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Le cicatrici della politica del figlio unico, in punta di matita

“Uno non è poco, due sono giusti, tre sono troppi” recitava un celebre slogan dei primi anni Settanta, mentre ora sembra vero il contrario. Si torna a parlare di Cina e di figli unici, un tema spesso al centro di accesi dibattiti che approda all’arte e alla letteratura per raccontare alcune pagine controverse della storia recente. Della politica del figlio unico se ne è parlato ciclicamente ed è di nuovo sotto i riflettori in seguito alla decisione di Pechino di incentivare le famiglie ad avere tre figli, dopo che il recente censimento ha reso manifesta la crisi demografica a cui la Cina sta andando incontro. La politica di pianificazione delle nascite, che ha segnato generazioni di cinesi a partire dalla fine degli anni Settanta, venne lanciata durante l’era di Deng Xiaoping inserendosi in un progetto più ampio che doveva portare la Cina verso la modernità. Molte cose sono cambiate da allora: se prima si cercava di contenere l’aumento delle nascite concedendo alle famiglie di avere un solo figlio – con alcune eccezioni – dal 2016 il limite viene esteso a due, mentre ora con il crollo demografico e una nazione che invecchia sempre di più si invitano le giovani coppie ad averne tre.

Il cambio di rotta auspicato dal partito non può tuttavia cancellare anni di politica di controllo demografico e le conseguenze che ha avuto sulla vita delle persone. Notizie relative agli effetti della pianificazione familiare sulla Storia e sulle storie dei singoli sono giunte sino a noi anche grazie a opere come Le rane del premio Nobel Mo Yan, che ci mostra uno spaccato di realtà velato dalla finzione letteraria. Le ferite lasciate da decine di anni di questa politica sono tuttora aperte, bruciano ancora e continuano ad essere sublimate nell’arte assumendo forme diverse, anche quella generalmente considerata meno impegnata quale il fumetto: cosa si prova quando si perde quell’unico figlio che si poteva avere lo racconta infatti Wang Ning nel suo commovente lavoro Figlio unico, edito da Oblomov. Frammenti di vita che…


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“C’è un soffio di vita soltanto”, storia di umanità e resistenza

C’è un soffio di vita soltanto è il film di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, presentato in anteprima al Festival di Torino. Racconta la vita di Luciano Salani ovvero Lucy, la transessuale più anziana d’Italia, tra i pochi sopravvissuti al campo di concentramento di Dachau. In sala a Roma, Milano, Perugia 10-11-12 gennaio; visibile il 27-28-29 gennaio presso la Cineteca di Bologna, dove, in occasione del Giorno della memoria, saranno presenti gli autori e la protagonista; sempre dal 27 gennaio sarà possibile vederlo su Sky. Film realizzato durante la pandemia, low budget, poetico e scioccante al tempo stesso.

Come è nata l’idea di questo lavoro?

Daniele: È nata per caso, ho visto un’intervista di Lucy su Facebook, che qualcuno aveva postato. Un piccolo video in cui lei parlava del campo di concentramento. L’ho girata a Matteo, lui l’ha vista e ha detto “che bomba di storia!”, abbiamo incominciato a cercare su internet, pensando che già fosse stato realizzato qualcosa su una persona così incredibile, in realtà c’era poco, quasi niente, quindi tramite il Cassero, associazione Lgbt di Bologna, ci siamo messi in contatto con Ambra, che è una ragazza che le è vicina e fa parte di quegli amici che la aiutano a fare un po’ di cose…

Matteo: Una specie di nipote acquisita…

Daniele: Siamo andati un pomeriggio senza telecamere, senza nulla, a trovarla. Abbiamo preso un caffè con lei, abbiamo parlato e le abbiamo proposto un’intervista. Siamo tornati con le telecamere, in 3 giorni abbiamo fatto un’intervista fiume, in cui lei ci ha raccontato la sua vita incredibile e da lì abbiamo capito che volevamo fare altro, non un documentario classico, ma un film che la seguisse da vicino, perché dietro di lei non c’era solo la tragedia del campo di concentramento, ma uno spaccato di storia del Novecento. Poi è arrivata la pandemia, siamo tornati più volte per le riprese, quando è stato possibile, e alla fine, a settembre, siamo andati con lei a Dachau… Successivamente abbiamo ricomposto e dato forma al materiale – i tasselli della sua vita – al montaggio. Non è stato semplice, immagina la nostra apprensione. La sua età, la nostra paura del coronavirus, scherzando ci dicevamo: non l’hanno ammazzata i nazisti, non possiamo essere noi a ucciderla. Ed eravamo molto, molto attenti e cauti…

Matteo: Anche per questo non abbiamo preso l’aereo da Bologna per andare a Monaco, ma due auto.

Daniele: Ci siamo fatti i tamponi tutti più volte, abbiamo cercato di fare il possibile per farla viaggiare in sicurezza

Matteo: La fortuna è che essendo una troupe di 3 persone è stato più facile rispetto a produzioni più pesanti. In fondo questo è un film, tra le altre cose, sulla terza età e la fragilità che ad essa si accompagna, sulla solitudine della terza età, pur essendo lei circondata da tante persone…

Il film è il ritratto di Luciano Salani ovvero Lucy, ma anche di tante vite in un solo corpo, appesantito dagli anni e dai ricordi: è la vita di un ragazzino abusato da un prete pedofilo in un confessionale; di un giovane omosessuale che rifiuta la vita militare; di un furiere che fugge dall’esercito; di un disertore che a Bologna fa le marchette ai tedeschi; di un condannato a morte, graziato da Kesserling, e punito con i lavori forzati a Dachau. Dove devo cambiare l’articolo maschile in femminile?

Matteo: Guarda, noi lo cambiamo sempre l’articolo, perché lei da quando aveva due, tre anni si è sempre sentita una bambina e per noi è così. L’aspetto che ci ha dato la chiave di interpretazione di questa sua vita è quando dice con una semplicità disarmante: «Perché una donna non si può chiamare Luciano? Ti fanno un buco e allora diventi una donna? Io ero già una donna da prima, e il nome non mi andava di cambiarlo, me l’hanno dato i miei genitori, è sacro e non lo cambio…». Dietro un’affermazione che sembra così semplice c’è tutta la complessità del dibattito che stiamo vivendo ora, a cui lei era già arrivata 50/60 anni fa. Tutto quello che unisce queste vite, che dicevi tu, è la capacità di affermazione della sua identità. È talmente forte la sua combattività e voglia di esprimere la sua identità, a prescindere da quello che il mondo esterno pensava di lei o di come la percepiva – considera che è sempre stata relegata come una diversa –  che è sempre andata per la sua strada con tutte le avventure e disavventure a cui è andata incontro e che ha subito. La sua identità è quella, chiara, netta: lei è una donna ed ha vissuto in funzione di quello.

Daniele: il tema è alla ribalta, basti pensare che il Del Zan è caduto proprio su questo, sull’identità di genere e questo lavoro può contribuire a capire cosa vuol dire proporre un’identità diversa dal binarismo, maschio/femmina. Anche perché noi oggi viviamo in una società che ha ben chiaro che cosa sia l’identità di genere, Lucy è vissuta in un’epoca in cui la parola transessuale non esisteva neanche. Non è cresciuta con dei modelli di riferimento, ma ha provato su se stessa questa esperienza…

Matteo: … lei ci ha portato dentro una riflessione sulle molte espressioni dell’identità di genere e anche sul termine transessuale, perché non è detto che una persona che si senta donna, voglia per forza fare un intervento per una diversa attribuzione di sesso. Molte persone si sentono donne, non vogliono fare l’intervento e comunque la loro identità, quella che sentono, è femminile. Lucy ha superato da tempo questo concetto che ad una identità debbano corrispondere delle caratteristiche biologiche. L’identità è una cosa che va al di là dei genitali, dell’attribuzione di sesso e dell’orientamento. È un argomento scottante, ci rendiamo conto, ma, anche se a qualcuno non piacerà, questo è il tipo di discorso politico oltre che poetico che portiamo avanti. Noi però abbiamo fatto il film con un altro obiettivo che è quello di raccontare una vita speciale sì, ma una vita singola: al di là del gender, a noi interessava l’umanità, l’esistenza, il senso profondo dell’identità non specificatamente delle persone transessuali, ma di tutti noi…. In realtà lei pensava che nei nostri tempi si sarebbe finalmente arrivati ad una assimilazione culturale della diversità, che invece non c’è stata…

Lei sente che c’è una tolleranza, non un’integrazione?

Matteo: Esatto, ma non vuole essere tollerata da nessuno. Lei dice la mia identità è così e voglio essere rispettata per quello che sono. C’è sempre un noi ed un voi, anche se  ne ha viste talmente tante, che sta da un’altra parte, oltre…

Probabilmente Bologna è un luogo più aperto di altri rispetto a questi temi.

Daniele: Sì, ce ne siamo accorti in questo periodo. Bologna è una città molto aperta, te ne accorgi andando in giro, partecipando alle manifestazioni culturali. Sicuramente Bologna e Torino, dove Lucy ha vissuto facendo la tappezziera, rappresentano anni difficili, ma anche molto belli. Tra l’altro a Torino ha vissuto anche l’esperienza della maternità con Patrizia, una ragazza che è morta prematuramente, l’ha presa con sé quando era bambina. Insomma un’altra delle vite di Lucy ed un’altra proposta con cui confrontarsi: un’idea diversa di famiglia come luogo dell’amore, della comprensione, la condivisione, la cura quello che lei sintetizza in quella frase: «Io ho bisogno di te e tu hai bisogno di me».

Due momenti mi hanno colpito: il disgusto –  anzi lo schifo – nei confronti del prete che la abusa, con la complicità della famiglia, e l’affermazione perentoria di fronte ai cancelli di Dachau «dio non c’è, dio siamo noi, è la nostra volontà che comanda il mondo»… Come vi siete orientati rispetto a questi passaggi?

Matteo: forse il primo riesce ad essere più terribile del racconto di Dachau.

Paradossalmente l’ho percepito come una pugnalata

Matteo: perché non siamo abituati a sentire queste cose pronunciate con una tale evidenza. Noi abbiamo la triste abitudine di vedere i campi di concentramento nei video, nei documentari, nei racconti dei sopravvissuti, mentre degli abusi sui bambini, anche all’interno di una vita irregolare, se ne sta iniziando solo ora a parlare. La comunità cattolica sta cercando di venirne a capo…

Tardivamente…

Daniele: molto tardivamente

Matteo: Però stanno cercando di fare un discorso che contempla il problema. Chi rappresenta la religione, Dio, ha un potere ancora più grosso dello Stato; quando sei una istituzione religiosa le persone, i bambini, vengono a te, perché si fidano, cercano un conforto, una speranza e allora la violenza è ancora più lesiva e devastante nei confronti della persona; i bambini abusati, come racconta Lucy, sentono di essere loro dalla parte del torto, inadeguati, sbagliati. Spesso la Chiesa ha messo sotto il tappeto gli abusi ai danni delle vittime. Noi non volevamo che si respirasse in questa scena morbosità, pornografia morale, ma volevamo che emergesse cosa è successo nella testa di Lucy ed il suo vissuto è strettamente legato alla scena finale, in cui  ribadisce che siamo noi che ci autodeterminiamo senza alcun dio che decide per noi. Ogni azione lesiva e violenta è prodotta dall’uomo, non c’è nessun dio a manovrarne la decisione…

Daniele: Lucy, l’episodio dell’abuso ce l’ha raccontato una sola volta. Poi ci ha chiesto di spegnere la telecamera. E questo la dice lunga sul “terrore” che trapela dalle sue parole… è spaventata quando lo racconta, vedi una fragilità che non vedi altrove. Noi eravamo molto incerti se inserirlo o meno, ma l’abbiamo fatto nel rispetto del suo dolore

Lì, si ha la sensazione che la sua vita sia stata spezzata irrimediabilmente

Daniele: sì, c’è un prima e un dopo… e, secondo me, una delle frasi più terribili che dice è: «Da lì ho cominciato a fare la puttana…». Il mondo ti fa sentire una persona diversa e tu pensi che il tuo riscatto, il tuo posto nel mondo, sia venderti per qualche spicciolo: è una delle immagini più drammatiche del film… Dachau è stata l’ultima scena che abbiamo girato e, ci sembrava necessario, seguire l’ordine delle riprese. Quando maneggi un materiale umano così importante, rispetto a certi passaggi, capisci di dover fare un passo indietro come regia; abbiamo inserito delle cose che magari tecnicamente non ci facevano impazzire, ma che erano talmente dense di significato, talmente importanti per la narrazione di Lucy che il nostro punto di vista e, se vuoi, le nostre “pippe mentali” dovevano essere messe da parte. Tanto del lavoro che abbiamo fatto è stato quello di renderci “invisibili”. Avevamo tra le mani qualcosa di molto importante: lei che si raccontava e si raccontava attraverso altre persone che costellano la sua vita. Forse il lascito più grande è che con lei siamo diventati amici. Qualcosa che non avevamo mai sperimentato con il film di finzione, un senso di responsabilità, che non è fare in modo che il tuo film piaccia o arrivi al pubblico, ma avere ed esprimere un rispetto, una delicatezza, una attenzione nei confronti della vita di una persona….

Nella foto: frame da “C’è un soffio di vita soltanto”

 

Cattivi propositi per il 2022: L’aquila e il dragone affilano gli artigli

President Joe Biden listens during a virtual summit with Chinese President Xi Jinping in the Roosevelt Room of the White House in Washington DC on Monday, November 15, 2021. Photo by Sarah Silbiger/Pool/Sipa USA Il presidente Biden incontra virtualmente il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping lapresse-onlyitaly 36135516

Se il 2021 di Stati Uniti e Cina si è chiuso con l’esclusione di quest’ultima dal Summit per la democrazia di metà dicembre organizzato da Biden, il 2022 si apre con il boicottaggio diplomatico americano delle Olimpiadi invernali di Pechino. La motivazione addotta dall’amministrazione Usa in entrambi i casi è sostanzialmente la stessa: la Cina non rispetta i diritti umani e civili di oppositori e minoranze. In occasione del Summit, il presidente Joe Biden ha affermato che «la democrazia ha bisogno di campioni», campioni tra i quali non si possono evidentemente annoverare né la Cina, né la Russia, né l’Ungheria, a differenza invece di Brasile, Polonia, India e Turchia che sono state invece invitate a partecipare. È sempre più chiaro come, alla base, ci sia una retorica da Guerra fredda che sposta il dibattito da una dimensione pratica-economica – quella adottata da Donald Trump – a una dimensione politico-ideologica basata sulla retorica del «mondo libero», come suggerisce il professor Mario Del Pero in un articolo per Treccani. Nel frattempo, i piani di scontro tra Washington e Pechino stanno aumentando, acuendo il conflitto tra quelli che potremmo considerare due modelli di “eccezionalismo”. Ossia due modelli di potenze che si considerano uniche e superiori rispetto alle altre società in virtù delle proprie caratteristiche e che nutrono la convinzione di essere investite da un ruolo straordinario rispetto agli altri player internazionali.
I due “eccezionalismi”, però, presentano varie differenze. Una in particolare riguarda il modo di intendere la politica estera. Il paradigma statunitense della «città sulla collina» prevede che tutto il mondo debba seguire lo schema democratico americano, essendo il più perfetto di tutti. In Cina, invece, incontriamo un pensiero secondo cui il Paese del Dragone sarebbe il centro dell’universo e il resto del mondo possa solo provare ad avvicinarsi alla sua perfezione, che sarebbe però inimitabile e irriproducibile altrove. Nessuna esportazione della democrazia, dunque, sarebbe davvero realizzabile né auspicabile, ma solo un’espansione del governo migliore di tutti.
Per quello che si sa finora, le sfide principali tra Stati Uniti e Cina si concentreranno soprattutto su alcune direttrici, prime tra tutte le tensioni con Taiwan e i rapporti con la minoranza uigura. L’aumento degli armamenti cinesi fa pensare che Pechino sia così determinata nel riunificarsi con Taiwan da pensare di agire anche con la forza, se necessario. Una prospettiva che Biden ha scoraggiato fortemente durante il video-colloquio di metà novembre con Xi, affermando che è compito della Cina mantenere i rapporti pacifici e non provocare alcuna guerra armata, che sia volontaria o involontaria. Per quanto riguarda la questione degli uiguri…


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Cosa ha fatto di buono Draghi per meritarsi il Quirinale?

Italian Premier Mario Draghi attends the traditional year-end press conference in Rome, Wednesday, Dec. 22, 2021. (AP Photo/Domenico Stinellis)

Tre interrogativi mi assillano: stiamo confusamente scivolando verso la quinta repubblica gollista? Non è Draghi che deve rispettare la Costituzione ma la Costituzione che deve adattarsi a Draghi? Con l’accoppiata Mattarella/ Draghi siamo arrivati al presidenzialismo “di fatto” e al monocameralismo “di fatto”? Sono giorni in cui rischiamo muti in misura strutturale la nostra legalità costituzionale. Anche per l’errore molto grave di Letta di non voler approvare, prima dell’elezione del Capo dello Stato, la nuova legge elettorale. Non la pose il Pd come condizione per votare “Sì” allo sciagurato referendum del 2020 sulla riduzione indiscriminata del numero dei parlamentari?

Proporzionalità e scelta diretta degli elettori sono due pilastri della nostra identità democratica. Anche l’approvazione della legge di bilancio ha registrato lo svuotamento assoluto del bicameralismo. Il governo emerge come luogo unico della sintesi politica. In verità la tendenza alla presidenzializzazione viene da lontano; le destre l’hanno sempre propugnata; ma oggi prorompe come delega autoritaria all’uomo “forte” nel disorientamento sociale dello “Stato di eccezione” pandemico.

Indebolire il ruolo del Parlamento è pericoloso per la stessa legalità costituzionale. Rischiamo di pagare amaramente la scelta avventurista di un anno fa del presidente Mattarella, con l’insediamento per via extraparlamentare del governo Draghi, anche per la debolezza e la perdita di identità dei partiti (oltre che per i diktat dell’Unione Europea e della Confindustria).

Left analizzò già allora la situazione, prevedendo l’esito paludoso. Qui siamo infatti. Quale risposta? Battersi per il rafforzamento del Parlamento. Parto dal convincimento che l’elezione al Quirinale di Draghi, che guiderebbe naturalmente gli atti politici del governo, sia il male peggiore perché porterebbe, di fatto, ad una forma spuria di presidenzialismo senza regole. Contro la Costituzione, che stabilisce che il capo dello Stato è il garante della nazione tutta , non della maggioranza; e che egli “non è responsabile degli atti compiuti  nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”.

Siamo di fronte al rischio che passi, con il vergognoso applauso della stampa (la quale dovrebbe, invece, essere sempre, in democrazia, controllo e critica del potere), una radicale controriforma costituzionale. Dettata dall‘Economist, che auspica un grande leader non votato dal popolo ed un governo tecnico oligarchico, in grado di agire in un momento di turbolenza. Inoltre, sul serio Draghi ha esaurito i due compiti a lui assegnati? Della pandemia è inutile scrivere: che la strategia sia meno confusa e contraddittoria è urgente. Per quanto riguarda la situazione economico/sociale, la propaganda mediatica esalta le pietose bugie di Palazzo Chigi.

La riforma fiscale non è progressiva, è incostituzionale. Sulla previdenza si torna tendenzialmente alla legge Fornero. La legge sulle delocalizzazioni aziendali è solo una razionalizzazione che aiuta i licenziamenti. I servizi pubblici vengono coattivamente privatizzati, anche contro il parere dei Comuni. Le “autonomie differenziate”, cioè la “secessione dei ricchi”, contro l’articolo 5 della Costituzione, avanza attraverso intese clandestine. La sbandierata ripresa economica è solo, purtroppo, una ricostruzione delle tradizionali catene del valore del capitale, mentre esplode una profonda crisi salariale ed occupazionale. E allora?

Quale è il bilancio dell’anno di Draghi? Ha ragione Zagrebelsky: siamo di fronte ad una manovra di disciplinamento sociale e ad un “mostro da evitare. Ci troveremmo di fronte ad un mostruoso concentrato di potere. Il Parlamento eleggerebbe il presidente della Repubblica; e il Presidente della Repubblica nominerebbe un presidente del Consiglio a sé gradito, una sua protesi”. Si creerebbe un centro di potere (settennale) autoreferenziale ed incontrollato. È indispensabile, mi pare, rinviare al mittente la pressione quirinalizia di Draghi.

Credo che sia urgente, come Left ha sempre sostenuto, difendere il ruolo del Parlamento , battersi per una legge proporzionale, tentare di ridare una identità e un’anima ai partiti. Occorre un punto di vista alternativo, per ricostruire un rapporto dialettico tra governanti e governati, per sperimentare forme di democrazia diretta, di autogestione, che arricchiscano la democrazia rappresentativa. Un vasto, urgente programma.


Per approfondire, leggi Left del 7-13 gennaio 2022

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Vieni avanti decretino

Italian Premier Mario Draghi attends the traditional year-end press conference in Rome, Wednesday, Dec. 22, 2021. (AP Photo/Domenico Stinellis)

Quando Mario Draghi è diventato presidente del Consiglio aveva il compito chiaro di elaborare una strategia per arginare la pandemia. La scelta è ricaduta sull’utilizzo del Green Pass per provare a limitare i contagi e per costringere la gente a vaccinarsi. Da queste parti, fin dall’inizio, abbiamo contestato l’utilizzo surrettizio del certificato verde ma i sostenitori di Draghi la rivendicavano. Benissimo.

In un momento di impennata del virus (impennata che non sta solo nel numero dei contagi, come dicono in molti, ma è visibile negli ospedali in affanno) il governo poteva prendere due strade: continuare sulla strada del Green Pass oppure scegliendo l’obbligo vaccinale. Ha scelto di non scegliere. E questo è il primo punto politico.

Draghi è sempre riuscito a imporre la propria linea ai partiti con il sottaciuto ricatto di andarsene. Ora il ricatto non funziona più: l’elezione del presidente della Repubblica (a cui Draghi si è autocandidato con un’ineleganza tutt’altro che migliore) lo ha indebolito. Questo è un altro punto politico.

Draghi aveva promesso chiarezza nell’azione, chiarezza ai cittadini. Missione fallita. La successione di decreti e regole è stata confusa e confusionaria. Non spiegare le misure in un momento come questo significa alimentare ancora più il caos. A proposito, vi ricordate quando Draghi promise che non sarebbero più girate bozze con lui al governo? Missione fallita.

Che le misure prese vengano spiegate ai giornalisti da alcuni ministri in mezzo alla strada non aiuta a fare chiarezza. Fa specie leggere da Corriere della Sera che Draghi avrebbe voluto spiegarsi ai giornalisti ma «l’aria elettrica delle riunioni deve averlo convinto a desistere». Un presidente del Consiglio che desiste per l’aria elettrica di una riunione non è un buon esempio per chi prova a resistere all’aria qui fuori. Anche perché, diciamocelo, le conferenze stampa di Draghi sono tutt’altro che difficili con quell’insopportabile profluvio di sorrisi e di applausi.

Va così. Buon venerdì.

 

Semipresidenzialismo eversivo

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 15-12-2021 Roma, Italia Politica Senato - comunicazioni del Presidente del Consiglio in vista Consiglio europeo 16-17 dicembre Nella foto: il Presidente del Consiglio Mario Draghi durante le comunicazioni al Senato Photo Mauro Scrobogna / LaPresse 15-12-2021 Politics Senate - communications from the President of the Council ahead of the European Council 16-17 December In the photo: Prime Minister Mario Draghi during his communications to the Senate

Le solite autorevoli voci romane, confermano l’ipotesi di Draghi presidente della Repubblica e un suo ministro solo formalmente presidente del Consiglio. Un’eventualità mai smentita dall’attuale premier, e anzi avallata tra le righe durante la tradizionale conferenza stampa di fine anno. Ciò significherebbe che il manico del mestolo sarà sempre di Draghi, che ci garantisce nei confronti dell’Europa e dei mercati finanziari. L’accentuazione del ruolo del capo dello Stato ne uscirebbe, dunque, rafforzata. E stiamo parlando di una carica che, già negli scorsi anni, ha indirizzato la vita politica italiana in vari passaggi decisivi per il Paese.
Napolitano ha autorizzato Renzi a presentare al Parlamento il suo progetto di deforma costituzionale dell’8 aprile 2014: un fatto grave, poteva suggerire che lo presentassero i capigruppo dei partiti di maggioranza e prima aveva “imposto” Monti al Parlamento e poi Letta, un presidente del Consiglio che con una Commissione di esperti (la “Commissione per le riforme costituzionali”, ndr) voleva cambiare in parti essenziali la Costituzione.

Tuttavia, Monti, formando un suo partito, ha reso in un certo senso un omaggio postumo al Parlamento. La nomina a premier di Enrico Letta del Pd anziché di Pierluigi Bersani ha significato un’intromissione del presidente della Repubblica in carica nella vita interna di un partito, mentre non porta responsabilità per la legge elettorale italiana del 2015, dichiarata incostituzionale per iniziativa degli avvocati “Antitalikum”, formalmente nata da un progetto di legge di iniziativa popolare, strumentalmente sostenuto da Renzi come segretario del Pd. Quella legge, mai applicata, era la legge funzionale alla deforma costituzionale Renzi-Boschi che puntava a superare il bicameralismo paritario – infatti riguardava la sola Camera dei deputati -, come il Porcellum lo era stato della deforma Berlusconi del 2006.

Mattarella, dal canto suo, non ha dovuto autorizzare la presentazione della legge che nel 2020 ha tagliato il Parlamento, in quanto si è trattato di un provvedimento di iniziativa parlamentare e non governativa. Ma non ha fatto nulla per impedirne o almeno ritardarne l’approvazione, anzi l’ha facilitata, con qualche disinvoltura costituzionale, consentendo l’election day spalmato su due giorni, quando la legge non modificata sul referendum costituzionale prevedeva un solo giorno. E l’ha promulgata in tutta fretta, invece di rispedirla alle Camere con un messaggio motivato almeno su un punto, inserito di soppiatto come emendamento al testo base, quello che riguardava i senatori assegnati al Trentino-Alto Adige. Quell’emendamento violava palesemente l’immodificato articolo 57 della Costituzione che sancisce l’elezione «a base regionale» – e non provinciale – del Senato, ma soprattutto violava il diritto costituzionale fondamentale di eguaglianza dei cittadini. L’uguaglianza dei cittadini è uno dei…

*L’autore: Felice Besostri è avvocato ed ex senatore della Repubblica. Fa parte del Circolo Rosselli di Milano


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Gelo olimpico sulla Cina

L’inverno pechinese è caratterizzato da temperature sottozero, sporadiche nevicate, un cielo terso, gelidi venti siberiani e un clima secco che causa improvvise scosse statiche venendo a contatto con oggetti o persone. La stagione invernale è quindi l’esatto opposto di quella estiva in cui l’afa umida e asfissiante, le frequenti piogge e i cieli plumbei ne fanno, dal punto di vista metereologico, il periodo più sciagurato dell’anno. Nel 2008, anno in cui Pechino ospitò le Olimpiadi estive, il copione stagionale fu più o meno fedele a quanto appena descritto, ma l’intera città era elettrizzata dall’avvento di una manifestazione che per la capitale e la Cina intera aveva un significato di portata storica. L’eccitazione era palpabile tra la gente e per le strade: tra amici e conoscenti si gareggiava a chi era riuscito ad accaparrarsi più biglietti; la città era adornata ovunque con festoni multicolori e da cerchi olimpici in ogni dimensione immaginabile, e anche prima dell’inaugurazione la nuova zona olimpica era diventata meta di pellegrinaggio per migliaia e migliaia di curiosi e turisti. Nell’aria c’era qualcosa di speciale, fresco e diverso per una metropoli non abituata al glamour della ribalta sportiva più prestigiosa e ambita del pianeta e che si era preparata per l’occasione con una meticolosità e un impegno fenomenali sin dal giorno in cui era stata eletta città ospitante delle Olimpiadi 2008.
A tredici anni di distanza da quell’evento Pechino si appresta ad accogliere e a vivere le Olimpiadi invernali che inizieranno il 4 febbraio – tre giorni dopo l’inaugurazione dell’anno della Tigre – in modo assai diverso. La prima causa…

Foto di Vesa Niskanen


Il reportage da Pechino prosegue su Left del 7-13 gennaio 2022

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Il cielo sopra Pechino

Beijing, China - March 27, 2020: Tiananmen in Beijing, China. The Covid 19 virus rages, and Armed police soldiers patrolling Tiananmen Square wearing N95 masks.

Nell’anno appena passato, sembra che anche la Cina sia andata via. Anche solo durante il 2020, l’anno della pandemia che sarebbe originata proprio a Wuhan in Cina, forse per la storia dei primi pazienti Covid-19 amorevolmente curati allo Spallanzani di Roma, forse per le mascherine di ogni genere e colore che arrivavano da quel Paese, la percezione dell’Europa e più in generale dell’Occidente rispetto alla Cina era ancora – potremmo dire – tiepida. A volte si alzavano voci discordanti, ma complessivamente la nostra opinione pubblica aveva ancora un atteggiamento di curiosità nei confronti di quel grande Paese. Eravamo verso la fine di quel lungo periodo, che potremmo far iniziare con le Olimpiadi di Pechino del 2008, in cui la Cina era stata da noi ammirata per il suo attivismo commerciale, la sua capacità di riscatto e di sviluppo, che stava facendo uscire dall’indigenza milioni di persone. Fra Europa, Italia e Cina, le visite a livello politico si susseguivano, sembrava essersi creato un clima di reciproca collaborazione e rispetto, che spingeva verso una progressiva integrazione fra i nostri mondi.

Il Covid-19 e la definitiva affermazione dell’attuale dirigenza cinese, identificata con il suo presidente Xi Jinping, hanno prodotto un cambiamento radicale. La Cina è diventata il nostro principale nemico. Negli Stati Uniti, in campo commerciale, il passaggio dalla collaborazione al confronto era già iniziato negli anni di Trump, ma si aveva la sensazione che si trattasse solo di ricalibrare il rapporto commerciale fra le due maggiori economie del pianeta e si sarebbe potuto andare avanti. Con l’arrivo di Biden – “solo” undici mesi fa! – i rapporti si sono deteriorati in maniera inimmaginabile. La Cina è iniziata a precipitare agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, avviandosi a diventare il nuovo “impero del male”.

Un ulteriore punto di svolta è stato il frettoloso ritiro americano dall’Afghanistan nell’agosto scorso, che ha ulteriormente spostato l’attenzione dell’opinione pubblica verso la sponda asiatica del Pacifico. Durante la seconda metà dell’anno, il nostro sguardo si è iniziato a focalizzare su una serie di problematiche, che in realtà erano presenti da anni, a volte da decenni, ma che raramente erano arrivate sui nostri giornali: la maggioranza musulmana in Xinjiang, estrema regione occidentale della Repubblica popolare cinese (Rpc), progressivamente divenuta minoranza in ragione di un forte incremento migratorio interno di cinesi Han; il problema delle isole nel Pacifico meridionale, contese da quasi tutti i Paesi circostanti e assertivamente occupate dalla Rpc; le manifestazioni anticomuniste ad Hong Kong, progressivamente cessate, senza spargimento di sangue, ma che hanno portato per la prima volta dopo due secoli quei territori sotto il controllo di Pechino; infine, la questione di Taiwan considerata dall’Onu e da tutti i Paesi occidentali una «parte inalienabile del territorio della Repubblica popolare cinese» come recitano tutti i trattati di mutuo riconoscimento diplomatico fra la Cina e gli altri Paesi, compresa l’Italia (6 novembre 1970).

Proprio queste ultime due questioni hanno maggiormente contribuito al cambiamento della nostra immagine della Cina. Tuttavia, ad Hong Kong, effettivamente, il desiderio di porre fine ai moti indipendentisti ha prodotto un radicale cambiamento del suo sistema politico che, nel 1997 era passato da un ferreo regime coloniale britannico ad un timido sistema democratico, sapientemente definito da Deng Xiaoping: «Un Paese (la Cina), due sistemi». Oggi tutto questo sembra ormai passato e Pechino controlla Hong Kong in modo diretto e inflessibile, senza alcuna possibile mediazione. Il caso più lampante di questa guerra mediatica, che si spera resti tale, è Taiwan. Quest’isola negli ultimi cinquant’anni è stata da tutto il mondo considerata cinese a tutti gli effetti. Nessun Paese ne ha riconosciuto l’indipendenza, e tanto bastava a Pechino, ma al tempo stesso tutte le nazioni, compresa l’Italia vi hanno mantenuto un loro rappresentante, funzionario del ministero degli Esteri, che curava gli interessi nazionali, come accade in tutti i Paesi in cui abbiamo una rappresentanza diplomatica. Pechino, da parte sua, pur non avendo mai escluso l’opzione militare, ha sempre preferito che gli ingenti capitali dell’isola si riversassero nelle fabbriche della Cina meridionale, cosicché fosse sempre più attirata nell’orbita commerciale della Rpc.

Nel 2021 Taiwan si è trovata al centro del confronto fra Washington e Pechino al punto che solo il colloquio telefonico avuto fra i due presidenti Biden e Xi, a novembre scorso, avrebbe confermato che la terza guerra mondiale non sarebbe scoppiata nello stretto di Taiwan. La questione dell’isola è indubbiamente complessa: una democrazia parlamentare, con una florida economia tecnologica che pur sentendosi etnicamente cinese, è combattuta fra spinte indipendentiste e nostalgie cinesi; una crisi identitaria che solo il tempo permetterà di sanare, non certo un confronto militare fra superpotenze.

L’inasprimento delle relazioni fra gli Usa e la Cina ha avuto anche altri effetti. In modo quasi innaturale per la loro storia recente, Pechino si è avvicinata a Mosca come non accadeva da quasi un secolo: all’apertura dei Giochi olimpici invernali il 4 febbraio prossimo, Putin sarà il primo capo di stato straniero ad incontrare il presidente Xi (che non viaggia all’estero da oltre un anno). La vicinanza con Mosca sta inoltre creando non pochi problemi all’Europa, che rischia di perdere il ruolo di mediatrice fra le tre superpotenze, che l’accorta politica estera della Cancelliera Angela Merkel le aveva costruito.
Ma la vera novità del 2021 è stata il diverso approccio della Cina contro il Covid-19. In Europa prima, e negli Stati Uniti poi, grazie alla diffusione dei vaccini si è progressivamente imposta una strategia di convivenza con il virus, fatta di richiami e tracciamenti. In Cina, invece, a fronte di una ugualmente massiccia campagna vaccinale, ma con vaccini tradizionali e quindi, sembra, meno protettivi, è stata imposta la strategia del confinamento ferreo. È di questi giorni il caso di Xi’an, la città dei guerrieri di terracotta, dove a fronte di una decina di casi, si è proceduto al confinamento e allo screening per circa 13 milioni di persone. Solo il tempo ci saprà dire quale di queste due strategie avrà dato migliori risultati, in termini di protezione della salute pubblica. Forse ci accorgeremo che entrambe sono valide in ragione di contesti demografici, politici e sociali differenti. Confinare 13 milioni di persone sarebbe impossibile in un Paese europeo, perché non permetterebbe di garantire i servizi essenziali, mentre in Cina è possibile perché intorno ad una decina di milioni di abitanti, ve ne sono oltre un miliardo. Paesi diversi, sistemi diversi.

Sembra che il 2021 sia stato l’anno in cui il presidente cinese abbia voluto riaffermare la diversità della Cina. La guerra alle concentrazioni economiche, come Alibaba il più grande gruppo di e-commerce cinese, la crisi immobiliare Evergrande, che poteva essere il caso Lehman Brothers cinese ed invece sembra sia stata arginata; ed ancora l’enorme impegno per la creazione di infrastrutture commerciali all’estero, soprattutto ferrovie, che consentono una migliore penetrazione dei propri prodotti fuori dai propri confini, con il programma Belt and road.

Nel 2022, il presidente Xi sarà confermato per un altro mandato, in autunno al XX Congresso del Pcc, avviandosi a diventare il più longevo presidente cinese, dopo Mao; ma sarà anche l’anno in cui egli dovrà forse affrontare il primo vero raffreddamento dell’economia, dalla fine degli anni Settanta. Staremo a vedere. In attesa dell’anno che verrà, qualunque giudizio vogliamo dare di questo 2021, se vogliamo sperare di scongiurare i venti di guerra che si sono spostati dall’Afghanistan all’Asia orientale, è assolutamente indispensabile provare a guardare il mondo anche con gli occhi degli altri, smettendo di pensare che esista un solo mondo possibile, che deve andare bene per tutti.

L’autore: Il sinologo Federico Masini è docente di Lingua e Letteratura cinese all’Università La Sapienza di Roma


L’editoriale è tratto da Left del 7-13 gennaio 2022

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SOMMARIO

L’agenda dell’aspirante Presidente

Foto Valerio Portelli/LaPresse 19-12-2019 Roma, Italia Presentazione libro di Bruno Vespa Cronaca Nella foto: Silvio Berlusconi Photo Valerio Portelli/LaPresse 19 December 2019 Rome, Italy Presentation of the book by Bruno Vespa News In the pic: Silvio Berlusconi

L’agenda di gennaio di Silvio Berlusconi l’hanno messa in fila su Repubblica i giornalisti Giuliano Foschini e Fabio Tonacci ed è utilissima per tastare lo spessore del candidato del centrodestra al Quirinale che molti trattano come se fosse davvero un’ipotesi non offensiva e scellerata.

«Il 19, cinque giorni prima che i Grandi elettori si riuniscano in Parlamento, a Milano si tiene l’udienza del processo Ruby ter: il Cavaliere è alla sbarra insieme ad altre 28 persone per corruzione in atti giudiziari e induzione alla falsa testimonianza. Il 21 gennaio i suoi avvocati si devono spostare a Bari per l’udienza sul caso Tarantini dove – particolare non secondario – la presidenza del Consiglio si è costituita contro di lui. Il 26 gennaio, a urne presidenziali probabilmente ancora aperte, li vedremo tornare in fretta a Milano di nuovo per il Ruby ter».

A questo si aggiunge (vale la pena ricordarlo) una condanna definitiva per frode fiscale (2013, vicenda diritti Mediaset). Un Presidente della Repubblica condannato e con processi in corso sarebbe una prima volta per l’Italia. E forse primeggerebbe anche per vergogna.

Il fatto che all’interno del centrodestra non si accorgano dell’oscenità di essere qui ancora a discutere di Berlusconi al Quirinale non stupisce: quei partiti, come i molti collaboratori e dipendenti delle aziende di Berlusconi, leccano il capo senza il quale non esisterebbero, non sarebbero mai esistiti. La gratitudine sconsiderata verso il padrone è l’unico elemento che gli viene richiesto.

Ciò che atterrisce è la schiera di commentatori (alcuni che si autodefiniscono perfino progressisti) che per apparire all’altezza della normalizzazione di quest’epoca vogliono convincerci che Berlusconi sia potabile. Qui non è un problema di destra e di sinistra (il Presidente della Repubblica si elegge con la maggioranza che c’è in Parlamento, piaccia o non piaccia) ma si tratta di avere rispetto per le figure dello Stato.

Non fa nemmeno paura Berlusconi in quanto Berlusconi candidato. Non ce la farà. A fare paura è questa “bocca buona” che molti esibiscono con grande fervore. Se diventa commestibile Berlusconi pensate con che papille potranno scegliere la futura classe dirigente.

Buon giovedì.

Il ministro della transizione agli amici

Che il ministro Cingolani abbia delle strambe idee su ambiente e transizione ecologica ormai è noto a tutti (tranne ovviamente ai cantori del governo dei migliori) ma che abbia il coraggio di spostare 575 milioni inizialmente destinati alle bonifiche dell’ex Ilva (soldi sequestrati dal tribunale alla famiglia Riva) alle casse di Acciaierieitalia (il nuovo nome dell’ex Ilva, controllata da ArcelorMittal e Invitalia) era imprevedibile persino per i commentatori più pessimisti.

Nel decreto Milleproroghe licenziato durante l’ultimo Consiglio dei ministri infatti si è deciso di utilizzare quei soldi che dovevano essere utilizzati per «risanamento e bonifica ambientale» per le casse di Acciaierieitalia che sarebbe in crisi di liquidità. Se n’era accorto per primo il coportavoce nazionale di Europa Verde Angelo Bonelli (che l’aveva definito «un golpe contro la salute») ma poi pian piano per fortuna ci sono arrivati anche il Pd con Francesco Boccia e il M5s con Mario Turco. «La norma – dice Boccia – non è né accettabile né giustificabile. Voglio sperare che si sia trattato di un equivoco nel governo e si faccia immediata chiarezza attraverso un chiarimento del ministero dello Sviluppo economico. Le bonifiche interne ed esterne sono in ritardo a causa dell’incapacità dei diversi protagonisti che rispondono al Governo, ma i ritardi non giustificano in alcun modo un’azione di questo tipo. Se non funziona l’amministrazione straordinaria si interviene sulle procedure oppure si cambia, ma non si spostano le risorse». Anche Turco è andato dritto al punto: «Modificare la destinazione di queste importanti risorse per dirottarle su investimenti nel ciclo produttivo dell’acciaio, spacciandoli per progetti di decarbonizzazione, non è solo uno schiaffo alle future generazioni tarantine ma rischia di divenire anche un aiuto di Stato non concedibile».

A questo si aggiunge che perfino gli uffici di Palazzo Chigi ritengono che la norma non supererebbe il controllo dell’Ue. In tutto questo a Taranto si lotta da tempo contro i 6 milioni di tonnellate d’acciaio da produrre all’anno nei programmi dell’acciaieria che Arpa e Asl ritengono eccessive e su cui Cingolani (ma va?) tergiversa da tempo.

Per dirla semplice: il governo decide di usare soldi destinati alla salute ambientale per coprire le difficoltà di un gruppo che pervicacemente vorrebbe superare le soglie di tutela ambientale. Semplice, chiaro, lineare. No? Chissà se Draghi ha qualcosa da dire.

Buon mercoledì.