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“Aprite il portone, questa scuola è un bene comune”

In vista di un anno pieno di incertezze, le scuole riaprono con enormi difficoltà, incastrate fra le carenze strutturali, il sovraffollamento e la necessità di assicurare un decorso scolastico in presenza, sicurezza e serenità, dopo due anni di privazioni dalle conseguenze difficilmente “ristorabili”.
In questo scenario, con la didattica a distanza che incombe come esito possibile, scongiurato a parole ma non nei fatti (e anzi, per alcuni un’appetitosa occasione di modello educativo e di profitto) succede di assistere a situazioni paradossali che stanno deformando le relazioni di scuola-società-istituzioni.

A Bari la “Del Prete” è la scuola del quartiere Carrassi, quello fra la ferrovia e il West: da quasi un secolo ne rappresenta l’identità e la storia. Più che una scuola, un monumento.
Da un po’ di tempo il suo maestoso edificio liberty, con i corridoi luminosi e le grandi finestre che si affacciano sul cortile e sugli alberi di gelso, oggi plesso di un istituto comprensivo, è oggetto di interesse da parte di enti che vorrebbero occuparlo con i propri uffici, al posto delle classi. Oltre 10 anni fa era la Circoscrizione, oggi è il 2° Municipio a richiederne la disponibilità, rifiutando inspiegabilmente l’edificio in costruzione destinato proprio ai suoi uffici in una piazza centrale del territorio.

La cosa scandalosa è che a disporre in modo solerte la “deportazione” delle classi di scuola primaria, senza il parere degli organi collegiali e contro il volere delle docenti e dei genitori interessati, sia proprio colui che dovrebbe tutelare l’interesse della scuola che dirige.
Già 10 anni fa questa “innaturale” cessione di sovranità fu sventata da una formidabile mobilitazione in difesa della “scuola nel di Carrassi”. Vi parteciparono famiglie, docenti, artisti, bambini/e, ex alunni ottuagenari e tutto il quartiere. Fu una giornata di spettacoli, letture, incontri appassionati, profumo di dolci e musica che riecheggiava per tutta la strada. La città ribadì il valore assoluto di un bene comune.

Credevamo di averla messa al sicuro, le lezioni e le iscrizioni ripresero a funzionare.
Oggi dobbiamo riconoscere l’ingenuità di quella convinzione. Il progetto di sgomberare le scolaresche si è dato vie sotterranee e tempi distesi. Quel tempo è ora: la scuola è stata gradualmente svuotata di personale, di progettualità, di cura, di iscrizioni. Un luogo da abbandonare.
A giugno i giochi sembravano fatti, ma si dà il caso che non tutti volessero subirli. Si è messo in moto spontaneamente un movimento di genitori, maestre, intellettuali e giornalisti, associazioni e reti civiche, cittadini/e che in affollate assemblee per strada hanno dato vita al Coordinamento “Salviamo la Carlo Del Prete”, avviato una petizione che nelle settimane più calde dell’estate ha raccolto 1500 firme e inoltrato un esposto al direttore dell’Usr Puglia, al ministro Bianchi, al sindaco e al Garante dei minori.
Tuttavia all’interesse popolare non corrisponde un’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni locali, che innalzano il totem dell’autonomia scolastica per nascondere le proprie mancanze.

Il primo giorno di scuola, davanti al portone chiuso della Del Prete, si sono accatastati gli zainetti dei bambini che volevano tornare nella loro scuola. Il dirigente ha comunque puntigliosamente trasferito le classi nell’altra sede, in aule più piccole in cui non può esservi un adeguato distanziamento, non vi sono spazi disponibili per attività laboratoriali e il tempo pieno è in via di estinzione.
Nella stessa giornata siamo stati ricevuti dal neo-direttore dell’Usr Puglia, che, oltre ad assicurarci il suo personale impegno, ha ribadito l’ampio potere attribuito dalla normativa sull’autonomia ai dirigenti scolastici.

La situazione paradossale è che in città vi sono scuole sovraffollate e prive di spazi adeguati, alcune delle quali in affitto da privati, e altre svuotate e abbandonate per essere destinate a scopi diversi, con uno scaricabarile e una mancanza di visione impressionanti.
L’autonomia scolastica si conferma come il cavallo di Troia con cui si è inteso deformare la Scuola della Repubblica in un sistema aziendalizzato, autoritario e ridotto a micro-burocrazie all’interno di un impianto istituzionale frammentato e autoreferenziale.
La lotta per la “Del Prete” non è solo la difesa dell’istituzione storica di una città: parla della necessità di riscrivere il codice delle relazioni sociali democratiche, a partire dalle comunità locali.

L’autrice: Tonia Guerra fa parte del Coordinamento “Salviamo la Carlo Del Prete” ed è una ex insegnante dell’istituto comprensivo di Bari

Non Morisi: il problema di Salvini è Giorgetti

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 28-11-2019 Roma Politica Camera dei Deputati. Conferenza stampa della Lega sul MES Nella foto Matteo Salvini, Giancarlo Giorgetti Photo Fabio Cimaglia / LaPresse 28-11-2019 Rome (Italy) Politic Chamber of Deputies. Press Conference by Lega on MES In the pic Giancarlo Giorgetti

Mentre si discute (giustamente) della mendacia di chi ha messo in piedi un’infernale macchina di odio contro gli stessi atteggiamenti che di nascosto in privato esercitava dentro la Lega e nel centrodestra sta accadendo qualcosa di più rilevante dal punto di vista politico. Sia chiaro: la questione Morisi pesa e peserà moltissimo su Salvini e sulla Lega, soprattutto a ridosso di elezioni amministrative che già difficilmente avrebbero potuto essere un trionfo ma mentre nelle ultime settimane si raccontava degli scontri interni nella Lega recuperando informazioni dai retroscena e da leghisti che hanno sempre voluto rimanere anonimi (anche su queste colonne, con buona pace di chi ci ha sbraitato contro accusandoci di inventarci le notizie) ormai Giorgetti (e con lui tutti quelli che sono sulla stessa linea) è uscito allo scoperto e ormai l’attacco a Matteo Salvini è ufficialmente partito.

In una lunga intervista a La Stampa il ministro dello Sviluppo economico nel governo Draghi e vicesegretario federale della Lega ha reso pubblici ragionamenti che da tempo fa in privato, lanciando accuse circostanziate al suo segretario. Giorgetti ci tiene a dire che è sbagliata la candidatura di Michetti per il centrodestra a Roma rivelando di preferire Calenda (che piace sempre molto a destra e sempre molto poco a sinistra, questo dovrebbe bastargli per tirare le sue conclusioni), confessa che a Milano il candidato Bernardo rischia addirittura di non arrivare al ballottaggio e prende le distanze precisando «i candidati non li ho scelti io che faccio il ministro e mi occupo d’altro».

L’affondo contro Salvini arriva però sul Quirinale. Mentre il leader (ancora per poco) leghista insiste sulla candidatura di Silvio Berlusconi Giorgetti precisa che Silvio ha «poche» possibilità e che Salvini rilancia la sua candidatura solo per «evitare di parlare di altre cose serie». Non male come inizio. Sul tema però poi Giorgetti decide di di schiacciare sull’acceleratore confessando che la partita per il presidente della Repubblica «a dire il vero farei ancora gestire» ad Umberto Bossi visto che «il 99% di quello che so l’ho imparato da lui». Chi sta dentro la Lega sa bene che proprio Salvini (consigliato da Morisi) aveva emesso l’ordine di non nominare mai il Senatur. Giorgetti aggiunge che né lui né Meloni voterebbero un Mattarella bis e che quindi preferirebbe Draghi anche se, dice Giorgetti, senza di lui a Palazzo Chigi i soldi in arrivo dall’Europa sarebbero destinati a fare una brutta fine. «Li butteranno via. Oppure non li sapranno spendere», dice Giorgetti stando ben attento ad usare il «loro», come a lasciare intendere che la sua permanenza al governo è legata a doppio filo a Draghi.

La notizia è enorme: Giorgetti ha cambiato passo e la strategia per logorare Salvini ormai avviene alla luce del sole. E con Giorgetti ci sono anche pezzi grossi come Zaia e Fedriga, tutta gente che a differenza del segretario ha ancora connessione con gli elettori e non verrà sfiorata dall’affare Morisi. Lunedì arriveranno i risultati per la Lega e (soprattutto al Sud) non saranno buoni. L’avanzata della linea di Giorgetti potrebbe mettere a rischio anche la leadership nel centrodestra di Giorgia Meloni. Il tema, insomma, è grosso.

Buon mercoledì.

Road map per una giustizia sociale e ambientale

SYDNEY, AUSTRALIA - SEPTEMBER 03: Canadian author Naomi Klein poses for a photograph, back dropped by the Sydney Harbour Bridge at a press conference ahead of the seventh annual Festival of Dangerous Ideas at Sydney Opera House on September 3, 2015 in Sydney, Australia. (Photo by Cole Bennetts/Getty Images)

Il Green New Deal ha fatto irruzione sulla scena politica statunitense nel novembre 2018, quando giovani attivisti per la giustizia ambientale e climatica tennero un sit-in nell’ufficio dell’attuale Presidente della Camera dei rappresentanti Nancy Pelosi (Partito Democratico, distretto congressuale della California). Questa liquidò l’idea come un «Green Dream, o quello che è», ma gli attivisti non si scomposero. La loro risposta è stata che in effetti il Green New Deal rappresenta un sogno, un sogno di cui abbiamo disperatamente bisogno, un sogno di ciò che gente organizzata e determinata è in grado di realizzare di fronte a una crisi che minaccia l’abitabilità della nostra casa comune. Considerato quanto radicalmente e rapidamente le nostre società devono cambiare se vogliamo evitare una catastrofe climatica totale (e data la prevalenza schiacciante di scenari e prospettive di catastrofe ecologica), condividere qualche grande sogno di un futuro in cui non si sprofondi in una barbarie climatica è sembrato in effetti un ottimo punto di partenza.

L’interazione tra sogni elevati e vittorie concrete è sempre stata al centro di momenti di profonda trasformazione in senso progressista. Negli Stati Uniti, gli avanzamenti nel campo dei diritti dei lavoratori e delle loro famiglie dopo la Guerra Civile e durante la Grande Depressione, così come quelli nel campo dei diritti civili e dell’ambiente negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, non furono semplicemente risposte, rivendicate dal basso, a delle crisi. Furono anche il prodotto di sogni di modelli molto differenti di società, sogni allora regolarmente liquidati come impossibili e irrealizzabili.

Ciò che ha contraddistinto quei momenti non è stata la presenza di una o più crisi (che nella nostra storia non sono mai mancate), ma piuttosto il fatto che si sia trattato di…


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Lavoratori Gkn, c’è un giudice a Firenze

La sentenza emessa lunedì 20 settembre dal Tribunale di Firenze, che ha accolto il nostro ricorso per comportamento antisindacale e ha portato all’annullamento della procedura di licenziamento per i 500 operai della Gkn di Campi Bisenzio, è una sentenza storica per varie ragioni. La più importante è la centralità che questo pronunciamento riconosce al rispetto della legge e della Costituzione, soprattutto relativamente all’articolo 41 che pone, tra gli altri, alla libertà economica il vincolo dell’utilità sociale e del rispetto della dignità umana, sancendo il principio per cui le imprese devono avere rispetto dei lavoratori e del territorio in cui operano. L’altra è che la Costituzione consegna al sindacato un ruolo sociale importante, un ruolo di rappresentanza sostanziale dei lavoratori nei luoghi di lavoro. E, conseguentemente, la legge e la contrattazione collettiva individuano nel sindacato un soggetto di rappresentanza che può e deve incidere con la sua azione anche nella fase di consultazione con le imprese, a maggior ragione quando le stesse decidono di chiudere licenziando i lavoratori.

Il ricorso che ho depositato al Tribunale del lavoro di Firenze, in qualità di segretario generale della Fiom Cgil di Firenze, l’ho presentato ai sensi di una legge che tanti considerano obsoleta, vecchia, da buttare: la legge 300/70, che tutti conosciamo come Statuto dei lavoratori. Ebbene, nel mondo digitalizzato, moderno, veloce, globalizzato, dove i capitali viaggiano senza nessun confine, una legge di 51 anni fa ha bloccato la scelta sciagurata di una multinazionale. Credo che sia un elemento questo di cui, come Paese, dovremmo andare fieri.

Fino a pochi anni fa qualcuno al governo diceva a noi della Cgil, mentre difendevamo lo Statuto dei lavoratori e l’articolo 18, che eravamo quelli che mettevano il gettone nell’iPhone. Agli stessi faccio notare che con quel gettone abbiamo…

* L’autore: Daniele Calosi è segretario generale Fiom Cgil Firenze e Prato


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Il garantismo disfunzionale

Uno dei motivi per cui in questo Paese si riesce a fatica a instillare un sano garantismo com’è scritto nella Costituzione (e com’è auspicabile in un Paese civile che ciclicamente viene attraversato da moti giustizialisti e i loro rispettivi movimenti politici) è l’utilizzo strumentale e peloso di un garantismo disfunzionale che viene utilizzato ogni volta dalla politica per normalizzare atteggiamenti e persone che dovrebbero starne alla larga e che invece non solo ricevono solidarietà ma addirittura si ritrovano sull’orlo della beatificazione.

È successo qualche giorno fa con Marcello Dell’Utri (che magicamente ora sembra assolto anche dalla condanna precedente) che qualcuno vorrebbe addirittura promuovere a Senatore a vita (essere solo condannati per rapporti con la mafia è un prerequisito per la corsa al Quirinale, qui da noi) ma è risuccesso ieri nell’indagine che riguarda Luca Morisi, spin doctor di Salvini e della Lega caduto precipitissimevolmente in disgrazia per una storia di droga tutta da chiarire.

Ricapitolando, da osservatori esterni: Morisi dice che non è successo niente ma chiede scusa. Tra l’altro chiede scusa della cosa sbagliata. Non ha capito nemmeno in un momento come questo, il perspicace Morisi, che il problema non sta tanto nell’uso di droga (che in fondo ammette travestendola e giustificandola come “debolezza umana”) ma in tutte le legnate contro tutte le debolezze umane durante tutti questi anni per guadagnare voti. Matteo Salvini (quello che contro la droga ha sempre usato parole di fuoco per mietere consenso) improvvisamente cambia atteggiamento e si dice pronto ad “aiutare l’amico”. È il sovranismo dei delitti e delle pene: lo stesso atteggiamento (staremo a vedere se è anche un reato) viene pesato in base alla vicinanza affettiva o alle convergenze sentimentali: essere razzisti nella pratica della solidarietà è un capolavoro, davvero.

Parte il garantismo peloso: non facciamo con Morisi quello che lui faceva con gli altri, dicono tutti. E lo fanno strumentalmente per non colpire la Lega e Salvini, si vede subito, da lontano. Gli altri tossicodipendenti a cui vorrebbero accostare Morisi non hanno mai guidato una task force al Viminale, non erano nella segreteria di un partito, non decidevano la linea del leader del maggior partito del Paese: non scorgere la differenza è immorale, non capire che un’indagine del genere su una persona come Morisi è un fatto politico è strumentale. E così in nome del “noi siamo diversi da loro” si assiste a un’infame parabola che passa per un’assoluzione del tribunale del popolo (anche la Lega ormai è regina del motto “sono compagni che sbagliano”) ad addirittura l’esaltazione del Morisi stesso. Quale sarebbe la grande attitudine di Morisi? Essere incappato in un atteggiamento che ha demonizzato per anni e che ha aumentato il consenso banchettando sui disperati. Dove stia la virtù in tutto questo davvero sfugge.

E addirittura alcuni commentatori si stracciano le vesti per il Salvini umanitario. In effetti ha ragione Salvini: la dipendenza è una debolezza, farla diventare un reato non aiuta a combatterla come invece aiuterebbe allungargli una mano, comprenderlo e smetterla con questa manfrina del buttare via la chiave. In sostanza ieri il leader della Lega ha confessato di essere un pessimo politico.

Ma i garantisti disfunzionali sono così: usano consapevolmente la presunzione di innocenza per rivendicare il dovere di sospendere ogni giudizio morale su atteggiamenti e inopportunità che non hanno bisogno di indagini e di prove. Sono talmente garantisti che garantiscono ogni volta il salvataggio degli amici e l’affossamento dei nemici. Sono talmente garantisti che pretenderebbero di vietare ogni valutazione negativa sugli amici dei loro amici. Per loro i gradi di giudizio sono sovrapposti ai gradi di parentela. E così dal “prima gli italiani” si sono talmente ristretti finendo al “prima i Morisi”. Che pena.

Buon martedì.

Chiara Saraceno: No, la povertà non è stata abolita

Il presidente di Confindustria parla di “sussidistan” stigmatizzando gli aiuti di Stato a disoccupati e lavoratori, “dimenticando” i moltissimi aiuti ricevuti dalle imprese. Intanto Salvini e Renzi lanciano una crociata contro il reddito di cittadinanza incolpando di fannullaggine i poveri. Che in Italia sono molto aumentati dopo la pandemia. Secondo l’Istat l’impatto economico sociale della crisi sanitaria ha creato un milione di poveri in più in un solo anno.

Autrice del libro Il welfare (il Mulino, 2021) e di Poverty in Italy con David Benassi e Enrica Morlicchio, in via di traduzione in italiano, la sociologa Chiara Saraceno è stata chiamata dal ministro Orlando a far parte di un gruppo di lavoro per riformare il reddito di cittadinanza. A margine di un incontro coordinato da Left al festival Con-vivere le abbiamo chiesto di aiutarci a fare un quadro di una situazione che appare drammatica nonostante gli auspicati segnali di ripresa dell’economia.

Professoressa Saraceno, l’ex presidente del Consiglio Renzi lancia un referendum per abolire il reddito di cittadinanza. Cosa ne pensa alla luce del suo lavoro di esame di questa misura?
Penso che non vada affatto abolito. Il reddito di cittadinanza è necessario ed è una misura che esiste in tutti i Paesi sviluppati d’Europa, Grecia compresa, che è arrivata buon ultima, ma comunque prima di noi.

Immemore di se stesso Renzi rivendica  il reddito di inclusione (Rei) come una conquista del proprio governo (in realtà l’iter si concluse nell’ottobre 2017 molto dopo le sue dimissioni) e ora lo propone. Potrebbe funzionare?

Il Rei era una misura ridotta e aveva una visione decisamente parziale della povertà. Riguardava solo i poverissimi, quindi non forniva sufficienti sostegni a chi ha bisogno di essere traghettato, a chi necessita di tempo per poter uscire dalla povertà. Insomma se con il reddito di cittadinanza sono esclusi molti poveri assoluti, con il Rei erano esclusi quasi tutti.

Ma prima di varare il reddito di cittadinanza nel 2019 sarebbe stato meglio riformare il Rei?

In un mondo in cui la politica fosse meno legata alle scadenze elettorali, certo, sarebbe stato più opportuno modificare il Rei, finanziarlo meglio, allargando la platea, ma non è avvenuto. Adesso non dobbiamo fare lo stesso errore di buttare il bambino con l’acqua sporca. Il reddito di cittadinanza va riformato perché ci sono errori di disegno, su questo c’è accordo anche tra i sostenitori e dentro il M5s. Del resto anche quando una misura sociale è disegnata nel modo più coerente (e non è il caso del reddito di cittadinanza) poi va testata alla prova empirica, dunque bisogna vedere cosa funziona e cosa no, cosa va corretto.

Quali sono gli aspetti del reddito di cittadinanza che vanno riformati?

I limiti più gravi che vanno assolutamente corretti riguardano la discriminazione nei confronti delle famiglie numerose con figli minori e nei confronti degli stranieri. Questi due scogli vanno tolti. Tuttavia va dato atto ai Cinquestelle di aver investito sei miliardi su questo progetto. Per la prima volta in Italia si è speso così tanto per contrastare la povertà.

Il requisito di residenza richiesto agli stranieri è particolarmente ingiusto?

Sì è particolarmente esoso. La residenza di dieci anni che probabilmente ci sta portando a una procedura di infrazione da parte dell’Unione Europea è un principio che va mutato. Si sta discutendo se portarlo a cinque anni per avere il permesso di soggiorno a livello europeo di lunga durata oppure a due. Comunque dieci anni è inaccettabile.

Invece di costringere i percettori del reddito di cittadinanza ad accettare lavori qualsiasi non sarebbe stato meglio pensare un sostegno ad hoc coerente al progetto lavorativo del singolo? In altri Paesi europei esiste un reddito per gli artisti, per i giovani che vogliono uscire di casa e così via…

Qui stiamo parlando di un sostegno al reddito per chi non ne ha a sufficienza per i propri bisogni di base, altro è sostenere giustamente la formazione, l’uscita di casa ecc. Nell’idea originaria del M5s era tutto mescolato, tanto che originariamente pensavano ad un reddito per i giovani. Non mescoliamo le cose. Allora potremmo parlare anche di reddito di base universale, ma non è questo di cui stiamo discutendo ora. Stiamo parlando di una misura di contrasto alla povertà.

Oggi in Italia si parla molto di ripresa, di aumento del Pil, ma i dati ci dicono che la povertà è  e resta una vera emergenza.

Sì, purtroppo lo è. Molte più famiglie sono diventate assai più vulnerabili dal punto di vista economico. Molti hanno perso il lavoro o sono entrati in cassa integrazione. E meno male che c’era il reddito di cittadinanza, perché spesso chi lavorava, aveva lavori precari, temporanei, e poi non ha avuto più nemmeno accesso a quei lavori lì. Neanche nel mercato nero… Tutto questo è avvenuto in una particolare congiuntura: la povertà era molto aumentata con la crisi del 2008. Poi nel 2019 stava calando, in parte anche perché era stato introdotto il reddito di cittadinanza, in parte perché seppur tardivamente stavamo riprendendo fiato dalla crisi degli anni Dieci.

Le analisi confermano che le fasce più colpite sono state le donne e i giovani?

Le donne sono la maggioranza dei beneficiari del reddito di cittadinanza e non sorprende perché sono quelle più lontane dal mercato del lavoro, soprattutto quelle di una certa età, ma anche fra le più giovani.

Per i più piccoli la povertà materiale diventa anche, troppo spesso, povertà educativa?

È una questione che riguarda soprattutto i bambini. Perciò è grave che famiglie con minorenni siano discriminate: sappiamo che la povertà sperimentata precocemente durante la formazione ha un effetto di lungo periodo; le deprivazioni riguardano la nutrizione, l’istruzione, ma toccano anche aspetti psicologici. Gli studi purtroppo ci dicono anche che oggi la povertà vissuta da minorenne è predittiva anche di una povertà da adulti. Finalmente pure in Italia si sta mettendo a fuoco il problema della povertà educativa, grazie a Save the children che aveva lanciato l’allarme anche prima della pandemia e alla associazione Alleanza per l’infanzia. La povertà educativa è davvero un grosso problema.

Lo vediamo anche dai test Invalsi, per quanto siano uno strumento assai criticato?

Il sistema formativo scolastico compensa poco le disuguaglianze di origine familiare, in termini di sviluppo cognitivo, non offre compensazione come invece avviene in altri Paesi. I test sono quello che sono, beninteso, ma se osserviamo che in Italia mostrano un divario più grande rispetto alla Finlandia o un altro Paese dobbiamo porre un problema oltre che criticare lo strumento. Non mi posso consolare dicendo che i test hanno una funzione limitata.

Dopo due anni di scuola a intermittenza lei ha denunciato il disastro antropologico di cui troppi alunni sono vittime a causa della irresponsabilità della politica. Qual è il quadro che abbiamo davanti?

Il quadro è drammatico non dimentichiamo che siamo anche il Paese che ha anche il tasso più alto di Neet: non sono mica sdraiati sul divano, non sono figli dei ricchi che non vogliono studiare, sono quelli che hanno abbandonato la scuola! In Italia abbiamo un tasso di abbandono scolastico e di elusione altissimo, oltre a un tasso di abbandono implicito, ovvero ragazzi che vanno a scuola ma non hanno più la motivazione, dunque non apprendono. Sembra che a seguito della pandemia siano ulteriormente aumentati, il fatto purtroppo non mi sorprende.

La povertà non è un dato di natura. Le politiche neoliberiste che hanno favorito la precarizzazione del lavoro l’hanno fatta aumentare?

Sicuramente la precarizzazione del lavoro ha reso molto più vulnerabili quelli che ne sono stati colpiti. Anche i bassi salari sono un problema. Ci sono famiglie di lavoratori con un reddito troppo basso per affrontare la quotidianità. I dati Istat mostrano che un 12 per cento delle famiglie con lavoratori manuali sono in povertà assoluta. Salari bassi, lavori temporanei, ma anche i salari minimi sono molto bassi. Tornando al reddito di cittadinanza, quando ragioniamo su quello che viene definito un salario congruo che non permetterebbe di rifiutare un lavoro parliamo 850 euro, il massimo del reddito di cittadinanza è 780 più dieci per cento. Ci sono offerte di lavoro che pagano anche meno di così e molti sono lavori a tempo parziale involontario.

Colpisce che una parte della classe dirigente non priva di responsabilità rispetto a questa situazione denigri i poveri quasi accusandoli di cattiva volontà, che ne pensa?

Viene visto con sospetto chi riceve il reddito di cittadinanza ma è difficile che uno rifiuti il lavoro perché la sua famiglia prende un reddito di 550 euro. Non si considera poi un fatto positivo: avere un reddito di cittadinanza per quanto modesto consente di rifiutare i lavori di sfruttamento totale del tipo “ti do 500 euro per un contratto di lavoro a tempo parziale però poi ti faccio lavorare 12 ore”. Quindi potrebbe essere una occasione, sta emergendo il nero non solo dei percettori ma anche dei datori di lavoro, stanno venendo alla luce casi di caporalato. Ciò detto il “sussidistan” non riguarda solo il reddito di cittadinanza. Leggendo il rapporto Inps vediamo che per fortuna c’è stata la cassa integrazione, per fortuna ci sono state misure di protezione. Se non ci fossero state, la caduta di reddito sarebbe stata molto più alta, quindi gli ultimi che devono parlare sono proprio gli imprenditori che hanno usufruito di molti aiuti pubblici. Vengono guardati male i percettori del reddito ma dai dati dell’Istat emerge che la cassa integrazione è stata usata molto impropriamente da molte aziende che hanno messo in cassa i lavoratori e li hanno fatti andare al lavoro lo stesso. Fra gli artigiani e i liberi professionisti che hanno preso i primi aiuti economici c’è stato qualcuno che ha guadagnato di più nel 2020. È una minoranza, ma è accaduto. Giustamente poi hanno pensato che l’accesso agli aiuti dovesse essere legato a una documentata perdita di reddito.

Per affrontare questa situazione servirebbero più politiche attive del lavoro?

C’è una vera mancanza di politiche attive che non riguardano solo il mancato incontro fra domanda e offerta di lavoro ma comprendono anche la formazione. Diciamolo, questo è un Paese che non ha mai davvero investito in politiche attive del lavoro. Un po’ ottimisticamente i proponenti del reddito di cittadinanza lo hanno definito tale. Ma non bastano i navigator. Anche il più bravo non può far molto se il centro per l’impiego non funziona, se non ci sono occasioni formative adeguate a questo tipo di situazioni, tenga conto che la stragrande maggioranza dei percettori del reddito di cittadinanza, inclusi i giovani, hanno al massimo la licenza media, non è colpa del reddito di cittadinanza se non si trovano operai specializzati o ingegneri come invece si sente dire in tv. C’è un insufficiente sistema scolastico, bisogna fare in modo che non abbandonino la scuola, bisogna far sì che vengano trattenuti da una didattica più efficace, che non li butti fuori. Il problema non è promuovere tutti ma dare a tutti le possibilità di sviluppare le proprie potenzialità, competenze e capacità.


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«Scusi, lei spaccia?»

Foto Valerio Portelli/LaPresse 10-09-2019 Roma, Italia Morisi Salvini Politica Nella Foto: Iva Garibaldi, Luca Morisi, Matteo Salvini Photo Valerio Portelli/LaPresse 10 September 2019 Rome,Italy Morisi Salvini Politics In the pic: Iva Garibaldi, Luca Morisi, Matteo Salvini

I fatti di cui siamo a conoscenza: nei giorni di Ferragosto dalle parti di Verona i carabinieri fermano un’automobile per un controllo di routine. Si insospettiscono perché i tre giovani occupanti dell’auto sono molto nervosi, decidono di perquisire la vettura e trovano un flacone con del liquido che sembra droga, mettono sotto torchio i tre e uno di loro dice di averla comprata da Luca Morisi, a Belfiore. A quel punto si procede con la perquisizione a casa di tal Morisi e vengono rinvenute sostanze stupefacenti, poca roba, una quantità compatibile con l’uso personale. Si apre, com’è normale che sia, un’inchiesta e quel tale Luca Morisi viene iscritto nel registro degli indagati per l’ipotesi di reato previsto dall’articolo 73 del Testo unico sugli stupefacenti (“Produzione, traffico, detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope”).

Quel Luca Morisi è lo stesso Luca Morisi che per anni, alla guida dei social della Lega e di Salvini, ha insozzato l’aria di questo Paese sparando contro i deboli e i disperati, fomentando rabbia e vendetta. Luca Morisi è l’inventore della cosiddetta “Bestia” (ovvero il sistema di gestione dei social che ha portato Salvini a essere Salvini). Cosa faceva la Bestia? Trasformava qualsiasi ipotesi di reato in un paradigma per attaccare una categoria: se un immigrato urinava per strada lasciava passare il messaggio che tutte le nostre strade fossero sporche per colpa degli immigrati. Se un islamico era accusato di avere usato violenza contro una donna cercava di convincerci che le donne fossero in pericolo solo per colpa dell’Islam.

Seguitemi. Matteo Salvini faceva una politica così senza social, nelle sue parole e nei suoi comportamenti. Consapevole di come sia facile banalizzare per mungere voti per anni ci sta convincendo che il mercato della droga non abbia grandi capi organizzatori italiani (la ‘Ndrangheta, soprattutto) ma ha sempre attaccato i piccoli spacciatori (che sono soprattutto stranieri) per riuscire a collegare l’idea di sicurezza legata all’immigrazione. Per Salvini gli “spacciatori di morte” (sempre banalizzando chiama qualsiasi droga “morte”, così funziona) sono tutti coloro che vendono una manciata di fumo. Del resto lui ha sempre fatto il forte con i deboli ma è sempre stato piuttosto deboluccio con i forti. A proposito: la Bestia di Morisi e Salvini ovviamente ritengono il web come unico tribunale che conta. Nessun garantismo: se qualcosa appare su un giornale è per forza vero. A posto così.

Cosa ci insegna il caso di Morisi? Che se noi fossimo Salvini potremmo tranquillamente scrivere qui che Morisi (e quindi la Lega, e quindi Salvini) sia uno spacciatore di morte che deve essere sbattuto in galera e bisogna buttare via le chiavi e che tutti i Morisi (e tutti i leghisti) sono pericolosi per il Paese perché avvelenano i nostri giovani con sostanze che portano la morte e che quindi non esiste sicurezza nelle nostre città finché anche l’ultimo dei leghisti è in giro tra di noi. Potremmo anche scrivere che “non abbiamo nulla contro i leghisti che lavorano onestamente” ma che se vogliono stare qui devono rispettare le nostre regole e le nostre tradizioni. Potremmo anche dire che chi protegge i “venditori di morte” (o addirittura li ha assunti lautamente pagati con soldi nostri al Ministero dell’Interno) si deve vergognare e deve smettere di fare politica. Se noi usassimo gli stessi modi della Bestia potremmo twittare che “ripulire l’Italia” (magari con una ruspa) dai Morisi di turno è una priorità per un partito di buon senso.

Insomma, vedete com’è facile?

Buon lunedì.

 

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Ali Esbati: Così la mia Svezia tutela il diritto a una casa

La Svezia conosce da diversi anni un’inusuale instabilità politica. Il Paese fino allo scorso giugno era governato da una coalizione di minoranza composta dai socialdemocratici e dai verdi, sostenuta dall’esterno dal Partito di centro e dal Partito liberale (di solito membri della coalizione conservatrice) e “tollerata” dal Partito di sinistra (secondo una loro espressione). Già questa descrizione mostra quanto instabile e “italiana” fosse la situazione svedese. Le contraddizioni di questa maggioranza sono esplose quando il governo ha proposto una riforma della legge che regola gli affitti. Il Partito di sinistra, come annunciato fin dal giorno successivo alle elezioni, ha votato contro il governo, aprendo la crisi di governo. Pochi giorni dopo, a luglio, dopo aver ritirato la riforma, il premier dimissionario Stefan Lovfen ha ricevuto di nuovo la fiducia del Parlamento svedese. Ad agosto, infine, il nuovo colpo di scena: l’attuale capo del governo nonché segretario dei socialdemocratici ha annunciato che si dimetterà dai due incarichi a novembre. Sarà dunque il suo successore a preparare le elezioni previste a settembre del prossimo anno. L’unica nota positiva è che il Partito di sinistra ha ottenuto quello che voleva: la riforma del mercato degli affitti è ritirata e anche la riforma del codice del lavoro è stata messa da parte. Ne abbiamo parlato con Ali Esbati, deputato del gruppo parlamentare del Partito di sinistra (Left party).

Il governo svedese è caduto sulla riforma della legge sugli affitti. Come vengono regolati gli affitti in Svezia e perché è così importante?
La riforma della legge, se fosse passata, avrebbe rappresentato un cambiamento sistemico. Il sistema degli affitti in Svezia è regolato dalla legge, che determina una situazione progressiva sul mercato. L’idea alla base della norma in vigore è che l’affitto non deve essere riservato solo alle persone povere o in estremo bisogno, ma deve essere accessibile a tutti, per qualsiasi livello di reddito. In sostanza pone restrizioni per regolare le forze del mercato che altrimenti porterebbero all’esplosione degli affitti, soprattutto nelle grandi città come Stoccolma. L’affitto non può essere negoziato privatamente tra il proprietario e il locatario, ma deve seguire criteri fissati per legge (deve essere “ragionevole” secondo la legge). Una riforma simile a quella proposta dal governo svedese è stata compiuta in Finlandia, dove è stato liberalizzato il mercato per gli appartamenti nuovi o per quelli ristrutturati. Si è potuto osservare un aumento degli affitti, ma anche la progressiva estensione del libero mercato anche agli appartamenti vecchi, poiché si erano create incoerenze per cui, nello stesso quartiere, coesistevano appartamenti simili ma il cui affitto veniva fissato in maniera diversa.

In passato la sinistra italiana ha vissuto una situazione simile a quella del Partito della sinistra svedese. Per esempio nel 1998 il Partito della rifondazione comunista (Prc) votò contro il governo di centro-sinistra di Romano Prodi. Questa scelta fu oggetto di una forte campagna di critiche che accusava il Prc di aiutare la destra (allora guidata da Silvio Berlusconi) a tornare al governo. Il Partito di sinistra è stato accusato di aiutare la destra? Qualcuno vi ha accusato di votare la sfiducia insieme all’estrema destra dei Democratici svedesi? Come sono i sondaggi oggi?
Conosco la situazione italiana e non volevamo cadere nella trappola e dare l’impressione che…


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L’abitare poetico di Umberto Riva

Umberto Riva si può definire come un autore particolare, discreto e apparentemente solitario nella sua originalità. Nato nel 1928 e scomparso lo scorso 25 giugno, appartiene ad una generazione che si è formata con i grandi maestri dell’architettura italiana e che ha vissuto le fasi più importanti dello sviluppo edilizio nel Paese. È un architetto che ha percorso elegantemente ma in punta di piedi la storia del secondo Novecento. Medaglia d’oro alla carriera nel 2018, è stato ricordato il 6 luglio scorso presso l’Adi Design Museum di Milano. La sua è una ricerca che assume una grande importanza nel tempo attuale in cui anche l’architettura è chiamata a dare risposte nuove alle esigenze degli esseri umani.

La sua formazione sarà caratterizzata dall’esperienza con Franco Albini, ma soprattutto da quella con Carlo Scarpa che per Riva sarà molto importante e indirizzerà il suo modo di progettare, sempre attento allo sviluppo dei particolari architettonici che traducono riflessioni e attenzioni.

Nel frattempo la cultura architettonica italiana dalla fine degli anni Sessanta a tutti gli anni Ottanta vedrà tendenze che propongono, rispetto all’espressione artistica architettonica, una strada arida, in cui l’umano talvolta scompare, come ad esempio nel riferimento postmoderno di Aldo Rossi al De Chirico delle piazze d’Italia (vedi anche Antonino Saggio, “Aldo Rossi: Ogni città è forma” in Left del 30 aprile 2021).

Pur appartenendo ad una generazione di architetti che ha condiviso il passaggio attraverso il ’68 e la stagione successiva, Riva non ha mai abbandonato un modo di intendere il mestiere basato sul rapporto con il committente e con il luogo, mentre in quegli anni prendevano piede semplificazioni schematiche e concettuali del problema dell’abitare.

In un lungo arco temporale molto complesso, pieno di domande e contraddizioni, Umberto Riva ha…


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Muri di utopia

«Domani partirò, per una terra a me lontana … per vedere i tuoi colori … per poter sentire i tuoi profumi, i tuoi suoni…». Inizio la mia riflessione sui murales di Passoscuro con i versi di una canzone dei Muvrini, perché è da un po’ di tempo che, riflettendo su che cosa rappresentino in fondo i nostri murales, mi suona all’orecchio la parola con cui inizia questa canzone, “domani”.

La musica di questo gruppo corso ha qualcosa di molto antico, suoni ancestrali che vanno dritti al cuore. Ora, per poter fare un nesso fra quel suono molto antico e la parola “domani”, forse devo ritrovare il filo rosso che è nascosto nel movimento dell’onda che ho dipinto, tre anni fa, sul muro di uno stabilimento balneare.

Ricordo che quando sono usciti i primi articoli di giornale che parlavano dei nostri dipinti, ho sentito più volte dire da qualcuno di noi: “La nostra non è street-art”, “noi siamo diversi”. Incuriosito, ho iniziato a guardare più attentamente i murales che si trovavano ormai un po’ dappertutto, ho sfogliato qualche libro, ho cercato nel web e mi sono reso conto di quanto sia vasto e variegato tutto ciò che sta sotto il nome di pittura murale.

È arte che vediamo sui muri, all’aperto ed è lì per tutti, strumento di comunicazione che parla a chi la guarda. Sui muri si dipinge da sempre. Infatti, la lunga storia della pittura murale, volendo, si può far partire dalle grotte, quando le donne iniziarono a dipingere e incidere sulle pareti.

Non ho qui lo spazio per dilungarmi sull’enorme vastità dell’argomento, vorrei solo ricordare alcune denominazioni che…


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