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A proposito di accanimenti giudiziari

The human rights and environmental activist Carola Rackete is standing at the occupied Dannenroeder Forst in Dannenrod, Germany, Tuesday, Sept.29, 2020. Rackete supports the forest squatters and wants to stay in the camp for the time being. For a year, hundreds of activists have been occupying the forest to protest against its imminent clearing for the continued construction of the Autobahn 49. (Boris Roessler/dpa via AP)

Se avete del tempo da buttare via fatevi un giro sulle pagine dei quotidiani e dei siti di certa destra sovranista e patriottica (sì, lo so, ci vuole stomaco forte ed è sconsigliato di prima mattina) e leggete gli articoli scandalizzati per l’archiviazione di Carola Rackete. Il procuratore Luigi Patronaggio ieri, 19 maggio, ha chiesto l’archiviazione perché la comandante avrebbe agito per stato di necessità: aveva il «dovere di portare i migranti in un porto sicuro», non potendo più garantire la sicurezza a bordo delle 42 persone soccorse 17 giorni prima, e che l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini non voleva far sbarcare. Per i giornalisti cantori di Salvini e Meloni la comandante ovviamente è stata “salvata”, “graziata” o peggio “premiata”: ovviamente nessuno di loro è sfiorato dal dubbio che l’applicazione della legge preveda il dovere di salvare le persone e di portarle in luogo sicuro. Ne scriviamo da anni ma non gli entra proprio in testa.

Eppure se ripensate al rumore di fondo sembra che siano state decine le Ong e gli equipaggi condannati per irregolarità durante le operazioni di soccorso, continuando a confondere le accuse con le sentenze, gli articoli con le condanne.

Un fatto è certo: abbiamo assistito in questi ultimi anni a un crescente tentativo di criminalizzazione della solidarietà che ha accompagnato una certa retorica cattivista e se mettiamo in fila i processi imbastiti con i risultati (non) ottenuti sono numeri che fanno spavento.

A aprile 2017 Sea Watch viene accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina dalla Procura di Palermo. Nel giugno del 2018 arriva l’archiviazione.

A maggio del 2017 sempre per lo stesso reato vengono indagate e accusate le Ong Open Arms (con la nave Golfo Azzurro) e Jugend Rettet. Anche in questo caso a giugno del 2018 subentra l’archiviazione.

Ad agosto del 2017 le Procure di Catania e di Trapani accusano di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di associazione a delinquere la Ong Jugend Rettet con la nave Iuventa. La nave è sotto sequestro da 43 mesi (43!). Nel 2018 è stata stralciata l’associazione a delinquere.

A marzo 2018 tocca a Open Arms, vengono indagati il capitano e altri 2 membri dell’equipaggio per favoreggiamento immigrazione clandestina (a Ragusa) e associazione a delinquere (a Catania). Nave sequestrata e poi dissequestrata. Indagine archiviata a Catania nel maggio del 2019.

A novembre 2018 tocca a MSF/SOS Med (con la nave Aquarius) accusata di traffico illecito di rifiuti a Catania. 

A gennaio 2019 Sea-Watch (con la nave Sea-Watch 3) viene accusata di favoreggiamento immigrazione clandestina. Archiviata.

Marzo 2019: la Ong Mediterranea (con la nave Mare Jonio) viene accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e disobbedienza a ordine militare. Nave sequestrata. Com’è finita? Archiviazione.

Maggio 2019: sempre Ong Mediterranea con la loro Mare Jonio, sempre la solita accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. 

A maggio del 2019 viene accusata anche Sea-Watch (Sea-Watch 3) sempre per lo stesso reato.

A giugno 2019 Sea-Watch (Sea-Watch 3) viene accusata di nuovo. È il processo archiviato ieri.

A luglio 2019 tocca a Mediterranea (nave Alex): nave sequestrata a luglio e dissequestrata a febbraio dell’anno successivo.

Ad agosto del 2019 tocca a Open Arms: accusata di rifiuto e omissione di atti d’ufficio. Sequestro della nave e poi dissequestro.

A settembre 2019 tocca a Mediterranea (Mare Jonio) e Mission Lifeline (Eleonore): navi sequestrate e dissequestrate. Accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Poi ci sono 6 (6!) fermi amministrativi senza nessuna accusa penale.

Poi c’è la vicenda della Mare Jonio a marzo del 2021 con l’accusa di favoreggiamento immigrazione clandestina e pagamento di 125.000 euro per prendere a bordo migranti da Maersk Etienne (Procura di Ragusa).

Condanne? Nessuna. Dal 2017 sono state almeno 20 le inchieste contro Ong: 8 archiviazioni. 2 rinvii a giudizio. Nessuna condanna.

Ognuno può trarre le sue conclusioni.

Buon giovedì.

(grazie a Ispi per la raccolta dei dati)

L’età della resistenza

Nuove generazioni a confronto: nella crisi della politica istituzionale potrebbe essere questo il punto di partenza per comprendere la natura dell’escalation israelo-palestinese che da Gerusalemme si è allargata alla Cisgiordania, a Gaza e nelle città israeliane.

Se l’operazione militare israeliana contro la Striscia appare il solito terribile sfogatoio della classe dirigente politica e militare di Tel Aviv, quello che accade per le strade gerusalemite e israeliane è la vera novità.

Le ronde anti-arabe, gli incendi appiccati dai palestinesi cittadini israeliani alle auto degli ebrei, le aggressioni alle case e ai residenti palestinesi da parte di gruppi dell’estrema destra israeliana e dei coloni giunti dalla Cisgiordania nelle città di Led, Tel Aviv, Haifa, Jaffa, raccontano un confronto che si sta spostando alla base.

I protagonisti sono i giovani, palestinesi e israeliani. Generazioni nuove che hanno in comune un elemento: sono entrambe “generazioni post-Oslo”. Termine usato in senso spregiativo ed erroneo per categorizzare i giovani palestinesi nati dopo il 1993 e gli accordi tra Israele e Olp, oggi è applicabile a entrambe le società.

La realtà demografica parla chiaro: gli adolescenti, i ventenni e i trentenni palestinesi e israeliani sono la maggioranza nel territorio che dal mar Mediterraneo corre fino al Giordano. Sono nati e cresciuti dopo la prima Intifada del 1987 e in moltissimi casi dopo la Seconda, del 2000.

Nel caso palestinese si tratta di persone che hanno conosciuto solo la divisione fisica del proprio popolo. Sono nati insieme al Muro e ai checkpoint che hanno separato i territori palestinesi e costretto a ricorrere a rari permessi per spostarsi da un’enclave all’altra. Una divisione che le autorità israeliane hanno saputo coltivare con maestria, separando i palestinesi in spazi geografici con diversi status legali: diverse forme di occupazione producono diverse priorità e dunque diverse resistenze.

Ma il trucco non è riuscito. A guidare le proteste a Gerusalemme, nel quartiere di Sheikh Jarrah e sulla Spianata delle Moschee, e poi dentro le città israeliane, sono i giovani senza partito. Un movimento popolare spontaneo:

«Di fronte abbiamo una generazione che ha vissuto gli ultimi 20-25 anni sotto un’occupazione israeliana soft – ci spiega Mahmoud Muna, scrittore e libraio alla American Colony, in riferimento alla mobilitazione a Gerusalemme e dentro Israele -. Soft perché non è fatta di violenza fisica ma di pratiche quotidiane di discriminazione e umiliazione. Nella Palestina ’48 (lo Stato di Israele, ndr) inoltre parliamo della terza generazione di palestinesi cittadini israeliani. La prima generazione era composta dai sopravvissuti alla Nakba, la catastrofe del 1948, erano felici di essere ancora lì e tanto bastava; la seconda era preoccupata dal costruirsi un futuro e non ha affrontato le politiche israeliane di discriminazione istituzionalizzata. Questa terza generazione è consapevole di vivere in un Stato che li discrimina e sta reagendo».

«Siamo rimasti sorpresi – continua Muna – perché a fronte di una divisione tra enclavi…»


L’articolo prosegue su Left del 21-27 maggio 2021

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SOMMARIO

«Lì ho capito cosa significhi resistere»

Vent’anni fa sono andato in Palestina più precisamente a Al-Ramadin un piccolo villaggio di beduini a qualche chilometro dalla green line, il confine imposto da Israele. Al di là del filo spinato c’è Be’er Sheva città israeliana, lì vivevano i beduini prima di essere costretti all’esodo verso terre aride. Qui esiste il museo del beduino perché per gli israeliani loro non esistono più.

Siamo arrivati qui per un campo estivo con i bambini, al nostro arrivo troviamo le strade distrutte dai bulldozer, tutti i villaggi palestinesi di quella zona sono stati isolati per non permettere la libera circolazione. È la reazione allo scoppio di una bomba dentro un autobus a Be’er sheva.
Scendiamo dall’auto e percorriamo gli ultimi chilometri a piedi, all’arrivo troviamo tantissimi bambini che ci accolgono con occhi felici, sono ovunque ogni tanto appare un adulto che passeggia per la strada e le pecore che brucano tra i sassi e la sabbia alla ricerca di qualche radice.
Qui l’acqua è poca, quando le cisterne si vuotano si va dagli israeliani per comprarla. Decidono loro quando e quanta ne poi prendere. Le riserve idriche, un tempo palestinesi, ora sono completamente in mano a loro.

La luce elettrica non esiste, quando viene il buio ogni casa accende un piccolo generatore e per un paio d’ore si cena e si chiacchiera con la televisione accesa. Poi arriva il buio e in lontananza vedi le colonie israeliane illuminate a giorno per tutta la notte e incominci a sentire gli spari.
Di notte i palestinesi scavalcano la green line per andare in Israele a lavorare come manovali e dalle colonie parte il tiro al bersaglio, sparano ai loro lavoratori.
Un giorno ho incontrato un ragazzo che tornava in paese con un asino, all’alba era partito per andare all’università a Hebron. Solitamente ci si va in auto, in venti minuti sei in facoltà, ma con le strade devastate non si può. La sua forma di resistenza era andare, nonostante tutto, a studiare. Un paio d’ore su l’asino all’andata e un paio al ritorno, per farne un paio di lezione.

Lì ho capito bene cosa significa fare resistenza.
Una sera il capo villaggio ci ha portato a un matrimonio. Nonostante il coprifuoco non si poteva rifiutare, eravamo gli ospiti d’onore. Ovviamente si è fatto tardi e al ritorno con le auto abbiamo attraversato il deserto in piena notte. All’improvviso si accendono delle luci, posto di blocco. Scendono quattro ragazzi diciottenni armati fino ai denti, ci puntano i fucili ad altezza petto. Il capo villaggio inizia a urlare: “Siamo arabi buoni!!”, il diciottenne replica: “Non esistono arabi buoni, stai zitto.”
Dai passaporti si accorgono che siamo italiani e uno dice: “Italia, Roma, football Lazio!” E in contemporanea alza il braccio e fa il saluto fascista. Dopo un’ora ci liberano, ripartiamo e raggiungiamo casa.

L’ultimo giorno i bambini ci accompagnano fino alla strada devastata dal bulldozer, ce ne andiamo fra le lacrime, la separazione non è stata facile. Camminiamo con i bagagli sotto il sole e arriviamo disidratati all’auto che ci aspetta in mezzo al deserto. Dopo qualche chilometro entriamo in Israele e ci fermiamo a un autogrill per prendere dell’acqua, all’interno troviamo dei ragazzi in infradito, costume e occhiali da sole, scherzano e bevono, la musica è alta. Non riusciamo nemmeno a comprare l’acqua, usciamo, senza dirci nulla scoppiamo in lacrime. I bambini di Al-Ramadin non hanno mai visto il mare nonostante sia a pochi chilometri.

Qualche tempo fa mi arriva un messaggio su Facebook: “Hi, do you remember me?”

Nonostante i vent’anni passati la riconosco è Fatima, al tempo bambina durante il campo estivo.
“Everyone I fine, what about you? It is a picture with wonderful memories inside. I hope we will meet again!”
Fatima si è laureata, è diventata insegnante, vive a Ramallah è stata assunta in una scuola. I suoi genitori sono rimasti a Al-Ramadin, ancora una volta stanno rischiando di perdere tutto. Israele ha deciso di annettere le restanti terre del deserto del Sinai e sta cercando di provocare una guerra civile tra i palestinesi per facilitare il processo di annessione.
“They want to seize all areas, even if they are forced to cause a war for this, but we Palestinians will reject it with full force and we will create a new Intifada”.

*L’autore: Matteo Parisini è documentarista, autore del doc sullo ius soli “Il nostro Paese

Perché il processo a Mimmo Lucano è “politico”

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 30-01-2019 Roma Politica Conferenza stampa sulla chiusura della campagna di raccolta firme per la candidatura di Mimmo Lucano e del Comune di Riace al Premio Nobel per la pace 2019 Nella foto Mimmo Lucano durante la conferenza stampa nella redazione di Left Photo Roberto Monaldo / LaPresse 30-01-2019 Rome (Italy) Closing of the Campaign for the assignment of the Nobel Prize to Riace In the photo Mimmo Lucano

Alla fine arriverà la sentenza e da lì potremo provare a trarre alcune conclusioni ma il processo “Xenia” a Mimmo Lucano sulla gestione dei progetti di accoglienza dei migranti a Riace presenta alcune singolarità che vale la pena raccontare, almeno per diradare la nebbia che certi giornali stanno spostando in giro, trasformando come al solito le richieste di condanna dei pm in una sentenza, basandosi su un’ignoranza giudiziaria che torna comoda a chi fomenta la politica con il tintinnare di manette.

Primo aspetto curioso, fuori dal tribunale di Locri: i sempiterni garantisti su Lucano appaiono piuttosto timidi, svelandosi ancora una volta garantisti a fase alterne, garantisti con gli amici e indifferenti (se non addirittura giustizialisti) con i nemici, tanto per rimarcare ancora una volta quanti danni al garantismo abbia fatto la collusione travestita da garantismo.

Il procuratore Luigi D’Alessio (che ha aperto con il pm Michele Permunian la requisitoria con cui la Procura di Locri ha richiesto 7 anni e 11 mesi di carcere per l’ex sindaco di Riace e 4 anni e 4 mesi alla sua compagna Lemlem Tesfahun) ci ha tenuto a spiegarci che questo non è un processo politico: «Nel corso di questi anni – ha detto intervenendo in aula – si sono succeduti ben quattro governi. Personalmente ho anche incontrato i massimi rappresentanti di questi governi, da Renzi a Salvini, ma mai è venuta alcuna pressione sulle indagini». Fingiamo di non essere interessati ai contenuti degli incontri del pm con Renzi e Salvini e vediamo invece quale sarebbe secondo la procura il movente di questi terribili reati. I soldi? No, evidentemente no. Inchiesta e processo non sono riusciti nemmeno lontanamente a dimostrare che Lucano si sia appropriato di un singolo centesimo.

E allora? In netta difficoltà la Procura ha estratto dal cilindro l’ipotesi del movente politico-elettorale. Già nell’ottobre 2019 il colonnello Sportelli, in mancanza di soldi, aveva fatto intendere che l’idea di Lucano fosse quella di candidarsi alle elezioni politiche del 2018 (come se candidarsi da liberi cittadini poi fosse un reato) e quindi non perdere voti. Sentito in aula il colonnello elencò i terribili poteri forti dietro a Lucano: i voti dei Tornese (una famiglia di Riace), dell’associazione Riace Accoglie e della cooperativa sociale Girasole. In effetti se ci pensate tutti voti indispensabili per arrivare in Parlamento. Ma quale sarebbe la “prova”? Una telefonata di Lucano a suo fratello in cui tra le altre cose dice «quasi quasi mi candido». Capito che diabolico disegno? Ma c’è un altro punto sostanziale: Lucano ha rifiutato candidature alle elezioni europee e alle elezioni politiche e poiché non si possono processare le intenzioni il disegno della Procura è miseramente caduto. E quindi? Lo scorso aprile il pubblico ministero Michele Permunian ha un’illuminazione quando legge un’intervista in cui Lucano annuncia la sua candidatura nella lista di De Magistris per le prossime elezioni regionali in Calabria: «L’annunciata candidatura alle regionali di Mimmo Lucano nella lista di Luigi De Magistris confermerebbe le sue reali ambizioni politiche», dice l’accusa. In pratica la candidatura di oggi dovrebbe dimostrare la bontà delle intercettazioni di anno fa che non hanno retto alla prova dibattimentale. Una tesi che sembra un delirio: non si processano gli atti contestualizzati e circoscritti ma si processa la personalità dell’imputato e, di rimbalzo, la sua visione politica.

C’è un altro pezzo che molti giornali si sono dimenticati di raccontare: Lucano è sotto processo pure per abuso d’ufficio, truffa, falsità ideologica, turbativa d’asta, peculato e malversazione a danno dello Stato, tutti reati per i quali il gip Domenico Di Croce, nell’ottobre 2018, aveva rigettato la richiesta di arresto della Procura sottolineando «la vaghezza e la genericità del capo d’imputazione». Nell’aprile 2019 la Cassazione aveva ripreso la Procura anche sui “presunti matrimoni di comodo” tra immigrati e cittadini italiani che sarebbero stati “favoriti” dal sindaco. Nel fascicolo del processo, aprite bene le orecchie, non c’è un solo matrimonio celebrato a Riace. Ce n’è uno bloccato proprio da Lucano. L’accusa «poggia sulle incerte basi di un quadro di riferimento fattuale non solo sfornito di significativi e precisi elementi ma, addirittura, escluso da qualsiasi contestazione formalmente elevata in sede cautelare», scrive la Cassazione. Il Riesame di Reggio Calabria, da canto suo, scrisse di «quadro indiziario inconsistente» e «un’assenza di riscontri alle conclusioni formulate dall’ufficio di Procura, fondate su elementi congetturali o presuntivi».

Un altro punto: il giudice Fulvio Accurso durante il processo ha chiesto più volte agli investigatori se ci fosse indizi del fatto che l’accoglienza a Riace fosse portata avanti «per lo specifico fine di avvantaggiare sé stesso», cioè di Lucano. La risposta degli investigatori è netta: «Se parliamo da un punto di vista economico, no»·

Ecco, vedete che raccontato così ha tutto un altro aspetto questo processo? Attendiamo la sentenza.

Buon mercoledì.

 

Cile, la destra sconfitta alle urne non potrà condizionare la nuova Costituzione

17 maggio 2021. Da poco è scoccata la mezzanotte a Santiago del Cile. Con le urne chiuse da qualche ora, i dati dello spoglio dell’elezione dell’assemblea costituente delineano uno scenario che né la maggioranza né l’opposizione avevano previsto. Un grigio Sebastián Piñera, accompagnato dai membri del suo Gabinetto, esce dalle stanze della Moneda e si reca verso i microfoni adibiti per una conferenza stampa all’aperto per rilasciare una dichiarazione ufficiale.

«Non siamo in sintonia con le richieste dei cittadini e siamo sfidati da una nuova leadership». Questo è uno dei primi commenti a caldo del presidente della Repubblica. Poche parole ma che esprimono un significato chiaro di questa elezione: dei 155 seggi di cui si comporrà l’Assemblea costituente, la destra riunita nella lista “Chile vamos”, fortemente voluta da Piñera, ha ottenuto solo 37 seggi. È la vera sconfitta di questa tornata elettorale.

Per quanto riguarda i partiti tradizionali di opposizione, la lista “Apruebo” – formata dalle forze di centrosinistra che hanno governato il Paese dal 1990 al 2010 – ha conquistato 25 seggi; mentre la lista “Apruebo dignidad”, composta dal Partito comunista e dal Frente amplio ha raggiunto i 28 seggi.

I grandi vincitori sono proprio quei cileni che il presidente cileno definisce “nuova leadership”. Cittadini e cittadine della società civile che hanno deciso di candidarsi in liste indipendenti di sinistra, ottenendo 48 seggi su 155. In particolare la “Lista del pueblo”, composta per lo più da sconosciuti che hanno cominciato ad organizzarsi a seguito delle proteste del 2019, è riuscita a conquistare da sola 27 seggi.

Ma al di là del risultato, queste liste sono state forse l’elemento più inedito dell’elezione della Costituente. Delle 1191 candidature generali, il 60% sono state indipendenti.

Va fatta però una distinzione tra questi: alcuni si sono presentati nelle liste dei partiti (20%); altri in vere e proprie liste create ad hoc (38%); e una piccola minoranza, infine, fuori da ogni lista (2,4%). La presentazione di queste candidature è stata facilitata dalle leggi 21.216 e 21.296, che hanno ridotto i vincoli del numero di firme per consentire ai cileni non legati ai partiti di partecipare alle elezioni.

Ora, si può sostenere che la partecipazione indipendente è senza dubbio il riflesso di una cittadinanza che ha voglia di sentirsi protagonista del processo costituente. Ma è anche la rappresentazione plastica di un certo sentimento di sfiducia verso i partiti e la politica politicante.

Lo avevamo visto nei mesi di protesta del 2019 e anche durante il plebiscito dell’ottobre scorso, in cui la grande maggioranza dei cileni (quasi l’80%) si è opposta all’idea di scegliere una Costituente mista (per metà composta da membri nominati o provenienti dal parlamento). Ma lo si vede ancora adesso, soprattutto nei confronti della maggioranza e del presidente della Repubblica, Sebastian Piñera.

Molti chiedono le sue dimissioni, perché è percepito come il principale responsabile della delicata situazione sociale ed economica che sta vivendo il paese. Inoltre, su Piñera grava una pesante accusa per la violazione dei diritti umani durante le proteste del 2019: a fine aprile, la Commissione cilena dei diritti umani, l’Associazione americana dei giuristi e l’italiano Centro di ricerca ed elaborazione per la democrazia hanno inviato un documento alla Corte penale internazionale con il quale si chiede di avviare un’indagine nei confronti dell’inquilino della Moneda.

La Convenzione è in procinto di cominciare il suo lavoro, ma è importante che le piazze non allentano la tensione. Perchè dalle richieste emerse dalle manifestazioni dovrà prendere corpo un nuovo patto sociale. Nuovo perché, nonostante le riforme costituzionali del 1989 e 2005, l’impianto della vigente Costituzione rimane ancora neoliberale e neoliberista. Un sistema che non è più sostenibile per il popolo cileno, come è stato esplicitato dalla pandemia e raccontato da questo settimanale più volte.

I nuovi costituenti avranno dunque il difficile compito di redigere una nuova carta costituzionale, che potrebbe definitivamente rimpiazzare quella promulgata nel 1980 durante la dittatura Pinochet. Purtroppo è ancora troppo presto per dire che si avrà una carta magna del tutto nuova.
Una cosa è certa: dopo le proteste di piazza del 2019 e della vittoria schiacciante del sì nel plebiscito celebrato ad ottobre 2020, con l’elezione dell’Assemblea costituente si è fatto un ulteriore passo verso questo obiettivo.

Per invertire rotta è necessario anzitutto che l’Assemblea costituente ripensi il ruolo dello Stato. Un passaggio essenziale per colpire l’impianto della Costituzione del 1980. Uno dei principi fondamentali contenuti nell’attuale carta è il principio di sussidiarietà, che in Cile si è tradotto in Stato minimo, marginale, conferendo al privato un ruolo di primo piano in tutti gli aspetti della vita del cittadino: dall’istruzione alla sanità, dal sistema delle pensioni all’accesso all’acqua.

Bisognerà puntare su uno Stato sociale, che si faccia carico delle richieste provenienti dalle piazze. Va da sé che non vi è modello di Stato sociale senza la tutela dei diritti sopracitati e il riconoscimento costituzionale di “nuovi”.

Parliamo dell’accesso universale alla salute, oggi non menzionato nella Costituzione, la quale si limita a sancire il “diritto di scegliere tra sanità pubblica o privata”; parliamo del diritto all’accesso all’acqua, attualmente gestito dai privati, grazie a delle garanzie costituzionali che si fondano sul diritto di proprietà privata. Oppure, parliamo di diritti di uguaglianza tra uomini e donne e di protezione della natura. Centrale sarà anche la discussione in merito ai popoli originari che ancora non godono di alcuna tutela.

Si dovrà capire se si andrà verso la creazione di uno Stato plurinazionale o garantire a queste comunità un riconoscimento costituzionale. E’ tempo di conferire loro la giusta rappresentanza nel paese e inserirli nei processi di elaborazione e partecipazione politica. A proposito di quest’ultimo punto, negli ultimi anni si è sentita sempre più forte la necessità di introdurre strumenti di partecipazione dei cittadini e meccanismi di democrazia diretta, fondamentali per legittimare le decisioni delle autorità e per ripristinare la fiducia nelle istituzioni democratiche.

Questi sono solo alcuni dei temi che la Convenzione dovrà affrontare. La partita, come già detto al principio, sarà difficilissima.

Innanzitutto bisognerà capire che tipo di regolamento verrà votato e adottato dalla Convenzione, soprattutto per stabilire il funzionamento delle Commissioni che discuteranno quei testi che poi saranno presentati in plenaria. Inoltre, si dovrà tenere conto che, sia per approvare un singolo articolo che l’intera Costituzione, saranno necessari i ⅔ dell’Assemblea.

E allora si potrebbe dire: basta sommare i seggi ottenuti dagli indipendenti e dalle liste dei partiti tradizionali di centrosinistra e sinistra, per far sì che la Convenzione abbia una forte maggioranza progressista. Purtroppo, non è così semplice. Proprio questa maggioranza virtuale si è presentata, tra partiti tradizionali e indipendenti, in diverse liste. E soprattutto preoccupa la reticenza più volte manifestata, durante la campagna elettorale, da parte degli indipendenti a dialogare con i partiti.

Saranno dunque fondamentali tutte quelle personalità che avranno la capacità di unire queste due realtà e, allo stesso tempo, che riusciranno a negoziare con la destra per raggiungere accordi ed evitare che il processo costituente non produca un nuovo patto sociale.

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Silenzio libera tutti

Italy's Prime Minister Mario Draghi arrives for an EU summit at the Crystal Palace in Porto, Portugal, Saturday, May 8, 2021. On Saturday, EU leaders hold an online summit with India's Prime Minister Narendra Modi, covering trade, climate change and help with India's COVID-19 surge. (AP Photo/Francisco Seco, Pool)

«Non ho fatto una scelta sul nome del futuro presidente della Repubblica. Se Draghi diventasse presidente si andrebbe a votare, ma non ho elementi per dire che Fratelli d’Italia potrebbe sostenerlo. Cerco di valutare la sua figura, sicuramente autorevole, e dico che l’autorevolezza è una bella cosa ma va esercitata. All’interno del governo mi pare che Draghi penda di più dall’altra parte»: parole di Giorgia Meloni, aspirante leader del prossimo centrodestra, intervistata da Lucia Annunziata durante una delle sue tante ospitate in questo tour che sa molto di “operazione simpatia” per “normalizzare” anche la destra peggiore e per erodere i voti pop all’alleato Salvini.

Draghi pende un po’ a sinistra, secondo Giorgia Meloni che così puntella il presidente del Consiglio e lo sforzo di Draghi di non essere “di nessuna parte” per non interferire nel minuzioso lavoro di chi lo vorrebbe prossimo presidente della Repubblica si vede anche da lontano. Cosa sceglie Draghi per piacere a tutti? La via più facile, quella più naturale per chi ha interesse a non disturbare gli equilibri: il silenzio.

Così mentre ieri il presidente Mattarella ha celebrato la Giornata internazionale contro l’omofobia, la transfobia e la bifobia spiegando in un comunicato che «le attitudini personali e l’orientamento sessuale non possono costituire motivo per aggredire, schernire, negare il rispetto dovuto alla dignità umana» a Draghi invece non esce nessuna parola. «Ci sarebbe piaciuto che l’avesse detto anche il presidente del Consiglio, Mario Draghi. Mancano ancora un po’ di ore», ha detto ieri il presidente onorario di Arcigay Franco Grillini. Speranza vana.

Stesso silenzio sulla situazione israelo-palestinese, su cui Draghi balbetta finendo schiacciato sulle posizioni americane. Mentre i leader dei Paesi di tutto il mondo almeno si prendono il disturbo di dire qualcosa, seppure spesso con frasi di circostanza, Mario Draghi non dice per non scontentare nessuno illudendosi di accontentare tutti. Eppure è lo stesso Draghi che aveva orgogliosamente indicato Erdogan come dittatore: su Tel Aviv e Gerusalemme nulla. Stesso silenzio sulla possibile riforma della giustizia.

Fin dall’inizio ci siamo permessi di notare (e provare a fare notare) che questo governo sarebbe stato talmente ampio da risultare impolitico. Tocca perfino dare ragione a Salvini quando lascia intendere che questo governo, pur avendo l’appoggio di quasi tutti, non potrà fare le riforme. «Intanto  le riforme sono un problema di sistema, non tanto e solo Draghi. Poi, essendo questioni squisitamente politiche è difficile portarle avanti in una coalizione così indeterminata politicamente. Vanno fatte riforme di destra o di sinistra? Le differenze tra le posizioni dei partiti sono evidenti. O diciamo che esiste una visione che va bene a tutti oppure accettiamo l’esistenza di posizioni diverse che andrebbero legittimate dal voto», spiegava ieri il politologo Piero Ignazi in un’intervista a Huffington Post.

Mario Draghi è come quel compagno di liceo, che quasi tutti abbiamo avuto, che risultava misterioso perché non parlava mai e nessuno si accorgeva che non avesse niente da dire oppure che senza parlare avrebbe potuto essere potenzialmente d’accordo con tutti. Qualcuno scambia il silenzio per autorevolezza e applaude alla politica del presidente amministratore delegato che lascia la comunicazione all’ufficio marketing. E chissà se qualcuno prima o poi si accorgerà che questo governo, con il piano vaccinale che ora sembra a regime e con i compiti ben fatti già spediti all’Europa, sembra essere sul punto di esaurire il suo mandato. Per la gioia di Meloni e Salvini.

Buon martedì.

Fuori i malati mentali dal carcere

Cells at a prison in Tattenhall County, Georgia, circa 1940. (Photo by FPG/Hulton Archive/Getty Images)

Un ragazzo, un giovanissimo detenuto, è stato portato in un reparto di osservazione psichiatrica della Casa circondariale di Torino, dove vengono trasferiti i detenuti con patologie mentali: era un passo avanti rispetto al carcere. Ma nell’agosto scorso ha tentato il suicidio ed è stato trasferito in una cella liscia, assolutamente vuota per impedirgli atti di autolesionismo. Un intervento per cercare di salvargli la vita. Ma poi si è trovato nudo, steso in uno spazio necessariamente vuoto, senza neanche un materasso, senza acqua corrente, costretto a bere l’acqua del water, come hanno riferito i familiari agli attivisti dell’associazione Antigone. Non è l’unico caso.

La situazione delle persone condannate e con problemi psichiatrici in Italia è drammatica, nonostante l’impegno e il lavoro di psichiatri e psicoterapeuti che con grande impegno responsabilità lavorano in carcere quotidianamente, come abbiamo raccontato più volte su Left. La struttura carceraria e il codice Rocco di epoca fascista, che ancora la presiede, rendono difficile se non impossibile un coerente ed efficace percorso di cura. A questo già problematico quadro con la pandemia, come è noto, si sono aggiunti ulteriori problemi.

«Gli ospedali, come le carceri, durante la pandemia sono diventati necessariamente luoghi blindati», racconta Maria Antonietta Farina Coscioni promotrice insieme a Irene Testa e al Partito radicale dell’appello “Fuori i malati mentali dal carcere” rivolto alla ministra della giustizia Marta Cartabia e al ministro della Salute Roberto Speranza. L’appello, che era nato intorno al caso di Fabrizio Corona, è stato sottoscritto da moltissime personalità del mondo della scienza, della cultura, ma anche da molti rappresentanti politici di differente orientamento. «Un primo risultato è stato raggiunto: Fabrizio Corona è tornato ai domiciliari che gli spettavano, ma tantissimi altri detenuti senza nome restano ancora in attesa di una risposta», dice la radicale Irene Testa, fondatrice dell’Associazione il Detenuto ignoto. «Hanno diritto ad andare nelle Rems, ma i posti non sono sufficienti. Tanti sono in lista d’attesa e, intanto, restano in carcere, in luoghi inadatti alla cura». Di tutto questo il segretario del Partito radicale Maurizio Turco e la tesoriera Irene Testa hanno parlato la scorsa settimana con la ministra Cartabia che ha dimostrato forte attenzione al problema. Mentre scriviamo arriva la notizia di un incontro dei radicali con il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri per entrare più specificamente nel merito della questione dal momento che lui ha la delega alla sanità carceraria; un mondo di cui si parla poco sui media e di cui poco si sa.
Dall’appello “Fuori i malati mentali dal carcere” apprendiamo che nei 109 istituti di pena italiani il 78% dei detenuti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui per il 41% da una patologia psichiatrica. “Non ci sono dati ufficiali ma grazie al lavoro del terzo settore e dei sindacati di polizia penitenziaria si è a conoscenza che oltre il 50% dei detenuti assumono psicofarmaci”, vi si legge. Dall’ultimo rapporto dell’associazione Antigone del 2020 risulta che nei 98 istituti visitati, il 27% dei detenuti è in terapia psichiatrica (a Spoleto il 97%, a Lucca il 90% a Vercelli l’86%) e il 14% dei detenuti è in trattamento per
dipendenze. Dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) la normativa prevedeva che il carcere dovesse essere residuale per questo tipo di detenuti, per cui si sarebbe dovuto prediligere altri circuiti come le Rems, gli arresti domiciliari, le comunità per i tossicodipendenti.
Ma la realtà è ben altra. “Dal momento che le Rems non sono numericamente sufficienti, molti istituti di pena si sono attrezzati aprendo “repartini psichiatrici” che però non hanno il personale adatto”, denuncia Irene Testa. Gli agenti di polizia penitenziaria con tutta evidenza e, non per loro colpa, non hanno formazione specifica.
Occorrerebbe una maggiore presenza di psichiatri e psicologi, ma anche quando vanno a prestare servizio in carcere – come hanno ben spiegato gli psichiatri Claudia Dario Alessio Giampà e Francesca Padrevecchi su Left del 18 dicembre 2020 – devono affrontare molteplici ostacoli. Che si sono ulteriormente moltiplicati durante la pandemia. Per tutto questo periodo i detenuti si sono ritrovati del tutto isolati dall’esterno e minacciati dalla paura del contagio in carceri sovraffollate. “Durante l’emergenza Covid – spiega Maria Antonietta Farina Coscioni – sarebbe stato importante trovare il modo per proseguire i colloqui in sicurezza. Le relazioni umane dovevano essere garantite, seppur in una modalità diversa. Invece, per i detenuti non c’era telefono, non c’era internet, non c’erano tutti quelli strumenti che durante il lockdown hanno permesso a tutti noi di non perdere il rapporto con gli altri dialogando con il mondo nonostante il distanziamento fisico. I detenuti
sono stati privati di ogni forma di relazione”.
Anche se era una necessaria misura preventiva, indubbiamente ha aggravato la loro condizione. “Detto questo – precisa – abbiamo ben chiari i problemi sul campo, non siamo fuori dalla realtà. Ciò che abbiamo chiesto alla ministra della Giustizia e al ministro della Salute è un intervento mirato, per aiutare sia chi entra in carcere portandosi un bagaglio di malattia mentale pregressa sia chi la sviluppa durante la detenzione. Servono misure di
massima urgenza per portare i malati mentali in strutture residenziali adatte”.
Gli stessi arresti domiciliari potrebbero non essere adatti a tutti: “Ci sono casi di persone che hanno commesso reati in famiglia e certamente non potrebbero essere accolti in quel domicilio che era proprio il luogo della manifestazione del reato”. D’altra parte se i dipartimenti di salute mentale dovessero assorbire tutti i pazienti affetti da paralogie
mentali scarcerati, continua Farina Coscioni, “si verificherebbe una sorta di corto circuito perché non sono dotati di strutture adatte”.
Allora che fare? “Noi auspichiamo che ciò che ancora non c’è possa essere realizzato. Certamente non possiamo lasciare le persone con una sofferenza psichica in condizione di abbandono, senza cure appropriate, senza una adeguata presa in carico. Per una persona affetta da malattia mentale – sottolinea Farina Coscioni – stare in carcere è una doppia reclusione. La vita dietro le sbarre è scandita da una disciplina, da un tempo rigido, una mente disturbata trova ancor più difficoltà rapportarsi a tutto questo. Non possiamo ignorarlo”.
In questa condizione di reclusione, in chi ha fragilità, facilmente si possono innescare pensieri suicidari. L’alto numero dei suicidi in carcere ci obbliga a riflettere. Nel 2019 ne sono avvenuti 53 e sono saliti a 61 nel 2020. La media italiana di suicidi in rapporto alla popolazione carceraria è più alta di quella della Ue. Inoltre sono più di 10mila i casi di autolesionismo che si registrano ogni anno. Molte associazioni che si occupano di carcere
denunciano mancanza di cure psichiatriche adeguate, che non si limitino solo alla somministrazione di psicofarmaci.
Ma c’è anche un problema di marcata prevenzione. “Questa della prevenzione è una questione chiave che non riguarda solo il carcere”, commenta Maria Antonietta Farina Coscioni allargando il discorso a tutta la società e alla crisi sanitaria che stiamo ancora attraversando. “Gli interventi medici sono essenziali per far fronte alla malattia conclamata, ma per la prevenzione della salute mentale sono importanti anche le reti sociali. La lotta alla patologia mentale riguarda individui, famiglie, la collettività. La prevenzione si realizza anche attraverso il potenziamento dei fattori protettivi, riducendo i fattori di
rischio. Le scuole, i posti di lavoro, gli ambienti dove le persone trascorrono gran parte del proprio tempo sono i luoghi dove poter intervenire. Serve una nuova visione culturale per far interagire la dimensione sanitaria con i bisogni e a le esigenze che emergono sul territorio”. “Non è una battaglia facile questa. Penso che ci vorranno anni per un cambio di mentalità – conclude Irene Testa. Ma poteva essere una buona occasione anche questa del Recovery Plan. Purtroppo sulla salute mentale non si prevede niente. Non ci sono progetti destinati a questo”. L’Italia dedica misure insufficienti ad un ambito così importante
come il benessere psico-fisico dei cittadini. “In Italia si investe per il settore della salute mentale solo il 3,5% del budget della sanità pubblica, mentre altri Paesi, come Germania Francia e Gran Bretagna, arrivano anche al 10%”, precisa Testa. “In generale investiamo poco e niente sulla salute mentale e ora c’è da affrontare anche l’impatto anche psicologico che ha avuto il Covid. Poteva essere una svolta utilizzare i fondi europei nell’ambito della salute mentale”.

 


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Là dove il vaccino ancora non c’è (e forse non ci sarà mai)

Government health workers visit riverside communities of the municipality of Melgaco to test them for COVID-19 coronavirus infections in the Marajoara region, located in the southwest of the island of Marajo, at the mouth of the Amazon River in the state of Para, Brazil, on May 23, 2020. (Photo by Tarso SARRAF / AFP) (Photo by TARSO SARRAF/AFP via Getty Images)

«In un contesto di rimozione del blocco alle esportazioni, vedo con favore la proposta del presidente Biden» di sospendere i brevetti sui vaccini anti Covid. «Siamo di fronte a un evento unico: milioni di persone che non sono in condizione di acquistare i vaccini stanno morendo. Le case farmaceutiche hanno ricevuto finanziamenti enormi dai governi, e a questo punto ci sarebbe quasi da aspettarsi che ne restituissero almeno una parte a chi ha bisogno».
A pronunciare queste parole non è stato un leader dei movimenti di sinistra altermondialisti, bensì un più moderato Mario Draghi durante il Vertice sociale di Porto dello scorso 7 maggio, precisamente durante la cena informale tra leader Ue, secondo quando raccolto dai giornalisti presenti.

«Persone che conoscono bene la materia mi dicono che una misura temporanea e ben congegnata non rappresenterebbe un disincentivo per l’industria farmaceutica», ha poi proseguito il premier. Parliamo di una misura richiesta a gran voce dai promotori della campagna europea No profit on pandemic, sostenuta in Italia oltre cento associazioni e dalle maggiori organizzazioni sindacali, che hanno lanciato lo scorso autunno un’iniziativa dei cittadini europei (una cosiddetta “Ice”, ossia una raccolta firme formalmente riconosciuta dalla legislazione europea: noprofitonpandemic.eu) per rendere i vaccini e le cure anti-pandemiche un bene pubblico globale, accessibile gratuitamente a tutti. Una richiesta che, in realtà, va oltre le meno avanzate aperture di Biden e Draghi, i cui Paesi – lo ricordiamo – solamente lo scorso 12 marzo avevano detto no alla deroga sui brevetti per la produzione di vaccini proposta all’interno del Wto da India, Sudafrica e altri cento Stati (tra i contrari anche Uk, Giappone, Brasile, Canada, Svizzera, Australia e Singapore).

Left ha sostenuto sin dal primo giorno questa mobilitazione europea perché tutti possano accedere al più presto al siero anti Covid. Le sottoscrizioni al momento sono poco circa 193mila, ne servono un milione affinché la mozione venga discussa dalla Commissione europea. Tra i cittadini Ue, peraltro, la svolta auspicata da India e Sudafrica – e ora tornata in discussione tra i governi occidentali dopo il parziale endorsement della Casa Bianca – è molto popolare. Secondo un…


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Morti sul lavoro, uno stillicidio intollerabile

A worker operates at a construction site in Milan, Italy, Thursday, May 7, 2020. Italy began stirring again after the coronavirus shutdown, with 4.4 million Italians able to return to work and restrictions on movement eased in the first European country to lock down in a bid to stem COVID-19 infections. (AP Photo/Luca Bruno)

Due morti al giorno sul lavoro nel corso dei primi tre mesi del 2021: questo il dato fornito dall’Inail. La cronaca, invece, racconta che, negli ultimi giorni, una donna è morta in modo atroce in una fabbrica tessile e un uomo è deceduto dopo essere stato colpito da una lastra di cemento nel cantiere dove lavorava. Sono fatti inaccettabili, un lutto straziante per i loro cari, una ferita profonda per le loro comunità e per la coscienza nazionale. Sì, parlo di coscienza nazionale perché è un tema che investe ognuno di noi per la propria parte: la tutela della salute dei lavoratori e le norme di sicurezza non possono essere un optional. Non ci si può permettere un abbassamento del livello di guardia, come ci ricordano i dati sulle morti, sul luogo di lavoro e in itinere, che a gennaio, febbraio e marzo di quest’anno sono aumentate dell’11% rispetto allo stesso periodo di un anno fa. Quelli che stiamo vivendo saranno ricordati come i due anni in cui la pandemia ha fatto un numero di vittime come se fossimo in guerra, cogliendo il mondo impreparato alla sua violenza e costringendo scienziati e ricercatori a bruciare i tempi nella disperata corsa al vaccino. Ebbene, la strage continua sul lavoro non è causata da un nemico nuovo e invisibile quale è stato il Covid-19; è ancora conseguenza di inosservanza delle norme di sicurezza.

La crescita, dopo anni di un trend in calo, di incidenti e morti sul lavoro ci deve, dunque, interrogare. Come mai accade? Sbaglia chi pensa che se aumentano i morti sul lavoro vuol dire che ci sono più persone tornate nel ciclo produttivo perché sarebbe in atto una ripresa. La realtà ci racconta altro: ancora una volta noi ci basiamo su dati oggettivi, elaborati dal nostro Centro studi di Lavoro&Welfare (sulla base di statistiche dell’Inps, dei ministeri del Lavoro e della Salute). Ebbene, se prendiamo un termometro importante per verificare lo stato di salute della nostra economia, quello è senza dubbio la cassa integrazione: a gennaio, febbraio e marzo del 2020 l’Inps autorizzava mediamente 20 milioni di ore per ciascun mese, mentre nel corso del primo trimestre di quest’anno ne ha autorizzate mediamente 343 milioni, sempre al mese. Quindi, non è vero che ci troviamo di fronte a un’impetuosa ripresa produttiva in questi primi tre mesi del 2021, tale da giustificare un aumento degli incidenti sul lavoro. Sta accadendo qualcosa di diverso.

È possibile, ad esempio, che questo aumento di decessi sia in gran parte dovuto al…


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Legittima difesa?

A woman reacts while standing near the rubble of a building that was destroyed by an Israeli airstrike on Saturday that housed The Associated Press, broadcaster Al-Jazeera and other media outlets, in Gaza City, Sunday, May 16, 2021. (AP Photo/Adel Hana)

Questo non è un articolo per infiammare il tifo di Israele o della Palestina (in questo cronico errore di confondere i due popoli con i loro governi, di confondere la violenza di Hamas e di Netanyahu con i loro due popoli), questa è una semplice domanda.

Dall’inizio degli scontri il conto dei morti (fino a ieri) era di almeno 174 palestinesi. Times of Israel ieri sera scriveva che sarebbero almeno 47 i bambini uccisi. Ci sono 1.200 palestinesi feriti.

Sami Mshasha, direttore delle Relazioni esterne dell’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi che dal 1949 opera sul territorio ha raccontato: «Un bombardamento è accaduto nel campo di Shati. Ci sono giunte conferme che l’intera famiglia di 8 bambini e due donne sono morte nell’attacco. E ora stiamo cercando di capire quanti di loro studiavano nelle nostre scuole». Al quotidiano Domani ha detto: «I civili stanno pagando a caro prezzo questo conflitto. Ci hanno detto che molti dei bambini rimasti uccisi studiavano e studiano nelle nostre scuole, è una notizia estremamente triste e deplorevole» dice Mshasha che lancia un appello: «Chiediamo a tutte le parti coinvolte nel conflitto di fermare i bombardamenti indiscriminati nelle aree civili».

L’esercito israeliano ha abbattuto la torre Al Jala a Gaza che ospitava diversi giornalisti e le sedi delle emittenti internazionali per cui lavoravano, come Al Mayadeen, Voice of Prisoners, Doha media center, AP e Al Jazeera. Quando il proprietario della torre Al Jala, Jawad Mehdi ha chiesto al telefono con l’esercito israeliano di avere un po’ più tempo per sgomberare l’edificio l’ufficiale israeliano gli ha risposto al telefono: «È la vostra vita, non la mia, prega il Profeta». Israele dice di avere compiuto l’attacco perché il palazzo avrebbe ospitato rifugi di uomini di Hamas. Peccato che a oggi non esista nessuna prova dettagliata di quanto affermato da Israele. In compenso il portavoce delle forze armate israeliane, Jonathan Conricus, non si è limitato a parlare della presenza di Hamas all’interno della torre, bensì ha esplicitamente negato che la stessa ospitasse sedi di emittenti giornalistiche, affermazione che risulta in ogni caso falsa. Le forze armate israeliane parlano anche di uffici della Jihad Islamica, altra formazione islamista della Striscia, peraltro “in concorrenza” con Hamas. Anche in questo caso, prove, nessuna.

Ciò che è certo è che le voci che raccontano l’inferno con quel bombardamento sono state silenziate. Questo è un fatto incontrovertibile.

La domanda è: a voi sembra una difesa legittima? Proviamo a partire da qui.

Buon lunedì.