicembre 2021, che resterà in edicola fino al 6 gennaio 2022

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I “furbetti”? Citofonare Superbonus

©Andrea D'Errico /LaPresse 13-04-2007 Roma Cronaca Emergenza sicurezza nei cantieri - nonostante le rigide normative di sicurezza e le severe sanzioni per i trasgressori, risulta sempre alta la percentuale di incidenti sul lavoro anche mortali nei cantieri edili nella foto: un cantiere nel cuore di Roma

Avviso ai cacciatori di furbetti che rovistano tra i percettori del reddito di cittadinanza dando addosso ai poveracci fingendo di preoccuparsi per i soldi pubblici. Ieri Mario Draghi (sì, sì, proprio lui) a proposito del Superbonus ha detto che è «una misura che ha dato beneficio ma anche distorsioni». La prima distorsione «è l’aumento straordinario dei componenti per le ristrutturazioni», sottolineando che «la logica del 110 per cento non rende più la contrattazione di un prezzo rilevante». Inoltre, ha aggiunto, «ha incentivato le frodi: e l’Agenzia delle entrate ha bloccato 4 miliardi di crediti che erano stati dati come cedibili».

Avete letto bene: 4 miliardi di euro.

Intanto il ministro Orlando riferendo alla Camera sui morti sul lavoro ci ha fatto sapere che il Superbonus «rappresenta sicuramente uno strumento positivo per il rilancio dell’economia, ha però come corollario il rischio di un aumento degli incidenti». Per questo, secondo Orlando,  «diventa necessario prevedere che l’accesso ai  benefici del Superbonus non sia applicabile per i lavori edili effettuati da aziende che non rispettino pienamente il contratto collettivo dell’edilizia e applichino contratti pirata».

Intanto il Superbonus è stato prorogato così com’è: prime case, seconde case, abitazioni unifamiliari o condomini, senza alcun tetto di reddito equivalente (Isee) potranno accedere alla detrazione al 110 per cento e ottenere uno sgravio di imposta superiore ai costi sostenuti, solo per lo sforzo di ristrutturarsi di casa. Per il 2022 serve solo dimostrare di aver ultimato il 30 per cento dei lavori entro il 30 giugno. Per gli interventi sotto i 10 mila euro non si applicherà il decreto anti frode, voluto dopo le segnalazioni dell’Agenzia delle entrate sull’ammontare elevato dell’elusione attorno al bonus.

A chi fa comodo il bonus? A banche, imprese edili. Come tutti i bonus è iniquo. Però “muove” l’economia, dicono. Mica come i poveracci.

Buon giovedì.

Se ci è concesso criticare

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 15-12-2021 Roma, Italia Politica Senato - comunicazioni del Presidente del Consiglio in vista Consiglio europeo 16-17 dicembre Nella foto: il Presidente del Consiglio Mario Draghi durante le comunicazioni al Senato Photo Mauro Scrobogna / LaPresse 15-12-2021 Politics Senate - communications from the President of the Council ahead of the European Council 16-17 December In the photo: Prime Minister Mario Draghi during his communications to the Senate

Gli scherani non hanno ancora finito di esultare. Hanno appreso 5 giorni fa la notizia che l’Economist premia l’Italia come Paese dell’anno 2021 e si sono dimenticati di osservare che l’Economist  sia degli Agnelli. La situazione l’ha descritta benissimo il direttore di Radio Popolare Alessandro Gilioli sul suo profilo Facebook: «Vedo che il giornale torinese degli Agnelli-Elkann e il giornale romano degli Agnelli-Elkann aprono grondando entusiasmo per l’entusiasmo verso il governo del giornale londinese degli Agnelli-Elkann. Se la cantano e se la suonano, tutto in famiglia. Peraltro una gran bella famiglia, in cui il nonno prima di morire ha trafugato un miliardo di euro all’estero nascondendolo al fisco ma anche alla figlia, che quando l’ha scoperto ha fatto causa al nipote accusandolo di essersi preso tutto il malloppo, che poi il nipote è suo figlio, quello che in questi giorni sta pensando a come licenziare il cugino, quello tonto che ha fatto i buffi col pallone – e buon Natale a tutti quanti».

Circa un anno fa, nell’autunno del 2020, il numero di nuovi casi e di ricoverati in terapia intensiva era più o meno come quelli di oggi. A quel tempo il governo (non c’era il taumaturgo Draghi) decise alle 18 l’orario di chiusura di bar e ristoranti e al 75% la percentuale di didattica a distanza per scuole medie e superiori. Oggi il governo dei migliori ha poco margine di manovra: dopo avere rinforzato il green pass si può ridurre la sua durata per spingere alla terza dose (come probabilmente avverrà) e poco altro.

Ma se ci è concesso criticare vale la pena sottolineare che Draghi ha deciso di decidere alla prossima cabina di regia del 23 dicembre. Curiosamente giusto in tempo per dare spazio agli acquisti natalizi ma questo potrebbe essere solo un nostro sospetto troppo perfido. Ma nonostante molta stampa non se ne sia accorta noi siamo già in ritardo, il 23 dicembre. Scoprire la velocità con cui Omicron si sta diffondendo è un elemento che sarebbe stato utile forse un mese fa e forse sarebbe stato il caso non aspettare 2 mesi (il tempo trascorso tra le indagini del 28 settembre e del 6 dicembre) per muoversi. A proposito: il sequenziamento del virus avrebbe dovuto essere una priorità. Priorità fallita.

Se ci è concesso criticare varrebbe la pena sottolineare anche che se la durata del green pass verrà ridotta a 6 mesi serviranno 15 milioni di dosi subito nel 2022 perché scadranno 15 milioni di certificati. Oggi nei magazzini ce ne sono 5 milioni, Pfizer dovrebbe consegnarne 10 milioni di dosi. Nel frattempo il governo punta a costringere alla vaccinazione i 6 milioni a cui manca ancora la prima dose. I conti non tornano, per dire.

Se ci è concesso criticare, la soluzione di rendere obbligatorie le mascherine all’aperto serve a poco o niente. Servirebbe un tracciamento serio (che è già saltato, come sempre), servirebbe avere fatto qualcosa per trasporti e sanità (su cui tra l’altro grida vendetta l’esiguo cumulo di soldi destinati nel Pnrr), servirebbe aver fatto qualcosa per la ventilazione nelle scuole. I liberali che l’anno scorso starnazzavano oggi dicono che il virus è imprevedibile e non si possa fare meglio. Possiamo essere d’accordo, certo, ma se ci è concesso criticare osserviamo quindi la cretineria dei lamenti e i piagnistei dello scorso anno, a meno che il virus sia “imprevedibile” solo con Draghi.

A proposito, se ci è concesso criticare si potrebbe ricordare che molta gente, molto stimata, molti mesi fa aveva annunciato che vaccinando solo i ricchi e non tutte le persone del mondo sarebbe successo quello che è successo. La variante Omicron non è figlia dei Paesi poveri ma è figlia della miopia e dell’egoismo dei ricchi.

Se ci è concesso criticare notiamo come ancora una volta si stia pensando di punire la cultura con soluzioni che appaiono di poco senso: un tampone per stare in teatro (dove è facilissimo mantenere le distanze e dove si sta seduti tutto il tempo con una mascherina) mentre non servono tamponi per sedersi in un bar e un ristorante (dove, per forza, ci si abbassa la mascherina) è indicativo.

Insomma, la pandemia è imprevedibile ma il paraculismo è prevedibilissimo.

Buon mercoledì.

Non ci può essere Maturità senza scrittura

Foto LaPresse/Claudio Furlan 19 Giugno 2019, Milano - ItaliaCronaca Esami di maturità 2019, gli studenti affrontano la prima prova al Liceo Linguistico Manzoni a Milano di via DeleddaNella foto: gli studentiPhoto LaPresse/Claudio Furlan19 June 2019, Milan - ItalyHigh school exams 2019NewsIn the picture: students

In un’epoca in cui la scrittura è diventata un’attività di massa, e perciò di grande rilevanza sociale, sembra abbastanza paradossale il dibattito, nato negli ultimi mesi, sulla eventuale eliminazione delle prove scritte all’esame di Stato del 2022 (al centro del numero di Left del 5 novembre ndr).
È un fatto che un’ordinanza del ministro dell’Istruzione preveda che il 22 giugno 2022 gli studenti italiani in procinto di diplomarsi affrontino la prima prova scritta di italiano, a condizione, naturalmente, che lo stato di emergenza causato dalla pandemia lo consenta. Proprio l’incertezza della situazione e l’abolizione delle prove scritte nelle sessioni di esame 2020 e 2021 ha però aperto la discussione sull’opportunità di cancellare definitivamente la scrittura dalle prove finali del nostro ciclo di istruzione, limitandola alla presentazione di una “tesina” elaborata dagli studenti (con quanta autonomia è difficile valutare) e affidando un essenziale rito di passaggio del nostro sistema sociale quasi esclusivamente a un colloquio interdisciplinare.

Certo è che la prova di scrittura per eccellenza della nostra scuola – lo scritto di italiano alla maturità – produce da tempo «varie e contraddittorie speculazioni» ed è percepita come una «prova controversa», anche perché apre orizzonti conflittuali sulla stessa didattica della scrittura, come scrivono Luca Serianni e Giuseppe Benedetti in Scritti sui banchi. L’italiano a scuola tra alunni e insegnanti, (Carocci). Con il nuovo esame di Stato, introdotto nel 1999, la prova di italiano è stata ampiamente rinnovata. Sono state introdotte, accanto a quella classica, nuove tipologie testuali più calibrate su forme di scrittura funzionale come l’articolo di giornale o il saggio breve. La prova è stata ulteriormente modificata dal decreto legislativo 62/2017, in base alle indicazioni della commissione di esperti presieduta da Luca Serianni, che ha puntato sulle capacità di argomentare un discorso critico da parte degli studenti a partire da un testo di riferimento. Un’impostazione molto discussa perché aveva eliminato il tema di argomento storico, includendolo nella tipologia del testo argomentativo (nel 2019, ultimo scritto di italiano prima della pandemia, fu proposto un testo di Corrado Stajano sull’eredità storica del Novecento). Ma, al di là delle critiche ricevute per la svalutazione della storia, non c’è dubbio che anche quest’ultima versione dell’esame valorizza l’insegnamento della scrittura a scuola. La capacità di…


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A proposito di Boric (e di noi)

A 35 anni qui in Italia, se ti capita di fare politica, sei considerato il “delfino di” oppure sei considerato una “promessa”. Accade nella politica e nel lavoro. A 35 anni hai abbastanza forze per faticare ma hai faticato troppo poco per dirigere, secondo il mantra di quelli che non vogliono mollare il posto di comando fino all’ultimo secondo. A 35 anni sei una promessa e ti concedono perfino il lusso di atteggiarti da buonista, da ecologista, da femminista: ti concedono di parlare di diritti perché i diritti e il futuro, qui da noi, sono come la delega dell’assessorato alla Cultura, una roba che si dà ai giovani volenterosi come premio per trastullarsi.

A 35 anni Gabriel Boric è diventato presidente del Cile. E non si è smussato, per niente, rispetto ai tempi in cui era un leader studentesco. Certo ha studiato molto, certo ha affinato il suo modo di fare politica ma i temi sono sempre gli stessi. Ha sconfitto al ballottaggio Jose Antonio Kast, uno fiero di essere di estrema destra che poi, come quasi tutti quelli della sua risma, ha finto di fare il moderato quando gli è venuta la paura di perdere. Uno di quelli che ingrossano il proprio bacino di voti sparandole sempre più grosse che poi si traveste da statista per risultare credibile. Ogni riferimento a robe di casa nostra non è per niente casuale.

Pochi minuti dopo la vittoria Boric è salito su un palco improvvisato sull’Alameda, ha toccato tutti temi a lui cari: i bambini, le donne, l’orario di lavoro, le pensioni, la salute e la educazione pubbliche, l’ambiente, l’acqua, i diritti umani e ovviamente la difesa del lavoro della Assemblea costituente. Ma ha parlato da “presidente di tutti”, considerando un’opportunità più che un limite l’equilibrio di forze nel nuovo Parlamento, promettendo che farà un governo aperto.

Certo c’è finalmente lo scrollarsi di dosso Pinochet ma un 35enne che vince così largamente (con la vittoria più ampia nella storia del Cile) rende perfettamente l’idea di quanto sarebbe impossibile qui che un leader così giovane diventi leader, sia candidato e abbia gli strumenti per potersela giocare fino in fondo. Ora, vedrete, la tratteranno come una notizia isolata, anche un po’ esotica. A proposito: il suo avversario Kast si è congratulato con Boric per il suo «grande trionfo», aggiungendo che «da oggi è il presidente eletto del Cile e merita tutto il nostro rispetto e la collaborazione costruttiva».

Non serve nemmeno aggiungere altro.

Buon martedì.

Rider, e quindi l’Italia rimarrà a guardare?

Foto LaPresse - Andrea Panegrossi 20/06/2018- Roma, Italia Rider per la consegna di cibo a domicilio Nella Foto Rider davanti al colosseo

E noi come stronzi rimanemmo a guardare è il titolo del nuovo film di Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, incentrato sui temi della dittatura algoritmica e dedicato ai rider, la categoria sottoposta più di tutte a questo ambiguo potere. Ma questo titolo non è solo fantasia, è la triste realtà che si prospetta se non si agisce al più presto per arginare lo strapotere degli algoritmi e delle piattaforme private che ne fanno uso indiscriminatamente per creare dal nulla i loro grandi profitti. Basti pensare al successo dei social network come Facebook o Instagram, fondati appunto sugli algoritmi, che nel tempo non hanno solo incrementato i loro utenti e quindi i loro guadagni derivati dall’acquisizione dei dati personali, ma sono presenti nella nostra vita al punto di condizionarla in maniera potenzialmente totalitaria – aspettando il metaverso.

Ora qualcosa per i rider italiani potrebbe cambiare. Come abbiamo letto nelle pagine precedenti la Commissione europea ha proposto una serie di misure per migliorare le condizioni lavorative dei dipendenti delle piattaforme digitali, a partire dalla possibilità di essere assunti come dipendenti. Tra le novità che verrebbero introdotte con le nuove norme c’è anche la protezione dei lavoratori per quanto riguarda l’uso della gestione algoritmica – ossia di quei sistemi automatizzati che affiancano o sostituiscono la presenza umana sul luogo di lavoro – garantendo il monitoraggio umano del rispetto delle condizioni occupazionali e conferendo il diritto di contestare le decisioni dell’algoritmo.

In questo senso la proposta è una potenziale svolta anche per l’Italia. Ma c’è un ma. Potrebbero passare alcuni anni prima che in Italia la legge venga implementata: dopo la discussione al Parlamento europeo e l’approvazione del Consiglio europeo, ogni Stato membro avrà due anni di tempo per approvare una legge conforme. Un arco di tempo potenzialmente ampio. In Italia, come un po’ ovunque, c’è il bisogno urgente di attuare leggi che possano arginare lo strapotere contrattuale delle mega-aziende come per esempio quelle dominanti nell’ambito del food-delivery: Glovo e Deliveroo, solo per citare le più famose. E forse questa è la volta buona.
Non a caso dalle piattaforme pare sia già partita un’intensa attività di…


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Rider, basta contratti da fame

Cyclists working for the food delivery services Deliveroo and Glovo ride their bikes in Madrid on March 27, 2020 amid a national lockdown to fight the spread of the COVID-19 coronavirus. - The death toll in Spain soared over 4,800 after 769 people died in 24 hours, in what was a record one-day figure for fatalities in the country. (Photo by Gabriel BOUYS / AFP) (Photo by GABRIEL BOUYS/AFP via Getty Images)

Innovare con equità, finalmente l’Europa ci chiede qualcosa di buono.
La Commissione europea decide infatti di controbilanciare la svalutazione dei rapporti di lavoro, uno degli aspetti ingiusti della tanto acclamata digitalizzazione, e prepara una proposta di direttiva che stabilisce i criteri di base sia per regolare le condizioni di lavoro legate alle piattaforme digitali sia per fornire ai 27 Stati membri un quadro di riferimento univoco per l’Unione che chiarisce cosa sia un contratto commerciale e cosa debba essere considerato un rapporto di lavoro.

Si tratta di un primo step: dalla redazione di una proposta all’entrata in vigore di una direttiva passano sempre diversi mesi. Fatto sta che l’esecutivo europeo che da un lato si è “arreso” di fronte al successo delle piattaforme digitali come nuovo modello di business, dall’altro lancia un segnale importante che risponde alla necessità di rafforzare i diritti sociali e lavorativi di chi fa parte della cosiddetta gig economy. E lo fa affrontando proprio la questione più controversa, quella che ha già causato più scontri nei tribunali: chi lavora per le piattaforme digitali è un dipendente o un lavoratore autonomo?

Sciogliere questo nodo sarebbe un passo avanti verso l’umanizzazione di quei tanti rapporti di lavoro veicolati da startup e algoritmi che più sfruttano e più guadagnano. Rider che sfrecciano, freelance che disegnano siti web, fanno traduzioni, compilano sondaggi online o operazioni di data entry, oggi costretti ad accettare condizioni di lavoro indecenti, potrebbero diventare dipendenti a tutti gli effetti con conseguenti diritti e tutele garantiti. Avrebbero salario minimo, contrattazioni collettive, norme sull’orario di lavoro, protezione sanitaria, ferie e assenze per malattia remunerate, congedo parentale, protezione dagli incidenti sul lavoro, sussidi di disoccupazione e pensione di anzianità.

La direttiva stabilisce cinque criteri per definire se un lavoratore autonomo che svolge servizi per una di queste piattaforme debba essere riclassificato come dipendente. Il primo criterio è il livello di remunerazione e l’esistenza o meno di limiti; poi il controllo sull’esecuzione del lavoro con mezzi elettronici; la possibile restrizione della libertà di scelta dell’orario di lavoro o dei periodi di assenza, di dire no ad alcune mansioni e di usare sostituti o subappaltatori; la determinazione di specifiche regole vincolanti in ordine all’aspetto, alla condotta nei confronti del destinatario del servizio o all’esecuzione dell’opera; infine la…


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