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Da Lodi, ancora, ancora

Foto Marco Alpozzi / LaPresse 27 Dicembre 2021 Torino (Italia) Cronaca Il generale Figliuolo, Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica COVID-19 in visita all’hub vaccinale per bambini della Fondazione Compagnia di San Paolo Nella Foto: Generale Francesco Figliuolo Photo Marco Alpozzi /LaPresse December 27, 2021 News General Figliuolo visiting the vaccination hub for children of the Compagnia di San Paolo Foundation In the pic:Generale Francesco Figliuolo

Il Parco tecnologico padano (Ptp) di Lodi è al collasso. Sì, Lodi, quella stessa città da cui è partito tutto. Lodi diventata tristemente famosa nel mondo per essere stata la prima tappa di una pandemia che ha fatto il giro del globo e che ancora oggi fa i conti con le proprie ferite che continuano a sanguinare.

A Lodi in questi giorni si processano più del doppio dei tamponi che erano stati previsti. Lodi è nel caos. Ancora, ancora una volta. Code interminabili di auto si mettono in fila per ottenere un tampone. Sono persone che hanno i sintomi del virus e persone che hanno bisogno di un tampone per uscire dalla quarantena e poter tornare a lavorare. È saltato tutto: ingolfati i medici di base che non stanno dietro all’incremento di positivi, ingolfate le Ats che hanno perduto qualsiasi speranza di stare dietro al benché minimo tracciamento. Le auto in coda per un tampone rimangono ore per strada. Non c’è nulla, nessun servizio. E sono persone spesso con la febbre (oltre che contagiose). Se per caso devono pisciare se ne vanno per i campi a lato della strada. I tamponi sono introvabili e le farmacie (ovviamente) sono in difficoltà.

Lodi, ancora, un anno dopo. Perso il tracciamento, ormai per avere il polso della situazione bisognerà tenere d’occhio i ricoverati e le terapie intensive. Sostanzialmente guidiamo guardando lo specchietto retrovisore. Ancora, ancora una volta. Il generale Figliuolo (che sparla di code per il Black Friday e di capi firmati) dovrebbe venire a farsi un giro qui da queste parti e spiegarci che non è un suo compito rifornire tamponi dove servono. Probabilmente nell’esercito non riteneva necessario fornire le munizioni e combatteva con i fucili scarichi. Una cosa così.

A Lodi il governo per “dare un segnale” ha inviato l’esercito. A Lodi e Codogno (questo è il territorio del ministro della Guerra Guerini, ex sindaco di Lodi) sono arrivati 7 soldati ciascuno (7 soldati per 2: 14 in tutto) per fare ordine nelle file di auto. Servono i tamponi, non servono i soldati ma comunque la notizia fa il suo bell’effetto se è vero che è stata strombazzata dappertutto.

Curioso che la città che ha le ferite più antiche sia impreparata all’ennesima ondata della stessa pandemia: è la fotografia impietosa dei “migliori” che ora c’è da sperare al massimo che siano “meno peggio di quelli di prima”. La retorica dell’infallibilità si scalfisce giorno dopo giorno.

Ora si corre ai ripari. Ieri mattina mi chiedevo, scherzosamente, quando sarebbe arrivato il momento in cui avrebbero dato la colpa alla troppa gente che voleva tamponarsi per testare la propria salute o per uscire dalla quarantena. Sembrava una battuta e invece ci siamo già, su molti commenti di molti giornali. Se il problema è non stare dietro alle quarantene si rivedono le quarantene. Semplice. Una volta quando è iniziato tutto questo si aveva almeno la decenza di discutere del fragile equilibrio tra salute pubblica e lavoro. Ora vige il fatturato del tramezzino nel bar sotto l’ufficio (quindi niente smart working, non sia mai che si prenda esempio dalla Germania e dagli altri Paesi europei), vige il fatturato delle spese sotto le feste (quindi niente di drastico fino alla fine dei vacanze) e vige il fatturato che ha bisogno di lavoratori che non si prendano il lusso di troppa quarantena.

Intanto ogni giorno muoiono le stesse persone di un Boeing che si sfracella. E non è solo Lodi: le difficoltà sui tamponi si registrano in diverse regioni d’Italia. Sapete qual è la risposta? Colpa delle Regioni. Fatemi capire: se va bene è merito di Figliuolo, se va male è colpa delle Regioni, se va benissimo è merito di Draghi, se ci sono nuove limitazioni è colpa di Speranza? Non la trovate una strategia piuttosto infantile?

Vaccinatevi, intanto. E buon giovedì.

Ne siamo usciti feroci

Lo chiamano tutti “Mauro da Mantova” perché trovare un nome d’arte, con la città di provenienza come i soldati della disfida di Barletta, è un ulteriore modo per gigioneggiare con i no vax da spendere come fantomatici personaggi da avanspettacolo per qualche punto di share.

Così Mauro Buratti, 61enne carrozziere di Curtatone, ha avuto il privilegio di diventare un personaggio “famoso”, di quella popolarità che costa l’essere ogni giorno più cretini per autopreservarsi come ospite e ogni giorno, come chiedeva il copione, ne sparava una sempre più grossa. Ospite della trasmissione La Zanzara su Radio24 (condotta da Cruciani e Parenzo che usavano Buratti come foca da ammaestrare con il pallone al naso) “Mauro da Mantova” ha interpretato tutta la letteratura dei complottisti peggiori, quelli per cui il virus non esiste e quella dei poteri forti e tutta quell’orribile serie di cretinate. Accortosi che fare gli scemi funziona Buratti si è perfino vantato di essere andato in giro per la sua città a infettare gli altri. Mentre i conduttori e gli ascoltatori si divertivano un mondo e gli inserzionisti si fregavano le mani per lo share che “Mauro da Mantova” contribuiva a collezionare.

Poi Buratti si è ammalato. Già quando sono uscite le prime notizie del suo ricovero la rete si è riempita di commenti furiosi e disumani, speranzosi di una morte del terribile “no vax” secondo il mortifero criterio del “punirne uno per educarne cento”. Nella guerra fratricida tra opposte fazioni ormai vige un “mors tua vita mea” che fa schifo da entrambe le parti, come se avessimo sdoganato l’augurio di morte come unica soluzione per la salute pubblica. Lo so, è qualcosa di inumano e schifoso ma è normale che giocando sempre al ribasso alla fine si arrivi a toccare il fondo. In più c’è un problema: toccare il fondo funziona, vende, fa vendere. In entrambi i sensi. I tifosi si infervorano e ognuno può sognare di diventare influencer della propria fazione.

I medici dell’ospedale di Borgo Trento avevano confermato la gravità delle condizioni dell’ex carrozziere lo scorso 11 dicembre, al Corriere della Sera: «Lo dovevamo intubare prima ma per un’intera giornata si è opposto con caparbietà: solo quando le cose sono peggiorate ha cambiato idea». Perfino la “caparbietà” nel cretinismo diventa una virtù.

“Mauro da Mantova” è morto e qualcuno è riuscito addirittura a esultare, senza accorgersi di essere un estremista esattamente come lui. Ma la ferocia peggiore si legge nel finto lutto di chi il personaggio di Mauro l’ha allevato e l’ha fomentato per qualche spettatore in più. Il conduttore Giuseppe Cruciani lo ricorda con una lettera aperta (che torna utile per riempire un’altra puntata) in cui scrive «eri felice quando qualcuno ti riconosceva per strada e ti chiedeva un selfie». È la realizzazione del presagio di Andy Warhol quando diceva che tutti avrebbero avuto i propri 15 minuti di celebrità. Solo che la morte di Mauro ci dice almeno due cose: che essere celebri in tempi di pandemia può costare in termini di disinformazione e che quella celebrità conquistata mostrando la parte peggiore di sé finisce per innescare la parte peggiore anche degli altri.

E la felicità di chi vede realizzarsi la morte di un no vax è lo schifoso ingrediente finale.

Buon mercoledì.

Evviva, in Polonia son spariti i papaboys

WARSAW, POLAND - OCTOBER 28: (EDITORS NOTE: IMAGE CONTAINS PROFANITY) A woman holds a banner as she participates in a national strike for the seventh day of protests against the Constitutional Court ruling on tightening the abortion law on October 28, 2020 in Warsaw, Poland. The national strike announced several days ago encourages people not to go to work and several cities will hold protests all day long. Yesterday, one of the heads of the Women's National Strike, Marta Lempart presented a list of demands, including the resignation of the right wing conservative government. Moments after, the leader of Law and Justice Party, called on the creation of militias to protect the country's churches. On October 22nd, the country's Constitutional Tribunal ruled in favour of a ban on abortions in cases of fetal defects, tightening Poland's restrictive abortion laws even further. The decision means that abortions will only be permitted in cases of rape, incest or when the mother's health is at risk. (Photo by Omar Marques/Getty Images)

«La società polacca è estremamente conservatrice», «nelle città e nei villaggi i preti sono le vere autorità»: questi sono alcuni dei cliché che infestano gli articoli di giornale che analizzano la politica polacca, scritti da autori stranieri e non solo. Anche gli autori liberali e di sinistra di base a Varsavia tendono a credere che la strada sia ancora lunga prima che la Chiesa cattolica perda la sua posizione di autorità suprema in campo morale e sociale. Quello che a volte accade è che molti polacchi, anche se si trovano in disaccordo con alcuni principi dell’insegnamento cattolico o non nutrono un vero interesse per la religiosità e la spiritualità, continuano lo stesso a sposarsi in chiesa («Perché la cerimonia è più bella») e a battezzare i loro figli («Così le nonne non restano deluse»). Allo stesso modo, prima delle proteste di massa contro la legge anti-aborto in Polonia era necessaria una buona dose di forza di volontà per non far frequentare le lezioni di religione ai bambini. A partire dall’inizio degli anni 90 esistono corsi di religione cattolica nelle scuole pubbliche della Polonia, teoricamente organizzate se e quando i genitori lo desiderano. In pratica, i genitori non credenti o appartenenti alle minoranze religiose devono esplicitamente richiedere che i figli siano esonerati dalla lezione di religione cattolica e devono combattere per ottenere lezioni alternative di materie laiche. Migliaia di famiglie agnostiche, atee o laiche così hanno preferito far frequentare le ore di religione ai loro figli, ma solo per non attirare troppo l’attenzione.

Adesso, però, i non-cattolici sanno di non essere delle “rare eccezioni”. Dopo trent’anni di dominazione assoluta nella sfera simbolica e di grande influenza sulla vita politica, la…


* L’autrice: Małgorzata Kublaczewska è direttrice di Strajk.eu che, come Left, fa parte di Media alliance, un progetto di transform! Europe in partnership con transform! Italia


L’inchiesta prosegue su Left del 24 dicembre 2021, che resterà in edicola fino al 6 gennaio 2022

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Il presepe quest’anno sta a Lipa. E fa schifo

Oltre alla rotta per mare un cimitero dei vivi si trova sul confine nord occidentale tra Bosnia ed Erzegovina e Croazia, tuttora il principale snodo della rotta balcanica per l’ingresso in Europa. Qualcuno ogni tanto prova a metterci un po’ d’ordine, il Consiglio d’Europa ha condannato Zagabria per la morte di una donna respinta ma il “the game” (ovvero il tentativo di attraversare la frontiera tra i boschi per provare a entrare in Europa e contemporaneamente provando a sfuggire alle botte dei poliziotti bosniaci) continua incurante del freddo, della stanchezza, della disperazione che si appuntisce e delle feste.

Sono circa 4mila le persone scomparse dagli elenchi e dalle carte geografiche che rimangono imprigionate in quel limbo. Tra loro ci sono centinaia di bambini sconosciuti al mondo. Potrebbero diventare internazionali al massimo se rimangono come corpi morti a favore dei pochi testimoni che ci sono in quella zona.

È uno dei tanti buchi di un’Europa che se ne fotte dell’articolo 33 della Convenzione di Ginevra che vieta il respingimento di richiedenti asilo verso un Paese non sicuro. L’Europa cristiana (la chiamano così) ha deciso di subappaltare la schiavitù, i respingimenti e il degrado per lavarsi la coscienza. Vale come quelle tre ave maria da pronunciare distrattamente da adolescenti dopo la confessione.

Il 19 novembre scorso a Lipa è stato inaugurato il nuovo campo temporaneo, dopo l’incendio che ha distrutto nell’aprile 2020 l’insediamento precedente lasciando per strada 1.200 disperati. Il centro è gestito dal Servizio per gli affari esteri bosniaco in collaborazione con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, le agenzie delle Nazioni Unite e una serie di altri partner come Unicef e Croce Rossa. Mentre i soldi li mette l’Europa. L’Ue al 50 percento e poi Austria e Germania con un 20 percento a testa, la Svizzera e anche l’Italia, con 1,5 milioni di euro dei quali 80mila euro per dotare il campo di acqua ed elettricità, 422mila euro per costi operativi nell’arco di 16 mesi e un milione per “raccolta dati, monitoraggio e analisi dei flussi delle persone in transito nel Paese”, si legge nel rapporto.

Un campo di detenzione di innocenti che include anche minori, anche in questo caso fregandosene della convenzione Onu sui diritti del fanciullo. Un cassonetto dove buttare gli ospiti indesiderati. Un presepe dell’orrore e di ipocrisia. L’Italia dei valori cristiani, con il suo milione e mezzo di euro, ha messo in piedi un addobbo natalizio in perfetta sintonia con la disumana ferocia che riesce a fare accadere senza sporcarsi il polsino. Sul campo di Lipa è uscito un dossier di RiVolti ai Balcani, rete alla quale aderiscono decine di realtà, da Amnesty International Italia alla rivista indipendente Altreconomia che ha collaborato alla stesura del rapporto.

Vale la pena leggerlo, anche se vi rovina il clima delle feste. Perché siamo noi.

Buon martedì.

L’amore che non finisce, raccontato ai ragazzi

«Il fatto che fossimo nati lo stesso giorno era più di una coincidenza. Fin dall’inizio, respirammo la stessa aria; i nostri cuori battevano all’unisono. Ciascuno finiva le frasi dell’altro, sapendo esattamente che cosa aveva in mente, anche quando dormiva Quell’uomo era tutto ciò che volevo, e sapevo che lui provava lo stesso per me Ci sono coppie che, quando iniziano a convivere, comprano pentole e padelle. Ulay e io cominciammo a progettare di fare arte insieme». Il giorno di Natale ho ritrovato tra i miei libri Attraversare i muri, un’autobiografia di Marina Abramović, con James Kaplan. Quando l’avevo letto nel 2016, l’anno nel quale era stato pubblicato, mi avevano colpito alcune frasi che l’artista serba aveva dedicato al rapporto sentimentale con Ulay. Il suo amore grande. Rileggerle mi ha regalato dei bei pensieri. Mi ha messo le ali e portato dall’altro capo del mondo, in Cina. Sulla grande muraglia. Che i due amanti nel 1983 progettano di percorrere da due estremità opposte per incontrarsi nel centro e li sposarsi. The Lovers é una performance, certo. In realtà, molto di più. Un sogno nel quale arte e amore s’intrecciano fino a confondersi. Purtroppo a perdersi, come si sa. Perché l’incontro, a Erlang Shen, Shennu, nella provincia di Shaanxi, il 27 giugno 1988, tre mesi dopo la partenza, prende la forma di un addio. L’amore per Ulay é sfiorito. Ma non per Abramović.

Io non ho mai creduto che l’Amore possa terminare. Finire davvero. Se uno “finiva le frasi dell’altro, sapendo esattamente che cosa aveva in mente, anche quando dormiva”. Sono convinto piuttosto che l’Amore sia una sorta di ordigno. Pronto a deflagrare. Senza preavviso. Quando uno dei due arretra. Si fa da parte. Consegnando l’altro al dolore. Al vuoto. Al buio. Inevitabilmente, ad una nuova esistenza. Come ha saputo restituire Frida Kahlo nel quadro Le due Frida. Nel quale ci sono due autoritratti della pittrice messicana: quella amata da Diego Rivera e quella che invece ha affrontato la loro separazione. Una ha un cuore intatto e tiene in mano un ciondolo con il ritratto di Diego, mentre l’altra ha in mano un paio di forbici insanguinate con le quali ha straziato il suo cuore.

Quando ci si lascia si abbandona una parte di sé. Si é una copia di quel che si è stati. Ma non importa. Aver incontrato l’amore é comunque “bello”. Perché almeno uno dei due continuerà ad avere l’altro, dentro. Per sempre, forse. Ai miei ragazzi in classe, ogni tanto parlo anche di questo. Dell’amore. Lo faccio perché voglio che sappiano affrontarne anche i contrasti. Siano in grado di goderne, senza farsene travolgere. Guardandolo con il necessario equilibrio, loro. Pensandoci con consapevolezza, ma anche con curiosità. Insomma non immaginando che possa essere una condanna. Come per Juan de Marcilla e Isabel de Segura, due amanti spagnoli del XIII secolo. Rappresentati da Juan de Ávalos nel 1955 in un gruppo scultoreo, visibile in un mausoleo aggiunto alla chiesa di S. Pietro a Teruel, in Spagna. Sdraiati, uno accanto all’altro, mano nella mano. Uniti anche dopo la vita. Perché credo che in fondo sia così. Certi amori non finiscono mai. Anche se tormentano. Anche se regalano preoccupazioni. L’importante è portarsi dentro. Come decidono di fare alcuni. Nella speranza di ritrovarsi, un giorno.

È il 14 marzo 2010. Marina Abramović inaugura al Moma di New York la performance The Artist is Present in cui ogni visitatore ha a disposizione un minuto per sedersi, in rigoroso silenzio, di fronte a lei. Provando a specchiarsi in lei. Nel via vai di persone sconosciute, ecco Ulay. Dopo 22 anni. Si siede. Abramović si commuove. Contravvenendo alle regole, allunga le braccia per prendergli le mani. Gliele stringe.

Ho capito come affrontare l’argomento in classe. «Ragazzi, l’Amore grande è per sempre», dirò, sorridendo. Per rassicurarli. Mentre ripenserò alle mani che si ritrovano. Prima o dopo.

Buon Zangrillo a te e famiglia

Foto Claudio Furlan - LaPresse 04 Settembre 2020 Milano (Italia) News Conferenza stampa di Alberto Zangrillo , primario del San Raffaele , sulle condizioni di Silvio Berlusconi, ricoverato al San Raffaele per Covid Photo Claudio Furlan - LaPresse 04 September 2020 Milan (Italy) Press conference by Alberto Zangrillo, San Raffaele primary, on the conditions of Silvio Berlusconi, hospitalized at San Raffaele for Covid

In un Paese normale uno che nel maggio del 2020 si faceva intervistare da tutte le televisioni con il suo lindo camice bianco per dirci che il virus era «clinicamente morto» alla fine della prima ondata di pandemia e poco prima delle successive e peggiori ondate che hanno colpito il mondo sarebbe considerato per quello che è: un provocatore in cerca di visibilità pericolosamente irresponsabile perché medico. Parliamo di Alberto Zangrillo, primario dell’Unità operativa di Anestesia e rianimazione generale e cardio-toraco-vascolare dell’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano. Le cronache hanno cominciato a occuparsi di lui perché è il medico personale di Berlusconi e in questo Paese, si sa, essere una sciantosa del berlusconismo regala un’immeritata notorietà.

Zangrillo si fece conoscere per essere il medico giusto al momento giusto nel posto giusto per diagnosticare l’uveite che ha permesso a Berlusconi di rallentare i suoi processi. Zangrillo è lo stesso che riempie pagine di giornali con la sua previsione di un Berlusconi che vivrà 120 anni (qualcosa che ha il valore scientifico di un oroscopo) e con l’arrivo del Covid è stato uno dei primi a comprendere quanto potesse tornare utile minimizzare la pandemia per essere adottato da una fetta di pubblico. Zangrillo fu quello che avvisò i giornali di un Berlusconi positivo al Covid ma in piena forma e completamente asintomatico. A smentirlo ci pensò lo stesso Berlusconi che raccontò di essere stato in pericolo di vita e di avere avuto una carica virale “mai vista in Italia” (ovviamente, giusto per quel vizio di dover primeggiare). Zangrillo cambiò idea e decise di contraddirsi.

Poi Zangrillo è diventato addirittura filogovernativo (quando Berlusconi è entrato nella maggioranza, guarda a volte il caso) dicendoci che il governo italiano era un esempio nel mondo e che tutte le decisioni fossero esatte.

Ieri Zangrillo (che è considerato, chissà perché, voce autorevole sul virus) ha pubblicato sui social una foto di gente in coda scrivendo: «#SantoStefano, ore 10 a Milano. 200 metri di coda per alimentare le casse delle farmacie, il terrorismo giornalistico e certificare la morte del Paese».

Il 23 dicembre aveva scritto: «Quando il Paese sarà irrimediabilmente distrutto ne chiederemo ragione agli “scienziati” e ai “giornalisti innamorati del #COVID19”. #Omicron #Paranoia».

Non ci interessa analizzare lo Zangrillo in sé (non è personaggio degno di un editoriale) ma lo zangrillismo che quest’anno ha avviluppato la comunicazione è sintomatico di una schizofrenia sempre alla ricerca della cretinata più provocatoria e cretina per meritarsi un po’ di spazio. Siamo pieni di Zangrilli che sanno bene come la cautela rischi di smussare la visibilità (nonostante sia d’obbligo per certi ruoli) e quindi dicono tutto e il contrario di tutto. Ma forse il tema non sono nemmeno gli Zangrilli che esistono in tutti i campi. Il tema vero è che anche ieri, come sempre accaduto, a Zangrillo sia bastato un tweet per finire sulle pagine dei giornali. Quello che dichiarò il virus «clinicamente morto» viene considerato ancora autorevole.

Continuiamo a scambiare la popolarità per autorevolezza e continuiamo a alimentare un circolo perverso di provocazioni che vengono prese come opinioni scientifiche. Non è bastato tutto questo tempo per vaccinarci al cretinismo. Niente. Siamo ancora qui.

Buon Zangrillo a te e famiglia.

Buon lunedì.

Salgado e l’umanità nella Grande foresta

Nel 1884 Friedrich Engels, coautore con Karl Marx del Manifesto del partito comunista, pubblicò il libro L’origine della famiglia. Una tesi fondamentale del libro illumina la visita alla bellissima mostra di Sebastião Salgado Amazônia al MAXXI di Roma sino al 13 febbraio. Non esiste la famiglia, ma “forme” di aggregazioni familiari. Siamo stati istruiti a pensare alla famiglia biparentale con figli quale struttura immutabile nello spazio e nel tempo, ma vi sono stati i clan, i ceppi, le gens, le famiglie estese.
Le fotografie di Salgado cancellano i luoghi comuni. Non ci sono primitivi, selvaggi, indigeni, nativi, ma uomini e donne e molti bambini che vivono in modi diversi dai nostri, in forme di famiglia diverse.

La mostra Amazônia offre molti altri livelli di interesse: innanzitutto un coinvolgente livello immersivo, poi i risultati dell’esplorazione su un territorio di straordinarie diversità, in seguito la bellezza delle stesse fotografie e infine un contributo al pensiero ecologico.
Cominciamo dal livello immersivo. La galleria 4 al MAXXI di Roma offre in questa occasione una magnifica prova della sua spazialità. Le linee fluide dell’architettura di Zaha Hadid, accompagnano il visitatore in una sorta di ondeggiamento tra una grande foto e l’altra. I pannelli sono appesi nello spazio spesso a formare angoli e nicchie da attraversare e scoprire. Lo spazio e i corpi si insinuano tra una foto galleggiante e l’altra quasi cullati dalla composizione musicale che accompagna la visita. L’opera, del musicista Jean-Michel Jarre, è magica. A metà ancestrale, a metà contemporanea, evoca rumori di foresta tropicale interrotta da scrosci e cinguettii. Questo aspetto della mostra permette ai possessori della tessera annuale del MAXXI (la si consiglia) – più di una visita, sempre rinnovando l’esperienza e scoprendone nuovi aspetti. L’allestimento prezioso è di Léila Wanick Salgado.

E veniamo al secondo livello, quello esplorativo. Salgado ha compiuto decine e decine di missioni in questo immenso territorio (circa 6,7 milioni di mq, più di 20 volte l’Italia). Da questo sterminato materiale ha selezionato una piccolissima parte e lo presenta in cinque sezioni che ci aiutano a comprenderne l’enorme varietà morfologica. Sono: l’Amazzonia dall’alto, i fiumi volanti, le montagne, la foresta, le isole nella corrente. Salgado non intende catalogare regione per regione ma attraversarle alla scoperta di forme meravigliose e di eventi unici. E qui si rimane senza fiato. Difficile scegliere la favorita. Le altissime montagne tagliate dal bianco delle cascate e con la testa tra le nuvole? Oppure gli ondeggiamenti lenti dei fiumi, oppure le foreste con le liane che si specchiano sull’acqua ferma in un entusiasmante raddoppiamento dell’immagine. Oppure i fenomeni sorprendenti come le isole nella corrente che…


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Que viva Chile!

TOPSHOT - Chilean president-elect Gabriel Boric waves at supporters after delivering a speech, in Santiago, on December 19, 2021. - The streets of Santiago exploded in celebration Sunday after leftist millennial Gabriel Boric was declared Chile's new president with an unexpectedly large victory over his far-right rival in a polarizing race. Boric, 35, garnered nearly 56 percent of the vote compared to 44 percent for ultra-conservative Jose Antonio Kast, who congratulated the "president-elect" on Twitter even before the final result was known. (Photo by MARTIN BERNETTI / AFP) (Photo by MARTIN BERNETTI/AFP via Getty Images)

“La speranza ha vinto sulla paura” è uno degli slogan utilizzati per celebrare il trionfo della sinistra cilena. Gabriel Boric è il nuovo Presidente della Repubblica del Cile. Il candidato di sinistra, della lista Apruebo dignidad, si è imposto con il 56% di preferenze su José Antonio Kast del Frente social cristiano, che si è fermato al 44%. Con un’Assemblea costituente al lavoro e un giovane presidente che vuole andare oltre il neoliberismo, il Paese andino ha davvero la possibilità di invertire la propria rotta politica.

Solo due anni fa il Cile era nel bel mezzo del cosiddetto estallido social, la protesta esplosa a ottobre 2019 a causa dell’aumento dei biglietti del trasporto pubblico nella Regione metropolitana di Santiago. L’ennesima goccia d’acqua in un vaso già traboccato. Dagli studenti che, come forma di dissenso, scavalcavano i tornelli delle metro, si sono poi susseguite mobilitazioni di lavoratori di ogni settore, ma anche pensionati, popoli originari, attivisti per i diritti Lgbtq+, ambientalisti e così via. Minimo comune multiplo delle piazze era la parola dignità.

Dopo mesi di proteste, incontri, accordi tra varie forze politiche e gli effetti della pandemia, il 2021 per il Cile verrà ricordato come l’anno di due avvenimenti importanti: l’elezione di un’Assemblea costituente – la prima nel mondo composta nel rispetto dei criteri di parità di genere e dei popoli originari – e la vittoria alle presidenziali del candidato della lista di sinistra Apruebo dignidad, il trentacinquenne Gabriel Boric, che è diventato così il più giovane Presidente della Repubblica della storia cilena.

Chi lo avrebbe mai detto? Forse in pochi. Ma da tanto, troppo tempo, domande provenienti da diversi settori della società erano rimaste inevase. La volontà di cambiare rotta, così come il bisogno di costruire un nuovo patto sociale, sono il riflesso di un processo lungo. Lo attribuiamo, per comodità, al estallido social del 2019 (anno in cui diversi Paesi latinoamericani sono stati scossi dalle proteste sociali). Ma si tratta di un percorso squisitamente interno al Paese, attraversato da fasi alterne e con diversa intensità. Si è partiti con il plebiscito del 1989, fino ad arrivare alle proteste studentesche del 2011 e quelle del 2015 e del 2019.

Proprio dalle mobilitazioni di dieci anni fa si fa strada un giovane Boric, tra i leader dei sindacati studenteschi, che chiedevano a gran voce un’educazione gratuita e di qualità (non garantita dalla vigente costituzione). Solo tre anni dopo, nel 2014, Boric è…


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L’Italia alla ricerca della laicità perduta

Il Rapporto sulla libertà di pensiero di Humanists international, giunto alla decima edizione, è uno strumento che dal 2012 permette di valutare tutti i Paesi del mondo in base al trattamento che riservano alle persone non religiose e ai diritti che vengono loro negati.

Il quadro che emerge, come è evidenziato nell’inchiesta di Leonardo Filippi e Federico Tulli a pagina 16, è tragico. In 144 Paesi gli umanisti, intesi come atei, agnostici e in generale persone non religiose, vengono discriminati. Sono costretti a subire la religione di Stato (in 39 casi), leggi basate sul diritto religioso (35), governanti che incitano all’odio contro di loro (12), sentenze emesse da tribunali religiosi (19), il divieto di ricoprire incarichi pubblici (26), l’obbligatorietà dell’istruzione religiosa a scuola (33). E sono incarcerati, torturati e condannati a morte. Può capitare per blasfemia, nei 6 Paesi che la ritengono meritevole della pena capitale su 84 in cui è ufficialmente punita. Oppure per apostasia, negli 10 Paesi in cui può portare al patibolo su 15 in cui è reato.

Il Rapporto stila la classifica dei 12 Paesi in cui dichiararsi atei comporta la pena di morte: Afghanistan, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Malesia, Maldive, Mauritania, Nigeria, Pakistan, Qatar, Somalia e Yemen. Due di questi probabilmente catturano maggiormente la nostra attenzione. Il primo è…

* L’autore: Roberto Grendene è segretario nazionale della Uaar-Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti


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Il lato oscuro delle religioni

Milioni di cittadini in balìa di una carestia. Colture bruciate dal sole. Mandrie denutrite. Siccità. Quando l’acqua scarseggia, poi, l’igiene è più difficoltosa: ambiente ideale per molte malattie. Non solo. Aumentano le tensioni sociali a causa della scomparsa di numerose attività lavorative e per una popolazione già oppressa dalla povertà si apre il baratro. È così che si ingrossano i flussi delle migrazioni forzate già provocate da conflitti di lunghissima data. Siamo nel Corno d’Africa, in Somalia, nel febbraio del 2019. Ossia, nel pieno di quella che è stata definita una delle crisi ambientali più gravi del millennio. Qui gli effetti concreti del climate change si fanno sentire più che altrove, qui suona vuoto l’eco del bla-bla-bla dei “grandi”. Ma non è tanto delle false promesse che arrivano dal Nord del mondo – il cui stile di vita è la causa principale del global warming – che vi vogliamo parlare.

Mahmoud Jama Ahmed nel febbraio del 2019 era un professore di Scienze umane e sociali all’Università di Hargeisa, una delle principali città somale, nella zona nord-ovest del Paese, parte di quella Repubblica del Somaliland mai riconosciuta a livello internazionale ma comunque in piedi da precisamente trent’anni. Usiamo il tempo imperfetto perché Ahmed non è più un professore universitario avendo perso la cattedra a causa di un post pubblicato su Facebook. Questo: «I Paesi avanzati fanno piovere ma noi preghiamo ancora per la pioggia, anche se nonostante le nostre preghiere soffriamo ancora ogni anno di siccità. I Paesi avanzati, quelli che consideriamo non credenti e Dio li odia, vivono nella prosperità anche se Dio li odia. Significa che hanno vinto Dio con la conoscenza e usando la ragione. Quindi, dovremmo imparare e basare la nostra vita sulla ragione e sulla conoscenza, non sui miti». E cosa c’è di strano, vi starete chiedendo, nel post del prof. Mahmoud Jama Ahmed? Parrebbe più che legittimo, di fronte ad emergenze del genere, esortare ad attivarsi rapidamente per realizzare contromisure concrete, facendo alla scienza e alla tecnica, alla politica, al mondo della cultura. E infatti il suo post iniziò a viaggiare di bacheca in bacheca, diventando virale.

Ma a un certo punto ha avuto la sfortuna di…


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