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Kader Abdolah e il segreto delle donne

Nederland, Delft, 11-02-2008 Kader Abdolah Foto: Joyce van Belkom

«Un giorno venne a trovarmi un vecchio compagno di lotta. Si chiama Sultan Golestan Farahangi e in questa storia lo chiamerò Sultan», si legge nella prefazione de Il sentiero delle babbucce gialle (Iperborea), l’ultimo, intenso, romanzo dello scrittore iraniano, naturalizzato olandese Kader Abdolah.
Regista di fama, il deuteragonista di questo romanzo è stato costretto a lasciare l’Iran. Così è approdato in Olanda dove vive girando documentari trasmessi dalla Bbc Persian. Nonostante i suoi film siano vietati in Iran e lui stesso sia stato bandito dal Paese, Sultan è una personalità molto amata in patria. Ed è molto conosciuto in Olanda, benché si sia sempre rifiutato di imparare il nederlandese. Ma non del tutto, a dire il vero. Con una lingua semi sconosciuta, approcciata con la spontaneità e l’ingenuità di un bambino, Sultan Farahangi ha scritto 500 pagine che consegna all’io narrante del romanzo «perché ne faccia qualcosa». Al fondo, nonostante tutto il dolore dello sradicamento e la fatica di farsi strada in una cultura e in un mondo lontano dal proprio, Farahangi è consapevole (come il suo autore Kader Abdolah) che scrivere in una lingua nuova e quasi sconosciuta offra, pur fra mille difficoltà, una inaspettata libertà espressiva.

E qui dobbiamo uscire un attimo delle pagine del romanzo per ricordare che poco più che trentenne Kader Abdolah – il cui vero nome è Sadjadi Ghaemmaghami Farahani – dopo aver partecipato alla rivoluzione contro lo scià ed essere poi stato perseguitato dal regime di Khomeyni approdò da richiedente asilo in Olanda e fu spedito in un paesino in cui si parlava non solo una lingua sconosciuta, ma per giunta in una pesante variante dialettale. Da questa piatta pianura l’esule iraniano intraprese il proprio cammino nella letteratura, fino a diventare uno dei più importanti scrittori olandesi di oggi.
Figlio di un coltivatore sordomuto di zafferano (anche da qui il giallo delle babbucce che campeggiano nel titolo) da bambino aveva inventato una lingua dei segni con cui fare da trait d’union fra suo padre e il mondo. Una lingua fatta di poche centinaia di segni, ma con cui aveva imparato a esprimere un mondo intero, in tutta la sua complessità.

Paradossalmente, forse anche per questo, non gli fu impossibile cominciare a scrivere in una lingua altra, di cui conosceva sì e no poche centinaia di vocaboli. Da lì la strada è stata tanta, attraverso piccoli, grandi, capolavori come Il viaggio delle bottiglie vuote e Scrittura cuneiforme (come tutti i suoi libri pubblicati in Italia da Iperborea). Ecco perché dicevamo che è difficile non vedere un parallelo fra lo scrittore iraniano, che ha scelto come pseudonimo il nome di due compagni della resistenza uccisi dal regime, e il regista de Il sentiero delle babbucce gialle.

Potremmo dire che Farahangi sia un suo alter ego? Chiediamo a Kader Abdolah.

«Sì senz’altro – risponde lo scrittore – possiamo dire che il cineasta iraniano rifugiato in una fattoria della campagna olandese protagonista di questo mio nuovo romanzo abbia molto in comune con me. Credo di avergli dato molto della mia vita e a volte mi sono anche nascosto un po’ dietro il suo personaggio». Ma in questo sottile e intrigante gioco dei rimandi si scopre anche altro: a sua volta il personaggio di Sultan Golestan Farahangi rimanda a una figura storica della rivoluzione, quella del poeta Said Sultanpur, che fu ucciso dal regime nel 1981.

Fu un punto di riferimento per lei, Kader Abdolah, quando in Iran, giovanissimo, si schierò con la sinistra contro il regime dello scià e contro quello di Khomeyni? «Ho voluto tracciare un ritratto di Sultanpur perché lo considero non solo un punto di riferimento ma anche una personalità emblematica di una intera generazione, quella che ha combattuto contro lo scià, che ha combattuto contro l’America. Posso dire che siamo tutti un po’ lui». In questo romanzo, come in altre sue opere precedenti si parla molto del dolore dell’esilio, ma anche di una conquistata libertà di poter raccontare la bellezza della propria cultura e di vedere la propria identità in maniera nuova, in dialogo con l’altro, diverso da sé. «La possibilità di esprimersi liberamente è una conquista, ed è oro nelle nostre mani», sottolinea lo scrittore, che ha sperimentato sulla propria pelle la censura di regime. Il suo primo libro sui curdi in Iran uscì sotto falso nome e molte sue opere sono state messe all’indice, come accade al regista protagonista de Il sentiero delle babbucce gialle.

Il regime degli ayatollah ha silenziato l’arte e il cinema in modo particolare ma in Iran, nonostante ciò, si è sviluppata una grande scuola cinematografica. Pensiamo per esempio al cinema di un maestro come Abbas Kiarostami che in film come Il viaggiatore (1974) e Il sapore della ciliegia (2015) si è espresso con immagini poetiche, quasi mute, e profondissime. Pensiamo anche all’opera cinematografica, poetica e politica, di Mohsen Makhmalbaf, al suo Viaggio a Kandahar (2001), oggi più attuale. E ancor più all’opera di sua figlia Samira Makhmalbaf, autrice del geniale La mela (1998). Pensiamo poi all’opera di Jafar Panahi, silenziato dopo aver vinto premi a Cannes a Berlino e Venezia, condannato, nel dicembre 2010, a sei anni di prigione con la proibizione per venti anni di dirigere film o scrivere sceneggiature.

«Gli ayatollah sono come i talebani in Afghanistan – commenta Kader Abdolah -. Chiudono i teatri, i cinema, censurano la letteratura, fanno di tutto per imbavagliare l’arte in tutte le sue forme, ma la cultura iraniana ha di diverso che è molto più forte di loro. Lo sono anche le donne, talmente forti da riuscire in qualche modo a combattere questa censura e aprire una strada a un nuovo tipo di cinema, di arte… ma direi di più anche un nuovo tipo di umanità». I talebani che hanno ripreso il potere in Afghanistan proibiscono la musica e opprimono le donne come ha rappresentato icasticamente l’artista afgana Shamsia Hassani con un’immagine che dice più di tante parole (che abbiamo scelto come copertina del numero di Left dedicato all’Afghanistan).

«I talebani si rifanno a tradizioni molto antiquate, di un’altra epoca, non sono attuali, moderne. Nonostante la fatica di contrastare il regime in atto, verrà il momento in cui potremmo uscirne con una nuova generazione, una nuova era», preconizza Kader Abdolah. «E le donne, io penso, di questa nuova era saranno protagoniste». Il riconoscimento dell’identità delle donne è un passaggio ineludibile per poter costruire un futuro diverso, più libero e inclusivo, suggerisce Kader Abdolah.

Nel romanzo Il sentiero delle babbucce gialle le donne hanno una grande importanza, a cominciare dalla figura della madre, bella e fragile, e al contempo dalla forte personalità. Proprio per lei il marito aveva creato delle speciali babbucce gialle che le permettevano di camminare spedita, nascondendo la sua zoppia. Ma spicca anche la figura della giovane Akram Jun, insegnante di inglese nell’unica scuola femminile in città, che con le sue scarpe colorate con il tacco alto e tanti libri lotta per l’emancipazione. Potremmo definirla una femminista? «Rispondo con una battuta, ma che in fondo non lo è – abbozza Kader Abdolah -. Non mi piace la parola femminismo perché è solo una sigla. Effettivamente l’ho introdotta io per generalizzare ma non è quello di cui stiamo parlando. Parliamo piuttosto della forza delle donne, dell’identità femminile. Mia madre era una donna molto forte, lo era anche mia nonna, ma non era femminista per come intendiamo oggi. Semplicemente era una donna tosta, libera. Donne così ci sono sempre state nella storia, non serve neanche che io dia una etichetta. Femminismo è un termine, un cartellino, forse più americano che altro». Ci spieghi meglio… «Penso che le donne siano una potenza e che possano lottare per se stesse; penso che abbiano lottato tanto per il progresso della società. Come uomo e come scrittore le supporto con la mia narrativa perché possano riappropriarsi del loro potere, perché possano esprimere tutte le loro potenzialità». Donne e uomini dovrebbero essere fianco a fianco in questa battaglia, auspica Kader Abdolah.

Ad incipit de Il sentiero delle babbucce gialle annota: «Ogni episodio di questo libro può essere letto secondo la legge della letteratura. Perché Sultan il narratore di questa storia, ha seguito le orme di Shahrazād, la narratrice delle Mille una notte». E in effetti si trovano molti riferimenti a questa figura cardine della letteratura persiana disseminati nelle opere di Kader Abdolah, fin dai suoi inizi. Ma lo scrittore di recente ha anche lavorato a una traduzione delle Mille e una notte appena uscita in Olanda e siamo curiosi di sapere di più.

Cosa ci può dire della storia di resistenza e resilienza femminile, incarnata da Shahrazād? «Ecco Shahrazād è un ottimo esempio di quel che stavo cercando di argomentare. Non possiamo certo dire che sia una femminista nel senso letterale del termine, ma è una donna forte. E ce ne sono molte altre nelle storie delle Mille e una notte come del resto nella storia. Quello che posso dire è che questo è proprio un libro sulle donne, sulla loro forza, sul loro potere. È il tentativo di fare pressione, di togliere di mezzo il maschilismo e il machismo e di nuovo riportarle alla loro potenza».


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Vajont, viaggio nei luoghi di un disastro annunciato

OTTOBRE 1963 - LA TRAGEDIA DEL VAJONT - VAJONT E' IL NOME DEL TORRENTE CHE SCORRE NELLA VALLE DI ERTO E CASSO PER CONFLUIRE NEL PIAVE, DAVANTI A LONGARONE E A CASTELLAVAZZO, IN PROVINCIA DI BELLUNO. LA STORIA DI QUESTE COMUNITA' VENNE SCONVOLTA DALLA COSTRUZIONE DELLA DIGA DEL VAJONT, CHE DETERMINO' LA FRANA DEL MONTE TOC NEL LAGO ARTIFICIALE. LA SERA DEL 9 OTTOBRE 1963 SI ELEVO' UN' IMMANE ONDATA CHE SEMINO' OVUNQUE MORTE E DESOLAZIONE, CATASTROFE, CALAMITA', DISTRUZIONE, UOMO, ANZIANO, INONDAZIONE, ITALIA, ANNI 60, B/N, 711878/33, 03-00005348

Lasciando Longarone lungo la Strada regionale 251 ci si inerpica su un massiccio delle Prealpi carniche che oggi ospita uno dei più bei parchi naturali d’Europa, varcando il confine del Friuli con il Veneto. In automobile ci vuole mezz’ora per superare lo stesso balzo che l’8 ottobre 1963 un’immane massa d’acqua percorse in direzione opposta in appena quattro minuti, spazzando via interi paesi, sei chilometri di ferrovie e strade, e quasi 2mila persone. In quota, la 251 piega a sinistra e si getta dentro la montagna, attraverso una galleria scavata nella roccia e costellata di aperture che affacciano sulla Forra del torrente Vajont. Ancor prima di uscirne, la vista della diga, integra, mastodontica, cattura fin quasi a distrarre dalla guida. È ancora lì, sormontata da un camminamento protetto la cui unica funzione è oggi consentire le visite di gruppi di turisti. Fra le guide ci sono anche discendenti delle vittime di quello che è ancora ricordato come uno dei più grandi disastri della storia d’Italia. Dall’altra parte della strada, le pareti per fare arrampicate, rese celebri dallo scrittore e alpinista Mauro Corona. Verticali, come quasi tutto, quassù. Quando si esce dalla galleria il mondo è cambiato: la montagna sulla destra ha alberi radi, il terreno è smottato, il profilo appare innaturale. È la frana. Proprio come la diga, è ancora lì. Alle sue spalle, l’immensa ferita del Monte Toc dal quale la massa si è staccata, a deturpare la straordinaria bellezza di una delle zone altrimenti più incontaminate d’Italia, le Dolomiti friulane, sorelle minori di quelle più blasonate di Veneto e Trentino.
Quando nel 1959 fu completata, con i suoi 261 metri di dislivello fra il piano di coronamento e le fondazioni, la diga a doppio arco del Vajont era la più alta del mondo. Un vanto per la Sade – Società adriatica di elettricità (ente privato destinato a confluire nell’Enel qualche mese prima del disastro) che aveva così realizzato il progetto che l’Ingegner Carlo Semenza accarezzava sin dal 1925, in una terra così ricca d’acqua da essere stata oggetto di sfruttamento idroelettrico fin dall’inizio dell’era industriale. Centosettanta ettari di terreno, case espropriate e famiglie sfollate con indennizzi ridicoli, a Erto e a Casso, in nome dell’opera classificata “di interesse nazionale”, per creare un serbatoio di 150 milioni di metri cubi d’acqua nell’angusta valle in cui scorre uno delle centinaia di torrenti della Valcellina, il Vajont. In pochi mesi l’essere umano sovverte così il lavoro compiuto dalla natura in miliardi di anni per raggiungere un precario stato di equilibrio in una zona geologicamente instabile, la Faglia periadriatica (la stessa che appena 14 anni dopo il disastro causerà il terremoto del Friuli), incapace di reggere l’urto della “civilizzazione” forzata e della concentrazione delle sue acque. Ancora una volta nell’interesse del profitto.
La lobby politico-industriale nota come “Gruppo Venezia”, la stessa che sarebbe stata fautrice dell’espansione di Porto Marghera, aveva deciso già dagli anni 20 il destino delle valli friulane. Il boom economico del dopoguerra e gli investimenti del Piano Marshall fecero il resto: il terzo progetto di Semenza, il cosiddetto “Grande Vajont”, fu approvato nel 1957 senza una relazione geologica definitiva. I successivi sei anni furono un’escalation di segni premonitori e segnali d’allarme, che oggi inquieta ripercorrere.
Già nei primi mesi di cantiere nel 1957 le esplosioni con la dinamite rivelano incrinature della roccia nei punti di ancoraggio. Poco dopo, una frana cade da un versante nel lago di Pontesei, sede di un’altra diga, creando onde alte venti metri e confermando che la zona è instabile. Muore un operaio e viene spazzato via un ponte di 70 tonnellate. La Sade minimizza ma la popolazione che vive nei paesi sul Vajont entra in allarme. Solo Tina Merlin ne rappresenta gli interessi e i timori dalle colonne dell’Unità, per finire denunciata per turbamento dell’ordine pubblico. Verrà poi assolta con formula piena.
Grazie a una relazione del geologo Edoardo Semenza, figlio del direttore della Sade, si scopre che sul serbatoio del Vajont, a ridosso del Monte Toc, insiste una immensa frana preistorica del tutto scollata dal resto della montagna. L’imbibizione dello strato di scorrimento con l’acqua dell’invaso che si sta creando può quindi essere fatale per la valle. Ma l’onnipotenza dei dirigenti Sade si spinge fino a pretendere di saper controllare il movimento franoso evitando così ciò che, dati alla mano, si annuncia invece molto probabile. Le prove di invaso continuano, finché Il 4 novembre 1960 una frana di 800 mila metri cubi precipita dal versante sinistro del Vajont causando onde di venti metri e dando il via a una successione di eventi che non avrà mai termine fino al giorno della tragedia. I segni nel terreno, le spaccature, i cedimenti, visibili a occhio nudo, sono all’ordine del giorno. La popolazione locale vive nell’angoscia mentre l’Italia per lo più ignora cosa stia succedendo in quel piccolo lago artificiale dimenticato fra i monti. La Commissione di collaudo invia rapporti quindicinali a Roma e confida nel coordinamento del ministero. Roma a sua volta si affida alla capacità di vigilanza della Commissione, e la Sade è tranquilla che Roma sia informata; il Genio civile di Belluno non viene coinvolto e non si preoccupa dal canto suo di decifrare la gravità della situazione e svolgere il suo normale ruolo ispettivo. In breve, ognuno si affida al lavoro dell’altro in un incredibile rimpallo di responsabilità.
A controllare, però, non resta praticamente nessuno. Il modello in scala 1:200 approntato dal professor Augusto Ghetti di Padova per simulare la frana si basa sull’errata indicazione che questa non abbia la compattezza che in effetti ha, e quindi sottostima enormemente il rischio. A complicare le cose, nel 1961 Carlo Semenza muore. Il suo “erede” al vertice della Sade, Alberico Biadene, prende le redini dell’impianto in coincidenza con la nazionalizzazione da parte della nascente Enel nel 1962. Il quadro delle attribuzioni di responsabilità e delle competenze si fa ancora più complesso. Biadene è determinato ad andare avanti e raggiunge quote di collaudo del riempimento sempre più elevate. Il 2 settembre 1963, ovvero un mese prima del disastro, un violento terremoto è un segnale di pericolo che nemmeno lui può più sottovalutare. A seguito anche delle disperate proteste scritte del sindaco di Erto e Casso, lo svaso per mettere in sicurezza la valle ha finalmente inizio. Ma è tardi, e il livello delle acque non si può abbassare troppo in fretta, pena ulteriori rischi. L’8 ottobre vengono ordinati l’evacuazione del Monte Toc e il divieto di circolazione sotto quota 730 metri. A Casso, 200 metri più in alto, e soprattutto a Longarone, nella sottostante valle del Piave, non c’è alcuna percezione del pericolo. Nessuno immagina la portata dell’apocalisse che sta per abbattersi su chi vive sopra e sotto questi monti. Lo stesso Biadene effettua di persona un sopralluogo appena il giorno prima.
Il 9 ottobre 1963 alle ore 22.39 la gente dei monti per lo più dorme in casupole di pietra e legno. Sono pastori, contadini, malgari. Si sono abituati a vivere in un incubo, non sanno che per molti di loro, e per i loro figli, sarà l’ultima fatale notte di paura. Così per gli abitanti di Longarone, i cui cadaveri saranno trascinati dal Piave e ritrovati, a pezzi, fino a decine di chilometri di distanza, così per gli stessi operai e tecnici della diga. In un istante un fronte compatto di due chilometri di lunghezza si stacca dal Monte Toc e precipita nell’invaso alla velocità di cento chilometri all’ora. Bastano venti secondi perché cinquanta milioni di metri cubi d’acqua si sollevino creando due onde sovraccariche di detriti: una risale il bacino distruggendo gran parte dell’abitato di Erto e poi, nel movimento di ritorno, si abbatte sulla diga che la respinge scagliandola fino all’abitato di Casso, duecento metri più in alto. Su Casso ricade così una pioggia di massi, acqua, detriti, corpi. È una strage. L’altra onda si è invece nel frattempo sollevata per oltre centocinquanta metri al di sopra del coronamento della diga e in quatto minuti raggiunge l’abitato di Longarone nella valle sottostante. «Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi». Così scrive Dino Buzzati sul Corriere della sera del giorno dopo.
Sarà il giudice Mario Fabbri, il cui padre era stato internato in un campo di concentramento nazista e il fratellastro fucilato dai tedeschi, a occuparsi dell’istruttoria, resistendo a un tentativo di rimozione dall’incarico e poi facendo un lavoro colossale di raccolta di documenti insieme al pubblico ministero Arcangelo Mandarino. Poiché è impossibile trovare esperti di livello indipendenti dalla Sade e disponibili a farne parte, i magistrati sono costretti ad affidare la nuova perizia a una commissione internazionale, che stabilirà la prevedibilità dell’evento. È nelle parole del magistrato, immortalate nel docufilm Vajont, una tragedia italiana di Nicola Pittarello del 2015, che la vicenda viene posizionata nella sua prospettiva storica forse più corretta. «L’Italia degli anni 60 era un’Italia illusa e successivamente delusa, politicamente molto equivoca, in parte defascistizzata ma sostanzialmente fascista. Di certo è l’Italia che ha aperto le porte al terrorismo, a Tangentopoli, a un ventennio di corruzione, mafia, ‘ndrangheta, camorra. Prima di autoassolverci dobbiamo avere il coraggio di leggere bene la storia partendo anche da fatti come il Vajont». Sarà uno dei più grandi disastri della storia italiana, eppure al primo grado di giudizio, con sentenza di omicidio colposo plurimo del dicembre 1969, si cercherà di avvalorare l’idea che si fosse trattato di un evento inevitabile, in sostanza imputando alla natura le responsabilità umane e così escludendo l’aggravante della previsione per i condannati. Una catastrofe è un evento naturale.
Il disastro del Vajont di naturale non ebbe proprio nulla. Solo in appello l’aggravante sarà finalmente riconosciuta. In seguito, nel marzo 1971, ovvero due settimane prima della prescrizione, la Cassazione conferma le condanne, eppure riduce le pene. Vengono così definitivamente riconosciute le responsabilità dello Stato e della Sade/Enel, ma verso le persone fisiche prevale una clemenza che si esprime nella raccapricciante asserzione, da parte del tribunale, che «il comportamento degli imputati è in linea con la civiltà industriale». In un certo senso, non si può che essere d’accordo. Il problema, forse, è proprio la civiltà industriale. Quella che mette l’essere umano in secondo piano, fino a colpirlo a morte, usando come proiettile la stessa terra che fino al giorno prima aveva cresciuto le sue piante e i suoi bambini, in nome di una visione del progresso falsa, distorta e a puro vantaggio di pochi.
Negli anni successivi al 1963, alla politica dell’imprudenza fece seguito quella che i locali ancora oggi giudicano della prudenza eccessiva. Il “lago residuale” era considerato ancora instabile e divenne motivo per impedire il ritorno degli abitanti di Erto e Casso nelle loro proprietà. Per la valle iniziò un lungo isolamento da cui in un certo senso non è mai uscita. A differenza che sulle sorelle maggiori di Veneto e Trentino, sulle Dolomiti friulane non troverete impianti attrezzati né grandi alberghi, e la natura domina pressoché incontrastata. A parte le dighe. Ma il prezzo di tanta bellezza è stato eccessivo, inaccettabile. Oggi Erto e Casso sono paesi in bilico fra l’ostinazione di chi ci lavora per creare una nuova realtà e l’atmosfera surreale che avvolge i loro vicoli. Da scenario di un racconto dell’orrore sono diventate luogo in cui ambientare un’idea di futuro diverso, basato sul rifiuto della logica del profitto e sulla nobile e friulana tenacia di chi il senso della propria esistenza vuole ancora trovarlo lassù.
L’amara conclusione del docufilm di Pittarello è affidata al magistrato Fabbri: «Mi sono chiesto se la lezione del Vajont sia servita a qualcosa e la risposta è no». Francamente, di fronte a recenti e altrettanto evitabili drammi dell’Italia di oggi, è difficile dargli torto.

L’autore: Francesco Troccoli è scrittore e traduttore. Tra i suoi libri, il romanzo Mare in fiamme (L’Asino d’oro, 2020) e la trilogia de L’Universo Insonne (Armando Curcio ed., Delos editore)


Il reportage è stato pubblicato su Left dell’8-14 ottobre 2021

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A chi non piace il modello Riace

Foto LaPresse/Twitter Marina Militare 14-05-2015 cronaca Sbarchi, in arrivo a Reggio Calabria 617 migranti Nella foto: la nave Espero della marina militare durante il soccorso DISTRIBUTION FREE OF CHARGE - NOT FOR SALE

Un confronto sugli obblighi di soccorso in mare sanciti dal diritto internazionale e dall’ordinamento italiano, ma anche un’occasione di rinnovato impegno sul fronte della difesa dei diritti fondamentali della persona riconosciuti dalla Costituzione. Questo è stato il convegno “Un mare di vergogna” promosso da Magistratura democratica in collaborazione con l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione a Reggio Calabria l’1 ed il 2 ottobre. A partecipare, un fronte solidale comune che vede impegnati, con differenti ruoli, magistrati, avvocati, giornalisti, associazioni non governative, cittadini.

Il convegno si è svolto mentre nel Mediterraneo si continuava a morire, nell’indifferenza generale, in una fase caratterizzata da una riconferma degli accordi con i libici, anche a fronte della contiguità  di diversi settori della Guardia costiera libica con organizzazioni criminali e della scomparsa, confermata dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni e da Amnesty international, della maggior parte dei migranti intercettati in acque internazionali e riportati in Libia, scomparsa dietro cui si cela la restituzione di migliaia di persone a trafficanti senza scrupoli che ne abuseranno e che li utilizzeranno per ulteriori estorsioni. È questo un mare di vergogna.

Negli stessi…


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Rete dei numeri pari, in piazza in nome della giustizia sociale

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 16 marzo 2020 Roma (Italia) Cronaca Emergenza Coronavirus, distribuzione di cibo ai senza tetto a Santa Maria in Trastevere Nella foto : senza tetto per le strade di Trastevere Photo Cecilia Fabiano/LaPresse March 16, 2020 Rome (Italy) News Coronavirus Emergency, food distribution to the homeless from the Our Lady in Trastevere church In the pic : homeless in Trastevere streets

Il 16 ottobre, in ogni città italiana, le centinaia di esperienze associative conflittuali e mutualistiche della Rete dei numeri pari manifesteranno contro le politiche governative e per lanciare una piattaforma alternativa elaborata da diffusi gruppi di lavoro e di elaborazione. I quali, partendo dalle esperienze quotidiane di lotta alla povertà hanno maturato una forte coscienza critica e di progettualità alternativa. Il 16 ottobre sembra a me un passaggio importante anche di fronte ad una situazione che ritengo di rischio per la democrazia costituzionale. Lo scriviamo da tempo anche su Left. Ne sono state metafora gli esiti delle recenti elezioni amministrative. Se più della metà della cittadinanza non vota vuol dire che la politica interessa sempre meno. Si rafforza la delega acritica a Draghi, che i mass media (non Left, fortunatamente) osannano come l'”uomo della Provvidenza”. La moneta si autorappresenta. Il popolo italiano diventa protesi della tecnocrazia di Bruxelles. L’astensione è sintomo della gravissima crisi della rappresentanza. Le persone sono convinte che il voto non incide sulle proprie vite, sui propri bisogni, sulle proprie speranze. La politica muore perché le sedi decisionali non sono più controllabili dal protagonismo democratico. I partiti sono solo simulacri del potere del “capo”. Partiti senza società e società senza partiti. Il potere di Draghi consolida una forma di assolutismo, un semipresidenzialismo di fatto già in atto. Rinasce il bipolarismo della “utilità” del voto che schiaccia ed espelle le minoranze critiche. La distorsione incostituzionale del sistema maggioritario viene assunta come intoccabile. Avanza, purtroppo, anche il progetto infame di “autonomia differenziata”, la “secessione dei ricchi”.

Il 16 ottobre , quindi, vogliamo discutere in piazza, in maniera non accademica, della crisi della democrazia costituzionale. Sul piano strutturale, che è collegato, il 16 ottobre diremo che ci troviamo ad un punto di svolta, come 40 anni fa: quei giorni della sconfitta operaia alla Fiat che pesa ancora oggi: vi sono, infatti, avvenimenti che dividono il tempo storico in un prima e un dopo. Allora si chiuse simbolicamente il Novecento industriale e nasceva la fase del lavoro senza diritti. Si rafforzava l’inedito modello sociale della borghesia predatrice globale, della finanziarizzazione, dei ceti medi decomposti che sono alla base della crisi sociale di oggi. Chi aveva vissuto, alla catena di montaggio, come fulcro operaio della società, anni di lotta e liberazione, veniva ingabbiato in lavori servili. Il precariato segnava e segna un presente doloroso senza futuro. Ma restano donne e uomini liberi; la loro difficile resistenza di oggi è base di un possibile movimento di massa, non nostalgico, ma capace di leggere le aspre contraddizioni della modernità e della ferocia del capitale con la grammatica del progetto propositivo. Va ricostruita la forza comunicativa, la “potenza sociale” (per dirla con Marx) di alcuni eventi di lotta che hanno una matrice comune. Parlo della aspra ed intelligente lotta di resistenza operaia contro le “delocalizzazioni”, che ha trovato un fulcro unificante nello splendido e colto consiglio di fabbrica della Gkn di Campi Bisenzio così come delle lotte eroiche della logistica, di lavoratrici e lavoratori supersfruttati (quasi tutti migranti). Chiediamo che lo Stato intervenga per evitare che la libertà economica privata travolga i limiti delle finalità sociali imposti alle aziende dall’art. 41 della Costituzione. Se il governo continua ad essere inerte rispetto al totalitarismo del mercato viene infranto lo stesso ordinamento, lo Stato di diritto. E che dire dello scontro sulla “riforma fiscale”? Anche solo parlare di “patrimoniale” in Italia è ritenuto atto eversivo. È, invece, urgente ristabilire un elementare principio di giustizia fiscale, favorire una maggiore progressività, che permetterebbe un sostanziale alleggerimento della pressione fiscale sui redditi da lavoro ed una più audace lotta alle forme di elusione ed evasione che a fronte di una patrimoniale sarebbero “scovate”. Così come penso alla diffusa mobilitazione dei protagonisti diretti delle lotte che hanno aperto questo autunno per realizzare in occasione del G20 una mobilitazione che tenga insieme il significato delle iniziative più recenti (a Firenze con la Gkn, a Piazza del Popolo a Roma con le donne, in tutte le città con il Global Strike per il clima, a Milano per la giustizia climatica). La manifestazione del 16 ottobre è frutto di attività ed elaborazioni di gruppi di lavoro che hanno ragionato ed agito sul mutualismo, sul “saper fare società”. È una base di partenza, al fine di far convergere, in una mobilitazione permanente, quotidiana, certo complessa e plurale, le lotte per la giustizia climatica e sociale , contro la “borghesia mafiosa”, per la dignità delle persone, dei loro lavori, del loro tempo libero, dei loro amori.

*-* Aggiornamento del 13 ottobre 2021

La Rete dei numeri pari ha deciso di far convergere la mobilitazione romana in piazza San Giovanni a fianco della Cgil

Reato di lesa disumanità

Dopo la sentenza, su cui si sono sentiti in dovere di intervenire a mezzo stampa, e forse inopportunamente, anche le autorità giudiziarie che l’hanno emessa, in attesa delle motivazioni che giustifichino l’accanimento giudiziario è utile fare un punto sull’intera vicenda di Domenico (Mimmo) Lucano. E si parte dal tessuto di solidarietà che si è mosso attorno a lui aggregando, in maniera non solo emotiva, migliaia di persone. Già il giorno dopo la condanna a Riace sono giunti in tanti per schierarsi, per far sentire la propria condivisione. E se Lucano, alla lettura della sentenza, era sembrato crollare e arrendersi, l’energia collettiva trasmessa nella sera del primo ottobre lo ha rinfrancato, gli ha strappato anche qualche sorriso. In tantissime città d’Italia si sono svolti e poi ripetuti presidi, cortei, fiaccolate, insomma le persone che da Lucano si sentono rappresentate, che nell’ex sindaco di questo minuscolo paesino dalla Calabria si riconoscono, si sono esposte, con le proprie facce, i cartelli, le bandiere. Virulenti alcuni attacchi dalla destra, spesso timide le reazioni del centro sinistra, in nome del rispetto delle sentenze. Il silenzio elettorale imposto nei Comuni in cui si è votato e nella regione Calabria in cui lo stesso Mimmo Lucano era candidato – nonostante le 10mila preferenze non è stato eletto consigliere regionale poiché la sua lista aveva bisogno del 4% ma ha ottenuto il 2,39 -, hanno sospeso la mobilitazione che intanto si espandeva via social.

Ma già da domenica sono riprese le manifestazioni, certo meno notiziabili di quelle “no vax” cariche di violenza e odio complottista, ma più di riflessione e di confronto. E tante sono state le…


L’inchiesta prosegue su Left dell’8-14 ottobre 2021

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Allora, dopo Mimmo Lucano, condannate anche noi

Ci dicono di un piccolo cimitero a Šid, non lontano da Belgrado, in Serbia, dove sono stati sepolti bambini e ragazzi dai 7 ai vent’anni. Otto tombe nella terra, con sopra un pezzo di legno. Si passa in fretta da lì, e non c’è tempo per una preghiera, un pianto, perché occorre subito riprendere il cammino verso la salvezza. Già quasi soffia la bora sulla “piazza del mondo”, in questo inizio chiaro d’autunno a Trieste, dove, spinti dall’inerzia, dall’istinto di sopravvivenza, feriti, le anime strappate, arrivano ogni giorno i disperati che intraprendono la famigerata rotta balcanica, della quale qui spesso si è scritto. Fuggono dalla non vita dei rispettivi Paesi ma sul cammino, ribattezzato il “game”, c’è l’inferno. Chi ce la fa, chi non viene rispedito indietro, sopravvivendo alla fame, alla sete, alle torture anche, spera di procedere altrove, Milano, e poi chissà, ciascuno inghiottito nella strettoia della sorte che gli tocca. Lorena Fornasir, psicologa, 68 anni, e suo marito Gian Andrea Franchi, 85, ex professore di filosofia e storia nei licei, che incontriamo proprio nel giorno in cui il Tribunale di Locri infligge 13 anni e due mesi di carcere a Mimmo Lucano, soccorrono questi giovani, spessissimo appena ragazzini, dal 2019. Left ne ha scritto a febbraio scorso, quando una mattina la polizia fece irruzione nel loro appartamento al quinto piano tappezzato di libri, sequestrando documenti e carte di Linea d’Ombra, l’associazione di volontariato che hanno fondato, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a scopo (addirittura) di lucro.

«Siamo increduli, spaventati. Questa sentenza segna veramente l’ora più brutta per…»…


L’inchiesta prosegue su Left dell’8-14 ottobre 2021

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E li chiamano pro vita

In Italia abbiamo il “Movimento per la la vita”, nato addirittura nel 1980, poi la Onlus Pro-Vita e per non farci mancare niente perfino gli “Universitari per la vita” che si occupano di propaganda all’interno delle università. L’associazione “Difendere la vita con Maria” (inutile dire quale sia la matrice) è presente in 13 regioni d’Italia. I gruppi di chi vorrebbe decidere della vita degli altri sono tanti e compositi e quasi tutti adorano lo Stato del Missouri per la forza con cui si oppone all’aborto e all’eutanasia. Tutti missouriani ben contenti di poter portare uno Stato occidentale (e “evoluto” nella percezione collettiva) come esempio del loro modo di intendere il mondo.

Peccato che quello stesso Missouri (talmente innamorato della “vita” da sentirsi in diritto di governare quelle degli altri anche invadendo le loro libertà) abbia giustiziato con un’iniezione letale Ernest Lee Johnson, 61 anni: poco dopo l’una di notte, ora italiana, di mercoledì 6 ottobre il suo cuore ha smesso battere. Johnson è stato condannato per un triplice omicidio di commessi in un negozio nel 1994 (lo sentite questo profumo di vita nell’uccidere qualcuno che ha ucciso?). Solo che Johnson non è un criminale qualunque: Johnson aveva la capacità di comprensione di un bambino di 8 anni, aveva la sindrome feto–alcolica perché la madre, alcolizzata, beveva durante la gravidanza, e inoltre gli era stato rimosso un quinto del tessuto cerebrale per via di un tumore che gli portava numerosi episodi di epilessia. La condanna a morte è stata emessa nel 1995 e l’ultimo appello per salvargli la vita è stato respinto tre ore prima dell’esecuzione. Motivazione? Il detenuto non sarebbe stato in grado di dimostrare il suo ritardo mentale.

A questo aggiungeteci che la Corte Suprema federale degli Stati Uniti ha in due occasioni dichiarato incostituzionale l’esecuzione di persone con disabilità mentale e di persone con ritardo mentale rimandando comunque la decisione ai singoli Stati. E a niente è servito anche l’appello del Papa che si era scomodato per il caso specifico (per la pena di morte aspettiamo ancora qualche secolo).

Così per l’ennesima volta si ha la dimostrazione che non c’è niente di più facile dell’usare la vita per fare propaganda oppure semplicemente per una fottuta paura della libertà.

Buon venerdì.

 

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Le donne che fecero il cinema muto

In questi giorni Pordenone festeggia la quarantesima edizione delle Giornate del cinema muto. In programma titoli di grande qualità visiva e in grado di suscitare riflessioni molto attuali. Ne parliamo con il direttore del festival, Jay Weissberg.

Anche quest’anno grande attenzione al ruolo delle donne nel cinema muto. Una sezione è dedicata alle sceneggiatrici americane. Come mai per questo ruolo furono ingaggiate soprattutto donne?
La nascente industria cinematografica, fino agli anni 10, non si era ancora strutturata nello Studio system, e cìò ha permesso alle donne di accedere più facilmente ad alcune figure professionali. La scrittura, in particolare, non necessitava di una presenza in ufficio, poteva essere svolta da casa e la presenza di scrittrici era già legittimata da riviste dedicate a un pubblico femminile. Quando negli anni 20 l’industria iniziò a esercitare un controllo maggiore, le donne si erano ormai conquistate un grande credito: i loro nomi apparivano nei titoli di testa e nei poster dei film, la gente amava Anita Loos e Frances Marion.

Si rivolgevano soprattutto ad un pubblico di donne?
Spesso erano le stesse sceneggiatrici ad avallare certi luoghi comuni. Frances Marion o June Mathis sui giornali affermavano l’importanza per il pubblico femminile di ascoltare una voce femminile, la voce del focolare. Penso però che queste dichiarazioni fossero più che altro ciò che il pubblico si aspettava di sentire. È vero, le sceneggiatrici hanno scritto molte commedie romantiche, ma anche tanti film destinati al pubblico maschile: thriller, western, film di guerra. La Marion ha scritto numerosissimi western. Ci sono voluti decenni per cambiare prospettiva sulle scrittrici donne, per liberarci della propaganda. Ancora lo scorso anno tanti sono rimasti sorpresi che una donna, Kelly Reichardt, abbia scritto e diretto un western. Ma è una cosa che le donne hanno sempre fatto!

Altro focus ques’anno è su Ellen Richter, star dell’epoca di Weimar, che interpreta donne gitane, mediterranee, libere e sensuali, e quindi streghe, portatrici di sventure, destinate a morire orribilmente.
Innumerevoli le storie di donne punite per la loro sensualità, come Lulu nel Il vaso di Pandora di Pabst. Il cinema tedesco di quegli anni rappresenta così la fascinazione e il terrore verso il diverso, lo sconosciuto. Trovo questa contraddizione molto interessante: gran parte delle star di allora, da Zarah Leander, Asta Nielsen alla stessa Richter, ebrea austriaca, hanno pelle scura e tratti esotici, mentre la società si sta indirizzando verso l’ideale estetico ariano.

Il messaggio di questi film non è di chiara condanna. In Superstition, la protagonista è essa stessa una vittima.
Con dispiacere ho sentito qualcuno affermare che si tratta di un film misogino, solo perché la fine è tragica per la donna. La trama mostra chiaramente come non sia lei a distruggere gli uomini, ma siano essi stessi a distruggersi, e durante il film la nostra simpatia è tutta per lei.

Proporre oggi il cinema muto ha anche il merito di costringerci a fare i conti con la nostra storia. In proposito volevo chiederle della decisione di proiettare Ham and Eggs at the Front.
Si tratta del primo ruolo importante di Myrna Loy, un film che si riteneva perduto, ritrovato grazie alla Cineteca di Milano. Racconta le gesta valorose di un battaglione di soldati di colore. Quando l’ho visto mi sono detto. “Oddio, cosa possiamo farcene?”. I protagonisti sono attori bianchi truccati “Black face”, e il film è intriso di stereotipi razzisti. La stessa Loy, che ha poi dedicato la sua vita all’attivismo di sinistra, nella sua autobiografia, ha scritto “Come ho potuto?”.

Ma avete comunque deciso di proiettarlo.
Da una ricerca sulla stampa afroamericana dell’epoca emerge che la comunità sosteneva il film: in parte perché c’era una abitudine a vedersi rappresentati in quel modo, ma anche perché i neri erano gli elementi positivi della storia, gli eroi, e poi un nutrito gruppo di attori
secondari era afroamericano. Perciò abbiamo deciso di mostrarlo qui, a un pubblico di specialisti, senza metterlo in rete e affidando le note di catalogo a una studiosa di cinema afroamericano esperta di black face. In un momento in cui è forte il dibattito internazionale sulla cultura della cancellazione, che chiede di non mostrare ciò che ci disturba del passato, penso piuttosto sia importante vedere ciò che ci fa orrore, affinchè non riaccada. Perciò sono molto soddisfatto che il film venga proiettato, e curioso di vedere come le persone reagiranno ai suoi aspetti più problematici.

Pensa sia possibile far arrivare Buster Keaton alle prossime generazioni?
Quando ero bambino la tv aveva otto canali. Facendo zapping potevo trovarmi davanti ora un cartone animato, ora un telefilm, un film di Buster Keaton. Non avevo scelta, ero semplicemente esposto a quello che passava. Oggi i bambini hanno a disposizione tanti canali dedicati di cartoni animati. Non vedono altro. Ciò ha creato nelle nuove generazioni una totale assenza di conoscenza di altri linguaggi. C’è poi una sorta di pregiudizio verso il “vecchio”. Ai miei occhi non è importante che una cosa sia nuova, ma che sia ben fatta, originale. Dico sempre che se mostri un film muto a una persona che non ne ha mai visto uno, un film di qualità, con una musica che si lega alle immagini, allora lo acchiappi, perché è pura arte visuale. Vorrei raccontare un aneddoto che mi ha colpito: nella nuova stagione di Star Trek, la nave spaziale è inviata in un lontanissimo futuro. L’equipaggio è disperato perché non sa se riuscirà mai a tornare indietro. Il comandante allora per tirare su il morale proietta proprio un film di Buster Keaton. E tutti ritrovano il sorriso. Ecco, secondo me gli autori hanno colto il senso e la bellezza del cinema muto. È qualcosa che ci fa avvicinare gli uni agli altri, che travalica i confini linguistici, basta semplicemente cambiare le didascalie. A volte neanche servono, come nel caso di Buster Keaton, perché sono immagini universali.

Nella foto: Ellen Richter in Aberglaube (1919) di Georg Jacoby (Eye Filmmuseum, Amsterdam)

 

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«Ti ho lasciato prima io»

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 05-10-2021 Roma, Italia Politica Lega conferenza stampa Salvini Nella foto: il segretario della Lega Matteo Salvini durante la conferenza stampa su risultati elezioni amministrative e delega fiscale del governo Draghi Photo Mauro Scrobogna /LaPresse October 05, 2021  Rome, Italy Politics Salvini press conference league In the photo: the secretary of the Lega Matteo Salvini during the press conference on the administrative elections results and the fiscal delegation of the Draghi government

Il gioco di Matteo Salvini si srotola ogni giorno diventando sempre più prevedibile. Il leader leghista si è infilato in un vicolo stretto e ora fatica ad uscirne. Ha provato a prendersi la responsabilità di entrare nel governo Draghi convinto di potersi ammantare di quel profilo che avrebbe potuto renderlo federatore del centrodestra italiano anche in Europa. Ne è uscito un Salvini rammollito, mollato dai suoi elettori più spinti (che mica per niente si sono spostati dalla parte di Giorgia Meloni e perfino alla corte di Gianluigi Paragone) che non ha assolutamente lo spessore di rimanere all’interno di un governo che può permettersi di trattarlo come un impiccio.

Salvini ha perso con Conte, ribaltato nella famosa estate del Papeete e continua a perdere con Draghi che se lo sbologna ogni giorno con l’aria di chi non vuole prestare troppa attenzione a un suo alunno troppo capriccioso. Le elezioni amministrative ne hanno sancito la regressione (e la politica, si sa, è fatta di movimenti ondulatori che una volta partiti sono molto difficili da deviare e da frenare) e il consenso di Salvini che riempiva le piazze oggi è piuttosto un’affezione per quello che fu. Non pesa nel governo, non pesa come oppositore (del resto come potrebbe pesare mentre Giorgia Meloni ha una prateria a disposizione stando all’opposizione) e non riesce ad accontentare più nessuno: i suoi sindaci e presidenti di regione lamentano la mancata consapevolezza, non si governa con gli spot e con le foto della Nutella; i suoi elettori ne lamentano l’immobilismo; Fedriga, Giorgetti e Zaia stanno preparando il prossimo congresso e ormai tengono un filo diretto con la presidenza del Consiglio e la presidenza della Repubblica; Forza Italia lo ritiene troppo acceso mentre Giorgia Meloni guadagna sul suo spegnersi lentamente.

Ora Salvini ha deciso di adottare uno schema adolescenziale: per pesare pesta i piedi (si è lamentato per il poco tempo avuto per valutare la delega fiscale ma è lo stesso Salvini che ha votato migliaia di pagine di Pnrr senza avere il tempo di sfogliarle. Ora si butta sulle discoteche senza rendersi conto di buttarsi in un campo in cui gli aperturisti (per non dire addirittura i No Green pass o perfino i No vax) non saranno mai contenti. Come al solito manda avanti i suoi scherani per alzare la polvere (sentire ieri Molinari lamentarsi per come viene trattata la Lega nella maggioranza è stato uno spettacolo davvero povero) e non si prende responsabilità.

Ora ripartirà la solfa. Ci dirà dei migranti (in attesa di qualche fatto di cronaca nera) e ancora parla genericamente di innalzamento delle tasse (come nemmeno il più banale Berlusconi) ma non funzionerà. Eccolo allora che si comporta come quelli che vogliono farsi lasciare ma non hanno il coraggio di lasciare. Punta a farsi scaricare e poi magari alzerà il ditino e dirà «però ti ho lasciato prima io».

Avanti così. Buon giovedì.

 

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La caccia alle streghe

La lotta di Mimmo Lucano, delle donne e degli uomini di Riace è un pezzo di Novecento che dobbiamo tutelare. Quel secolo finito da una ventina d’anni ha insegnato ai padroni del mondo come gestire gli esseri che lo abitano. Hanno cambiato il modo di fare la guerra. Non più uno scontro tra professionisti in divisa, ma un dispositivo terroristico che colpisce soprattutto i civili.

A Guernica hanno inventato il bombardamento a tappeto. L’hanno perfezionato a Hiroshima individuando una città a misura di distruzione totale. Sufficientemente grande per essere il palcoscenico della catastrofe, ma abbastanza ridotta per non lasciare in piedi troppi edifici. Memoria di un mondo vivente che si costruisce giorno per giorno.

La Guerra Fredda ha cancellato i confini geografici ridisegnandoli su una carta tutta ideologica. Un giorno il senatore Joseph McCarthy mostra un foglio con una lista di comunisti e comincia ufficialmente la caccia alle streghe.
Se nel corso della seconda guerra mondiale sembravano combattersi comunisti contro fascisti, nel dopoguerra nascono due contro-ideologie molto più forti e identitarie: anticomunismo e antifascismo. Negli anni sessanta hanno preso la parola
gli studenti e sono andati a parlare con gli operai. Questo incontro straordinario ha fatto paura.

In Italia il neofascismo di regime si è difeso e ha prodotto stragi e colpi di stato. Le prime dovevano aprire la strada ai secondi, ma nel corso degli anni Settanta la classe dirigente ha preferito il golpe democratico. Che senso aveva prendere il potere in una nazione se tornava più comodo avere un potere sovranazionale fondato sulla finanza?

«Ci si evolve sempre più verso l’identificazione della politica con la politica economica» diceva cinquanta anni fa in un famoso discorso Eugenio Cefis ai militari dell’Accademia di Modena. E ricordava loro che «la tendenza delle imprese a guardare al di là dei confini nazionali è assai remota e può essere fatta risalire alle compagnie commerciali del ’600» quando la Compagnia delle Indie aveva una «bandiera propria ed anche con facoltà di disporre di proprie forze armate».

I padroni hanno buona memoria! E noi?
La cultura marxista e libertaria ci ha sempre portato a considerare le nostre lotte su un terreno sovranazionale. Adesso pare che il mondo intero sia la patria di chi se lo vuole vendere un tanto al chilo. Ma siamo noi quelli che cantano nostra patria è il mondo intero! Ci credevamo prima ancora che cominciasse il secolo che è finito vent’anni fa. Lo sappiamo da oltre un secolo qual è la parte giusta.

A fronte di tante battaglie confuse con slogan su libertà indefinite o, peggio, fondate su un individualismo spinto (io sono libero se posso andare dove mi pare), Mimmo Lucano ci ha ricordato che la nostra battaglia ci deve portare da una sola parte della barricata. Dalla parte dei più disgraziati. Ci ha ricordato che dobbiamo rispettare le persone prima della legge. E se le due cose non coincidono: tocca cambiare la legge, non le persone.

 

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L’editoriale è tratto da Left dell’8-14 ottobre 2021

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