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Amare Lucano

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 30-01-2019 Roma Politica Conferenza stampa sulla chiusura della campagna di raccolta firme per la candidatura di Mimmo Lucano e del Comune di Riace al Premio Nobel per la pace 2019 Nella foto Mimmo Lucano durante la conferenza stampa nella redazione di Left Photo Roberto Monaldo / LaPresse 30-01-2019 Rome (Italy) Closing of the Campaign for the assignment of the Nobel Prize to Riace In the photo Mimmo Lucano

La mia opinione sul Paese che abito, ora che sono arrivato a tre quarti di secolo, è che l’Italia abbia imboccato un declino ai limiti dell’irreversibilità. Ogni decenza è defunta. La sentenza emessa alla conclusione del processo intentato contro Mimmo Lucano mi appare come il colpo di grazia sparato alla testa di ciò che chiamiamo civiltà dell’essere umano.

Non mi permetto di discutere la sentenza né il suo dispositivo, non ho competenze al riguardo e neppure mi interessa farlo. Sul piano della stretta legalità la decisione dei giudici potrebbe anche essere impeccabile ma non è questo punto. Il punto è che in questo caso legalità e giustizia non coincidono. Lo scollamento fra i due concetti non potrebbe essere più osceno. Mimmo Lucano è un uomo giusto, coraggioso, buono, ma soprattutto ha dato vita ad un progetto di società che si fonda sul senso più alto e più nobile che si possa immaginare: la visione di una comunità fondata sui valori dell’uguaglianza, della solidarietà e della giustizia sociale. Questo è il grande crimine di Lucano, avere mostrato e dimostrato che un’altra società è possibile. Altra rispetto a quella in cui viviamo.

La maggioranza delle persone che vivono nei Paesi della cosiddetta civilizzazione occidentale tendenzialmente sono costrette a comportarsi come i criceti nella ruota, corrono e reiterano i loro comportamenti senza più chiedersi perché lo fanno e, soprattutto senza mai interrogarsi sul senso di questa esistenza, incapaci di pensare ad un altro modo di vivere e di costruire relazioni. Le grandi strutture economico finanziarie nella loro ricerca di incrementare senza limiti i loro profitti determinano l’organizzazione della società orientandola verso l’ipertrofia e la bulimia dei consumi. Questa logica ha come conseguenza la compressione di altre dimensioni del sentire e dell’agire umano e lo porta a rincorrere la vita attraverso defatiganti e alienanti mediazioni di consumo come se ci si volesse suggerire che la vita consiste sostanzialmente in tre atti: produci, consuma e poi muori.
Mimmo Lucano incarna in sé il contrario di questa sottocultura del consumo e del privilegio. La sua mente e il suo grande cuore sono rivolti all’altro.

Il riconoscimento dell’alterità, come priorità per l’edificazione di una società di giustizia e di uguaglianza, muove le suo operare. La luce dell’altro splende con intensità fra gli ultimi: i diseredati, i perseguitati, i reietti, gli abbandonati, i migranti. Il sindaco di Riace lo sa e decide di costruire nella sua città una comunità solidale e giusta. Il suo modello diventa un paradigma a cui guardare per individui, associazioni, municipalità, organizzazioni umanitarie.

Mimmo ha dimostrato concretamente che un altro mondo è possibile, qui e adesso, ha indicato la strada mettendo a disposizione del progetto la sua energia e la sua contagiosa passione. Lo ha fatto con una disarmante semplicità come la cosa più naturale del mondo. Per questo decine di migliaia di persone lo hanno amato, lo amano e continuano a farlo. In una società che si fonda sui valori del danaro, del privilegio, delle ignobili diseguaglianze, della degenerazione della politica verso l’asservimento agli interessi dei potentati; una società che tollera il cancro della corruzione, dell’evasione fiscale, la metastasi delle malavite organizzate vede un sindaco come Lucano come un corpo estraneo.

Questo è il contesto in cui matura la sentenza con una condanna spropositata comminata ad uomo che non ha tratto alcun vantaggio personale dalla sua opera, al contrario ha dato tutto se stesso al principio dell’amore per il prossimo tanto millantato dalla spiritualità giudaico-cristiana. Ora si ritrova trattato come il peggiore dei criminali, proprio per avere preso sul serio il fondamento etico della nostra cultura e per averlo fatto con quella radicalità e quella verità che sole lo rendono autentico e non la patacca retorica ipocrita e falsa che ci viene ammannita in occasione delle sante festività.

 

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L’editoriale è tratto da Left dell’8-14 ottobre 2021

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Tutto quello che non torna nella condanna di Mimmo Lucano

Former mayor of Riace, southern Italy, Domenico "Mimmo" Lucano speaks to journalists in Riace, Friday, Oct. 1, 2021. The former mayor of the tiny southern Italian town has been convicted of aiding illegal immigration, fraud and embezzlement and sentenced to more than 13 years in prison. When Lucano was mayor of Riace, it was dubbed "the town of welcome" for migrants. Prosecutors alleged that Lucano facilitated marriages of convenience between Riace men and foreign women to get them permits to live in Italy. Lucano denied wrongdoing and will appeal. Humanitarian groups have condemned the verdict. (AP Photo/Salvatore Cavalli)

Mimmo Lucano è stato condannato a 13 anni e due mesi di reclusione, oltre a confische per importi elevatissimi. Una condanna che, giustamente, la maggior parte dei commentatori ha definito abnorme. In particolare questa abnormità risalta, perché tutte le violazioni che gli sono state contestate sono di modesta entità.
Passata l’onda delle prime reazioni, prevalentemente di segno politico, occorre provare ad aggiungere qualche elemento giuridico che aiuti a capire come è potuto accadere.
Occorre fare un passo indietro. Il diritto penale si forgia sul fatto fisico, istantaneo, spesso violento: la coltellata, lo scippo. Qui l’azione punita è un fatto umano, dai contorni concreti.
Nel corso degli anni, si sono aggiunti reati di secondo livello. La norma penale non punisce più un fatto fisico ben individuato, ossia la coltellata di cui si diceva, ma può riguardare anche la violazione di una norma di primo livello. Il reato consiste quindi, ad esempio, nella violazione di una norma amministrativa. Qui la spiegazione si fa necessariamente più complicata.

Ci sono infinite norme amministrative. Faccio un esempio del tutto di fantasia, gli atti del sindaco devono essere controfirmati dal segretario comunale. La mancata controfirma rende l’atto annullabile, ma non è sanzionata, in sé, dalle norme in alcun modo. Il sindaco non va in galera, per non aver fatto controfirmare l’atto. Se però, e qui sta il nodo, questa mancata firma è parte di un disegno criminoso di altro tipo, ecco allora che scatta la norma penale (che per questo definisco di secondo livello), ed il sindaco, per lo stesso evento fisico (non è passato nella stanza del segretario a far firmare il pezzo di carta) va in galera. La maggior parte di questi reati di secondo livello prevedono che scatti il penale, quando l’indebita azione amministrativa è voluta, da chi la compie, in virtù di un beneficio potenziale, di un profitto.
Ad esempio: la norma amministrativa dice che l’ufficio postale chiude alle 12. L’impiegato fa entrare un ritardatario alle 12,10: non è reato, anche se ha violato la norma amministrativa. Se, però, l’impiegato ha preso dei soldi, per violare la norma amministrativa, il discorso cambia e scatta la sanzione penale. All’origine il profitto, determinante per cambiare colore alla violazione, era la mazzetta, ossia una dazione di soldi. Ma poi, nel tempo, si è cominciato a ritenere limitativo il criterio dei soldi. Si è quindi giunti a dire che qualunque beneficio potenziale è idoneo a far scattare il reato.
E questo è il primo nodo della questione Lucano. Pacifico che Lucano abbia, semmai, compiuto solo la violazione di norme amministrative, peraltro neanche così rilevanti. Anche i suoi accusatori non lo negano (e lo definiscono un pasticcione). Queste violazioni, lo si ripete, non sono punite di per sé dalle leggi, ma possono trasformarsi in reati in base al fine con cui vengono compiute. In base al vantaggio che Mimmo Lucano intendeva trarne.
E qui l’accusa, sfruttando le faglie del sistema, inserisce il primo salto (mortale) logico. Tutti riconoscono che Lucano non percepiva nulla, e che neanche chiedeva favori. Ma, secondo l’accusa, il vantaggio sarebbe quello del ritorno, in termini politici, della sua azione. Insomma, lui avrebbe forzato le norme sull’accoglienza per far funzionare meglio il meccanismo che aveva contribuito a ideare, e così ottenere consenso elettorale.
L’accusa dimentica però che, agire per il consenso, non può essere quel collante, che tiene insieme il complessivo disegno (suppostamente) criminoso. L’azione di un amministratore locale non è distorta, se finalizzata anche al consenso, perché è così che funziona il sistema democratico. Lo Stato non è un moloch, un essere diverso dalla comunità dei cittadini. Dunque il Sindaco che agisce, ritenendo di interpretare ciò che vuole la maggioranza degli amministrati, svolge il suo ruolo nel modo corretto. Conseguentemente se il fine è legittimo, la violazione della norma amministrativa, non può più ‘convertirsi’ in reato. La violazione dovrebbe rimanere amministrativa, e quindi non sanzionata come reato. Peraltro è tutto da dimostrare che il fine di Lucano fosse quello del consenso, e non, ad esempio, un miglior risultato amministrativo, o far funzionare meglio i servizi resi.
E quindi, già il primo salto dell’accusa non supera l’asticella.
Qui si innesta il secondo problema. L’amministratore pubblico che viola una norma amministrativa, di base, non è punito, per quella violazione. Ma se lo ha fatto per beneficio personale, allora non scatta un solo reato, ma una intera batteria di reati: abuso di ufficio, malversazione, concussione/corruzione, truffa, peculato, falsi vari, traffico di influenze, e l’onnipresente associazione a delinquere. Su quest’ultimo, impalpabile, reato occorre soffermarsi. In Italia appena tre persone sono considerate associate al fine di commettere delitti, commettono un reato in sé, punito a parte, pure se non hanno commesso nessuno dei reati per cui si sono associate. Se commettono il reato, vengono punite due volte, e magari per il reato commesso prendono un anno, e per l’associazione ne prendono 3. Quindi, se il Sindaco di cui sopra, dice al suo segretario di dire all’usciere di non passare dal segretario comunale per la controfirma del provvedimento, ecco che abbiamo subito una bella associazione a delinquere finalizzata all’abuso di ufficio (nonché truffa etc).
Riassumendo: la violazione della “normetta” amministrativa, che per l’ordinamento non è di per sé reato, lo diventa a fronte di un beneficio potenziale. E non diventa un solo reato, ma tanti, che si stratificano a punire sempre la medesima condotta.

Ecco perché chi tira la coltellata è avvantaggiato: la sua condotta è punita direttamente da un singolo reato. Anche se la pena edittale è alta, è sempre meglio un reato, anziché molti.
A suo tempo, quando mi fu chiesto un parere amichevole, avevo studiato le violazioni amministrative compiute da Mimmo Lucano. Ammesso che fossero tali, si trattava di piccole cose. L’istituzione di un registro delle cooperative di tipo B, presso il comune di Riace, votata dal consiglio comunale, con requisiti in parte difformi da quelli prescritti per legge. Per carità, forse sarebbe stato meglio non farlo, ma è stato fatto alla luce del sole e senza che nessuno obiettasse nulla, in quel momento. Anzi, forse quel registro è ancora lì, senza che nessuno intervenga.
Ma è il disegno complessivo, che conta. L’intenzione di Lucano e di coloro (gli associati) che condividevano la sua azione. Intenzione di esser benvoluti.
È chiaro che, in questo contesto, chiunque può prendere anche molto di più di 13 anni, può arrivare a 15 o a 20. Non servono grandi forzature, basta una lettura orientata delle violazioni amministrative (che, è bene ricordarlo, sono inevitabili nell’azione di qualunque amministrazione).
Insomma, è corretto attribuire una responsabilità ai magistrati che hanno, prima promosso l’accusa, e poi condannato Lucano. Ma la riflessione deve anche essere spostata sul sistema normativo che permette questa condanna per un fatto che, nella sua essenza (ossia la violazione della norma amministrativa), non è sanzionato, e che se compiuto da altri, o in altre circostanze, non è nemmeno punito.

L’autore: Pietro Adami è avvocato e fa parte dei Giuristi democratici

 

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Trecentotrentamila

Four of the nine new priests sit during their ordination ceremony lead by Pope Francis, inside St. Peter's Basilica, at the Vatican, Sunday, April 25, 2021. (AP Photo/Andrew Medichini)

Nel giornalismo che è sempre così affezionato alle notizie pesate al chilo, con il numero delle vittime che segna lo spessore dell’indignazione, c’è da scommetterci che invece passerà piuttosto inosservata la novità che arriva dalla Francia con il rapporto della Ciase (Commissione sugli abusi sessuali nella Chiesa) incaricata dalla Conferenza episcopale e quindi dai vescovi di Francia che indica il numero di bambini abusati: dal 1950 a oggi sarebbero state 216mila le vittime di pedofilia nella Chiesa francese e tra 2.900 e 3.200 i preti e i religiosi cattolici colpevoli di violenze sessuali ai danni di minori. Il Presidente della Commissione indipendente Jean-Marc Sauvé ha dichiarato in occasione della diffusione del rapporto che da parte della chiesa «fino all’inizio degli anni 2000 un’indifferenza profonda ed anche crudele» sarebbe stata manifestata «nei confronti delle vittime».

C’è dentro tutto, ci sono le vittime addirittura colpevolizzate («si ritiene abbiano un po’ contribuito a quello che è loro accaduto», si legge nel rapporto) oltre al solito tentativo di insabbiare tutto. Il numero delle vittime sale a «330.000 se vi si aggiungono gli aggressori laici (ovvero sagrestani, insegnanti nelle scuole cattoliche, responsabili di movimenti giovanili, ndr) che lavorano nelle istituzioni della chiesa cattolica», ha aggiunto Sauvé, alto dirigente francese già membro del Consiglio di Stato e della Corte di giustizia Ue, illustrando ai giornalisti le conclusioni della commissione da lui presieduta. Le vittime sarebbero state nell’80% dei casi maschi.

La cifra è stata ottenuta con una stima statistica comprendente un margine di circa 50mila persone e delle informazioni contenute negli archivi. «Voglio esprimere la nostra gratitudine alle vittime che si sono rese disponibili a collaborare con la nostra commissione – ha aggiunto Sauvé – senza le quali non avremmo potuto fare nulla. Pensiamo anche a coloro che non hanno potuto incontrarci. Sono senza dubbio quelle che soffrono di più, ed è con loro che voglio terminare».

Ma c’è un punto sostanziale della conferenza stampa: il reato è stato definito “sistemico” e allora ci si chiede quando si potrà scrivere e parlare di un “sistema criminoso” che ha bisogno di una sistematica risoluzione. E a proposito di chi dice che accade nella Chiesa ciò che accade ovunque vale la pena sottolineare che secondo il rapporto i minori rischiano nel mondo religioso due volte in più di essere vittime di abusi rispetto ad altri ambiti. Due terzi dei presunti pedofili sarebbero stati appartenenti al clero.

Trecentocinquantamila vittime solo in Francia solo in 70 anni sono un numero enorme se applicato a tutto il mondo. Sono qualcosa che non può essere definito un “errore” e soprattutto è qualcosa che non può essere mondato con una penitenza e quattro ave maria. Non serve perdono, serve una sistemica (appunto) soluzione.

Buon mercoledì.

 

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Due cose sulle elezioni

Foto Claudio Furlan/LaPresse 30 Settembre 2021 Milano , Italia News Incontro dei leader del centrodestra in appoggio alla candidatura a sindaco di Luca Bernardo Nella foto: Francesco Patamia Antonio Tajani Luca Bernardo Matteo Salvini Maurizio Lupi Ignazio La Russa Carlo Fidanza Photo Claudio Furlan/LaPresse September 30, 2021 Milano , Italy News Meeting of center-right leaders in support of Luca Bernardo's candidacy for mayor In the photo: Matteo Salvini Maurizio Lupi Ignazio La Russa Carlo Fidanza

Di temi ce ne sono molti e molti ne usciranno nei prossimi giorni ma qualche riflessione al mattino successivo vale la pena cominciare a farla.

Primo punto, importante per chi passa da queste parti a leggerci: abbiamo passato mesi a sentirci dire che il Paese non vedesse l’ora di andare a elezioni per incoronare Salvini presidente del Consiglio e invece Salvini affonda e si sta trascinando dietro la Lega (ma nella Lega non glielo permetteranno, disfandosene prima). Che non fosse all’altezza di proporsi come federatore a destra (come può federare uno che sa usare solo lo scontro verbale come unico mezzo di confronto e che poi scappa ogni volta che si entra nel merito?) si sapeva benissimo mentre si ribaltava con il moijto in mano. Giorgia Meloni certifica la sua avanzata. Qualche dato, tanto per capirsi: a Milano la Lega è più o meno sugli stessi livelli del 2016 (come se non ci fosse mai stata nessuna esplosione) mentre Fratelli d’Italia quadruplica i voti, a Roma, Fdi si conferma la prima lista di centrodestra come nel 2016 ma cresce quasi del 50%, a Bologna rispetto al 2016 la Lega perde 2,4 punti e si ferma al 7,8%, mentre Fdi cresce dal 2,4% al 12,6%, a Trieste (in un regione governata dalla Lega) Fdi è la prima lista del centrodestra, a Torino Fdi supera la Lega che negli ultimi 6 anni aveva preso almeno il quadruplo dei voti degli alleati. Poi c’è il punto delle candidature: il centrodestra ha dei seri problemi di classe dirigente e per questo è stato costretto a ripiegare (tardi) su candidati vivi di ben poco spessore. Un’ultima notazione: per non smentirsi Salvini riesce ad analizzare il voto dicendo che il problema del centrodestra è la tempistica delle candidature, dimostrando come sempre di riuscire solo a parlare d’altro per non rispondere sul punto. Avanti così. 

Enrico Letta sta sereno, questa volta sul serio. Sfiora il 50% con la sua candidatura personale a Siena, il Pd funziona e senza nemmeno avere candidati così appetibili. Ora bisognerà vedere Roma ma nel complesso il risultato è ottimo, sicuramente. La sensazione è quella di un’apertura di credito da parte dell’elettorato che ora bisognerebbe capitalizzare, magari prendendo posizioni chiare anche se nel governo Draghi. Dice Letta che il vento è cambiato ma la sensazione è che il centrodestra abbia fatto molto da solo.

Il Movimento 5 Stelle crolla, inutile girarci intorno. Perde male Torino e Roma e praticamente scompare a Milano. Nel 2016 furono conquistate con l’antipolitica ma alla prova della politica ne sono usciti male (Virginia Raggi molto meglio di come molti prevedevano). Il bivio è consistente e sarebbe da chiedersi (come ha già fatto Prodi) quanto convenga al Pd allearsi con un partito che porta pochissimi voti e parecchio malumore tra i suoi elettori. Sarà un passaggio inevitabile.

Calenda come al solito vince su twitter. Qualcuno dei suoi fa notare che la sua lista a Roma abbia preso quasi come il Pd dimostrando poca dimestichezza con la politica (confrontare un candidato con un’unica lista a un candidato con più liste è come pesare le mele in litri, complimenti). C’è anche un piccolo particolare: i voti di Calenda vengono da fazioni talmente opposte che tenerli insieme sul piano nazionale appare piuttosto difficile. Tra l’altro a farlo c’è un certo Draghi, al momento.

A proposito, e la brillantissima Italia Viva del brillantissimo Matteo Renzi? Vale la pena leggere il tweet del dirigente Ettore Rosato: «Ufficiale: il nostro Alessandro Di Santo eletto sindaco #Castelvenere (Bn) con l’89% dei voti, mentre a #Terzorio (Im) altro splendido risultato per Valerio Ferrari riconfermato sindaco. Congratulazioni a entrambi! #ItaliaViva». Non serve nemmeno aggiungere altro.

Buon martedì.

nella foto da sinistra: Francesco Patamia, Antonio Tajani, Luca Bernardo, Matteo Salvini, Maurizio Lupi, Ignazio La Russa, Carlo Fidanza, Milano 30 settembre 2021

 

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David Harvey: L’ascesa della Cina, il declino dell’Europa

FILE - In this July. 21, 2018, file photo, a Senegal resident welcomes Chinese President Xi Jinping during his visit to Dakar, Senegal. China's loans to poor countries in Africa and Asia impose unusual secrecy and repayment terms that are hurting their ability to renegotiate debts after the coronavirus pandemic, a group of U.S. and German researchers said in a report Wednesday, March 31, 2021. (AP Photo/Xaume Olleros, File)

David Harvey, possiamo dire che la Cina eserciti una politica amichevole nei confronti del Terzo Mondo? Samir Amin, uno schietto anti-imperialista in un’intervista per l’annuario di transform!, si è detto molto favorevole alla politica economica internazionale della Cina, sostenendo che con i suoi aiuti e i prestiti esteri non impone condizioni, come fanno il Fondo monetario internazionale (Fmi), la Banca Mondiale e alcuni altri grandi Paesi occidentali.
Beh, attenzione. Non credo che l’esperienza sul campo in Africa sostenga la posizione di Amin. La mia impressione generale è che gli investimenti cinesi siano visti in molte parti dell’Africa come un altro tipo di imperialismo. Penso che il modo in cui la Cina è impegnata in quello che noi chiamiamo «land grabbing», cioè l’accaparramento delle risorse e della terra in Africa, sia molto diffuso e possiamo affermare che si tratti di una pratica coloniale. In America Latina direi che probabilmente l’atteggiamento è un po’ più vicino a quello che dice Amin. La Cina ha un capitale in surplus che può essere utilizzato per progetti che gli Stati latinoamericani non possono finanziare da soli. Quindi c’è una sorta di partnership. Tuttavia, questo partenariato può inasprirsi molto facilmente e, in un certo senso, direi che l’attività cinese in Ecuador non si è dimostrata così benefica come gli ecuadoriani avevano sperato. C’è stato un progetto idroelettrico, una diga enorme, che è stata costruita, ma costruita male. C’erano anche altri problemi e conflitti. Per esempio, i cinesi hanno portato i loro lavoratori in un Paese che ha un surplus di manodopera e ci sono state molte tensioni intorno a questo problema. Inoltre, quando il prezzo del petrolio è sceso, l’Ecuador ha dovuto prendere in prestito denaro dalla Cina e in cambio ha dovuto dargli accesso alle sue risorse minerarie. Queste risorse si trovavano spesso nelle terre indigene e il governo ecuadoriano ha dovuto mandare lì i militari per sfollare le popolazioni indigene e far posto alle miniere cinesi. C’è una storia che viene raccontata che non è così bella. Dobbiamo notare che l’esportazione cinese di capitali segue uno schema noto.

Che cosa significa questo?
In Giappone negli anni Sessanta, in Corea del Sud alla fine degli anni Settanta e a Taiwan intorno al 1982 c’è stato inizialmente un surplus di capitale che per un certo periodo è stato assorbito dall’economia nazionale, per poi fuggire verso l’estero. Nel 2000 la Cina non ha avuto quasi nessun investimento diretto verso l’estero, ma ora c’è un’inondazione irreversibile di questi investimenti, sia privati che statali. Privatamente, molti cinesi della classe media stanno cercando di far uscire capitali dal Paese e quindi stanno acquistando proprietà a Melbourne, Vancouver, Londra o Atene. Non conosco l’impatto a lungo termine di questa ondata di capitali pubblici e privati cinesi che cercano di assicurarsi una base economica da qualche parte nel mondo, ma quello che direi è che…

Il libro: L’intervista a David Harvey a cura di Haris Golemis (transform! Europe) è uno dei testi contenuti nel saggio “L’Europa nel mondo grande e terribile. Lavoro e Capitale a cent’anni da Livorno”, (Villaggio Maori edizioni 2021). Il volume, curato da Enrico Fantini, Mattia Gambilonghi e Alessandro Tedde, presenta, in italiano, i più interessanti lavori dell’edizione internazionale dell’annuario di transform!Europe, fondazione di cultura politica della Sinistra europea. È inoltre arricchito da una sezione di contributi originali di importanti studiosi italiani, curata da Sinistra XXI. È possibile acquistarlo presso i siti sinistra21.it e villaggiomaori.com


L’articolo prosegue su Left dell’1-8 ottobre 2021

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Come migliorare la democrazia in tre “semplici” mosse

In tutta Europa sembra emergere la tendenza a una minore partecipazione elettorale. Dobbiamo preoccuparci? Forse no. Una bassa affluenza può segnalare che i cittadini non sono poi così insoddisfatti da sentire la necessità di andare a votare. Quando sono davvero preoccupati si presentano alle urne in massa, come hanno fatto gli americani per liberarsi di Trump. Una scarsa partecipazione può anche dipendere dal fatto che gli elettori non vedono grandi differenze tra i partiti in corsa, che convergono su una linea ragionevole. Certo, può anche essere espressione di un senso di disperazione: gli eletti si rivelano impotenti, imbrigliati da vincoli superiori o costretti a compromessi percepiti come rese. Oppure fanno cattivo uso del potere che riescono ad afferrare.

Sbarazzarsi delle elezioni, tuttavia, non sarebbe d’aiuto. È meglio essere governati da persone che abbiamo scelto, invece che da noi stessi. Dove troveremmo il tempo? O da persone scelte a caso. Chi le sanzionerebbe se facessero un cattivo lavoro? Pur tuttavia, è vero che la maggior parte dei sistemi elettorali ha bisogno di riforme. E attuare tali riforme non è mai compito facile, visto che chi ha il potere di cambiare il sistema è al potere proprio grazie a quello stesso sistema. Il principio guida di ogni riforma elettorale dev’essere quello di rendere la democrazia elettorale uno strumento quanto più efficace possibile, al servizio di un processo decisionale e…

* L’autore: Philippe Van Parijs, filosofo, economista e giurista belga, insegna Etica economica e sociale all’Università di Lovanio ed è uno dei principali teorici del reddito di base. Questo suo contributo è tratto da un’intervista a cura di Lucille Lacroix, condotta nell’ambito del progetto Redem, coordinato dall’Istituto di studi politici di Parigi. Van Parijs interviene alla VII edizione della Biennale democrazia, in programma dal 6 al 10 ottobre a Torino


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L’Unione europea apre la caccia al migrante

Europe, Bosnia. August 2018. Migrant Crisis New Balcan Road

La creazione di un esercito europeo, argomento di dibattito che risale ai tempi della fondazione dell’Unione, rimane l’auspicio di molti leader politici, compresa Ursula von der Leyen, che lo scorso 15 settembre in un discorso a Strasburgo ha espresso la volontà di creare un corpo che risponda solo a Bruxelles. Un corpo che dovrebbe essere composto da 5-6mila unità. La crisi afgana è stata il pretesto per riattivare questa volontà, dopo i rumorosi proclami degli ultimi anni della cancelliera Angela Merkel e del presidente francese Emmanuel Macron, per il quale ogni occasione è buona per poter mettere le mani sul comando della politica estera comunitaria. La decisione statunitense di evacuare l’Afghanistan dopo vent’anni di intervento armato ha lasciato i partner europei della Nato con l’amaro in bocca per la mancata consulta in ambito decisionale: non contiamo niente, i profughi arriveranno da noi e non possiamo appoggiarci con certezza ad Erdoğan.

Questo è il motivo per cui si è tornati a parlare della necessità di un esercito europeo, non dipendente dai singoli Stati membri, che risponda agli interessi esclusivi dell’Unione.
Ma guardando nel dettaglio le migrazioni e le azioni intraprese per combatterle, dire che in questo momento l’Europa non ha a disposizione un suo esercito indipendente è purtroppo una mezza verità. Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera nota per le sue attività poco trasparenti nel contrasto al fenomeno migratorio, sta infatti armando una nuova milizia denominata Standing corps, nel silenzio generale dei media mainstream. La funzione dei corpi, come enunciato nel sito dell’agenzia, è di «controllo, sorveglianza, acquisizione e condivisione di informazioni riguardo alla situazione dei confini, attività di ricerca e salvataggio, rimpatrio di persone che non hanno il diritto di stare nell’Ue, contrasto al crimine transfrontaliero, incluso traffico di esseri umani, frode e terrorismo».

Dal sito di Frontex si legge che già a settembre 2020 260 reclute avevano completato un training online e al tempo erano stati sottoposti a corsi individuali in Polonia, dove si trova la sede centrale dell’agenzia. A ottobre 2020 168 nuove reclute avrebbero iniziato un corso semestrale nel centro di addestramento di Bari. Sembra però che il reclutamento abbia subito numerosi intoppi: il quotidiano statunitense Politico ha riportato varie testimonianze e lamentele di reclute lasciate a casa adducendo visite mediche non superate. A fine agosto 2021 l’agenzia ha espresso l’intenzione di assumere trecento nuovi ufficiali entro gennaio 2022, impiegarli in un corso annuale e renderli immediatamente operativi sul campo, con l’obiettivo di strutturare un corpo di 10mila unità entro il 2027. L’agenzia Frontex interpellata da Left dichiara di aver reclutato fino ad…

foto di Matteo Trevisan per il progetto The Door To Europe

 


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Gli sbronzi di Riace

Domenico Lucano (C) seen after the court hearing. Pro-migrant former mayor of Riace, Domenico Lucano, had been given a 13 years and two months jail sentence by the court his charges of favoring illegal immigration and criminal conspiracy. (Photo by Valeria Ferraro / SOPA Images/Sipa USA) Sipa Usa/LaPresse Only Italy 35337491

Piccolo avviso a quelli che si credono furbi e che hanno rizzato i peli poiché ci si è permessi di ripercorrere le assurdità procedurali e di costruzione della tesi dell’accusa nei confronti di Mimmo Lucano: se avete passato le ultime ore a lamentarvi della difesa che si è levata nei confronti di Lucano spiegandoci che mancano ancora le motivazioni e che le sentenze non si commentano, sappiate che a commentare sono arrivati di grancassa addirittura il pubblico ministero nonché il procuratore del tribunale di Locri, tanto per dare un’idea della stortura e dell’indecenza di un processo che è stato farsesco in fase d’istruzione del processo, nello svolgimento, nelle condanne e ora addirittura nella spettacolarizzazione della coda.

Il pubblico ministero Michele Permunian (uno che in durante il processo avrebbe voluto inventarsi i fini politico-elettorali come movente ed è stato fragorosamente stoppato dal giudice, tanto per dare un’idea del profilo) ha rilasciato un’unta intervista in cui ci fa sapere che vive «un conflitto interiore, come persona e come magistrato. Comprendo – dice Permunian – il peso di una pena del genere: quando ho chiesto 7 anni e 11 mesi, sapevo che c’era il rischio di una condanna più alta». Insomma vorrebbe essere perfino ringraziato per avere avuto la “mano leggera”, in nome non si capisce bene di cosa poiché i magistrati dovrebbero avere una “mano giusta” senza raccontarci epici turbamenti interiori. Addirittura ci dice: «Avevo fatto anche una “requisitoria-b”, in cui arrivavo a un conteggio finale di 15 anni, ma preferivo fosse il tribunale a pronunciarsi. Prudenzialmente mi sono tenuto basso. La pena ora sembra molto alta ma se si leggono il capo d’imputazione e i reati contestati, si scopre che non lo è». Avete capito bene, il senso del messaggio è: sono stato fin troppo buono. E poiché la bontà e la riservatezza sono una sua fondante caratteristica ha pensato bene di raccontarla ai giornali, ovviamente senza ancora avere le motivazioni della sentenza. In compenso ci dice che Lucano ha usato «il denaro dello Sprar per fini privati». Sia chiaro: Mimmo Lucano è un poveraccio senza un soldo e di soldi per tornaconto personale non ne sono mai stati trovati. In sostanza i “fini privati” di Lucano consistevano nel rendere vivibile una città che prima di diventare un modello internazionale di accoglienza era un borgo dimenticato da dio.

Come se non bastasse arriva Luigi D’Alessio, procuratore di Locri, che dice testualmente che Lucano è un «bandito da western. Idealista, improvvisamente issato su un piedistallo, ubriacato da un ruolo più grande di lui, inconsapevole della gravità dei suoi comportamenti». Il procuratore non si spiega le polemiche «per un processo basato su carte e fatture false difficilmente controvertibili, non su testimoni più o meno credibili». E la pena a 13 anni? «Sono parecchi. La Procura ne aveva chiesti quasi 8 e il tribunale li ha divisi in due tronconi: quello associativo e quelli per favorire se stesso e la sua compagna, pure condannata. Poi ha fatto la somma. La matematica non è un’opinione, le pene non si stabiliscono a peso». Fenomenale l’accusa (tutta politica perché si sa, da quelle parti la politicapatia è di casa) contro Lucano colpevole (con processo sommario da svolgere in interviste) di non accogliere tutti. Avete capito bene: Lucano è colpevole di avere accolto troppo e contemporaneamente di avere accolto troppo poco. Un capolavoro di logica. D’Alessio si spinge a dire che «tutto era organizzato per favorire varie cooperative locali, creare clientele, accumulare ricchezze, beneficiare di indotti elettorali» (vuoi mettere l’enorme potere di favorire un’associazione di Riace? Roba da trampolino per fare il presidente del Consiglio) e ci fa sapere di avere «trovato una cassaforte nascosta e svuotata, non credo per custodire la merenda» che non rientra nel processo e nelle accuse. I procuratori editorialisti sono l’evoluzione degli editorialisti che amplificano le tesi delle procure. Fantastico.

Lui, Mimmo Lucano, con la semplicità che lo contraddistingue e che perfino lo rende naïf spiega che «in Prefettura mi chiamavano “San Lucano”, perché gli risolvevo i problemi degli sbarchi. Se parlano di associazione a delinquere, allora devono mettere insieme a me anche il Ministero degli Interni e la Prefettura di Reggio Calabria». «Non so se ci sia stato un complotto nei miei confronti», ha detto Lucano. «Non lo so ma mi sembra tutto strano. Sono stato condannato per peculato, ma più di una volta la stessa Procura aveva detto che io non cercavo alcun tornaconto economico personale». «Con i soldi abbiamo realizzato il frantoio, la fattoria sociale, le case per il turismo dell’accoglienza. Ho cercato, in assenza dello Stato, di rispondere alle necessità dei giovani, per farli rimanere in questa terra e dare loro un’opportunità di lavoro. Ora tutto questo è diventato criminale».

Siamo solo al primo grado ma direi che ci sono tutti gli elementi per fare schifo. E chi ha conosciuto Lucano, chi è passato da Riace, non può che rimanere atterrito se non addirittura terrorizzato dal fatto che il “nemico” sia quell’ex sindaco che si è affidato agli asinelli e al piccolo artigiano. Evidentemente i “poteri forti” riescono a simulare benissimo oppure semplicemente i poteri veri sono talmente deboli da essere terrorizzati da un sindaco di provincia. E terrorizzano per eccesso di difesa.

Nei prossimi gradi di giudizio saranno in molti a doversi scusare. Tenete da parte questo articolo.

Buon lunedì.

nella foto: Mimmo Lucano dopo la sentenza del Tribunale di Locri

 

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Con Voce di donna. Via gli ormeggi, Mannarino racconta il suo nuovo disco

Una donna dalla pelle scura, dorata, in uno sfondo giallo intenso con addosso i tantissimi colori della bandiera Whipala, simbolo del popolo indigeno. Una donna pronta a lottare per i propri diritti, a lottare contro quella cultura che non l’ha “vista” per tanto tempo, forse troppo. Ed ecco che poi la stessa donna da guerriera è pronta ad essere anche morbida e farsi vedere in tutta la sua bellezza, libera con la propria identità. Non è casuale la scelta di questa immagine in il nuovo album (Polydor) del cantautore romano Alessandro Mannarino uscito lo scorso 17 settembre. Un album da cui emerge, come ci racconta lui stesso, la sua ricerca personalissima di questa immagine femminile.
«La prima immagine che mi è venuta in mente è stata l’immagine di una donna indigena, resistente, che veniva da molto lontano, da un passato indecifrabile, ma che era già proiettata nel futuro. Per me questo disco è un messaggio che lancio nel futuro. L’idea è di lasciare spazio a chi vede il rapporto con questa immagine».

V come Venere, Voce, Vita, Vulcano, Vagabonda, Vento. Questa V può essere tante cose o forse solo un suono. «Non riuscivo a dare un titolo all’album che avesse un senso – racconta Mannarino – un significato incarnato in una parola, in una lingua. Per fare questo disco ho fatto una ricerca su temi che vengono ancora prima della scrittura e della parola. Molto è incentrato sul suono quindi qualsiasi titolo sarebbe stato prepotente per questo disco. Volevo che la V rimanesse così come la copertina, interpretabile». E allora forse viene in mente V come vagito e quel suono che accomuna tutti gli esseri umani alla nascita.
Una ricerca quella di Mannarino che guarda anche geograficamente lontano: ai movimenti in Colombia, in Cile, le lotte degli indigeni e delle femministe. «Molti gruppi resistenti oggi in Brasile e in Sud America hanno a capo dei leader donne, che ho conosciuto personalmente. Hanno molto più voce perché hanno una cultura con una impronta più matriarcale, non c’è l’impalcatura occidentale, patriarcale che ha a che fare sia con la cultura greco romana, ma anche con il cristianesimo, con il monoteismo. L’universo che esce fuori dal disco è un universo più animista, non c’è il dio del monoteismo».

Mannarino ci racconta anche che voleva un disco che fosse folk, ma anche contemporaneo. «Volevo trovare la forza ancestrale e raccontare la forza di tutti gli esseri umani, su un terreno comune che è prima della scrittura, prima della cultura. Quindi togliere tutte le sovrastrutture e andare a…


L’articolo prosegue su Left dell’1-8 ottobre 2021

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Quelle artiste diventate invisibili

Perché nel mondo accademico, e non solo, si fa così tanta fatica ad accettare che le donne possano aver dipinto nel paleolitico? Perché per alcuni studiosi l’idea stessa di un’artista di sesso femminile risulta inconcepibile? E ancora: perché antropologi e studiosi costruendo fin dai tempi più antichi un paradigma di divisione del lavoro fra uomini e donne hanno assegnato agli uomini il ruolo di inventori e innovatori creativi e alle donne un ruolo “solo” di accudimento, in quanto sarebbero dipendenti e passive? Perché nella storia si sono incontrate tante resistenze nel riconoscere che le donne hanno contribuito come gli uomini all’evoluzione dell’umanità? Queste e altre domande cruciali innervano il libro della paleontologa Marylène Patou-Mathis La preistoria è donna, una storia dell’invisibilità delle donne, appena pubblicato in Italia da Giunti. Un volume che indaga le radici culturali della millenaria negazione dell’identità della donna di cui la studiosa parigina rintraccia i primi segni proprio negli scritti di quegli scienziati che, studiando il Paleolitico, hanno inventato un paradigma «conforme al modello patriarcale di divisione rigida dei ruoli tra i sessi».

Nell’Ottocento quando una scienza giovane come lo studio della preistoria cominciò a farsi largo i primi pionieri ebbero il coraggio di esplorare un campo nuovo ma lo fecero con lenti alterate dall’ideologia e dalla mentalità della loro epoca. E se è vero che proprio allora le teorie mediche cominciavano ad affrancarsi dai testi sacri, l’ideologia religiosa era dura a morire così «alla idea dell’inferiorità dell’ordine divino a cui erano soggette le donne si aggiunse un’inferiorità per natura, perché – ricostruisce Patou-Mathis – secondo gli studiosi di allora la realtà anatomica e fisiologica delle donne conferiva loro temperamenti e funzioni specifiche».Religione e ragione positivista andarono perfettamente a braccetto annullando la creatività delle donne in quanto artiste che per molti secoli sarebbero poi completamente sparite dal racconto della storia dell’arte. Nel nostro piccolo abbiamo cercato di argomentare questa tesi nel libro Attacco all’arte, la bellezza negata (L’Asino d’oro, 2017), individuando nei monoteismi e nell’astratto razionalismo dei filosofi antichi le radici di una micidiale misoginia che allunga la sua ombra anche sul presente come drammaticamente constatiamo ogni giorno. Anche la paleontologa Marylene Patou-Mathias, come già la studiosa di diritto antico Eva Cantarella nei suoi molti libri, ripercorre e addita le responsabilità di Platone e di Aristotele, per i quali la donna era un maschio incompiuto e al più mera matrice materiale di progenie. E molto spazio dedica alla denuncia della violenza che i monoteismi hanno sempre esercitato sulle donne, come si evince dai testi sacri dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’Islam e, per quanto ci riguarda più da vicino, nelle lettere di Paolo di Tarso, nella patristica e nella dottrina. Molto interessante è anche che la direttrice del Centre national de la recherche scientifique (Cnrs) individui nella nascente psicoanalisi dell’Ottocento una cassa di risonanza di questi antichi pregiudizi che condannavano la donna come essere inferiore rispetto all’uomo (in quanto secondo la Bibbia nata da una costola di Adamo e responsabile del peccato originale).

In Mosè e il monoteismo (Newton Compton, 2010) Freud ipotizzava un immaginario matriarcato preistorico che sarebbe poi stato rimpiazzato da un superiore patriarcato. E ne scriveva in questi termini: «Questo passaggio dalla madre al padre designa una vittoria della spiritualità sulla sensibilità, dunque un progresso di civilizzazione». (sic!)

Che sia scientificamente corretto parlare di società matrilineare riguardo al Paleolitico e non di matriarcato è un fatto condiviso da molti studiosi oggi, ma non è tanto su questo che si appunta la riflessione di Patou-Mathis quanto sulla pervasività e persistenza dell’esaltazione di un violento modello patriarcale che forse – questa è la tesi della studiosa francese – non si era ancora strutturato nel paleolitico superiore ma era invece nella mente di quegli studiosi che crearono l’archetipo dell’uomo preistorico armato di clava, che trascina la donna per i capelli, bellicoso, campione di machismo e di stupro. Ma l’uomo preistorico era davvero così, si domanda Patou-Mathis? Se stiamo ai reperti archeologici e alle rappresentazioni pittoriche del Paleolitico superiore non troviamo molte tracce di guerra. Piuttosto, come ipotizza la paleontologa poiché nella preistoria gli esseri umani vivevano in piccoli gruppi, la collaborazione, lo scambio e l’aiuto reciproco era forse più importante per la sopravvivenza dell’aggressività e della competizione.

Resta il fatto però che quel paradigma dell’uomo preistorico è arrivato fino a noi propalato da cinema, letteratura e cartoni animati, ma si è diffuso anche nel mondo accademico, tanto che ancora nel 1961 antropologi e studiosi della preistoria affermavano che noi saremmo discendenti di presunte scimmie assassine. Le radici di tutto ciò, come accennavamo, affondano nella mentalità ottocentesca, quella lombrosiana in particolare e trovò spazio nelle grandi esposizioni universali, nei circhi equestri in cui venivano mostrate in gabbia veneri nere. «Fino alla fine dell’Ottocento la produzione artistica e letteraria ha proposto, tranne rare eccezioni, l’immagine di uomini primitivi violenti. Privi di comportamenti sociali, considerati inclini all’omicidio e al cannibalismo», fa notare Marylene Patou-Mathis, aggiungendo: «Nella maggior parte dei romanzi ispirati ai racconti degli esploratori i conflitti sono continui in particolare fra razze diverse». Ma come oggi sappiamo molto più probabile furono invece coesistenza e ibridazione fa Neanderthal e Sapiens. A costruire questo stereotipo dell’uomo preistorico massimamente misogino molto concorse l’idea biblica, fatta propria e teorizzata da filosofi come Hobbes che la violenza fosse innata nell’uomo. Come ci ricorda Patou-Mathis è quanto sostiene Freud ne Il disagio della civiltà (Bollati Boringhieri) quando scrive: «L’uomo non è affatto una creatura mansueta, bisognosa di amore… egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto o un oggetto sessuale, ma anche un oggetto su cui sfogare la propria aggressività». Ma se studiamo i reperti della preistoria con occhi sgombri da filtri ideologici e religiosi non troviamo testimonianze di quanto scrive Freud. «I primi segni di violenza collettiva – afferma Marylene Patou-Mathis – sembrano comparire con la sedentarizzazione delle comunità che comincia circa 14mila anni fa e si sviluppa nel corso del Neolitico, periodo segnato da numerosi mutamenti ambientali (riscaldamento climatico) economici (domesticazione delle piante e degli animali), sociali (comparsa delle élite e delle caste, con il loro corollario, la gerarchizzazione e le disuguaglianze) e delle credenze (comparsa delle divinità e luoghi di culto)». «Si è constato – aggiunge – che le donne e i bambini ne furono le prime vittime».

Il che non significa ovviamente che la preistoria fosse un’età dell’oro priva di conflitti, ma molti indizi portano a pensare che vi fosse una organizzazione sociale relativamente egualitaria e poco bellicosa e che soprattutto, pensiamo noi, vi fosse un modo di auto-rappresentarsi attraverso l’arte che non si basava sul conflitto distruttivo al di là della realtà materiale certamente durissima in quei tempi lontani. Forse i nostri antenati più antichi non avevano perso l’immagine interna? Forse, donne o uomini che fossero, non avevano distrutto dentro di sé l’immagine femminile? Sono domande che lasciamo in sospeso aspettando la risposta di chi, antropologi, psichiatri e psicologi ne sa più di noi. Volendo aprire un dibattito più ampio ci limitiamo qui a riportare quel che ci propone Patou-Mathis attraverso lo studio dell’arte del Paleolitico superiore che abbonda di statuette femminili, le famose Veneri, e di simboli stilizzati di vulve, ma anche di mani femminili stampate a mo’ di firma vicino alle rappresentazioni pittoriche. Ne La preistoria è donna Marylene Patou-Mathis argomenta la sua tesi supportata da una corposa bibliografia, arrivando a scrivere: «La violenza delle società preistoriche del Paleolitico non è archeologicamente attestata, è probabile che le relazioni tra uomini e donne in quel periodo non fossero così conflittuali come è sostenuto da alcune tesi. Il predominio sulle donne risulterebbe più recente e conseguenze all’instaurazione del sistema patriarcale, talvolta imposto con la violenza, e in particolare con il potere sul corpo (e sulla mente, aggiungiamo noi, ndr) della donna». La volontà di possedere l’altro senza il suo consenso ricorda la studiosa, si riscontra in numerosi miti, in cui le donne vengono violentate dopo essere state rapite. «Proprio come la cultura della guerra, la cultura dello stupro s’inserisce molto presto nelle raffigurazioni. È forse per questa ragione – si domanda la studiosa – che da secoli si tollera la violenza sulle donne?».


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