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La rigenerazione del pensiero alla base della rigenerazione dell’ecosistema

Noam Chomsky ha definito il presente in cui viviamo come “il momento più pericoloso che la storia dell’umanità si sia mai trovata ad affrontare”. Sembrerebbe una provocazione, considerati altri periodi bui della nostra storia. Eppure, un’affermazione di questo tipo ci esorta ad un’indagine più profonda. Dinanzi alla crisi ecologica, e alle predizioni della scienza, ciò che scegliamo di fare, o di non fare, in questo momento storico, definirà l’esistenza di molte generazioni a venire.
Lo scenario è ormai noto: la scienza indica inequivocabilmente la natura antropogenica dei cambiamenti climatici e l’obiettivo di mantenere le emissioni di gas serra al di sotto di un innalzamento di 1,5°C. Obiettivo necessario, per esempio, per la sopravvivenza delle nazioni insulari. Gli attuali piani nazionali produrrebbero invece un innalzamento della temperatura a fine secolo di 2,7-3,3°C. Significa che se manterremo questo modello di sviluppo, saranno le basi della convivenza umana ad essere minacciate.
Tuttavia, la scienza del clima indica anche che, se si raggiungesse la soglia delle zero emissioni nette entro il 2050, l’aumento delle temperature inizierebbe a recedere e così anche eventi estremi come incendi, alluvioni, inquinamento dell’aria, cui si devono milioni di morti ogni anno (fonte Organizzazione Mondiale della Sanità).
Non vi è dubbio che l’azione più incisiva sia una transizione da un sistema estrattivista e iper-consumerista, basato sull’impiego dei combustibili fossili – causa principale dei cambiamenti climatici – verso fonti energetiche alternative e rinnovabili. Una trasformazione che la comunità internazionale potrà affrontare solo unita, attraverso il dialogo multilaterale e la cooperazione. Le emissioni europee di gas serra, infatti, ammontano al 9% del totale, quelle della Cina al 30%, degli USA al 16%, e quelle dell’India al 7%. È evidente come la traiettoria verso la necessaria neutralità climatica entro il 2050 dovrà inevitabilmente essere condivisa. Significa un impegno globale per una rapida eliminazione dei combustibili fossili a partire dalle centrali a carbone, dei sussidi a queste fonti e della costruzione di nuovi impianti estrattivi o della concessione di nuove licenze. Sempre insieme, si dovrà garantire una finanza per il clima a sostegno dei paesi più vulnerabili che maggiormente subiscono l’impatto dei cambiamenti climatici, pur non avendo contribuito – se non in maniera marginale – all’innalzamento della temperatura globale e che, per sopravvivere, sono costretti ad attuare misure di adattamento ai mutamenti del clima.
La transizione ecologica, però, non si può esaurire in una mera transizione energetica. Il rischio sarebbe quello di fare una transizione ecologica senza ecologia. I cambiamenti climatici sono solo la punta di un iceberg, la cui parte sommersa non è formata solo da combustibili fossili, ma anche da agricoltura industriale, allevamenti intensivi, perdita di biodiversità a favore delle monocolture, acidificazione degli oceani, deforestazione; in altre parole, da un sistema di relazione con la Terra di tipo predatorio.
Per cambiare il sistema di dominio che caratterizza l’Antropocene, l’era in cui viviamo, necessitiamo di un cambiamento radicale del nostro relazionarci alla Natura. Se “il mondo è in fiamme” – una delle frasi più conosciute del Buddha – la strada e gli strumenti per affrontare e spegnere l’incendio sono, prima di tutto, dentro la nostra mente e nello sviluppo di una mente ecologica.
Il filosofo norvegese Arne Naess coniò il termine “ecologia profonda” per indicare un’ecologia che va oltre il “movimento che lotta contro l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse” (definito con il termine di “ecologia di superficie”), incentrato su azioni per l’uomo, posto a sua volta al di sopra e al di fuori della Natura. Con l’ecologia profonda si supera il concetto dualistico di “ambiente dell’uomo”: l’uomo è Natura.
Alla base della crisi ecologica, dunque, vi è una crisi del Sé che si percepisce separato dalla Natura. Da questa ignoranza cognitiva derivano avidità, eccessivo individualismo, cultura dello spreco e dell’iper-consumismo. Sentirci come esseri separati dalla Natura significa pensare alla Terra in termini di proprietà, e alle risorse naturali come oggetti passibili di sfruttamento. “Fare pace con la Natura” (è questo l’appello del Segretario Generale dell’ONU) significa, invece, riconoscersi in una relazione di connessione e reciprocità con la Terra, significa spostare lo sguardo e trasformare una visione antropocentrica in eco-centrica, nel riconoscimento dell’interdipendenza di ogni forma di vita e della sacralità di ciascuna forma di vita, nel vedere la cura della nostra casa comune come cura di noi stessi.
La rigenerazione del pensiero, si potrebbe dire, è alla base della rigenerazione dell’ecosistema.

Rigenerare significa guarire le ferite, riconoscendole. Significa curare, ricostruire apportando maggior valore e ancor più bellezza. È possibile, lo dice anche la scienza. Come i maestri dell’arte del Kintsugi, che riparano i cocci con l’oro e rendono l’artefatto ancora più prezioso, unico in quanto diverso, così le terre inaridite e desertificate possono rifiorire attraverso l’agricoltura rigenerativa praticata dai piccoli contadini e apicoltori, artigiani della bellezza e della bio-diversità; mentre la creazione di comunità energetiche, compiendo una rivoluzione gentile, fa riscoprire il valore dell’impegno comune; e architetti urbanistici progettano edifici in grado di assorbire gli impatti climatici nelle periferie.

La crisi ecologica è dunque il modo in cui la Terra ci sollecita a “svegliarci o subirne le conseguenze”.
Il potere ultimo di cambiare non risiede nelle tecnologie, ma nella saggezza della comprensione dell’inter-essere (“colui che si prende cura di se stesso si prende cura degli altri, e colui che si prende cura degli altri si prende cura di se stesso”*). È dalla comprensione di una interdipendenza profonda – noi siamo Natura – che scaturisce l’impegno all’azione.
Con la Dichiarazione sui cambiamenti climatici ai Leader mondiali, la comunità buddhista consegna un messaggio di speranza che si traduce in azione: “Coltivando uno sguardo interiore e la compassione, saremo in grado di agire per amore, non per paura, per proteggere il nostro Pianeta”. Agire per amore e non per paura. L’invito è quello di non essere sopraffatti dalla disperazione, ma di agire con coraggio. La via della salvezza non è evitare i tempi difficili, fuggendo dal mondo, ma saper rispondere in maniera appropriata: agire dove occorre, quando occorre e come occorre. Ciascuno di noi ha un ruolo e il potere di esercitarlo.

L’attivismo ecologico non è un sentiero facile. Dinanzi alla crisi ecologica, alle moltissime informazioni che riceviamo, immagini talvolta terrificanti che ci arrivano (foreste che bruciano, animali che soffrono), potrebbe essere facile cadere nella trappola della frustrazione, della rabbia, della reazione, del puntare il dito, o anche di rimanere paralizzati.
Tuttavia, una spinta reattiva risulta essere divisiva con il rischio di esacerbare distruzione ecologica ed esclusione sociale. È dunque cruciale seguire un percorso sia personale che comunitario inclusivo, non violento e rigenerativo, nella consapevolezza dell’interconnessione, di far parte di un ecosistema e di non esserne padroni.

È con questo lavoro di decolonizzazione e trasformazione del pensiero, di liberazione da quel bagaglio concettuale in eccesso che si è accumulato per la nostra esclusiva attenzione, di rigenerazione personale e collettiva che piantiamo i semi per il fiorire dell’armonia con la natura. I cambiamenti climatici ci spingono a iniziare a vivere questo futuro ora.

*L’autrice: L’esperta in diritto internazionale dell’ambiente Silvia Francescon, componente del comitato esperti G20 del gruppo di lavoro energia e clima presso il Ministero della transizione ecologica e responsabile agenda ambiente dell’Unione buddhista italiana, sarà una degli ospiti di KUM! Festival (15-17 ottobre), manifestazione dedicata alla cura e alle sue diverse pratiche. Sabato 16 ottobre alle ore 12 alla Mole Vanvitelliana di Ancona parlerà, assieme a Monica Colli, Caterina Giavotto e Giovanna Giorgetti.

Foto di Christo Ras da Pixabay

Toc toc, è permesso?

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 23-09-2021 Roma, Italia Economia Assemblea Confindustria 2021 Nella foto: il Ministro Renato Brunetta presenta il green pass Photo Mauro Scrobogna /LaPresse September 23, 2021  Rome, Italy Economy Confindustria Assembly 2021 In the photo: Minister Renato Brunetta presents the green pass

So che non si usa molto tra colleghi (per questioni di aziendalismo) fare i complimenti ai giornalisti di un’altra testata ma confesso di ammirare da mesi il lavoro di Vitalba Azzolini che pervicacemente si permette di sottolineare le incongruenze con il diritto di alcune iniziative in tempo di pandemia. Azzolini, che per molti era un idolo ai tempi del governo Conte perché tornava utile come grimaldello per aspirare alla competenza, ultimamente è diventata bersaglio proprio dei filocompetenti compulsivi che la accusano di lisciare il pelo ai no Green pass. Particolare estremamente interessante: lei dice sempre le stesse cose, tiene il punto, eppure viene vista in maniere opposte.

Permettersi di sottolineare criticità sul Green pass ormai è la stessa cosa di quei fascisti che prendono a calci la sede della Cgil. Una gran melassa che appiattisce la discussione e che rende qualsiasi dubbio un complottismo.

Ieri il governo Draghi ha finalmente partorito il Dpcm con le linee guida relative all’obbligo di possesso e di esibizione della certificazione verde Covid-19 da parte del personale delle pubbliche amministrazioni, a partire dal prossimo 15 ottobre. Il 15 ottobre, tra le altre cose, è dopodomani, per dire.

Diamo per scontata, al di là degli istinti di Brunetta, la consapevolezza che la macchina dell’amministrazione pubblica sia fondamentale per uno snello funzionamento dello Stato quindi la domanda sorge spontanea: che impatto avrà il Green pass nel funzionamento degli uffici pubblici? Solo per fare un esempio: come dice Azzolini su Domani «le verifiche delle certificazioni vanno fatte, salvo eccezioni, da dirigenti, che quindi impiegheranno in quest’attività parte del proprio tempo di lavoro, prezioso anche perché ben retribuito. Ciò risponde a una visione del dirigente che, oltre a gestire e supervisionare, deve anche controllare materialmente i sottoposti». Sicuri che vada bene così?

Dicono le linee guida che per le giornate di assenza ingiustificata, dovute alla mancata presentazione del Green pass, «al lavoratore non sono dovuti né la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati, incluse tutte le componenti della retribuzione, anche di natura previdenziale, previste per la giornata lavorativa non prestata». Ma il tema del funzionamento della macchina pubblica di fonte a queste assenze? Come si sostituiscono i lavoratori che non hanno intenzione, per scelta, di avere il Green pass?

Dicono dal governo che mai e poi mai pagheranno il tampone per i dipendenti che non si vogliono vaccinare. È una linea, si può essere d’accordo o meno ma è una linea. Ieri esce una circolare del ministero dell’Interno che invita a fare invece i tamponi gratis ai portuali non vaccinati. Vi pare coerente? Poi, come giustamente fa notare sempre Azzolini: «Il tema è: anche in altri ambiti pubblici, quando il servizio reso sia compromesso a causa delle assenze per mancanza di #greenpass, il datore di lavoro pubblico può pagare i tamponi ai dipendenti, o è imputabile di danno erariale?»

Come è accaduto anche per altri provvedimenti: il governo ci ha detto come intende analizzare l’impatto del Green pass? Negli altri Paesi esistono commissioni che valutano ex ante ed ex post l’impatto e l’efficacia di una misura. Se quella misura, in un determinato periodo di osservazione, non ha raggiunto il suo obbiettivo decade. Qui?

Come scrive Il Post: «Da quando il governo ha annunciato l’obbligo del Green pass per tutti i lavoratori a partire dal 15 ottobre, il numero delle somministrazioni giornaliere del vaccino contro il coronavirus è cresciuto, ma di poco: “l’effetto Green pass”, come è stato definito, si è visto solo nella terza settimana di settembre. Poi la curva delle prime dosi si è abbassata, e dall’inizio di ottobre è tornata ai livelli di febbraio 2021, la prima fase della campagna vaccinale». Quindi?

Sempre a proposito di risultati immagino che lassù al governo siano anche consapevoli che la misura (una delle più rigide del mondo) esacerberà ancora di più gli animi. Come si intende intervenire, al di là dei preannunciati controlli sulle manifestazioni? Oltre alla repressione dei violenti come si intende fare con quei 3, 4 milioni di lavoratori non vaccinati?

Ecco, sarebbe bello dibatterne senza essere additati come amici dei terroristi. Anche perché le analisi ovviamente prevedono il diritto di critica. Piaccia o no. E provate a pensare se tutto questo l’avesse fatto un altro governo cosa sarebbe successo.

Oppure smettano di usare il paternalismo, facciano politica e si prendano la responsabilità dell’obbligo vaccinale.

Buon mercoledì

 

 

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Pedofilia, perché la Chiesa non sa cosa fare

Papa Francesco ha dichiarato di provare un sentimento di vergogna nell’apprendere i risultati dei lavori della commissione d’inchiesta francese sugli abusi commessi dai membri del clero di quel paese. Un teologo italiano, Pierangelo Sequeri, sulle pagine di Avvenire, ha anche invocato la necessità, per la Chiesa, di una vera e propria espiazione, di avviare un processo di cambiamento che richiederà, sono parole sue, “lacrime e sangue”. Bene, anzi benissimo. Fa piacere costatare che i vertici della Chiesa cattolica inizino a essere finalmente consapevoli delle ferite gigantesche che tanti sacerdoti hanno inflitto a tantissimi fedeli, in Francia come nel resto del mondo. Il rifiuto sdegnoso di affrontare l’argomento, l’accusa rivolta a chi ne parlava di volere solo la rovina della Chiesa che hanno caratterizzato l’atteggiamento dell’istituzione sino a pochi anni fa (al papato di Giovanni Paolo II) sono ormai definitivamente alle nostre spalle. E del resto sarebbe ormai difficile, per i gerarchi cattolici, pronunciare discorsi diversi, visto l’atteggiamento intransigente di un’opinione pubblica adulta non più disposta a tollerare le violenze e gli abusi del clero sui propri figlioli.

Detto questo, occorre anche ribadire che i gesti e le parole di contrizione non bastano a risolvere il problema. Anzi, al contrario, rischiano di fornire l’impressione, pericolosa, fuorviante e del tutto sbagliata, che la questione sia ormai archiviata, che quello degli abusi clericali sia un affare che riguarda essenzialmente il passato e che la richiesta di perdono del papa equivalga a quella dell’incolpevole Willy Brandt messosi in ginocchio di fronte al memoriale della Shoah a Varsavia venticinque anni dopo la fine del Terzo Reich.

No, il dramma non è archiviato e le poche timidissime misure prese sinora dal papa per contrastarlo riguardano essenzialmente le cosiddette “coperture” delle quali i preti abusatori hanno goduto da parte dei loro superiori: in definitiva, d’ora in poi sarà un po’ più complicato e rischioso per un vescovo garantire l’impunità di un suo sacerdote colpevole di abusi ed evitare lo scandalo che immancabilmente ne consegue.

Occorre infatti ricordare che quello delle coperture è l’ultimo (in termini di tempo) dei fattori implicati nell’abuso, dal momento che l’eventuale (sinora quasi certa) complicità dei superiori giunge quando il crimine è già stato commesso e mai prima.

Questo significa che, per sradicare la mala pianta degli abusi sessuali clericali ed escludendo l’ipotesi ridicola che essa sia stata generata da alcune isolate “mele marce”, cioè da pervertiti infiltratisi a tradimento nelle fila del clero, dobbiamo cercare le ragioni per le quali gli abusi vengono commessi in così larga misura dai membri del clero cattolico.

Io sono da tempo convinto che la principale di tali ragioni risieda nella dottrina cattolica della sessualità e in particolare nella disciplina del celibato obbligatorio per il clero. Mi limito a citare solo una tra le tante conseguenze dell’applicazione di questo antico istituto messe in luce dalla letteratura scientifica internazionale: la profonda immaturità sessuale e umana dei presbiteri. Essa consegue al fatto che la formazione degli aspiranti sacerdoti si svolge, per quel che riguarda i fattori affettivi e sessuali, tutta all’insegna della colpa, del rimorso, dell’inadeguatezza rispetto all’ideale e mai a quella di una crescita armonica ed equilibrata. Come ho raccontato ne La casta dei casti (Bompiani, 2021), di sesso e di amore nei seminari non si parla, le prime esperienze amorose dei preti sono spesso tardive e poco soddisfacenti così come largamente approssimativo e incompleto è il loro bagaglio di conoscenze sulla sessualità. Il risultato è una spiccata immaturità sessuale rispetto al resto della coetanea popolazione maschile, un grave ritardo nello sviluppo di un sano e fisiologico rapporto con il desiderio sessuale e la corporeità e una sistematica associazione del piacere sessuale alla mancanza e al peccato. Alcuni preti rimangono a lungo, su questo versante, in uno stadio infantile e immaturo, dominato dalla masturbazione (spesso ossessiva) e da un castello di fantasie e di fantasmi, tanto attraenti e seduttivi quanto repellenti e spaventosi.

Peraltro l’immaturità è un elemento che non riguarda solo la sfera della sessualità e dell’affettività, ma l’intera personalità di tanti membri del clero. Il fatto è che, nella vita in seminario, i futuri sacerdoti, tutti almeno ventenni, vengono sistematicamente e radicalmente infantilizzati, trattati come bambini totalmente incapaci di agire in modo autonomo. La loro esistenza è regolata dall’istituzione in ogni minimo dettaglio e tutte le comunicazioni all’esterno e all’interno del seminario sono oggetto di una costante rigidissima sorveglianza. La conseguenza consiste nella crescita nei seminaristi, da un lato, di una peculiare capacità di eliminare o circoscrivere nei loro comportamenti esteriori e pubblici tutti i sintomi di pose non conformi alle aspettative dell’istituzione e quindi di mentire e nascondere i loro sentimenti autentici, dall’altro dell’abitudine a considerare importante e temibile solo ciò che proviene dall’alto, dai loro superiori, dai dirigenti dell’organizzazione e a considerare invece irrilevanti i bisogni e gli interessi di chi occupa una posizione inferiore alla loro nella gerarchia, quindi in primo luogo i fedeli, le pecorelle del gregge concepite immancabilmente come creature da guidare con sapienza e fermezza e non come persone alle quali rispondere con responsabilità e rispetto. Entrambe queste caratteristiche giocano una parte importante nella generazione degli abusi anche per vie meno prevedibili, quindi non solo per l’ovvia circostanza che molti preti si trovano tragicamente in uno stadio di maturazione sessuale simile a quello delle loro vittime.

Concludendo, se il papa vuole davvero mettere un freno al dilagare di questo fenomeno deve avere il coraggio di affrontare di petto la questione dell’obbligo celibatario e delle sue nefaste conseguenze. Lo può fare convocando un sinodo straordinario sui ministeri (quello che tanti cattolici hanno chiesto invano in questi anni) o nel modo che preferisce. Ma questo deve fare. Hic Rhodus, hic salta! Solo così le richieste di perdono e il dispiacere espresso in pubblico diventeranno le premesse di una stagione davvero nuova.

Foto di Steen Jepsen da Pixabay

A proposito di dittatura sanitaria

(7/2/2020) Sit-in in Rome, in front of the Ministry of Health, organized by the Italian Abortion Contraception Network to ask that contraception is free and accessible and access to abortion must be guaranteed for everyone (Photo by Matteo Nardone / Pacific Press/Sipa USA) Sipa Usa/LaPresse Only Italy 30185073

In Italia ci sono almeno 15 ospedali in cui il 100% dei ginecologi è obiettore di coscienza. È il dato principale che emerge dall’indagine “Mai dati!” presentata in anteprima durante il Congresso nazionale dell’Associazione Luca Coscioni, a cura di Chiara Lalli, docente di Storia della Medicina, e Sonia Montegiove, informatica e giornalista. Un dato che non compare nella Relazione sulla legge 194/78 del ministero della Salute, che, aggregando i dati per Regione, di fatto non rende pubbliche le percentuali di obiettori sulle singole strutture. Secondo la Relazione, infatti, il massimo di obiettori che risulta è dell’ 85,8%  in Sicilia.

L’indagine di Lalli e Montegiove, nata con l’obiettivo di appurare se la legge 194/78 sulla interruzione volontaria della gravidanza sia effettivamente applicata, evidenzia come la Relazione sulla stessa legge del Ministero della salute pubblicata lo scorso 16 settembre e i dati in essa contenuti restituiscano una fotografia poco utile, sfocata, parziale di quanto avviene realmente nelle strutture ospedaliere del nostro Paese.

Alla richiesta di accesso civico a tutte le Asl e alle aziende ospedaliere censite dal ministero della Salute, ha risposto circa il 60% (al 30 settembre 2021). I risultati dell’indagine saranno aggiornati non appena saranno disponibili tutte le risposte.

Tra i dati più interessanti emersi finora, le 15 strutture ospedaliere in cui il 100% dei ginecologi è obiettore e i 5 presidi in cui la totalità del personale ostetrico o degli anestesisti è obiettore. Ci sono poi 20 ospedali con una percentuale di medici obiettori che supera l’80%. E altri 13 quelli con una percentuale di personale medico e non medico e superal’80%.

Le Regioni in cui ci sono ospedali con il 100% di ginecologi obiettori di coscienza sono Lombardia, Liguria, Piemonte, Veneto, Toscana, Umbria, Marche, Basilicata, Campania, Puglia.

Ci sono molti modi per non attuare una legge: quello di rendere inaccessibili i dati per  verificarne l’attuazione è il più vigliacco eppure è molto popolare. Il diritto negato, tra l’altro, è scritto nero su bianco tra le leggi dello Stato. E forse sarebbe il caso di essere terribilmente concreti nell’attuazione dei diritti, oltre che nell’enunciazione.

Buon martedì.

 

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Angela Mendes: Così proseguo la lotta di mio padre, Chico

Di padre in figlia. Un’eredità pesante quella che Chico Mendes, noto sindacalista dei sereingueros (estrattori di caucciù) assassinato barbaramente nel 1988, ha lasciato alla figlia Angela. Un’eredità fatta di impegno, di lotta, di determinazione a non lasciar distruggere la foresta amazzonica brasiliana e i popoli che la abitano. I popoli indigeni, circa 200 con le loro lingue e le loro tradizioni, oggi a rischio di estinzione, ma anche quel popolo della foresta, gli estrattivisti (di caucciù, di noce brasiliana, di gomma naturale, di frutta, erbe mediche etc..), che da secoli ormai abita l’Amazzonia e fa parte di questo enorme ecosistema. Di questa eredità Angela, oggi 52 anni, si è fatta testimone e portatrice. Anche se non da subito: «Sono cresciuta lontana dall’impegno di mio padre – ci racconta – la mia realtà era diversa, ma dal momento in cui sono andata a lavorare all’Amazon workers center-Cta (fondata da Chico, ndr), sono tornata alle mie origini e ho scoperto la necessità di seguire le sue orme e continuare la sua lotta per le popolazioni tradizionali della foresta, in questo processo ho anche scoperto me stessa e imparato molto sulla mia storia. Oggi coordino il Comitato Chico Mendes e capisco che questo è il mio posto, da qui voglio agire per trasformare la realtà locale».

L’ingresso di Angela nel Comitato Chico Mendes risale al 2009, mentre dal 2019 è leader, insieme al Cacique raoni metuktire della nuova Alleanza dei popoli della foresta, un organismo e una strategia di resistenza pacifica creata da Chico Mendes e dai leader indigeni negli anni Ottanta e che oggi riunisce le moltissime associazioni che in Brasile lottano per i diritti delle popolazioni amazzoniche e per la salvaguardia della foresta. Abbiamo raggiunto virtualmente Angela a Rio Branco (Acre), per farle alcune domande sulla situazione attuale e sulle lotte in atto. Tra queste la campagna “Empate2020”, lanciata dal Comitato Chico Mendes per rispondere all’emergenza da Covid-19 e di cui avevamo parlato anche su Left dell’1 maggio 2020.

Angela Mendes, quali risultati ha ottenuto con la campagna Empate per la protezione dell’Amazzonia e dei popoli nativi?
Nel 2020, la campagna Povos da Floresta contra a Covid-19, sostenuta anche da Cospe in Italia, ha consegnato 660 kit di cibo, igiene e sicurezza a circa 30 comunità in varie località di Acre (Resex Riozinho da Liberdade, di Alto Rio Purus e della Mamoadate e la Resex Chico Mendes). Nel 2021, 300 kit di alimentazione e igiene sono stati consegnati al Resex Chico Mendes. Infine 213 kit di alimentazione e 400 chili di pesce, per sostenere 263 famiglie indigene colpite dall’inondazione dei fiumi. Tutto questo ha permesso di rispondere alle necessità basiche di migliaia di persone abbandonate dallo Stato.

Oltre alla pandemia, che ha rischiato di far estiguere popoli indigeni amazzonici, la distruzione della foresta non si ferma: solo nell’ultimo anno si parla del 220% in più di disboscamento. Le minacce e gli attacchi ai difensori dei diritti umani e ambientali non diminuiscono. Cosa rischia il nostro pianeta con la distruzione del patrimonio ambientale dell’Amazzonia e della sua diversità bioculturale?

L’Amazzonia brasiliana rappresenta la più grande area della regione amazzonica, occupa quasi il 60% del territorio brasiliano ed è la sede del più grande serbatoio di acqua potabile del mondo. Il fenomeno noto come “fiumi volanti” è essenziale per la produzione alimentare nel sud del Paese. Tra gli altri servizi ecosistemici l’Amazzonia ha un grande potere di assorbimento e fissazione dell’anidride carbonica impedendo che questo gas aumenti l’effetto serra, oltre ad essere la più grande foresta tropicale del mondo, è anche la più ricca di biodiversità e, oltre tutto, ospita la sua più grande ricchezza: le sue popolazioni. Ci sono circa 180 etnie indigene, comunità quilombolas, estrattiviste e ribeirinhas che con i loro modi di vita tradizionali e la loro relazione armoniosa vivono in simbiosi con queste risorse naturali. Lasciare che l’Amazzonia sia distrutta significa perdere ciò che è noto e non avere l’opportunità di conoscere molte più ricchezze minerali, vegetali e animali che ancora non si conoscono, ci sono ancora tante cose che non sappiamo dell’Amazzonia, ed è probabilmente molto più di quanto la scienza abbia scoperto finora.

In relazione al contesto brasiliano attuale, quali ritiene siano le responsabilità del governo di Bolsonaro?

Il governo di Bolsonaro è un governo genocida e anti-ambientalista, ha completamente distrutto la nostra politica di protezione socio-ambientale, ha minato gli organi di gestione sia delle politiche indigene del Funai (Fondazione nazionale dell’indio), sia l’ambiente come l’Ibama (Istituto brasiliano dell’ambiente e delle risorse naturali rinnovabili) e l’Icmbio (Instituto Chico Mendes per la conservazione della biodiversità), riducendo le risorse delle aree strategiche di queste istituzioni. Inoltre ha riempito questi organismi di militari e con un atteggiamento conservatore e fascista. Bolsonaro non ha mai cercato di stabilire alcun dialogo con i popoli e con le comunità quanto piuttosto con la parte opposta, stabilendo un’enorme vicinanza con i land grabber, i trasgressori ambientali e con i settori minerario e agroalimentare.

Stiamo assistendo in questi giorni al voto della Corte Suprema sul “Quadro temporale per il riconoscimento delle terre indigene”. Qual è l’importanza di questa lotta dei popoli indigeni? 

I popoli indigeni hanno un’importanza vitale perché costituiscono la ricchezza e la diversità culturale del nostro Paese e il loro rapporto con il territorio è sacro. Gli studi dimostrano che i territori con popolazioni tradizionali e terre indigene sono meglio conservate perché la presenza di queste popolazioni offre un certo grado di protezione. Ma il Governo Bolsonaro sta invece tentando di ridurre questi territori come la Resex Chico Mendes (area estrattivista nell’Acre) con il progetto di legge 6024/19 oppure di declassare alcune zone come Parco nazionale della Serra do Divisor ad “area di protezione ambientale”, una categoria che consentirebbe addirittura l’estrazione e la commercializzazione di sabbia e terra. Infine nello Stato del Parà, con il Pl 313/20, si propone di autorizzare l’allevamento di bovini su ampia scala all’interno della più grande riserva estrattivista del Brasile, la Resex Verde para Sempre. A tutto questo ci stiamo opponendo con una grande campagna.

Lo stile di vita alimentare dei consumatori occidentali ha un impatto diretto sulla devastazione delle foreste, sostenendo l’espansione dell’industria agroalimentare che invade il mercato locale e internazionale con prodotti di basso valore e costi ambientali elevati. Cambiare queste abitudini alimentari pensa possa avere un impatto sulla riduzione della deforestazione e delle emissioni di CO2?

Penso che il caso dei bovini sia il più emblematico perché oltre ad essere uno dei maggiori fattori di deforestazione, l’allevamento di questi animali emette anche gas metano,  una delle principali cause dell’effetto serra, ma al di là di questo la carne di prima scelta è praticamente tutta esportata e il mercato brasiliano assorbe ciò che rimane, che è per lo più carne di scarsa qualità, privando la popolazione povera e vulnerabile (che è diventata la maggioranza grazie allo smantellamento dei politiche di welfare) dei consumi del prodotto. La soia inoltre è diventata uno dei prodotti brasiliani più esportati, ma oggi il prodotto principale a cui ha accesso lo strato più semplice della popolazione è l’olio di soia utilizzato nella preparazione degli alimenti e il cui prezzo negli ultimi anni ha raggiunto livelli stratosferici. L’Unione europea è uno dei principali acquirenti di soia brasiliana, così come la Cina.

Quanto è importante cambiare l’attuale paradigma economico, basato sull’estrazione e lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, sostituendolo con attività alternative sostenibili basate sull’economia forestale vivente?

L’attuale sistema produttivo altamente predatorio e degradante ha portato il pianeta all’esaurimento, ha causato squilibri ambientali e climatici e stiamo già sentendo gli effetti di questo sfruttamento sfrenato delle risorse naturali. Direi che non cambiare i nostri paradigmi ci porta direttamente e in breve tempo ad uno scenario apocalittico, con l’emergere di guerre e conflitti su risorse come acqua e cibo. Cambiare o non cambiare è come scegliere tra la vita e la morte.

In che modo la comunità internazionale può intervenire?

Spingendo i propri governi e le proprie autorità a limitare l’acquisto di prodotti brasiliani se non si dimostrano di buona origine, liberi da violenze e conflitti. Ogni prodotto brasiliano esportato come minerali, carne, cibo ha dietro di sé una scia di sangue.


L’articolo prosegue su Left dell’8-14 ottobre 2021

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SOMMARIO

Pedretti (Spi-Cgil): Riforme sociali, il tempo è adesso

"Esodati" workers, people who took early retirement but are not yet eligible for state pension, take part a demonstration organised by the Italian unions, left-wing General Confederation of Italian Workers (CGIL), Italian Confederation of Workers' Trade Unions (CISL) and Italian Union of Labour (UIL), against the government's economic measures policy in front of the Pantheon on July 26, 2012 in Rome. AFP PHOTO / ANDREAS SOLARO (Photo credit should read ANDREAS SOLARO/AFP/GettyImages)

La riforma previdenziale e la legge nazionale sulla non autosufficienza sono temi importanti, che hanno a che vedere con la vita, l’identità e la dignità delle persone, e i pensionati chiedono di avere voce in capitolo. Soprattutto in questo momento, con i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza da investire, «il governo ha di fronte una grande possibilità di riforme sociali: qui c’è da ricostruire il welfare, quasi come nel dopoguerra», ha sottolineato in modo deciso Ivan Pedretti alla tre giorni di Futura 2021 promossa dalla Cgil a Bologna alla fine di settembre. Il segretario dello Spi, il sindacato dei pensionati Cgil, due milioni e mezzo di iscritti, si fa portavoce dei bisogni e delle esigenze di 16 milioni di cittadini, una fetta della popolazione che ha pagato il prezzo più alto durante la pandemia – dei 130mila morti la maggior parte sono ultraottantenni. Non solo. In Italia secondo l’Istat vi sono tre milioni di persone non autosufficienti, quasi sempre a carico delle famiglie, e delle donne in particolare. E poi, non parliamo del valore delle pensioni: «Per l’80 per cento vanno dai 500 ai mille euro e per le donne in media sono più basse di 200 euro», ha ricordato Pedretti sempre dal palco di Bologna.

Con Quota 100 che sta per scadere, mentre in commissione Lavoro alla Camera è aperto il dibattito sull…


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Predappiochismo

Rubo il titolo a Pippo Civati per riconoscenza verso la comunità di Possibile, il partito da lui fondato e ora egregiamente retto dalla segretaria Beatrice Brignone, che sul tema dell’antifascismo ha sempre tenuto la barra dritta in un’epoca di pendoli. E rubo a lui anche l’idea di presentare a Giorgia Meloni un ventennio di girato perché possa farsi un’idea di quello di cui stiamo parlando.

Giorgia Meloni, appunto, costretta a dire qualcosa sul fascistissimo attacco alla Cgil di Roma da parte di schifosi fascisti ci ha illuminato con la sua ipotesi di uno “squadrismo organizzato” aggiungendo che non è importante che la matrice sia fascista o meno. Fantastica Giorgia Meloni che è diventata così brava a fare zig zag in mezzo allo sterco inventandosi tutti gli aggettivi e le perifrasi possibili: siamo passati dai patrioti, ai sovranisti, poi gli italiani, poi ora gli squadristi. L’importante è non pronunciare la parolina magica senza la quale non riuscirebbe nemmeno a raccattare i voti per gestire il proprio condominio. Se andiamo avanti così questi sono così vigliacchi che si metteranno d’accordo di sostituire la parola “camerati” con “zucchine” e cammineranno per le vie del centro inzucchinandosi e sentendosi davvero dei rivoluzionari.

Allora vale la pena spiegare a Giorgia Meloni, piuttosto deboluccia a scuola quando si trattava dell’ora di Storia, quale sia la matrice. A Roma sono stati arrestati Roberto Fiore e Giuliano Castellino. Roberto Fiore ha 62 anni, è uno dei fondatori di Forza Nuova, a 19 anni fu tra i fondatori del movimento neofascista eversivo Terza Posizione, negli anni Ottanta venne condannato per associazione sovversiva e banda armata ma come tutti i fascisti scappò come un coniglio per rientrare in Italia a condanna prescritta.

Giuliano Castellino ha 45 anni e attualmente è il leader locale di Forza Nuova a Roma. In passato aveva fatto parte della Destra di Francesco Storace, e prima ancora di Fiamma Tricolore. Lotta contro il Green pass ma vigliaccamente è andato a cercarsi il Green pass per poter andare allo stadio: basterebbe questo per dare un’idea dello spessore. Nel 2017, cercò di impedire lo sgombero di un appartamento popolare del quartiere Trullo di Roma che era stato assegnato a una famiglia di origine eritrea: fu condannato per violenza, lesioni e resistenza a pubblico ufficiale e anche per manifestazione non autorizzata. Sempre nel 2019 aggredì un giornalista e un fotografo dell’Espresso durante una manifestazione neofascista al cimitero del Verano; l’anno scorso è stato condannato in primo grado. Ha subito numerosi Daspo, per non farlo entrare allo stadio. Attualmente è sotto regime di sorveglianza speciale, una condizione di controllo da parte delle forze dell’ordine che può essere applicata alle persone ritenute socialmente pericolose.

Tra gli arrestati c’è Luigi Aronica, 65 anni, conosciuto come Er pantera, ex appartenente ai Nar, quei Nuclei armati rivoluzionari accusati negli anni 70 e 80 di aver dato animato la stagione degli anni di piombo anche attraverso stragi e attentati. Aronica in particolare, fu condannato a 18 anni e 2 mesi nell’ambito del processo Nar 1.

Poi c’è Fabio Corradetti, 20 anni ma già in ascesa nell’ala romana di Forza Nuova, per ora ancora conosciuto come il “figlioccio di Castellino”. Un paio di anni fa, in occasione dei suoi 18 anni, fu sorpreso insieme a un altro gruppo di coetanei a lanciare sassi contro una pattuglia dei carabinieri nel quartiere Valle Aurelia. È stato condannato.

Poi c’è Biagio Passaro, il leader del movimento IoApro, l’associazione dei ristoratori più intransigenti che vorrebbero aprire tutto perché, dicono, stanno perdendo troppi soldi. Infine c’è l’organizzatrice della manifestazione Pamela Testa: basta scorrere il suo Facebook per vedere quanto ami Fiore e Castellino.

Ora, cara Giorgia Meloni, è chiara la matrice?

Buon lunedì.

 

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Laika: Mimmo Lucano, il sindaco che insegnava la bellezza alla gente

Una dea della giustizia quasi picassiana, da qualche giorno, campeggia in via Beatrice Cenci a Roma, vicino al ministero di Giustizia. È bendata e dal braccio spezzato precipita la bilancia. Con il titolo Iustitia? è comparsa all’alba, come un grido di dolore e di sgomento per quanto è accaduto all’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano, condannato a 13 anni in primo grado, per irregolarità come – in terra di ’ndrangheta e di quotidiane, gravi, malversazioni – aver affidato direttamente la raccolta dei rifiuti ad una cooperativa locale che la faceva con un asinello e aver aiutato dei migranti.

L’immagine realizzata da Laika parla da sola. Ma abbiamo voluto raccogliere qui anche le sue parole, insieme a quelle di Ascanio Celestini, di Moni Ovadia e di altri artisti, come lei impegnati nell’arte e nel sociale.

Laika cosa pensa della condanna che è stata inflitta a Mimmo Lucano?
Credo che siano sufficienti le parole del pm, Luigi D’Alessio. Lui stesso, come accusatore, ha detto che non è soddisfatto della sentenza per tutti gli anni di pena comminati. Già questo dà la misura di qualcosa di quantomeno poco chiaro. Il punto è questo: Mimmo Lucano ha agito a fin di bene, per tenere vivo un paese come Riace, sostenere i più deboli, mostrare ed attuare un modello di integrazione reale e funzionante. Mimmo Lucano è colpevole di “crimini” a favore dell’umanità e di non essersi mai girato dall’altra parte. Una condanna di questo genere è una mazzata innanzitutto per lui e poi per tutti quelle persone che lavorano quotidianamente per una società migliore. Non posso sapere cosa abbia portato a questa sentenza ma è indubbio che ci sia un pesante giudizio politico dietro.

Perché chi fa accoglienza in modo laico e parla di un altro mondo possibile, di pace e di convivenza, fa così tanta paura?

Viviamo in una nazione in cui tutti i partiti, da destra a sinistra, hanno criminalizzato il fenomeno delle migrazioni, come se non fosse una delle cose più naturali della storia umana. Dagli accordi con la Libia di Marco Minniti (Pd) ai porti chiusi del leghista Matteo Salvini nessuno dei partiti che si sono succeduti al governo si è mai distinto per discontinuità sul tema. Si riempiono la bocca di discorsi sull’aiutare le donne afgane ma quelle stesse donne quando cercano di entrare in Europa vengono lasciate per anni a rimbalzare tra Croazia e Bosnia. Purtroppo elettoralmente la deriva securitaria paga, purtroppo fanno più presa gli “immigrati cattivi” che le realtà positive e funzionanti come Riace. Di conseguenza si colpiscono queste realtà perché entrano in contrasto con la narrazione imperante.

Ha scelto di realizzare la sua nuova opera vicino al ministero di Grazia e giustizia per dare un messaggio forte…

Mi sembrava il luogo più adatto per testimoniare il suicidio della Giustizia stessa. Sarebbe stato anche calzante modificare la scritta sopra la facciata del ministero in “Dis-grazia e In-giustizia”. Magari la prossima volta.

La cd. trattativa Stato/mafia viene derubricata a fatto “normale”, un sottosegretario leghista qualche mese fa voleva cancellare il nome di Falcone e Borsellino da un parco pubblico sostituendolo con quello del fratello di Mussolini e intanto si punisce chi, come Mimmo Lucano, la mafia l’ha sempre combattuta. È il mondo alla rovescia?

Partiamo da una premessa: in Italia ci sono tantissimi giudici e magistrati che fanno un lavoro eccezionale, in alcuni casi mettendo a rischio loro stessi. È chiaro però che molte sentenze, come quella di cui si parla qui, ma anche altre, non fanno che minare la fiducia nel sistema giudiziario. Tra l’altro, per parlare della trattativa Stato-mafia, la sentenza è riuscita a far quasi dimenticare che Dell’Utri è stato in precedenza condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Purtroppo in tanti hanno la memoria troppo corta.

Cosa può fare l’arte e in particolare l’arte di strada per creare consapevolezza pubblica?

Rispondo con le parole di Peppino Impastato: «Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore». Questo dovrebbe essere l’obiettivo dell’arte.


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Shahrbanoo Sadat: In fuga da Kabul, noi orfani di libertà

L’incontro con Shahrbanoo Sadat è al termine della proiezione del film Orphelinat al Festival di Villa Medici a Roma. La nota regista è riuscita a fuggire con alcuni membri della sua famiglia da Kabul, dopo l’insediamento dei talebani nella capitale. Di passaggio a Roma, si recherà ad Amburgo, dove risiede ed ha la sua casa di produzione, ma ci racconta qualcosa del suo lavoro, dei suoi sentimenti, del suo Paese.

Orphelinat è del 2019, ci può raccontare come è nata l’idea di questo film che ad oggi non ha perso nulla della sua freschezza ed intensità?
Ho realizzato Orphelinat nel 2019, ma il progetto risale al 2014 con due stesure di sceneggiatura, che precedono il mio film d’esordio Wolf and sheep del 2016 (Act Cinema Award alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes del 2016, ndr). Ero rimasta colpita dalla vicenda sin dal 2011, quando il carissimo Anwar Hashimi la condivise con me, parlandomene in modo dettagliato. Dopo si è messo a scrivere 800 pagine, che ora siamo in procinto di pubblicare. Ebbene, quella storia mi ha colpito in un modo…. Non può capire quanto sia stato emozionante! Innanzitutto il modo di scrivere era semplice, bello, onesto, politico e personale al tempo stesso. Seconda cosa, era uno sguardo sul passato dell’Afghanistan, un passato che io non conoscevo. Terzo aspetto, ogni cosa avvenuta allora era molto simile a ciò che stava accadendo di fronte a me. A quel punto, ho compreso che era quello il film che dovevo fare e l’opera mostra contiguità e contatti anche con quello che oggi sta vivendo il mio Paese. Alla Quinzaine des Réalisateurs ricordo che parlai del ridicolo progetto di pace che gli Stati Uniti stavano imbastendo con i talebani e nessuno capiva di cosa parlassi. La storia si ripete nel tempo. Ecco perché è importante conoscere il passato.

Che tipo di lavoro ha fatto sulla sceneggiatura e con i suoi giovani attori?
È stata una sfida scrivere la sceneggiatura. Avevo le 800 pagine di Anwar di fronte a me e dovevo farle diventare un film. Anwar ha vissuto in un orfanatrofio sovietico per circa otto anni. Un numero incredibile di luoghi, nomi, eventi. Io dovevo concentrarmi sul rendere il tutto più semplice e breve. Così ho preso la storia di Anwar e ho cercato di farla mia in molti modi. Il mio film non è completamente basato sul lavoro di Anwar, ma al suo lavoro si deve molta dell’ispirazione che lo sostiene come ho scritto nei credits. Quanto ai ragazzi, diciamo che è stata la…


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“Islam first”. L’università al tempo dei talebani

A student sits inside a classroom after private universities reopened in Kabul on September 6, 2021. - Women attending private Afghan universities must wear an abaya robe and niqab covering most of the face, the Taliban have ordered, and classes must be segregated by sex -- or at least divided by a curtain. (Photo by Aamir QURESHI / AFP) (Photo by AAMIR QURESHI/AFP via Getty Images)

«Le cose sono irrimediabilmente cambiate, l’università è diventata un luogo silenzioso e cupo». Nella penombra di una stanza, il professor Noorhullah, docente di Economia all’ateneo di Kabul, parla della situazione dopo aver tentennato per giorni prima di accettare l’intervista. C’è grande paura e c’è il sospetto che chiunque possa denunciarti ai talebani per una qualunque nuova violazione della sharia. Ma l’esigenza di raccontare come è cambiato in trenta giorni l’Afghanistan è troppo importante. E allora il professore spiega che per giorni le aule del campus della capitale sono rimaste deserte e poi si sono pian piano ripopolate, ma solo di ragazzi. Le lezioni sono state sospese e sono riprese solo da pochi giorni, perché nel frattempo un comitato, di cui non si sa esattamente chi faccia parte, ha voluto verificare tutti i programmi. «Sono state sottoposte al vaglio soprattutto le materie economiche e di scienze politiche» dice il docente «ma c’è aria di altri grossi cambiamenti e non in meglio».

Parole profetiche, perché esattamente dodici ore dopo alla stampa internazionale viene comunicato che il nuovo rettore dell’Università di Kabul Mohammad Ashraf Ghairat ha vietato l’accesso all’ateneo a studentesse e insegnanti donne. «Finché un vero ambiente islamico non sarà garantito per tutti, alle donne non sarà permesso di venire all’università o di lavorarci. Islam first». La dichiarazione è un “capolavoro” della nuova strategia comunicativa dei talebani 2.0, che rimpasta il vecchio fanatismo religioso con gli slogan nazionalisti dell’Occidente. L’«America first», di Trump. Il «prima gli italiani» di Salvini e Meloni. Un tocco dalla genialità agghiacciante, che fa arrivare ai media internazionali il loro messaggio oscurantista, ma con le nostre parole. Ma Ghairat fa ancora di più. Attraverso Twitter lancia lo slogan trumpiano «Make Kabul University great again» e spiega meglio quali sono le nuove direttive. «A causa della carenza di docenti donne, stiamo lavorando a un piano affinché i docenti maschi possano insegnare alle studentesse da dietro una tenda nelle classi. In quel modo verrebbe creato un ambiente islamico che permetterebbe alle studentesse di studiare». Fino ad allora le donne non potranno studiare, né lavorare. «Io un giorno mi sono coperta con il burqa e sono entrata al campus – ha raccontato Fawzia – volevo vedere con i miei occhi, sebbene velati, com’era la situazione e mi sono venute le lacrime. Un problema se piangi con il volto coperto e due kg di stoffa addosso. Ma sono andata via subito, mi sentivo in pericolo, sono corsa a casa e anche una volta chiusa la porta alle mie spalle, ho avuto la sensazione di…


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