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No a Draghi presidente della Repubblica. In nome della Costituzione

Foto Riccardo Antimiani/POOL Ansa/LaPresse13-12-2021 Roma - ItaliaPoliticaRoma, Il Presidente del Consiglio Mario Draghi alla Conferenza nazionale sulla disabilità.Nella foto: Il presidente del Consiglio Mario DraghiPhoto Riccardo Antimiani/POOL Ansa/LaPresse13-12-2021 Rome - ItalyPoliticsRome, Prime Minister Mario Draghi at the National Conference on Disability.In the picture: Mario Draghi

Aver affidato a suo tempo a Draghi il compito di formare l’attuale governo, che si sia favorevoli o contrari, rispondeva ad una logica: l’emergenza. Non si poteva, si diceva, in piena pandemia, con il Pnrr da redigere, con il rischio di una grave crisi economica, andare alle elezioni, e gettare il Paese nel vuoto.
E quindi si scelse Draghi, uomo fidato, esperto, autorevole, stimato nei circoli che contano, in Europa e nelle sue istituzioni, “affidabile”, di sicura statura internazionale.
Già su questo bisognerebbe con onestà riconoscere che, in assoluto, affidare ad un “esperto” le sorti del Paese, di per sé non dice molto, di certo non dice tutto delle implicazioni conseguenti, perché anche la scelta dell’esperto in questione comporta scegliere una precisa direzione di marcia.

L’Italia è piena di bravi ingegneri, medici, sociologi, economisti, cui però nessuno si sogna di tramutarli automaticamente in ministri dei Lavori pubblici, o della Sanità o delle Finanze, senza sapere a quale progetto, a quale idea di Paese, mettono a servizio le loro competenze, perché un ingegnere non è uguale ad un altro. Sarebbe facile, così non fosse, formare un “governo dei migliori”, sempre.
Perciò la scelta di Draghi ha risposto ad una precisa direzione di marcia cui tutti i partiti dell’attuale governo, hanno, sia pure con sottili, e talvolta ingiustificabili, distinguo, deciso di aderire. Tuttavia, al di là di queste premesse doverose, quella scelta, apparentemente, si giustificava con la temuta “emergenza”, e però aveva in sé, come fortemente evidente in questi giorni, un tarlo dannoso per la nostra Repubblica: l’idea cioè che l’emergenza giustifichi qualunque cosa.

Parlare oggi di Draghi presidente della Repubblica, o anche di confermarlo alla guida dell’esecutivo, quale scelta più utile (conveniente) per il Paese (i partiti) ci dice invece alcune cose fondamentali sottaciute, a prescindere della sua personale figura.
Se da un lato è vero che la nomina di Draghi a PdC o PdR è perfettamente legittima sul piano puramente formale della nostra Carta fondamentale (che, può piacere o meno, è tuttora vigente) tuttavia essa è pervasa, in tutto il suo corpo, da una forte spinta partecipativa.

Non è un caso che la nostra sia una Repubblica parlamentare, con una tanto forte caratterizzazione in tal senso da prevedere addirittura due Camere sostanzialmente identiche (quindi con una forte valorizzazione del confronto), come non è un caso che si affidi ai partiti la libera organizzazione del consenso, «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49).
Proporre come ineludibile la figura di Draghi (e per altro verso ugualmente insistere sulla riconferma del pur ottimo presidente Mattarella, che però fortunatamente pare non voler partecipare a tale insensatezza) significa alterare lo spirito della Costituzione, andare oltre, forzarne il senso, modificarne di fatto il sentimento, proprio in quanto non prevede alcun “libero convincimento” popolare.
Nessun programma viene proposto alla discussione e approvazione popolare, ma si discute di Draghi a prescindere, pur non avendo egli alcuna “legittimazione popolare” (a meno di dare valenza “giuridica” ai sondaggi).

E ciò è una novità assoluta, perché pur avendo avuto altri presidenti del Consiglio non passati dal responso elettorale, tuttavia quelli erano comunque espressione di forze politiche con un loro programma e consistenza (Letta, Renzi, Gentiloni, Conte), o rappresentavano una effettiva “eccezione” non ripetibile (Ciampi) o ancora sono comunque dopo passati (e già questa era una forzatura) per le urne e bastonati (Monti).
Mai nessuno che fosse riconfermato a prescindere a “furor di partito” anziché di popolo.
Così facendo i partiti, tutti, da un lato rinunciano al ruolo loro affidato dalla Costituzione di organizzatori della volontà popolare, e quindi di rappresentanti dei diversi interessi (relegando il Parlamento ad una funzione puramente notarile di ratifica delle decisioni dell’esecutivo e del PdC in primis), e dall’altro denunciano indecorosamente di non trovare al proprio interno personalità altrettanto autorevoli cui affidare il Paese.

Il dibattito nei partiti sul ruolo futuro di Draghi (per taluni da “tutelare”) pare prescindere quindi dal proporre una propria visione da discutere nel Paese, e dalle cui indicazioni trarne le conseguenze, ma da risolvere entro le proprie segreterie: il contrario della spinta partecipativa cui la Costituzione si ispira.
Tutto ciò trasmette, inoltre, il senso di una condizione di “emergenza continua” per il futuro, tale da giustificare il perdurare della figura di Draghi a garante della stabilità ben oltre l’attuale governo, sia in caso di presidenza della Repubblica (sette anni), accompagnato da un capo dell’esecutivo a lui “gradito”, sia in caso di conferma quale presidente del Consiglio.

Un’idea di emergenza continua cioè che quindi, come per la scelta fatta per l’attuale formula di governo, non faccia passare le scelte da compiere attraverso la volontà popolare, che non significa invocare puramente il voto, ma invocare un dibattito sul futuro del Paese, una discussione, confronto tra idee, progetti, visioni.
Insomma una resa della politica, quella nobile, al demiurgo di turno, chiunque esso sia, utile solo a garantire e rassicurare i mercati e la finanza.
E tutto ciò è possibile semplicemente e amaramente perché in fondo, specie a sinistra, ci si è avviati ad una accettazione sostanziale del sistema attuale, non ipotizzarne un cambiamento, e accettare la supremazia dei mercati e della finanza.

Altro che presidenzialismo di fatto, cui qualcuno ha accennato con una certa dose di sincerità (ingenua?), ma una vera e propria riforma di fatto della Costituzione.
Non si tratta quindi di un vacuo appello populista alle virtù salvifiche del voto, ma un appello alla politica a riappropriarsi dei propri compiti, assumersi le proprie responsabilità, non pensare alla pura riproposizione di sé stessi, e poi chiedersi ipocritamente i motivi della disaffezione e dell’astensionismo ormai di massa. È tempo di finirla con questa destrutturazione di fatto della Costituzione, e riproporre una doverosa se pur minima difesa del sudore e del sangue di chi ha costruito questa Costituzione e l’ha difesa.
Per tutto questo bisogna dire no a Draghi, in qualunque ruolo (e no, se pure con un sentito ringraziamento, al presidente Mattarella).
I partiti si assumano le proprie responsabilità e abbiano il minimo orgoglio di lavorare per giustificare la propria esistenza come prevede la nostra cara Costituzione.

La cretina ostinazione

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 17-11-2021 Roma, Italia Politica RAI - trasmissione 'Porta a Porta' Nella foto: Renato Brunetta ministro Pubblica Amministrazione Photo Mauro Scrobogna /LaPresse November 17, 2021  Rome, Italy Politics RAI - 'Porta a Porta' broadcast In the photo: Renato Brunetta Minister of Public Administration

Su questa imperante narrazione per cui non conta il dato sui nuovi contagi ne ha scritto benissimo Lorenzo Ruffino per Pagella politica: «I nuovi contagi restano ancora l’indicatore più tempestivo per capire come sta evolvendo l’epidemia di Covid-19 nel nostro Paese. Rinunciare a guardarlo per concentrarsi su altri indicatori, come quelli su ricoveri o decessi, vuol dire rinunciare a capire che cosa sta succedendo e rendere inutili eventuali misure per combattere la pandemia. L’andamento dei casi gravi di Covid-19 dipende dal numero totale di casi, anche con i vaccini. Sapendo quanti sono e quale età hanno, si possono fare delle stime per capire quale sarà l’impatto nei giorni seguenti sugli ospedali ed eventualmente capire perché sta andando diversamente da quanto atteso. In Italia, ad esempio, il basso impatto che si è avuto per ora sugli ospedali dipende molto dal fatto che i casi sono principalmente concentrati tra i più giovani. Ma uno spostamento dell’epidemia sui più anziani può determinare una situazione diversa».

E i nuovi contagi, nonostante i giornali abbiano immediatamente abbandonato i toni allarmistici prima usati come attacco al governo (l’altro) sono schizzati. A ben vedere anche le occupazioni ospedaliere cominciano a preoccupare e poiché quasi tutti siano d’accordo che siamo ancora lontani dal picco, è prevedibile che tra poco gli ospedali saranno in seria difficoltà. Già completamente scoppiato è il sistema dei tamponi e del tracciamento.

Tra le cose di buonsenso da fare c’è, sembra perfino banale doverlo spiegare, lo smart working. Ieri il segretario generale Confsal, Angelo Raffale Margiotta, ha scritto: «Stiamo assistendo a un crescente aumento dei contagi, per il diffondersi di nuove varianti, con conseguenti misure di quarantena, sia per i colpiti sia per chi ha avuto con gli stessi contatti, che moltiplicano le assenze a dismisura». In una lettera al ministro Renato Brunetta Confsal parla di «forte disagio» per le attività lavorative ordinarie e «grande preoccupazione tra i lavoratori per l’effetto che tale situazione potrebbe determinare anche nell’ambito familiare». Sulla stessa linea Marco Carlomagno, segretario generale Flp (Federazione dei lavoratori della Funzione pubblica): «Il governo – ha detto – ripristini il lavoro agile emergenziale anche nella pubblica amministrazione. E’ una necessità per la sicurezza dei lavoratori».

Il presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta, si è espresso in favore del lavoro agile. «Tutte le misure messe in campo finora dal governo – per Cartabellotta – sono una sommatoria di pannicelli caldi che non riescono a rallentare la circolazione. Adesso vediamo cosa verrà fuori dal prossimo consiglio dei ministri. Bisogna limitare i contatti sociali, magari incrementando lo smart working. Mi preoccupa che si prenda tempo prima di assumere decisioni, perché i numeri sono già evidenti».

Brunetta, ovviamente, risponde da par suo: «Alla luce della grande flessibilità riconosciuta alle singole amministrazioni – scrivono dal ministero – e dell’esigua minoranza di dipendenti pubblici che potrebbe realmente lavorare da casa, risulta, dunque, incomprensibile l’invocazione dello smart working per tutto il pubblico impiego. Un “tutti a casa” come sperimentato, in assenza dei vaccini, durante la prima fase della pandemia nel 2020, legato al lockdown generalizzato e alla chiusura di tutte le attività economiche e di tutti i servizi, tranne quelli essenziali. Non è questa la situazione attuale».

L’odio scellerato di Brunetta verso i dipendenti pubblici è uno degli spigoli più orribili di questo governo. Pensare di fare finta che non stia accadendo nulla (così come avviene per la scuola) è una cretina ostinazione che piacerà sicuramente agli amichetti di questo governo (che valutano le pandemia in base ai fatturati). Quando nelle prossime settimane ci si accorgerà di avere osato condizioni che non è possibile mantenere potremo dire che l’ottusità inutile di Brunetta e compagnia è degna del peggior governo dei peggiori? Potremo dirlo?

Buon martedì.


 

Salviamo Julian Assange

Appello urgente del Premio Nobel della Pace Adolfo Pérez Esquivel

Ai popoli del mondo, alle organizzazioni sociali, ai sindacati, alle università, ai giornalisti, ai mezzi d’informazione, ai governi democratici e alle donne e agli uomini di buona volontà che si impegnano per la libertà e i diritti dei popoli. La vita di Julian Assange è in pericolo. Il governo degli Stati Uniti continua a perseguirlo per aver pubblicato documenti che denunciano le atrocità che questo governo ha commesso e continua a commettere nel mondo: violenze, invasioni, colpi di Stato, uccisioni e torture, persecuzioni a Paesi che professano ideologie diverse, embarghi economici. Tutto questo rimane nell’impunità giuridica e sociale. Gli Stati Uniti continuano a disconoscere lo stato di diritto e violano i diritti umani e quelli dei popoli.
Chiedono l’estradizione di Julian Assange. Lì rischia una condanna di 175 anni di carcere e questo solo per aver pubblicato queste atrocità.
Dopo 6 anni di rifugio politico presso l’ambasciata del Ecuador a Londra è stato consegnato alla polizia britannica. Da allora si trova rinchiuso in una prigione di massima sicurezza. Ora la Corte Britannica ha deciso di estradarlo negli Stati Uniti. Ciò significa condannare a morte un difensore della libertà d’informazione e costituisce una grave minaccia per la libertà di stampa. Chiediamo alla Corte Britannica di rivedere la propria sentenza e di liberare Julian Assange.

Tra i firmatari italiani:
Vincenzo Vita, Moni Ovadia, Lucio Manisco, Raul Mordenti, Maurizio Acerbo, Francesca Fornario, Citto Maselli, Angelo D’Orsi, Luigi De Magistris, Vittorio Agnoletto, Massimo Dapporto, Beppe Giulietti, Fiorella Mannoia, Loredana Minà, Gianni Minà, Giovanni Russo Spena, Barbara Spinelli, Luigi Ferrajoli, Maurizio Falli, Raniero La Valle, Eleonora Vittori, Armando Spataro, Stefano Galieni


L’appello è stato pubblicato su Left del 24 dicembre – 6 gennaio 2022

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SOMMARIO

Dipingere è sentire. Cinquanta opere di Constable alla Reggia di Venaria

«Painting is but another word for feeling» La pittura non è che un altro modo per dire sentire”- è la frase che accoglie il visitatore, lo cattura e lo accompagna come un leit motiv per tutta la bellissima mostra del grande paesaggista John Constable (1776-1837), massimo esponente della pittura romantica inglese insieme al contemporaneo Joseph M. William Turner (1775-1851). La mostra John Constable, paesaggi dell’anima alla Reggia di Venaria fino al 5 febbraio è curata da Anne Lyles e organizzata in collaborazione con la Tate Britain che possiede la più importante collezione del mondo di opere di Constable. (E in partnership con la Fondazione Torino Musei e con la Gam Galleria d’Arte Moderna di Torino). Ospitata nello splendido e monumentale scenario della Reggia sabauda, la mostra si impone in tutta la sua semplice maestosità lungo un percorso espositivo raccontando cronologicamente la vicenda artistica del maestro della pittura romantica inglese.

John Constable, Il ruscello del Mulino, 1810

Tra le oltre cinquanta opere figurano anche dipinti di artisti, a lui coevi, quali, Turner, John Linnell, Benjamin West ed altri. L’esposizione che si articola in sei sezioni tematiche (1. Suffolk, 2. Dipingere la natura, 3. Le prime influenze e i pittori contemporanei, 4.Via dalla città: la campagna di Hampstead e la malattia della moglie, 5. il mare di Brighton e la cattedrale di Salisbury, 6. Gli ultimi anni di vita.) comprende gli schizzi e i dipinti di piccole dimensioni realizzati ad olio en plein air, suo tratto distintivo tra 1809 e 1829, fino ai più importanti e vasti paesaggi romantici, six footers, (sei piedi, nda) dipinti a larga scala ed eseguiti anche in studio. Per Constable la pittura all’aperto, utilizzata nel XVII secolo come pratica formativa, consentiva di catturare l’essenza della Natura, ”la sorgente da dove tutto deve nascere”. Secondo l’estetica di Immanuel Kant, Constable raffigura una Natura pittoresca, ospitale e rassicurante mentre il suo conterraneo Turner si distingueva come pittore del Sublime, e cioè di una Natura che affascina ma insieme suscita terrore nell’uomo.

John Constable, La Cattedrale di Salisbury vista dai prati, 1831

Predestinato dal padre, proprietario di due mulini ad acqua, situati lungo il corso del fiume Stuor, a diventare erede della sua attività di mugnaio, nel 1799, John, il cui sogno era, diventare un artista, lasciò la contea di Suffolk, nella regione dell’East Anglia, recandosi a Londra per frequentare la Royal Academy of Fine Arts. Negli anni formativi si esercitò a lungo sui grandi maestri, mostrandosi sensibile all’opera di Thomas Gainsborough, e ai paesaggi classicisti di Nicholas Poussin e Claude Lorrain, in auge tra la fine del XVIII e i primi del XIX secolo. Iniziò ad esporre per la prima volta i suoi paesaggi nel 1802 ma dovette attendere il 1819 per diventarne membro “associato” e il 1829 per esserne nominato Accademico a pieno titolo. Nonostante l’abilità nel disegno anatomico, la sua affermazione come artista fu molto lenta forse proprio a causa dei suoi paesaggi che niente avevano a che vedere con il “paesaggio ideale”.  Pur avvalendosi delle leggi e delle dinamiche che governano la natura Constable non la imitava, e neppure la idealizzava; amava dipingere il paesaggio che lo circondava in modo diretto senza contemplazione; un’identificazione panteistica dell’artista nel paesaggio naturale, con lo scopo di scoprire lo” spirito” della natura stessa, un’idea decisamente rivoluzionaria per il tempo.
I luoghi della sua pittura diventarono così i luoghi dei suoi “affetti”, forse luoghi dell’anima, quelli a cui è sentimentalmente legato, come scrisse il suo principale biografo Charles Robert Leslie.

John Constable, A Cornfield (Un campo di grano), 1817

I numerosi schizzi amatoriali e i bozzetti ad olio realizzati in gioventù all’aperto, realizzati su tele di piccole dimensioni ritraggono le rive dello Stour, le campagne di Dedham e il paesaggio nei pressi del Mulino di Flatford: “Collego la mia infanzia spensierata a tutto ciò che circonda le rive del fiume Stour. Esse hanno fatto di me un pittore e ne sono grato”.
Gli scenari bucolici dove trascorse la fanciullezza rimasero i soggetti preferiti di Constable, che continuò a dipingere affidandosi alla memoria anche quando, dopo il matrimonio nel 1816 con il suo primo grande amore, Mary Bicknell (insieme ebbero sette figli), non trascorse più molto tempo nel Suffolk, stabilendosi invece nel quartiere londinese di Bloomsbury. In seguito, quando la moglie si ammalò di tubercolosi, Constable iniziò a spostarsi in una serie di località più salubri per la salute dell’ amata, sebbene mai al di fuori della Gran Bretagna cominciando a dipingere i nuovi luoghi che via via frequentava. Nel 1819 si trasferì a Hampstead, in campagna, a nord di Londra dove fu rapito dagli angoli nascosti del villaggio e dal paesaggio, che si snodava in sentieri e specchi d’acqua. Ma è qui che l’artista dipinse i suoi famosi studi ad olio del cielo, elemento naturale che aveva iniziato a studiare già a partire dal 1803 e al quale dedicò centinaia di tele, insieme agli effetti delle nuvole in forme infinite e in innumerevoli variazioni cromatiche e luministiche, componenti fondamentali del paesaggio britannico, interpreti di una Natura madre e matrigna, in accordo con la sensibilità romantica del tempo. Lo stesso soggetto venne studiato in diverse stagioni dell’anno ma anche in differenti momenti di uno stesso giorno registrando in appunti o direttamente dietro gli schizzi le osservazioni dei fenomeni atmosferici. Dal 1824 al 1828 Constable si trasferì a Brighton, sulla Manica, con la speranza che il clima marino più mite potesse contribuire alla guarigione della moglie che invece morì, nel 1828, a soli quarant’anni e della cui perdita non si riprese più.

E’ di questi anni uno dei suoi dipinti più grandi e ambiziosi, The Chain Pier di Brighton , esposto presso la Royal Academy nel 1827 che ritrae pescatori che riparano le reti e gente al passeggio sul bagnasciuga, sotto un cielo minaccioso. Si deve alla sua amicizia con due alti prelati anglicani della Cattedrale di Salisbury uno dei suoi dipinti più famosi, l’ampia veduta de “La Cattedrale di Salisbury vista dai campi”-Salisbury Cathedral from the Meadows (1831), con un singolare arcobaleno, iniziato nel 1829 su incoraggiamento del’ l’Arcidiacono Fisher per la perdita della moglie.
La forza della sua pittura consisteva proprio nella capacità di esplorare, in ogni particolare, gli elementi visivi che formano il paesaggio. Il colore applicato direttamente sulla tela con pennellate veloci e intense, senza un disegno compositivo, plasmava con vigore i volumi, determinando un forte contrasto tra luce e ombra, quello che lui chiamerà «chiaroscuro naturale», chiaroscuro della natura, per ricercare la luce naturale, ombreggiata dalle nubi o riflessa dall’acqua.

John Constable morì improvvisamente a Bloomsbury nel marzo del 1837 e fu sepolto nel cimitero della chiesa di St John a Hampstead accanto alla sua Mary. Un giornalista nel necrologio commentò «che immensa perdita per l’Academy e per il pubblico; tutte le sue opere, adesso che se ne è andato, riceveranno una grandissima stima». E così fu.

Italia V come Vendetta

Il dibattito politico del primo giorno del 2022, lo so, vi sembrerà incredibile, verte sul presunto ritorno di Bersani nel Pd e su una frase di D’Alema. Capite bene che il fatto che una frase di D’Alema possa “sconvolgere” lo scenario politico (anche se solo per un giorno) racconta come l’agone rimanga sempre un’accolita di briosi vendicativi che si impegnano per travestire insignificanti e per niente interessanti odi personali in azioni di una qualche valenza politica.

La cronaca è un dirupo di pochezza: D’Alema dice che il Pd è guarito da una malattia riferendosi a Renzi e i suoi accoliti. Una frase che potrebbe essere trattata come la rivendicazione di un giocatore d’antan viene presa terribilmente sul serio da Renzi che non vede l’ora di spargere un po’ di vittimismo accusando D’Alema di averlo definito “malato” (mentre “malato” per D’Alema era il partito ma Matteo, si sa, ha sempre avuto difficoltà a scindere le due cose).

Sui social le bestioline di Italia Viva si scatenano sentendo l’odore dell’osso e dall’altra parte una difesa effettivamente eccessiva per un ex giocatore. Tutto il giorno così, a bastonarsi. Sullo sfondo Bersani che viene tirato in mezzo.

In sostanza un’intera giornata si consuma con le rivendicazioni di due partiti che sono in disaccordo (Italia Viva non è nata per questo?) e che vorrebbero decidere l’uno le sorti dell’altro. Come due acidi amanti che hanno come missione la distruzione dell’ex.

La scena, da fuori, è deprimente.

Intanto la variante Omicron sta imperversando in Italia e il governo si strizza per chiarire un modello rivisto di quarantene che non hanno capito nemmeno loro. A tal proposito, mi perdonerete, mi permetto di riportare un’esperienza personale abbastanza significativa: già malato per 2 volte di Covid mi sono ammalato per la terza volta con l’inizio del nuovo anno. Due vaccini fatti (terza dose booster prenotata a breve) ma la positività è stata impossibile da ufficializzare perché i tamponi (con febbre) si riusciranno a recuperare forse oggi. Sono un paziente fragile, a un passo dal ricovero. Sarà pur vero che siamo di fronte a una raffreddorizzazione come dice qualcuno ma questo “raffreddore” è qualcosa che non augurerei a nessuno.

Vacciniamoci. Buon lunedì.

Mario Di Vito: Le mie cronache dall’Appennino resistente

Mario Di Vito, giovanissimo reporter e cronista marchigiano, è uno dei pochi che in questi anni hanno raccontato l’Italia centrale e la provincia vera, quella dei piccoli paesi e dalle mille contraddizioni. Lo ha fatto dalle pagine del Manifesto con il piglio dell’osservatore militante, la capacità espressiva del cronista di razza, ma anche con i mezzi del narratore (è anche autore di romanzi gialli come Il male minore, per Affinità Elettive, Dieci minuti alla mezzanotte, Fila 37). Nei suoi libri ibridi mescola con grande abilità i fatti giornalistici con l’inchiesta, l’affresco politico-sociale con il racconto tout court degli ambienti di un’Italia nascosta, minore, quella umbra, marchigiana, abruzzese, un tempo culla del benessere diffuso e della cultura progressista, oggi investita da una profonda crisi economica e di valori.

Mario Di Vito, hai iniziato il tuo lavoro sul campo al Manifesto proprio raccontando il terremoto dell’Italia centrale, una serie di reportage che poi sono diventati Dopo. Storie da un terremoto negato (Poiesis Editrice). Che rappresentazioni sociali, politiche, culturali si sono sviluppate in quel microcosmo?
A distanza di cinque anni da quelle scosse che hanno cambiato forse per sempre la storia e la geografia dell’Italia centrale, possiamo dire che i terremotati sono gli unici che continuano a resistere alla cosiddetta strategia dell’abbandono, ovvero a quella serie di pratiche che mirano allo svuotamento dell’Appennino per farne un parco giochi per turisti. Contro molte previsioni, le persone che vivevano in quelle zone prima del sisma vorrebbero tornarci e sono pochissimi quelli che hanno, pur legittimamente, scelto di cambiare vita e città: la crescita delle domande di ricostruzione degli immobili dice soprattutto questo. Chi conosce gli abitanti dell’Appennino non ha mai avuto dubbi sulla loro, diciamo, vocazione resistenziale. Naturalmente le forze sono quelle che sono: si tratta, a conti fatti, di poche decine di migliaia di cittadini che interessano poco ai media mainstream e, soprattutto, alla politica, perché non rappresentano un grande bacino elettorale. Va detto, poi, che chi ci ha messo le mani, la destra, ha usato i terremotati come clava propagandistica, paragonando le loro condizioni a quelle dei migranti, giocando a mettere gli ultimi contro i penultimi. Il problema è che il discorso ha funzionato negli anni passati e il clima si è avvelenato: vediamo paesi confinanti che si fanno la guerra per poco o per niente, invidie, manie di protagonismo, opportunisti che hanno usato il terremoto per fare carriera e candidarsi qua e là. Io ho cercato di lavorare su queste storie in maniera diversa, provando a rispettarne la complessità e pure le contraddizioni. In fondo il reportage, il lavoro sul campo, è…


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Gli scettri dei calpestati

Qualche secolo fa cominciarono a partire navi dai Paesi europei alla ricerca di nuove terre. Quelle navi non portavano migranti, anche se in realtà milioni di persone si sarebbero spostate molti anni dopo in altri continenti proprio in virtù delle scoperte fatte dai naviganti su quelle prime imbarcazioni. Quelle navi erano abbastanza piccole, portavano alcune decine di persone, che andavano a cercare nuove terre per spirito di avventura ma soprattutto per scoprire nuove ricchezze ed allargare i commerci e i traffici. Nessuno probabilmente immaginava a quell’epoca che intere e potenti nazioni sarebbero sorte sulla scia delle scoperte avventurose di pochi. Passarono i secoli e ad un certo punto divenne chiaro a quelle che allora erano le potenze mondiali e le dominatrici dei commerci per i mari che era venuto il momento di ampliare i propri orizzonti ed andare alla conquista permanente di nuove terre per allargare i commerci e le proprie ambizioni di sovranità.

A nessuno verrebbe in mente, almeno nell’Europa Occidentale, di chiamarli migranti, partivano con la consapevolezza che esistevano terre inesplorate (termine usato da parte degli Europei) e che la gara alla conquista del mondo per colonizzarlo era partita e non si sarebbe più fermata. Volenti o nolenti quelli che quelle terre le abitavano da millenni. Perché bisognava portare la cultura e la libertà, che erano considerati sinonimi dei commerci ed affari. Chi non accettava la visione coloniale degli Europei era non solo un nemico delle potenze navali ma anche un nemico della civiltà che doveva inesorabilmente progredire. Era nata l’epoca dell’imperialismo che portava con sé una giustificazione di fondo nel fatto che gli indigeni ovunque fossero non erano all’altezza delle nuove idee sul mondo, e lo erano in quanto razze inferiori a quella bianca degli Europei, organizzatori delle spedizioni navali alla scoperta delle terre dei nativi inconsapevoli che dovevano inesorabilmente essere scoperti prima o poi.

Un aspetto non secondario era che oltre alle ricchezze naturali delle nuove terre scoperte, anche le ricchezze dei popoli scoperti andavo razziate. Non solo gli oggetti in oro ed in metalli preziosi ma anche gli oggetti interessanti per il loro carattere di oggetti unici e fuori dall’ordinario, di oggetti esotici e misteriosi. Molti di questi oggetti avevano per quei popoli anche una valenza religiosa e mitica. Distruggerli o portarli via distruggeva anche la identità ed i valori dei popoli. Per affermare insomma il potere su quelle popolazioni diverse e distanti. Tra i tanti che si avventurarono in terre lontane, solcando gli oceani, James Cook è…


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La pandemia è il soldo

Si chiude l’anno con una riforma del fisco che porterà a una riduzione media del prelievo per 27,8 milioni di contribuenti pari a 264 euro lanno. Ma sarà maggiore per i redditi medio alti (quelli tra 42 e 54mila euro): 765 euro. Il 20% delle famiglie più povere è sostanzialmente escluso dai benefici per effetto dellincapienza fiscale. Si è deciso di lasciare indietro i più poveri e premiare le classi più abbienti. E non venite a dirci che “non sono ricchi” e tutta la solita manfrina: sono più ricchi di quelli che non hanno ricevuto benefici dalla riforma. Questo è il punto.

Si chiude l’anno con un aumento del 55 per cento di rincaro per l’elettricità e del 42 per cento del metano dal primo gennaio. Una «situazione senza precedenti» ha detto il presidente dell’Autorità per l’energia che consiglia di consumare di meno. L’Autorità conferma che gli interventi del governo non basteranno. Anche in questo caso il governo non è riuscito a decidere di far pagare ai più ricchi un contributo di solidarietà alle famiglie in difficoltà. Questo è un altro punto.

A proposito di lavoro: il presidente Draghi, in conferenza stampa, ha dichiarato il falso sulla sua manovra (affermando che sarebbe stata a favore delle classi più disagiate, mentendo) dimostrando di non avere alcuna intenzione di ascoltare le richieste dei sindacati. Del resto come potrebbe ascoltare qualcuno che sciopera per un problema che secondo Draghi non esiste? Questo è un altro punto.

In questo anno abbiamo assistito al più coordinato attacco ai poveri perché considerati truffatori (con il reddito di cittadinanza), sfaticati (secondo le interviste di presunti brillanti imprenditori) o peggio troppo pretenziosi perché non accettano in silenzio di fare gli schiavi. In un’Italia che dovrebbe vergognarsi per la mancata crescita dei salari negli ultimi decenni c’è chi ha il coraggio di chiedere sacrifici ai lavoratori. L’area confindustriale del Paese non è mai stata così vispa come sotto al governo Draghi. Questo è un altro punto.

Si è passati dalla strategia della cautela al liberi tutti nei confronti della pandemia. Con il solito trucco si è trovato un colpevole (questa volta sono i no vax), ci si occupa di instillare odio e intanto si cancellano le quarantene perché non si è in grado di tracciarle e controllarle, si concedono tamponi di ogni sorta per entrare e uscire dalla malattia perché non si è in grado di tenere sott’occhio i tamponi. Prima si discuteva dell’equilibrio tra salute pubblica e profitto, ora la direzione è chiarissima. Ah, a proposito: si odiano i non vaccinati ma guai mettere mano alla vaccinazione obbligatoria. Si rischia di adombrare Salvini e compagnia cantante. Questo è un altro punto.

A proposito di lavoro: in Italia se un padrone non vede un suo dipendente sudare sangue avendolo sotto gli occhi ogni minuto si dà per scontato che l’economia si fermerebbe. Quindi mentre tutto il mondo parla di smart working da noi un ministro che ha un’idea del lavoro antica e inutile come Brunetta si vanta di non dare scampo ai dipendenti pubblici con la faccia di chi gode tantissimo. Con 100mila contagiati al giorno. E lo stesso vale per quei sindaci preoccupati da un eventuale calo del Pil del tramezzino se dovessero chiudere gli uffici. Questo è un altro punto.

Non ci sono soldi per i poveri alle prese con le bollette ma il Paese schizza in spese militari, preferibilmente con sanguinari dittatori che hanno ucciso o torturato nostri studenti. Questo è un altro punto.

Il Pnrr non è comunicato. Lo dicono le ricerche che raccontano perfettamente come la gente ne sappia poco, ci capisca poco e trovi poche informazioni. Messi nero su bianco i buoni propositi (ovvero stabilito come ci si spartisce i soldi) Draghi ci fa sapere di avere fatto ciò che doveva e perfino il ministro Cingolani dice di avere espletato il proprio compito. Una volta si fingeva almeno di occuparsi dei buoni propositi per qualche tempo dopo averli venduti. Ora nemmeno quello. Questo è un altro punto.

A proposito, ricordate lo spread? Quello che a un certo punto valeva come super green pass (ancora prima che esistesse) per decidere se un governo fosse bello o brutto? Sta salendo, come accade con i governi sporchi e cattivi. Però ci hanno spiegato che la colpa è della vice ministra Castelli. Mica di Draghi.

Buon anno. Appena si spezzerà l’incantesimo vedrete frotte di consapevoli in ritardo come sempre. Poi ci divertiremo, nei prossimi anni, a renderci conto dei danni provocati mentre noi eravamo distratti.

Buon anno.

 

Apocalypse economy

Un film politico travestito da commedia grottesca, o, se preferite, un film iperrealista travestito da film di fantascienza. Questo è Don’t look up. Il titolo (“non guardate in alto”, cioè verso la cometa che punta dritto contro la Terra) riprende l’esortazione dei negazionisti a non dare ascolto a professoroni e gufi, direbbero Renzi o Berlusconi, che denunciano il disastro ambientale in corso o che si rifiutano di osannare il nuovo Rinascimento delle petromonarchie del Golfo.

Questo film non mette in scena singoli individui, o meglio, non parla di Donald Trump più di quanto non parli di Hillary Clinton, non parla di Steve Jobs e del suo pseudospiritualismo più di quanto parli dell’ottimismo tecnologico di Elon Musk. Don’t look up dipinge alcuni idealtipi in forma ironica e caricaturale. La presidentessa degli Stati Uniti (Meryl Streep), la cui unica preoccupazione sono le elezioni di midterm e la propria rielezione, rappresenta “il” sistema politico occidentale, dipendente dalle lobby economiche e ombelicamente concentrato su un orizzonte di brevissimo termine, secondo il modello della speculazione finanziaria. Peter Isherwell (Mark Rylance), il potentissimo imprenditore che finanzia la campagna presidenziale vede nella cometa in arrivo una miniera di terre rare e minerali preziosi da sfruttare, rappresentando benissimo “il” modo di ragionare e di agire delle multinazionali. La conduttrice televisiva Brie Evantee (Cate Blanchett) incarna il sistema dell’infotainment e la sua stupidità. Fra i principali cultori dell’ignoranza, come mostra il film, c’è il carrozzone mediatico. A cominciare da un certo giornalismo televisivo le cui priorità non dipendono dal valore della notizia. Persino l’annuncio della fine del mondo finisce in coda alla rottura fra la pop star Riley Bina (Ariana Grande) e il fidanzato. La giornalista Brie Evantee e il suo collega riescono a svuotare di senso qualsiasi notizia e a depotenziare qualsivoglia contenuto. Non ne esce meglio neppure il giornalismo della carta stampata: il New York Herald – evidente allusione al “democratico” New York Times – decide di non trattare più la notizia perché fa pochi clic.

Peter Isherwell è un magnifico frullato di Steve Jobs, Elon Musk, Peter Thiel, Mark Zuckerberg e Bill Gates. È la perfetta incarnazione del green-washing e del social-washing del capitalismo contemporaneo, un filantropo narcisista privo di qualsivoglia empatia. Dietro una maschera che congela un sorriso celestiale ben più preoccupante della risata di Joker si nasconde un’avidità letteralmente sconfinata. Grazie al controllo dei big data, il magnate-profeta sa ogni cosa di noi, persino come moriremo, ma non sa che anche il suo egoistico piano di sopravvivenza riservato ai super ricchi è ne più né meno che una buffonata. E proprio a loro spetta, come contrappasso, la fine più ridicola.
Isherwell, con le sue ricchezze, non compra solo la politica ma anche un esercito di brillanti ricercatori delle più importanti università. Anche grazie al loro contributo, metterà a punto il progetto per accaparrarsi i minerali preziosi contenuti nella cometa, ostacolando il più sicuro piano di deviazione del suo corso. Insomma, il film critica l’antiscientismo tanto quanto la privatizzazione della ricerca, spiegando come i finanziamenti delle Corporation ne orientino direzione e finalità. E non risparmia stoccate a quella parte di mondo accademico che rinuncia alla ragione per inseguire il denaro.

Non è un caso che a rappresentare la scienza ‘disinteressata’ e lo sguardo della minoranza critica di questo mondo siano due astronomi di un’università minore e poco prestigiosa, l’Università del Michigan: il professor Randall Mindy (Leonardo DiCaprio) e la dottoranda Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence). La dottoressa Dibiasky è una donna (questione di genere), è giovane (questione generazionale; più o meno la generazione Thunberg, inascoltata e derisa) e viene dalla periferia popolare dell’Illinois (questione sociale e di classe). Non poteva che essere lei a scoprire la cometa e poi a gridare la rabbia più genuina in faccia a un mondo che non vuole ascoltare e che, malgrado la qualità della sua ricerca scientifica, finisce per etichettarla come pazza squilibrata.

In questo quadro non potevano naturalmente mancare i complottisti. Ma i complottisti sbagliano anche quando esprimono un fondato sospetto verso la verità ufficiale. Lo evidenzierà chiaramente Kate Dibiasky: “Sono troppo stupidi per essere malvagi come credete». Il cuore del film è proprio il disvelamento della stupidità del sistema: una politica in balia “dei mercati” e dei tanti Isherwell in plancia di comando, il cui unico obiettivo è arricchirsi fino ad un istante prima della fine, e dopo la fine.

Quella dei negazionisti e di chi non crede ai calcoli matematici che mostrano l’arrivo della cometa è la stupidità elementare e primitiva di chi si illude che sia sufficiente non guardare una cosa per non farla esistere. Ma la vera e più profonda stupidità è quella dell’1% e cioè di coloro che vogliono intraprendere un’operazione rischiosissima per ricavare profitti dalla cometa anziché scegliere una più semplice e realistica deviazione della sua traiettoria.
Insomma, il film è una distopia realistica che descrive, in modo farsesco, il mondo in cui viviamo. In particolare restituisce il logos del sistema economico globale, l’anima del neoliberismo, qualcuno direbbe lo spirito del capitalismo in quanto tale: la ricerca del profitto ad ogni costo, fosse anche la fine della vita sul pianeta. Perché persino dalla fine del pianeta si ha l’illusione di poter ricavare profitti o, come viene venduto ad un’opinione pubblica pronta ormai a digerire qualsiasi cosa, di generare «posti di lavoro».

Dont’ look up non è un film catastrofico su una cometa che impatta sulla Terra perché nessuno fa nulla di intelligente ma è l’allegoria della catastrofe già in atto, che ha una causa ben precisa: il modello economico dominante. E’ quindi una critica alla ferocia di questo modello e ai suoi protagonisti, sia economici che politici, e ai suoi corifei, il mondo dell’informazione e dell’infotainment. Il regista, Adam McKay, non è nuovo a operazioni del genere: ha firmato alcune delle più spietate e ironiche analisi del capitalismo contemporaneo e del mondo della finanza, dai tempi della collaborazione con Michael Moore fino a “La grande scommessa” e alla serie televisiva “Succession”.

Il film, pensato e scritto prima della pandemia, intendeva raccontare come andremo a sbattere sul muro della catastrofe ambientale e climatica se continueremo con il “business as usual”. Il piano folle di Isherwell (che si riprometteva di salvare capra e cavoli: frammentare la cometa in modo da limitarne l’impatto e allo stesso tempo fare incetta di terre rare, oggi sotto il suolo cinese e fondamentali per le nuove tecnologie) è una parodia della così detta Green-economy, ossia il tentativo di contrastare il cambiamento climatico senza cambiare l’attuale modello di sviluppo. Tuttavia le vicende narrate nel film si adattano perfettamente anche alla pandemia da Covid19, dove il primato dei profitti sulla vita ha condotto Stati e multinazionali a non mettere in discussione i brevetti sui vaccini: un massacro per il sud del mondo ma anche un boomerang per noi del nord, dato che il virus continua a variare.

Arriviamo quindi al finale, senza poter dar conto di tutte le perle disseminate nel film, dal generale che si fa pagare gli snack disponibili gratuitamente, impersonificazione della meschinità e della svergognatezza del potere, fino alla scena esilarante del figlio della presidentessa, nonché suo capo di gabinetto, che di fronte alla catastrofe recita una preghiera “per le cose”, la “roba” di verghiana memoria. L’attuale classe politica e il sistema mediatico sono senza speranza, ambedue funzionali ad un modello economico che tenta di ricavare profitti anche dall’apocalisse, spintosi ormai ben oltre la “shock economy” di cui ha scritto Naomi Klein. Il Leonardo DiCaprio del mondo reale, attivista ambientalista, così come il regista-sceneggiatore del film, iscritto ai Democratic Socialists of America, partito d’ispirazione marxista ed ecosocialista, sanno bene che non è il momento di metterci a recitare una vana preghiera consolatoria e rifluire nel privato, prendendo atto della nostra impotenza. Don’t look up intende spronare alla presa di coscienza e all’azione, proprio per questo non poteva che mostrare un’umanità post-Happy End. Nessun finale retorico e hollywoodiano era possibile, nessun eroe a stelle strisce che salva l’umanità: si tratta piuttosto di darci una svegliata finché siamo in tempo (molto divertente la dissacrazione del sacrificio patriottico di Ron Perlman, fra una citazione del dottor Stranamore di Kubrick e le battute che gli fanno recitare, copiate da “Salvate il soldato Ryan”).

Nel finale pur tragico di questa commedia, nell’accettazione del proprio destino da parte di Randall Mindy e di Kate Dibiasky, c’è comunque un elemento luminoso. L’empatia e la scelta dei due scienziati di morire insieme alle persone amate, proprio mentre la presidentessa dimentica suo figlio sulla Terra.

Una scelta azzeccata quella di girare una commedia sull’imminente apocalisse, perché l’ironia che innerva tutto il film è più potente di qualsiasi pistolotto. Quindi sì, una risata ci seppellirà, oppure un Bronteroc ci divorerà.

Piergiorgio Odifreddi: Il lungo declino dei monoteismi

Foto LaPresse/Nicolò Campo 11/05/2018 Torino (Italia) Cronaca Salone del Libro Internazionale di Torino Nella foto: Piergiorgio Odifreddi Photo LaPresse/Nicolò Campo May 11, 2018 Turin (Italy) News Turin International Book Fair In the pic: Piergiorgio Odifreddi Foto LaPresse/Nicolò Campo 11/05/2018 Torino (Italia) Cronaca Salone del Libro Internazionale di Torino Nella foto: Piergiorgio Odifreddi Photo LaPresse/Nicolò Campo May 11, 2018 Turin (Italy) News Turin International Book Fair In the pic: Piergiorgio Odifreddi

Chi ha vissuto la fine del millennio scorso, fra gli anni Ottanta e Novanta, si immaginava, trasportato da un’economia in crescita e da una visione positivistica di quel momento, un pianeta indirizzato verso una definitiva secolarizzazione, cioè un allontanamento dalle posizioni e dalle tradizioni religiose per raggiungere una società laica e basata nelle sue scelte fondamentali sulla scienza. Invece questi anni Duemila si sono dimostrati, su questo fronte, incredibilmente diversi. Dopo l’11 settembre 2001 si è polarizzata una guerra di religione globale che ha portato, oltre a migliaia di morti, un progressivo radicalizzarsi dei due più grandi monoteismi. Molti Paesi a tradizione cattolica e altrettanti a tradizione islamica hanno fatto un sostanziale passo indietro nella sfera dei diritti civili, “aiutati” anche dai nazionalismi che hanno deciso scientemente di cavalcare questo fenomeno. Lo shock emotivo di una pandemia mondiale ha fatto da comburente al propagarsi di assurde teorie cospirazioniste e all’affermarsi di gruppi di complottisti, come Qanon o i NoVax, sempre più violenti che hanno portato, fra i fatti più gravi, all’assalto a Capitol Hill negli Stati Uniti e per rimanere nel nostro Paese, a quello della sede del sindacato Cgil a Roma. Per approfondire la tematica e comprendere se il momento che stiamo vivendo è frutto di una casualità storica o della tendenza dell’uomo ad aggrapparsi a superstizioni religiose, abbiamo rivolto alcune domande al matematico, divulgatore scientifico e presidente onorario dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, Piergiorgio Odifreddi.

Pensa che ci avvicineremo mai a una società senza religioni o siamo destinati a convivere per sempre con la superstizione?
Ritengo che la speranza di vivere in un mondo secolarizzato sia purtroppo un’illusione. Dico questo perché vedo una generale tendenza a non approfondire, considerando solo gli aspetti superficiali della realtà circostante. Una condizione che nella storia umana ha permesso di prosperare a tantissime categorie di imbonitori, fra cui i sacerdoti, i preti ma anche politici e pubblicitari. Tutte persone che raccontano storie irrealistiche, ma rassicuranti. Un famoso biologo di nome Richard Dawkins, padre dell’ateismo moderno, affermava che così come accade con i geni, anche nel caso delle idee e dei comportamenti culturali non sopravvive chi si dimostra migliore ma il più adatto ad essere trasmesso in quel momento storico. Il pensiero scientifico che io associo alla mancanza di superstizione religiosa, è purtroppo nella nostra società un’eccezione e non la regola.

Quindi secondo lei l’uomo nasce già con al suo interno il pensiero religioso?
Quando nasciamo siamo nudi, dopo ci vestiamo. La religione è come un…


L’intervista prosegue su Left  in edicola fino al 6 gennaio 2022

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