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Maurizio Landini: «Non basta un decreto per evitare altre Gkn»

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 25-02-2021 Roma Cronaca Manifestazione dei lavoratori del trasporto aereo Nella foto Maurizio Landini Photo Roberto Monaldo / LaPresse 25-02-2021 Rome (Italy) Demonstration of air transport workers In the pic Maurizio Landini

La necessità che i lavoratori tornino in piazza. Le polemiche sul Green pass. La storica sentenza del tribunale sui licenziamenti alla Gkn. Di questo, e molto altro, abbiamo parlato con il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, a margine del convegno in occasione del 50esimo anniversario dall’omicidio del sindacalista Vasco Zappelli, organizzato dalla Cgil Lucca a Seravezza lo scorso 21 settembre.

Segretario, qual è il significato della sentenza del Tribunale di Firenze che ha revocato i licenziamenti alla Gkn di Campi Bisenzio?
Il giudice ha riconosciuto il comportamento antisindacale della Gkn, premiando la battaglia fatta dai lavoratori e dalla Fiom, che non sono stati coinvolti prima che venisse presa la decisione di chiudere lo stabilimento. La revoca dei licenziamenti è senza dubbio un primo risultato importante. Ora però si apre una nuova fase, in cui è necessario che il governo intervenga assumendosi le proprie responsabilità, non solo per evitare i licenziamenti, ma anche far ripartire l’attività produttiva.

Crede che il decreto Orlando – pensato per arginare le delocalizzazioni, ma di cui per adesso si ha solo una prima bozza – potrebbe evitare il ripetersi di situazioni del genere?
Non conosciamo il provvedimento perché non…


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Figli di un diritto minore

Young woman sitting lonely on stairs

Nella corsa alle riforme legate al Piano nazionale di ripresa e resilienza forse si è perso qualcosa per strada: il diritto dei minori più svantaggiati, soggetti a maltrattamenti in famiglia, ad essere tutelati da quel sistema di protezione finora rappresentato dai Tribunali per i minorenni (Tm). Il “superiore interesse del minore”, principio cardine della giustizia minorile, rischia infatti di subire uno svuotamento di senso con la riforma del processo civile, che, appunto, fa parte del “pacchetto Pnrr”. In sostanza, il giudice che deve prendere decisioni fondamentali per la vita di un bambino o di un adolescente, come per esempio il suo allontanamento dalla famiglia, lo farà da solo, senza avvalersi più dei giudici onorari (esperti delle scienze umane) che, come avviene ora, lo affiancano nella valutazione del caso e nella decisione finale. C’è chi parla di arretramento, chi ricorda la riforma Castelli sulla giustizia minorile giudicata incostituzionale nel 2003, chi rievoca la riforma Orlando del 2016 che però nel 2017 vide lo stralcio della norma che prevedeva abolizione dei Tm (v. Left del 5 agosto 2017). Che cosa è successo stavolta? Una marcia velocissima, a tappe forzate, in una manciata di giorni, ha portato il 21 settembre il Senato a votare con la fiducia l’emendamento sostitutivo del ddl n.1662 di delega al governo per l’efficienza del processo civile.

In questa riforma è stato istituito il Tribunale unico per le persone, per i minorenni e per le famiglie. Che, va detto, tutti, dai magistrati e avvocati mino…


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Una nuova immagine di bambino e di donna

A newborn infant baby girl in a blanket swaddle wraps her tiny hand and fingers around her father and mother's fingers as she sleeps peacefully.

«La percezione dell’infanzia nella nostra società occidentale è decisamente negante l’identità del bambino», afferma la dottoressa Silva Stella, medico pediatra e psicologo clinico, già responsabile di medicina preventiva dell’età evolutiva Asl Rm6. «Per millenni, si è sostenuto che il bambino nei primi anni di vita è senza pensiero e acquisisce quello cosciente solo con l’apprendimento del linguaggio articolato, grazie all’insegnamento degli adulti».
Come se il bambino fosse una tavoletta di cerca e non avesse una propria identità umana?
Tutto il periodo pre-verbale, sarebbe senza pensiero o meglio animalità, pazzia distruttiva o il “male” del pensiero religioso. Fino agli anni Settanta, nessuno aveva mai pensato che la natura umana iniziasse con un pensiero specie-specifico. È senso comune credere che il bambino “nasca” quando emette il vagito. In realtà è già nato pochi secondi prima, quando il corpo è flaccido, bradicardico, pallido, senza tono muscolare. Durante questi pochi secondi emerge la capacità d’immaginare, ne consegue che il vagito è secondario al pensiero per immagini. La reazione agli stimoli naturali, la luce, permette l’emergenza di qualcosa che sorge da dentro l’organismo e va verso l’esterno e che permetterà la formazione di un pensiero-immagine. Pensiero che continuerà a svilupparsi per tutto il primo anno di vita quando maturando gli organi di senso, in particolare la vista, il bambino potrà conoscere la propria immagine fisica fusa alle proprie immagini interne e avere coscienza di sé. Non c’è ancora il linguaggio articolato, si avrà più tardi e sarà per trasformazione delle immagini preverbali. Questa premessa teorica, dalla Teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli, permette di riconoscere al neonato una realtà non cosciente che sta alla base delle relazioni umane, e che ancora la cultura fa fatica a riconoscere
Quanto è importante per il bambino la qualità del rapporto in ambito familiare?
Premetto che il neonato nasce come essere sociale, la sua ricerca degli affetti deriva dalla memoria della sensibilità neurobiologica fetale che è fisica e grazie alla capacità d’immaginare che emerge dal corpo, trasforma questa certezza di sensibilità fetale, in certezza dell’esistenza di un altro essere umano. Il calore del liquido amniotico diventa il calore dell’essere umano che lo accudirà, motivo per cui cercherà il seno. Tutta la vita andiamo alla ricerca di questo calore, che è affettività, non dovrebbe essere deluso. La sensibilità del neonato è un sentire del corpo che va oltre la percezione degli organi di senso. Le sensazioni e le percezioni vanno incontro a trasformazione, diventano memoria dell’esperienza vissuta e le immagini conseguenti potranno essere più o meno evolutive a seconda di quanto siano state piacevoli le esperienze. Se ne evince quanto sia importante la qualità dei rapporti familiari, che dovrebbero basarsi su uno scambio reciproco che mette al centro della relazione, non solo l’accudimento fisico ma anche la presenza psichica.
In tutto questo il ruolo della madre è determinante?
La presenza psichica della madre, in realtà di entrambi i genitori, è…


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Running for Future, per il clima non c’è più tempo

I Parents For Future Italia ed i Fridays For Future Italia, consapevoli dell’emergenza climatica in atto, dovuta alla mano dell’uomo che immette nell’atmosfera molta più energia di quanta il pianeta ne può dissipare e le conseguenze quest’estate sono ancora più evidenti (per il terzo anno consecutivo ancora più gravi), intendono mettere in campo una serie di iniziative per attirare l’attenzione dei governanti affinché si intervenga in modo incisivo e radicale per affrontare il riscaldamento climatico. Come dice Greta Thunberg basta “blablabla”.
La voce di noi tutti, in Italia e nel resto del mondo deve poter essere udita dai politici che si stanno incontrando nei vari G20 di quest’anno, ma che s’incontreranno in modo specifico per parlare di Clima, proprio alla COP26 (Glasgow 1- 12 novembre 2021) e che vedrà un binomio di grande collaborazione proprio tra Inghilterra ed Italia.

Tra queste iniziative la staffetta ciclistica Running For Future vuole “collegare” lo sciopero globale per il clima del 24 settembre con la Global March for Climate Justice, marcia per la giustizia climatica, che si tiene a Milano il 2 ottobre dalle ore 15. La staffetta, partita da Roma il 24 settembre, porta “l’Orologio climatico” a Milano il 2 ottobre per ricordarci quanto poco tempo abbiamo per affrontare di petto il problema dei cambiamenti climatici. Cambiamenti dovuti a un eccessivo sfruttamento delle risorse naturali e risorse ambientali. Risorse sfruttate da pochi per fare profitto proprio come avviene per il lavoro. Ciò che è di tutti viene usato per arricchire qualcuno come se si trattasse di risorse infinite. Ma il pianeta non ha risorse infinite e dobbiamo preservare il futuro dei nostri giovani. E per fare questo, come dicono i FridaysForFuture, i “giovani di ieri” e i giovani di oggi hanno bisogno di essere uniti.

La staffetta ciclistica percorre quasi 900 chilometri da Roma a Milano prevalentemente sulla Via Francigena, che attraversa luoghi stupendi, affinché essi siano l’emblema di quella bellezza e ricchezza di cui tutti dobbiamo avere cura. Ma il tempo per salvare quei luoghi, e tutti i luoghi del mondo, sta finendo. A dirci che il tempo a nostra disposizione sta scadendo è l’ultimo report di IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) ed il Climate Clock (www.climateclock.world) sincronizzato con IPCC.
Usiamo il termine Running anche per significare il “correre contro il tempo”. Usiamo la bici per dimostrare che esiste un modo diverso di collegarsi alla natura, di viaggiare in mezzo alle persone, di dialogare con loro. L’accoglienza avuta in questi primi giorni di “corsa contro il tempo” è stata eccezionale: in tutti i luoghi attraversati, dalle cittadine come Siena ai piccoli paesi, l’entusiasmo e la solidarietà delle persone e delle istituzioni dimostra che la coscienza della cittadinanza è sensibile: ora serve l’azione dei “potenti della terra”.

Basta fonti fossili ora! È incredibile che l’Eni, proprio mentre la staffetta era in corso, ha avviato la costruzione di 2 nuovi impianti per la produzione di gas (fonte fossile climalterante come ci ha fatto vedere PresaDiretta) che saranno pronti nel 2024 e costeranno più di 700 milioni di euro. Impianti che dovranno produrre almeno fino al 2055 ben oltre il limite temporale in cui dovremo eliminare completamente le fonti fossili come ci dicono gli scienziati. E la cosa più sconvolgente è che le popolazioni che meno hanno inquinato, africani, asiatici, america latina, sono quelle che più soffrono le conseguenze dei cambiamenti climatici. Non dobbiamo quindi stupirci dei “migranti climatici”. È ora di eliminare le diseguaglianze e ridistribuire le ricchezze. Non c’è giustizia sociale senza giustizia climatica!

La mancanza di cura per l’ambiente e quindi per il nostro pianeta, sono i fattori responsabili di ciò che molti avevano immaginato già quarant’anni fa. Si sta verificando tutto. I vari aspetti delle nostre vite sono tutto quello per cui dobbiamo mettere il massimo impegno, poiché sono tutti interconnessi: salute, deforestazione, cementificazione, allevamenti intensivi, agricoltura intensiva, consumismo, spreco, inquinamento, etc
La staffetta unisce il Global Strike con la Pre-Cop26, per arrivare alla COP26. Serve un grido globale di tutti. Siamo tutti lanciati verso l’autodistruzione e soltanto insieme possiamo fare la differenza!
Non abbiamo intenzione di smettere di “fare chiasso”! Abbiamo in cantiere tante altre iniziative.
Unisciti a noi e ricorda, i nostri due movimenti, sono globali. Esistono ovunque sul pianeta, dal Giappone al Kenya, dal Burkina Faso al Guatemala, da Kosovo a Città del Capo. Ci sono città, nazioni, continenti e siamo anche tutti un solo movimento globale. Abbiamo bisogno anche di te. Abbiamo bisogno di tutti!

 

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In Italia i migranti conviene ucciderli, mica accoglierli

Il 3 febbraio 2018, verso le ore 11, a Macerata, furono esplosi alcuni colpi di pistola nel centro cittadino da una vettura in movimento, una Alfa Romeo 147 nera, ferendo diverse persone e colpendo anche negozi ed edifici. I colpi furono esplosi con una Glock 17, pistola semiautomatica calibro 9, davanti alla stazione, in via Velini e in via Spalato, ma anche a Piediripa di Macerata, Casette Verdini, via Pancalducci e Borgo San Giuliano.Tra gli altri, fu colpita anche la sede locale del Partito democratico. Nell’attacco, rimasero ferite sei persone, tutti immigrati di origine sub-sahariana con età compresa tra i 20 ed i 32 anni. Il sindaco di Macerata, Romano Carancini, diramò l’allerta, invitando i cittadini a restare in casa, avvertendo della presenza di una persona che stava sparando in città e informando di aver già fermato il trasporto pubblico e di aver chiesto alle scuole di tenere i bambini all’interno. Per l’attacco venne arrestato Luca Traini, un uomo di 28 anni, il quale, secondo la ricostruzione, sarebbe partito da Tolentino e, dopo aver sparato, sarebbe sceso dall’auto davanti al Monumento ai Caduti cittadino, dove avrebbe fatto il saluto romano e gridato “Viva l’Italia” con un tricolore legato al collo, prima di arrendersi alle forze dell’ordine. Nella sua casa furono rinvenuti elementi riconducibili all’estrema destra, tra cui una copia del Mein Kampf e una bandiera con la croce celtica. Il 24 marzo 2021 è stata confermata dalla Cassazione la condanna a 12 anni di reclusione. Mimmo Lucano è stato condannato in primo grado di giudizio a 13 anni e due mesi: in Italia i migranti conviene ucciderli, mica accoglierli.

Se invece vogliamo parlare di danno erariale allo Stato allora c’è un’altra storia interessante. Il 16 aprile 2012 il Corriere della Sera lancia la notizia secondo cui uno dei fiduciari svizzeri di Pierangelo Daccò, amico di Formigoni e uomo vicino a Comunione e Liberazione riceveva denaro per facilitare le pratiche in Regione. Arrestato per aver creato milioni di fondi neri nello scandalo dell’Ospedale San Raffaele e aver distratto dal patrimonio della Fondazione Maugeri circa 70 milioni di euro sotto forma di consulenze e appalti fittizi, avrebbe pagato viaggi aerei compiuti dallo stesso governatore, da un suo collaboratore, e dal fratello di Formigoni e sua moglie. Tra questi benefici, un viaggio Milano-Parigi da ottomila euro, compiuto il 27 dicembre 2008, pagato da Daccò a Formigoni. Il governatore, però, ha smentito categoricamente i fatti, affermando di non aver ricevuto mai alcun beneficio. Il 19 settembre 2018 Formigoni è condannato in appello a 7 anni e 6 mesi di reclusione. Il 21 febbraio 2019 la condanna è stata ridotta a causa della prescrizione a 5 anni e 10 mesi dalla Corte di Cassazione.

Da una ricerca Eures sugli ultimi 10 anni in Italia si scopre che per l’omicidio volontario la durata media della pena inflitta è di 12,4 anni (il Codice prevede da un minimo di 21 anni all’ergastolo), per l’omicidio preterintenzionale è di 8,8 anni (il Codice prevede da 10 a 28 anni), per l’omicidio colposo 0,5 anni (da 6 mesi a 5 anni per il Codice); 2 anni per la rapina (da 3 a 10 anni) e l’estorsione (da 5 a 10 anni); 0,4 anni per il furto (massimo previsto 3 anni) e per la truffa (da 6 a 12 mesi per il Codice); per la bancarotta 1,3 anni (da 6-24 mesi a 3-10 anni per la “semplice” e la “fraudolenta” per il Codice); 1,1 per la detenzione di armi (da 1 a 4 mesi da 1 a 3 anni) e 1,3 anni per il peculato (da 3 a 10 anni la pena edittale prevista).

Le sentenze non si commentano ma si possono confrontare. Un giudice che commina una condanna quasi doppia rispetto alla richiesta dei magistrati deve avere motivazioni interessanti che aspettiamo. Siamo al primo grado di giudizio ma che l’opera di Mimmo Lucano fosse fastidiosa ce ne siamo accorti (e ne abbiamo scritto) da tempo. E attenzione: contro Lucano si era scagliato il Movimento 5 Stelle (un post di Carlo Sibilia si intitolava “Riace non era un modello: è finita l’era del business dell’immigrazione”, solo per fare un esempio). Le ispezioni contro Lucano furono un’idea di un ministro del Pd (sì, lui, Minniti) all’Interno. Quello di Mimmo Lucano è un processo che testimonia un tempo di cui sono colpevoli anche molti che oggi solidarizzano. Insomma, è una storia che fa schifo dappertutto.

Aspettiamo le motivazioni, piuttosto demotivati.

Buon venerdì.

Foto dalla pagina facebook Riace patrimonio dell’umanità

 

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Mimmo Lucano, colpevole di essere umano

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 30-01-2019 Roma Politica Conferenza stampa sulla chiusura della campagna di raccolta firme per la candidatura di Mimmo Lucano e del Comune di Riace al Premio Nobel per la pace 2019 Nella foto Mimmo Lucano durante la conferenza stampa nella redazione di Left Photo Roberto Monaldo / LaPresse 30-01-2019 Rome (Italy) Closing of the Campaign for the assignment of the Nobel Prize to Riace In the photo Mimmo Lucano

Avevamo sentito Mimmo Lucano pochissimi giorni fa, per l’intervista che trovate nel nuovo numero di Left. Lo abbiamo sentito volare alto, parlare, finalmente, di futuro, di speranze, con una tranquillità nel tono della voce, nell’argomentare che facevano pensare ad una persecuzione quantomeno assopita. La sentenza della procura di Locri, giunta pochi minuti fa, – sentenza di primo grado, importante ricordarlo – giunge come un fulmine a ciel sereno. Dovremo attendere il deposito delle motivazioni per poter capire almeno le ragioni di una condanna, 13 anni, quasi doppia rispetto a quanto richiesto dall’accusa. I reati contestati sono degni di un boss mafioso, di un trafficante, di un sordido individuo dedito alla corruzione: associazione per delinquere, abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma chi ha emesso la condanna sa almeno come viveva e come vive Mimmo Lucano? Come si guadagna da vivere dopo 4 anni di gogna mediatica e processuale?

Attendiamo le motivazioni ma è difficile non percepire, per chi ha avuto il privilegio di condividere la storia di questo straordinario compagno di viaggio, la vendetta di un sistema di potere che lo vuole veder sparire. In una terra e fra una popolazione vessata dalle organizzazioni mafiose, in cui il voto, i consensi, gli appalti, la stessa sopravvivenza attengono sovente a meccanismi di violenza predatoria inimmaginabili, le stesse parole di Mimmo Lucano sono un rumore molesto.

Un tempo, parole di questo tipo venivano fermate con altri mezzi, in questo caso è inevitabile pensare che forme di potere costituito abbiano provveduto con simile violenza. Perché Mimmo Lucano, candidato in una lista alle elezioni regionali in Calabria, parla in questo periodo meno di se e più dei problemi della sua terra. Parla di sanità, in una regione in cui, nonostante questa rappresenti la principale spesa, le persone sono costrette a curarsi nel resto del Paese perché le strutture pubbliche sono state chiuse o abbandonate. Parla di lavoro, dove lavoro nero, sfruttamento, di autoctoni e migranti è la norma, di clientelismi.

Ma parla anche di tante splendide persone che non accettano e si ribellano al sistema di potere, che, magari divise, si ritrovano a condividere gli stessi valori della storia più bella di quella terra, dei sindaci anti ‘ndrangheta, dei giornalisti e delle giornaliste minacciate, dei giovani che sono riusciti a non migrare e cercano, giorno dopo giorno, di riscattare con tutte le forze a disposizione la propria libertà. La vicenda di Mimmo Lucano e di Riace non parla unicamente di accoglienza, di migranti, di solidarietà verso gli ultimi che arrivano da lontano. È una vicenda politica, non solo umana, che mette in connessione chi sembra non poter aver futuro indipendentemente dal paese di provenienza, dalla cultura. Chi viene messo in connessione e non si sente più solo, marginale o, meglio ancora marginalizzato, può reagire, rifiutare il fatalismo di un sistema clientelare. Come non pensare che – facendo torto a chi amministra con serietà la giustizia – questa condanna sia un monito rivolto a chi alza la testa? Il popolo dei social di cui spesso si parla perché accusato di essere volano d’odio, sovente invece raccoglie con estrema velocità e prontezza i messaggi positivi di chi non accetta l’inevitabile.

Giungono già notizie di mobilitazioni per Mimmo Lucano a Riace, in Calabria, a Roma e in altre città d’Italia. Se quest’uomo rimasto povero e spesso isolato per aver mantenuto i propri ideali, quelli che da giovane lo portarono a scegliere da che parte stare dopo la morte di Peppino Impastato, fa paura al punto, non solo di non trasmettere una fiction già prodotta su di lui dalla Rai, ma da proporre addirittura che lo si trascini in carcere, magari in manette, c’è qualcosa di profondo da analizzare. Forse c’è anche la fragilità di un potere marcio per cui la presenza di simboli concreti, capaci di affrontare la realtà rappresenta un pericolo concreto, da fermare. L’ex sindaco di un minuscolo paesino della Calabria è uno di questi simboli. Non lasciamolo solo, restiamo orgogliosamente suoi complici.

 

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Per approfondire, leggi l’intervista a Mimmo Lucano su Left dell’1-8 ottobre 2021

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«Eravamo solo corpi da smaltire»

«Le nostre madri ci sono state nascoste, spesso denigrate ai nostri occhi. Le hanno messe incinte e poi gli hanno portato via i figli. Noi. È avvenuto quasi sempre con la forza, come se madri e figli fossero oggetti senza cuore, senza affetti, senza intelligenza. Solo corpi da smaltire. E la sofferenza della separazione brutale per la madre e il bambino? E la rottura del legame affettivo? Come abbiamo tutti, madri e figli meticci, continuato la nostra vita? Abbiamo ricostruito la nostra storia con pezzi di parole pescate qua e là sopra le nostre piccole teste con molti pezzi mancanti. Pezzi mancanti fino ad oggi. Io sono stata mandata lontano da mia madre, in un Paese lontano che non parlava la sua lingua, la nostra lingua. Una lingua che ho perso. Non l’ho più vista e ho pensato che mi avesse abbandonato. Solo molto più tardi ho capito che non aveva potuto impedirlo. Perché ero stata rubata».

Il Belgio e i conti aperti con il colonialismo
La protagonista di questa storia si chiama Yanine ed è una métis. Così vengono chiamati in Belgio coloro che sono nati in Congo, Ruanda o Burundi da madre indigena e padre belga durante il periodo coloniale belga (che si è protratto dal 1885 al 1962). Strappata a forza ancora bambina dalla mamma rimasta in Congo e a sua volta abbandonata dal padre, Yanine è stata portata in Europa e qui è stata rinchiusa in un istituto religioso, infine affidata a una “nuova” famiglia. A decine di migliaia – almeno 15mila, forse 20mila, ma il numero reale è ignoto -, hanno subito la sua stessa sorte: rinchiusi in orfanotrofi o collegi gestiti da congregazioni religiose cattoliche (suore di Notre dame, frati Maristi etc) e poi affidati a famiglie residenti per lo più in Francia, Stati Uniti e Olanda. «In tanti chiediamo da anni un riconoscimento formale del crimine subito da parte del governo belga. Ma senza fortuna, a parte una richiesta di perdono espressa nel 2018 per la prima volta da Bruxelles».

Raccolgo questa denuncia da Olivier Lendo nell’ambito di un simposio europeo sulla violenza contro i minori, discriminazioni di vario genere, riduzione in schiavitù, abusi, lavoro minorile, sfruttamento e adozioni illegali organizzato a Berna dalla Fondazione Guido Fluri dal titolo “Justice initiative”. Olivier si trova a Berna in rappresentanza di alcune associazioni di métis vittime di furto e deportazione di Stato. Obiettivo dell’incontro è la redazione di un testo condiviso da associazioni per i diritti umani e Ong di 17 Paesi diversi (tra cui l’Italia rappresentata da Rete l’abuso onlus), da presentare sotto forma di mozione al Consiglio d’Europa per sensibilizzare i governi europei da sempre poco concentrati su tutto ciò che riguarda il mondo dell’infanzia e i suoi diritti (vedi box a pag. 8).

La scintilla svizzera
La Fondazione G. Fluri è nota per aver lanciato diversi anni fa, in Svizzera, la campagna “Iniziativa per la riparazione” che ha permesso di riconsiderare i diritti e la storia dei bambini, molti dei quali di etnia Sinti e Rom, che durante il secondo Novecento erano stati sottratti alle loro famiglie naturali e collocati forzatamente in istituti o altre famiglie (e qui molti di loro abusati), e altre vittime di misure coercitive. La campagna è stata talmente un successo che nella Confederazione elvetica quasi 10mila persone colpite da queste misure hanno ricevuto dallo Stato un contributo di solidarietà per un totale di 300 milioni di franchi. Justice initiative 2021 altro non è che l’ampliamento del raggio d’azione di quella esperienza al di fuori della Svizzera attraverso la costituzione di una solida rete europea di attivisti, giuristi e operatori per i diritti umani, in grado di fare adeguata pressione presso le diverse istituzioni, compreso il Parlamento Ue.

In quasi tutta Europa, infatti, come vedremo in queste pagine per decenni è stato violato il diritto di protezione dei minori. E accade tuttora. Gli abusi più gravi si sono verificati, e si verificano, soprattutto nelle istituzioni statali o religiose, ma anche purtroppo in famiglia. In molti casi, le autorità statali sono state in parte responsabili delle sofferenze subite, o non hanno protetto adeguatamente i bambini. Fino ad oggi nella maggior parte dei Paesi europei questi crimini non sono stati affrontati ed elaborati a livello di opinione pubblica. E questa mancata elaborazione spesso si interseca con altre carenze e ritardi.

Il Belgio, per esempio, come del resto l’Italia, è uno dei tanti Paesi europei che non ha ancora fatto fino in fondo i conti con il suo passato coloniale. E questo, come anche il razzismo purtroppo ancora radicato nella società civile, rende difficile la battaglia delle migliaia di métis che chiedono giustizia. Di qui l’idea di entrare a far parte di Justice initiative. «Il Belgio – racconta Olivier Lendo – immaginava la sua colonia come cattolica, bianca, di estrazione sociale piuttosto aristocratica. In realtà esercitava il proprio potere con il terrore e un’autorità assoluta sui nativi, basando questa autorità su un’idea di superiorità morale e razziale che non poteva essere contestata in alcun modo. Questo – prosegue Lendo – comprendeva anche il divieto di relazionarsi con i “negri”. Ma ciò non significava che il sesso interrazziale fosse scoraggiato.

Il bianco colonizzatore e la nera sottomessa non potevano sposarsi ma il bianco aveva diritto al suo godimento sessuale come del resto si racconta nel famoso romanzo autobiografico dell’amministratore coloniale Jef Geeraerts, Cancrena. Venere nera, che è stata una lettura obbligatoria per gli studenti di lingua olandese in Belgio e nei Paesi Bassi fino al 2020». E qui si sprecano le analogie con il «madamato» che andava molto in voga durante il colonialismo italiano in Africa. Basti pensare a Indro Montanelli fieramente e fascistamente convinto di aver fatto del bene a Destà, la bambina etiope «comprata assieme a un cavallo e un fucile per 500 lire» dal “gran maestro” del giornalismo italiano che si beava nel definirla «animalino selvatico ma docile».

Di questo stesso razzismo misto a misoginia era imbevuto il colonialismo belga e sebbene i “mezzosangue” fossero considerati – appunto – a metà tra neri e bianchi e quindi godessero di più diritti delle loro madri native, avendo possibilità di accesso all’istruzione media e a posti riservati nel servizio civile e nell’esercito, a un certo punto vennero visti come una grave minaccia per i dominatori, convinti che la «goccia di sangue bianco» presente nelle loro vene avrebbe potuto scatenare delle rivolte. Ed è stato così che fu messo in atto un gigantesco rastrellamento nell’immenso territorio coloniale per individuare i bambini métis, sottrarli alle loro madri e rinchiuderli in istituti religiosi in attesa di essere venduti a “civili” occidentali residenti in Paesi lontani.

La storia dei métis belgi riporta alla mente il furto sistematico dei neonati accaduto in Argentina durante la dittatura civico-militare del 1976-83 quando centinaia di bambini figli di desaparecidos furono sottratti dai militari golpisti, con la complicità di ecclesiastici, ai genitori naturali per essere affidati a famiglie considerate ideologicamente adatte a educare un bambino lontano dal possibile contagio della sovversione in quanto di provata fede cristiana e di costumi occidentali. Il generale Videla, con la benedizione della Conferenza episcopale argentina e il sostegno delle multinazionali straniere nordamericane ed europee, definiva infatti terrorista chiunque avesse idee «contrarie alla civiltà cristiana occidentale». Quindi per “salvare” la società argentina era necessario che i figli dei “sovversivi” fossero separati dalla famiglia naturale perché erano come «semi dell’albero del diavolo».

300mila bambini rubati in Spagna
Lo stesso “sistema” prima ancora che in Argentina era stato rodato e applicato con successo per decenni nella cattolicissima Spagna del dittatore fascista Francisco Franco. Qui, sin dalla fine degli anni Trenta, con inganni e ricatti perpetrati da suore, preti e medici corrotti, all’interno di strutture gestite da ordini religiosi operò una organizzazione ramificata che aveva il compito di togliere i figli…


L’inchiesta prosegue su Left dell’1-8 ottobre 2021

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Quei Paesi senza balocchi. L’Europa che non protegge i bambini

Little boy getting out of the darkness.

Bambini trattati come schiavi, incatenati al letto dei loro stupratori: adulti che avrebbero dovuto proteggerli e che invece abusavano di loro. Quando nel 2015 il New York Times pubblicò un’inchiesta sulle violenze pedofile perpetrate da soldati afgani su bambini in fuga dai talebani tra il 2010 e il 2012, il mondo occidentale inorridì per qualche giorno. I bacha-bazi (letteralmente “bambini per giocare”) venivano soggiogati anche nelle basi Usa dove si addestrava l’esercito afgano, sotto gli occhi “impotenti” dei marines. «Durante la notte li sentivamo urlare, ma non potevamo far nulla. Non ci era permesso», disse il caporale Gregory Buckley al padre, il quale lo esortò a dirlo ai suoi superiori. «Mio figlio lo fece – ha raccontato l’uomo al Nyt – ma i suoi superiori risposero di volgere lo sguardo altrove perché il bacha-bazi faceva parte della cultura locale».

Poche settimane prima del Nyt, il portavoce dell’Unicef Andrea Iacomini pubblicò sull’Huffington post un articolo di denuncia contro il “bacha-bazi”. «È una pratica atroce – scriveva Iacomini – anche se socialmente accettata, perché protetta dallo scudo della tradizione secolare di questo Paese. Sono abusi di cui si parla poco, che ancora oggi rappresentano un tabù. I bacha-bazi sono minori, maschi, costretti a indossare abiti femminili ed essere sfruttati sessualmente da uomini molto più grandi di loro. Vengono rapiti ancora adolescenti, adescati per strada, prelevati dalle proprie famiglie da ricchi e potenti mercenari, disposti a comprarli e mantenerli economicamente».

Dei bacha-bazi non si è praticamente parlato più da allora (ma lo ha fatto l’ex console Calamai alla festa di Left del 3 settembre) e leggendo Iacomini non ci si può non chiedere cosa stia accadendo ora che il Paese è nelle mani dei talebani e non c’è più nemmeno l’ombra di un giornalista o militare occidentale che possa documentare e denunciare eventuali crimini.

Ma siamo sicuri che in Occidente e in particolare in Europa le cose per i bambini vadano meglio? La domanda è lecita, purtroppo, e come leggerete nell’inchiesta che apre la storia di copertina di questa settimana, violenze analoghe a quelle subite dai bambini afgani vengono perpetrate ogni giorno su migliaia di minori in diversi Paesi del Vecchio continente, compreso il nostro. Alla tragedia della pedofilia – che del resto attraversa indisturbata secoli di storia “europea” dalla paideia greca in poi (ne fu vittima anche Alessandro Magno, discepolo di Aristotele, che fece dell’Afghanistan uno degli snodi culturali del suo impero) – si somma quella di decine di migliaia di minori sottratti a forza dalle loro madri che avevano la sola colpa di non essere sposate (Irlanda e Spagna), oppure, di avere la pelle troppo scura per i gusti dei bianchi colonizzatori (Francia e Belgio).

Ma in Europa accade ancora oggi che dei minori vengano costretti a lavorare, che siano “merce” preziosa dei trafficanti di esseri umani (Italia), che vengano adottati illegalmente o abbandonati in orfanotrofi (Romania). Per rompere l’inerzia delle istituzioni di fronte a queste violazioni di diritti, la Fondazione Guido Fluri ha organizzato un Simposio in Svizzera con associazioni di vittime e Ong per mettere nero su bianco una mozione da presentare al Consiglio d’Europa affinché i Paesi membri si impegnino ancor più a fondo nella prevenzione e il contrasto di tutti questi orrendi crimini. Nella nostra lunga inchiesta abbiamo voluto dare un quadro complessivo della situazione a livello continentale, ma non ci siamo limitati a fornire dei dati. Ci siamo anche chiesti quale sia l’immagine che ancora si ha del bambino, quale sia l’idea che le istituzioni hanno quando devono emanare delle norme per prevenire violenze, abusi, maltrattamenti contro i minori.

Per esempio, ci domandiamo qui, lo Stato italiano, nel tenere in vita il Concordato con il Vaticano, che all’articolo 4 solleva i vescovi dal “peso” di dover denunciare i crimini commessi dai loro sacerdoti, ha presente che la Chiesa considera lo stupro un delitto contro la morale, un’offesa a Dio e non la violenza efferata e irrimediabile contro una persona inerme? Ha presente lo Stato italiano che di conseguenza la vera vittima di uno stupro pedofilo sarebbe Dio e che per certa cultura il “peccatore” è in primis il bambino che, posseduto dal demonio, indurrebbe in tentazione quel “sant’uomo” del prete? Ci sembra di dire cose ovvie e arcinote, eppure il Concordato è ancora lì.

Ma allora, nella nostra società che dovrebbe essere laica, che idea si ha del bambino in fase pre-puberale o adolescenziale, periodi delicatissimi, di repentine e cruciali trasformazioni. Sappiamo dalla moderna psichiatria che sebbene la maggioranza degli adolescenti riesca ad affrontare con successo questa fase di transizione, le crisi per coloro che dispongono di minori risorse a livello personale e relazionale tendono ad amplificarsi. «La costruzione dell’identità – ha scritto su Left la pediatra e psicoterapeuta Maria Gabriella Gatti – è un processo che nasce socialmente, a seguito delle interazioni con gli altri: nel primo anno di vita si realizza la propria identità umana nel rapporto con la madre, successivamente le relazioni si moltiplicano assumendo anche una caratteristica culturale prevalente». Di tutto questo vengono privati non solo i bacha-bazi afgani ma anche decine di migliaia di bambini che vivono alle nostre latitudini. Che aspettiamo a fermare questi orrori?

 

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L’editoriale è tratto da Left dell’1-8 ottobre 2021

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SOMMARIO

Morti dimenticabili

Claudio Furlan / Lapresse 16-07-2018 Milano Italia Cronaca Presidio regionale Cgil, Cisl e Uil dei lavoratori della filiera delle costruzioni per protestare contro gli infortuni mortali sul lavoro

Il precipizio della responsabilità sociale si tocca ogni volta che una certa categoria di morti diventa arida come un capitolo di bilancio, aggiornato per le entrate e per le uscite e in attesa della fine dell’anno per poterci tirare una riga. Se dovessimo trovare il sintomo di una strage che non ha possibilità di arrestarsi probabilmente la velocità con cui dimentichiamo i morti sarebbe il più importante e il più significativo.

I personaggi televisivi morti no, non ce li dimentichiamo, ogni volta ci imbattiamo in qualche amarcord per celebrarne l’anniversario. I politici morti li leggiamo sui cartelli all’inizio delle strade o nei nomi delle piazze, ci si passa per andare al lavoro tutti i giorni. I grandi dell’arte e della cultura li studiamo a scuola. I calciatori morti stanno nei nomi delle curve, delle sale dello stadio, stampati sulle maglie che rimangono esposte sulle bancarelle. I morti sul lavoro invece durano un giorno, se hanno fortuna, stanno in un trafiletto di cronaca e poi evaporano e diventano numero. E quelli che si meritano una citazione sulla stampa sono perfino privilegiati perché molti non hanno nemmeno la soddisfazione di esistere, come non esistevano nemmeno da vivi nella loro funzione da lavoratori. Più i morti sono dimenticabili e più la strage si può svolgere senza disturbare troppo i manovratori: i morti dimenticabili sono solo vittime necessarie, inevitabili, collaterali.

L’altro ieri  è precipitato da una scala nell’officina di sua proprietà a Nichelino. Aveva 72 anni, 72. Jagdeep Singh, 42 anni, e Emanuele Zanin, 46 anni lavoravano per la ditta «Autotrasporti Pe» di Costa Volpino che lavora in subappalto per la monzese «Sol Group spa». L’altro ieri hanno perso la vita soffocati dall’azoto liquido durante un rifornimento della sostanza all’ospedale Humanitas di Pieve Emanuele in provincia di Milano. Sono morti congelati, congelati. Valeriano Bottero di 52 anni è morto precipitando da un’impalcatura mentre lavorava per la ditta «Lavor Metal» nella zona industriale di Loreggia in provincia di Padova. Giuseppe Costantino, 52 anni, aveva finito le operazioni di carico e scarico della merce a Capaci vicino a Palermo e il suo camion ha cominciato a spostarsi travolgendolo. Travolto dal suo camion forse per una disattenzione, scrivono, la stanchezza, stanchezza. Sempre l’altro ieri in serata un lavoratore agricolo di 54 anni è stato decapitato dalle lame di una trebbiatrice a Pontasserchio in provincia di Pisa. Ieri un operaio è volato giù da un’impalcatura in viale America, nel quartiere Eur di Roma. È precipitato per undici piani e per lui sono stati inutili i soccorsi. Aveva 47 anni. Un’ora prima era toccato a un muratore di 42 anni, deceduto mentre stata ristrutturando una palazzina a Mesagne, in provincia di Brindisi: è crollata una parte di solaio, un balcone e l’impalcatura. Così Benito Branca è morto schiacciato dalle macerie. I presenti hanno provato a scavare con le mani, con le mani. Niente da fare. Pietro Vittoria, addetto della ditta Edil San Felice di Nola, è stato investito da un mezzo pesante durante la fase di installazione di un cantiere lungo l’autostrada Bologna-Taranto, nel tratto tra Poggio Imperiale e San Severo in direzione di Bari ed è rimasto schiacciato tra il tir e il veicolo della sua ditta. Aveva 47 anni.

Il Presidente del Consiglio Draghi ieri ha definito la situazione drammatica: «Assume sempre più i contorni di una strage che continua ogni giorno», ha detto in conferenza stampa dopo il Cdm. Ha promesso un intervento in tempi rapidissimi per garantire «pene più severe e immediate» nei casi in cui non venissero rispettate le norme della sicurezza sui luoghi di lavoro. «Serve collaborazione in azienda – ha precisato – per individuare precocemente le debolezze sul tema». Draghi ha sottolineato «l’esigenza di prendere provvedimenti immediatamente», entro la settimana prossima, ha specificato, «e poi affronteremo i nodi irrisolti».

La pensa diversamente Bruno Giordano, nuovo direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che in un’intervista a Domani dice: «La prima strategia è quella della prevenzione, non quella della repressione», dice Giordano, contrario a un inasprimento delle pene. «Da penalista sono contrario. Spesso si parla di una nuova fattispecie di omicidio sul lavoro o di aumentare le pene per l’omicidio colposo, come avvenuto per l’omicidio stradale. Ma da quando c’è l’omicidio stradale le morti sulle strade non sono diminuite perché chi si mette alla guida di un’auto – o di un’impresa – non lo fa bene o male, tenendo in mente la sanzione penale, lo fa se sa fare il buon imprenditore, il buon datore di lavoro. La sanzione penale non ci restituisce né gli infortunati, né i morti sul lavoro».

Siamo a circa 700, intanto. E quei morti dimenticabili continuiamo a dimenticarceli. Cosa dovrebbe accadere più di così perché sia un’emergenza? Cosa, peggio di così?

Buon giovedì.

 

* In foto: Presidio regionale Cgil, Cisl e Uil dei lavoratori della filiera delle costruzioni per protestare contro gli infortuni mortali sul lavoro. Milano, 16 luglio 2018

La sinistra non può presentarsi così frammentata alle prossime politiche

Mancano ormai pochi giorni al termine di questa poco attraente campagna elettorale per le amministrative di varie città e regioni, in cui però ben 12 milioni di italiani saranno chiamati a esprimere un voto. Competizioni dove la sinistra e l’intero centrosinistra non hanno brillato, per l’ennesima volta, diciamocelo, per unità di intenti, visione, progetto.

Si va da Sinistra italiana che, insieme a Rifondazione comunista, si pone all’opposizione al governo Draghi, sostenuto dal Partito democratico, e al tempo stesso partecipa alla coalizione di centrosinistra a Roma, con il Pd ma stavolta senza Rifondazione comunista, di cui però era alleata alle Europee, in nome del “sennò vince la destra”. E però Sinistra italiana è di nuovo in competizione, di nuovo insieme a Rifondazione comunista, con il Pd in Calabria, dove per cui, evidentemente, si può lasciar vincere la destra. E poi Articolo uno che appoggia Draghi ma è in coalizione a Roma con Sinistra italiana, e però in Calabria è in competizione sia contro il Pd sia contro Sinistra italiana e Rifondazione e in appoggio ad Oliverio, Pd ma in veste di civico. E che dire dello stesso Pd, in alleanza a Roma con Sinistra italiana, ma non in Calabria, che è addirittura riuscito a competere con sè stesso, risultando in competizione a Napoli contro Bassolino, già suo ex-sindaco di Napoli per due mandati e già suo ex-presidente di Regione, e ancora in competizione contro Oliverio in Calabria, già suo ultimo ex-presidente di Regione.

E le alleanze con i Cinque stelle? A Torino per ora no, in Calabria invece sì, a Roma di nuovo no, ma poi vediamo al ballottaggio? Dinamiche locali, si dice in questi casi. Come se, ad esempio, partecipare all’elogio dell’autonomia regionale o avversarla fosse la stessa cosa e fosse anch’essa dinamica locale. In realtà, agli occhi dell’elettore medio, l’immagine resta di una confusa e diffusa frammentazione, scarsa chiarezza di idee: “ognuno va per sé”.

Ma tant’è, in un modo o nell’altro queste elezioni passeranno. Qualcuno vincerà, qualcuno no, e anzi, probabilmente, tutti avranno modo di trovare una qualche “indicazione”, comunque vada, di soddisfazione e conferma nel voto del proprio agire. Ma un attimo dopo il responso delle urne – anzi in un Paese serio ben prima – è lecito chiedere alla propria presunta classe dirigente un tentativo di lungimiranza, chiedere se hanno presente che il prossimo anno o al massimo nel 2023 si terranno le elezioni politiche e che, quelle no, non avranno dinamiche locali? Una scadenza elettorale che rappresenta uno spartiacque per il Paese, tra populismo e liberismo, o alternativa. È lecito, chiedere di cominciare a pensare fin da ora su come presentarsi al Paese in quella, apparentemente lontana, scadenza?

Certo si dirà che un simile discorso è prematuro. Ma i processi, le coalizioni, i programmi, le visioni, le scelte si costruiscono. Non arrivano “obbligate” agli ultimi giorni. Il Pd continuerà a inseguire il “contismo”, quale punto di riferimento o virerà, come pare, verso il “draghismo”? Art1 deciderà se rientrare nel ventre rassicurante del Pd (già oggi si vedono “prove di rientro”) o parteciperà non occasionalmente al confronto con gli altri soggetti di sinistra? Il resto della compagnia continuerà con incomprensibili lotte intestine, più o meno identitarie, continuerà a proporre, ma non realizzare, improbabili Reti, se non locali, senza regole comuni, tutte femministe, ecologiste, socialiste o ancora nuove coalizioni civiche (che poi in fondo civiche non sono, ma servono spesso a mascherare simboli o personaggi poco attrattivi), o addirittura proporrà nuove “Liberi e uguali”?

E a proposito di Leu, e dei qui paventati percorsi dell’ultimo minuto, ricordiamo che a suo tempo si propose come lista elettorale, con la promessa di diventare partito subito dopo le elezioni, e il motivo era la scadenza ravvicinata e per quella trasformazione non c’era il tempo sufficiente: sappiamo come andò a finire.

Non si vorrà arrivare alla prossima scadenza dicendo ancora una volta che non c’è stato il tempo sufficiente? Si può legittimamente pretendere che una classe dirigente si ponga il problema di come affrontare elezioni che vedranno, per la prima volta, il dimezzamento dei parlamentari? E che probabilmente si andrà a votare senza una riforma, tanto meno di tipo proporzionale, del sistema di voto? E in questo non si finirà mai abbastanza di ringraziare il Pd che ha consentito ciò facendosi bastare le promesse interessate dei Cinque stelle?

Una classe dirigente ha il dovere di vedere più in là del proprio naso, di immaginare, di cercare interlocutori e verificarne la bontà, di provare a costruire, di fallire magari ma di provarci. Di arrivare alla scadenza con un tratto chiaro di percorso definito. Non di vivacchiare con estenuanti riunioni tra militanti dove dirsi di tutto, per poi trovarsi alla scadenza con i giochi “indefiniti”, con gli elettori ai quali non resta che l’accettazione supina di tradizionali accordi degli ultimi giorni.

Insomma, la sinistra vuole provare a costruire un progetto o si accontenta di sopravvivere (laddove la sopravvivenza in genere riguarda semplicemente le segreterie)? Continueremo ancora a ballare tra “tempi prematuri” e “non c’è tempo”? E ciò al di là, o anche sulla base, degli esiti delle amministrative di ottobre. Verrebbe da dire: se non ora, quando? A futura memoria.


* L’autore: Lionello Fittante è tra i promotori degli Autoconvocati di Leu,

ed ex componente del Comitato nazionale èViva!