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Rimuovere le regole per migliorarle

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 20 Luglio 2020 Roma (Italia) Cronaca Incidente sul lavoro un operaio precipita dalle impalcature di un cantiere in piazza Lodovico Cerva a Vigna Murata Nella Foto : gli operai Photo Cecilia Fabiano/LaPresse July 20 , 2020 Rome (Italy) News Work’s accident a worker is precipitated by the scaffolding of a building site in piazza Lodovico Cerva in Vigna Murata block In the pic : workers

Era il sogno di certa destra (e mica solo la destra) e ora con il governo dei migliori si sta infilando come se fosse una cosa normale. Del resto l’aveva già detto il ministro Cingolani che il cosiddetto Decreto Semplificazioni sarebbe stata «un’accelerata» e quando questi usano il vero “accelerare” (o “snellire”) vogliono sempre dire, senza avere il coraggio di dirlo, che ci si prepara a un bel “liberi tutti”.

Così nella bozza che gira del decreto (44 articoli in 45 pagine) c’è spazio per il cemento anche nei centri storici, un sogno che non avrebbero potuto osare nemmeno i governi più arditi: «Nelle zone omogenee A, nei centri e nuclei storici consolidati» e altre aree «di particolare pregio storico e architettonico» si potrà ricostruire anche con «ampliamenti fuori sagoma o innalzamento dell’altezza» purché «nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti».

Poi c’è il famoso capitolo sugli appalti che prevede uno snellimento che torna utilissimo alle mafie (e pensare che hanno smesso da qualche ora di commemorare Falcone). Lo spiega benissimo Libera: «I contenuti delle bozze del decreto semplificazioni sul codice degli appalti suscitano grande preoccupazione. Nel provvedimento si prevede una proroga fino al 2026 delle deroghe al Codice degli appalti, con un ulteriore innalzamento delle soglie per affidamenti diretti senza gara. La pericolosa logica emergenziale della “fuga dalle regole” allarga così il suo raggio di applicazione e si estende all’intero arco temporale di gestione dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Torna nella bozza il cosiddetto “appalto integrato”, in cui progettazione ed esecuzione dei lavori sono oggetto della stessa gara e quindi affidati allo stesso aggiudicatario, con una pericolosa commistione di ruoli che depotenzia la funzione pubblica di programmazione e controllo. Per le opere del Recovery viene infatti abrogato il divieto di affidamento congiunto previsto dal Codice degli appalti e l’aggiudicazione può avvenire sulla base del criterio del prezzo più basso. Un meccanismo dagli effetti negativi ben noti: deresponsabilizzazione delle stazioni appaltanti da un lato, dall’altro gli incentivi per le imprese a recuperare sui costi con accordi collusivi, perizie suppletive e varianti d’opera, oppure allentando le tutele alla sicurezza dei lavoratori. Illudersi di velocizzare le procedure per questa via è una strategia miope e rischiosa, che apre la strada ad una liberalizzazione di fatto potenzialmente criminogena delle gare d’appalto, un vero e proprio “liberi tutti” per mafie e corruzione».

Liberalizzare l’utilizzo senza limiti dei subappalti è il sogno recondito delle mafie da qualche decennio e, volendo ben vedere, cozza anche con la retorica sui morti di lavoro che ci ha pervaso fino a qualche settimana fa. Ma il punto di fondo è sempre quello: se si è incapaci di migliorare le regole togliere quelle esistenti non sembra proprio un’idea degna dei migliori. Proprio no.

Buon lunedì.

(nella foto un cantiere dove si è verificato un incidente sul lavoro, Roma, 20 luglio 2020)

Codice appalti e non solo, l’anima nera del Governo Draghi

Quanti pensano che il governo Draghi e le misure proposte non abbiano un’anima sbagliano fortemente: un’anima c’è, ed è nera. Un atteggiamento e misure a totale favore del decotto sistema delle imprese italiane, senza nessun vincolo rispetto alla quantità e qualità del lavoro creato. Lo stesso Recovery, per ammissione dello stesso governo, non produrrà alcun significativo aumento del Pil né tantomeno di occupazione, rimandata alle cosiddette riforme tutte tese a creare un ambiente favorevole all’impresa privata, liberandola dai lacci e laccioli dei controlli in materia di legalità, rispetto dell’ambiente, centralità dell’utilità sociale dell’impresa.

Siamo, nella migliore delle ipotesi, alla frustra riproposizione della teoria dello sgocciolamento, un cascame ideologico neoliberista. Sul piano sociale niente di diverso dalla paternalistica ed insultante riproposizione del capitalismo compassionevole di raeganiana memoria: che infatti se i poveri son poveri è colpa loro, se ti licenziano è perché non sai fare il tuo lavoro, se non trovi lavoro non hai fatto fruttare il tuo capitale sociale e non sei stato un buon imprenditore di te stesso.

Nessuna nuova politica industriale e ruolo dello Stato, nessun allargamento del perimetro pubblico a partire dall’assunzione di almeno un milione di addetti nei comparti pubblici. Nessuna misura contro il lavoro povero come introdurre una soglia minima oraria da recepire nei contratti nazionali, nessuna misura contro il part-time involontario e la giungla dei contratti precari.

Aumento della disoccupazione di massa con lo sblocco dei licenziamenti, sblocco degli sfratti senza nessuna politica di investimento sull’edilizia residenziale pubblica e nessuno strumento di sostegno al reddito universale, sia per i lavoratori e le lavoratrici in cassa integrazione né tantomeno per chi non è mai entrato regolarmente nel mondo del lavoro rompendosi la schiena negli abissi del lavoro nero, grigio, informale, gravemente sfruttato ai limite della riduzione in schiavitù.

Politiche di decontribuzione tese non a creare nuova occupazione ma a sostituire quella esistente, con il segretario Letta del PD a rilanciare la cosa. Risorse pubbliche utilizzate per sostituire lavoratori con qualche diritto residuo e un costo del lavoro maggiore con giovani e donne senza diritti e con costi minori, per i primi anni quasi zero per le imprese, senza curarsi dei destini di cinquantenni e sessantenni ad ingrossare assieme alla maggioranza delle giovani generazioni un immane esercito industriale di riserva. Politiche di sostituzione, non di creazione di nuova occupazione.

Nessuna politica industriale, nessun investimento in ricerca e sviluppo di base, nessuna idea di paese che non sia curare il blocco sociale e gli interessi delle forze politiche di destra e proseguire nella terziarizzazione debole, cercando di accaparrarsi quante più provvidenze possibili grazie alle risorse europee. Facendo pagare il tutto a chi sta in basso.

Coerente con questo orientamento le criminogene norme che il Governo vorrebbe introdurre in tema di appalto di opere, beni, servizi. Il governo pensa infatti, gabellandole come semplificazioni, di ridurre le tutele e i diritti conquistati dai lavoratori a colpi di decreto, generalizzando il massimo ribasso come criterio di assegnazione invece che l’offerta economicamente vantaggiosa e liberalizzando totalmente il subappalto.

Ditte senza neppure addetti diretti che si aggiudicano le gare e che poi spezzettano all’infinito la commessa in una serie di scatole cinesi dove si perdono diritti, salario, qualità del lavoro e dell’opera. Così si torna alla giungla dei cantieri, alle interferenze in cantiere, al pagamento a cottimo. Insomma, agli anni 50, quando la vita dei lavoratori non contava nulla.

La Fillea Cgil a questo proposito ha già meritoriamente stroncato la norma per bocca del suo segretario generale dichiarando preventivamente lo sciopero a fronte del mantenimento di questo scempio. Con la liberalizzazione del subappalto e la reintroduzione del massimo ribasso il Governo si accinge a dare un duro colpo alle tutele di lavoratrici e lavoratori dei servizi in appalto, ed anche su questo fronte le categorie dei servizi sono sul piede di guerra.

La semplificazione non può tradursi in deregolamentazione, soprattutto quando va a colpire i diritti, le tutele e la qualità del lavoro che è data da certezza salariale, sicurezza, prevenzione, legalità. Sono misure che, se approvate, renderebbero i lavoratori e le lavoratrici ancora più poveri, sottoposti a continui ricatti ed esposti a rischi gravissimi per la stessa incolumità personale.

Chi approverà tali norme (e vale per tutte le forze politiche che voteranno i provvedimenti) ci risparmi lacrime di coccodrillo a fronte delle morti sul lavori, così come le giaculatorie sulle infiltrazioni della criminalità organizzata, che amplieranno ulteriormente la loro penetrazione sociale, affaristica, istituzionale.

Se sommiamo a tutto questo l’indebolimento e la sospensione di gran parte della procedure e norme che tutelano l’ambiente, il paesaggio e lo stesso territorio possiamo ben dire che ci apprestiamo ad uscire dalla pandemia ben peggio di come siamo entrati.

Il segretario generale della Cgil Maurizio Landini ha espresso un duro giudizio sul metodo e sul merito dei provvedimenti del governo, dichiarando che le norme sopra richiamate meritano uno sciopero generale.

Lo condividiamo: svegliamo le coscienze, facciamo conoscere le gravi misure che ci vengono incensate da un imbarazzante bombardamento mediatico, ricreiamo le condizioni della solidarietà della e nella classe che vive di lavoro, battiamoci per una società ed una vita degna di essere vissuta. Senza lotte e mobilitazioni, senza passione sociale e civile nessun cambiamento in meglio sarà possibile.

*L’autore: Maurizio Brotini è segretario Cgil Toscana

Rodari, dalla Russia con fantasia

1979 MOSCA - GIANNI RODARI NELL'URSS - RODARI STA SCRIVENDO UN LIBRO SUI BAMBINI SOVIETICI E SI TROVA NELLA CITTA' DI YAROSLAVL PER RENDERSI CONTO DELLA VITA QUOTIDIANA DEI BAMBINI, AUTORE, INFANZIA, SCOLARI, RUSSIA, UNIONE SOVIETICA, ANNI 70, B/N, 741898/1, 03-00001942

Il 1951 è un anno importante per Gianni Rodari, viene pubblicato Il romanzo di Cipollino per le Edizioni di cultura sociale che assunse in seguito il titolo di Le avventure di Cipollino. Ancora oggi è uno dei romanzi di Rodari più conosciuto e tradotto, soprattutto nei Paesi dell’ex Unione Sovietica. Dal testo sono stati adattati spettacoli teatrali e film di animazione.
Anna Roberti, traduttrice e interprete che ha diretto per vent’anni l’Associazione culturale Russkij Mir di Torino è l’autrice del libro Cipollino nel paese dei Soviet – dall’omonimo titolo dell’articolo scritto dal politico e attivista del Pci Paolo Robotti sulla terza pagina de l’Unità il 20 dicembre 1952. Proprio attraverso questo titolo l’autrice ricostruisce la notizia, con un chiaro percorso storico e filologico, dell’avvenuta conoscenza da parte degli intellettuali russi dei primi lavori del poeta di Omegna.

Uscito nell’ottobre 2020 per edizioni Lindau, è un saggio che per la prima volta fa un’ampia e precisa ricerca del successo dello scrittore in Unione Sovietica. Diviso in 13 capitoli, tre appendici e un post scriptum, dedica una lunga indagine al rapporto di Rodari con la cultura del Paese comunista, dei viaggi che intraprese in Urss, degli incontri con i bambini delle scuole e dei suoi romanzi e filastrocche che continuano ad essere tradotti. Nella Federazione russa Gianni Rodari è riconosciuto come l’autore italiano più amato.
Nel gennaio del 1951 viene pubblicato Il teatro del Pioniere, come supplemento a La Repubblica dei ragazzi, rivista dell’Associazione pionieri d’Italia. Si tratta di fiabe sceniche che connotano da subito Rodari come autore versatile, capace di attrarre i bambini verso l’esperienza teatrale e dimostrando subito il suo stile scandito e chiaro.
Sempre nel gennaio del ’51, come ricorda con rigore nel suo libro Roberti, uscirà in terza pagina de l’Unità «un corposo articolo che dà notizia» di un libro divertente e originale «gustosamente» illustrato da Giuliana Mafai con prefazione di Davide Lajolo per le Edizioni del Pioniere: è il primo libro di Gianni Rodari, Il libro delle filastrocche (1950), dove confluiscono diversi testi usciti sulle rubriche La domenica dei Piccoli e Piccolo mondo nuovo.

Nella primavera del ’51, viene pubblicato per Edizioni di cultura sociale il Manuale del Pioniere. Questa è un’opera apparentemente lontana dalle favole e filastrocche dall’autore, vi è presente un’evidente ideologia, data anche dal momento storico, quale la ricostruzione di un Paese uscito dalla seconda guerra mondiale. Il Manuale avvierà la ricerca ed elaborazione di un pensiero che porterà ad importanti indagini e studi nel susseguirsi degli anni, articoli usciti su Paese Sera e saggi come Grammatica della fantasia. Compare dopo un processo che…


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Palestina, luci su un popolo invisibile

Schiama Nazra e già il nome è una dichiarazione d’intenti: Nazra infatti, in palestinese, significa sguardo. Ed è uno sguardo diverso e profondo su Gaza e sulla Cisgiordania quello che ci offre il Nazra Palestine short film festival, rassegna indipendente di cortometraggi che da Venezia si irradia in altre città: Siena, Napoli, Roma e oltre. «Di solito organizzavamo un’edizione a Gaza, ma hanno buttato giù anche il nostro centro con i bombardamenti. Avevamo pensato di farlo all’aperto, ma il momento lo rende impossibile e come tutti siamo nell’incertezza più assoluta», racconta la curatrice e ideatrice della rassegna Franca Bastianello, alla quale abbiamo chiesto di farci da guida per conoscere più da vicino la produzione audiovisiva palestinese in cui spiccano corti di vario genere: fiction, documentari, videoarte.

«Comincerei col dire che quello del cortometraggio non è uno sguardo cinematografico minore» spiega Bastianello. «È un linguaggio giovane, svelto, incisivo. Con un corto si può fare tutto, dare un messaggio, raccontare una storia in modo molto sintetico. Ed è un genere che trova molto riscontro nel pubblico più giovane». Prova ne è la grande accoglienza che Nazra riceve nelle università. Senza finanziamenti esterni, basato sul volontariato, il festival è sorretto da grandi ideali e da un sogno: dare una ribalta ai giovani palestinesi, per potersi esprimere, denunciare, raccontare dal proprio punto di vista, misurarsi con le proprie ispirazioni. Obiettivo prioritario? Dare risonanza alle molte eccellenze che arrivano dalla Palestina. Ma anche interrompere la spirale di frustrazione e rabbia generata dalla segregazione. Anche se l’impresa non è facile. Perché gli autori palestinesi incontrano mille ostacoli non solo nel realizzare opere ma anche nel farle conoscere a livello internazionale. Di rado viene loro permesso di uscire dai territori per poter partecipare a festival e incontri. Non è semplice neanche per i film-makers della diaspora che vivono all’estero e hanno il problema di non riuscire ad ottenere il visto per tornare in quelle aree che le loro famiglie furono costrette ad abbandonare dopo il 1948. Questo doppio binario di impedimenti ha indirettamente fatto sì che la produzione cinematografica palestinese si sviluppasse soprattutto lungo due filoni: il docufilm all’interno e la fiction all’esterno. Il racconto dal vero prevale fra i palestinesi che vivono nei territori occupati dove l’urgenza di testimoniare l’oppressione è prioritaria. La produzione della diaspora invece si nutre soprattutto di frammenti di memorie, di immaginazione, nel desiderio negato di poter tornare. Ma a ben vedere sono visioni che si completano, nota Bastianello: «Nel 2017 per esempio abbiamo ricevuto molti film sull’operazione Scudo protettivo del 2014. Il tema, drammaticamente forte, era lo stesso, ma i quadri erano diversi».

Ad accomunare la produzione palestinese interna e esterna, spesso, è anche un filo di toccante auto ironia. «I palestinesi sono persone che riescono a ridere di se stesse nonostante le tragedie. Non vogliono essere compatiti come vittime, né essere celebrati come eroi, vogliono semplicemente poter vivere la propria vita. E il cinema è uno strumento fortissimo per far sì che le persone ti ascoltino, ti capiscano, partecipino a ciò che tu dici», approfondisce la direttrice. «Fare un film in Palestina in un certo senso può essere curativo non solo perché permette di esprimere il proprio stato d’animo, ma anche perché così la Palestina diventa visibile».

Il problema è proprio questo: la Palestina è invisibile al livello internazionale? «È visibile solo nella retorica dei palestinesi terroristi, del diritto di Israele a difendersi», denuncia Franca Bastianello. «La Palestina è come una donna che, se esce un po’ scollata, si sente dire che se l’è andata a cercare. Si dice, Gaza se l’è voluta. Nessuno pensa che è un carcere. Nessuno pensa alla condizione di due milioni di persone che vivono accavallate e che non possono muoversi. Tutto questo non si percepisce». Il cinema, in certo modo, rappresenta una “via di uscita”? «Attraverso il cinema i ragazzi palestinesi esprimono un grido di dolore e la propria visione. È un tentativo di darsi un’immagine», risponde la direttrice. «Impedirglielo è ingiusto ma anche controproducente. Più li tengono in cattività più è probabile che la situazione diventi ingestibile». Molti di loro per fortuna non si arrendono e non cedono al veleno dell’odio e del fanatismo. «La Palestina è sempre stato un Paese acculturato, laico – spiega Franca Bastianello -. E i palestinesi che studiano all’estero trovano sempre spazio perché hanno una volontà di ferro, hanno la speranza che la loro denuncia porti a qualcosa, vorrebbero poter indirizzare la propria storia. Dar loro ascolto porterebbe al confronto e alla pace, avvierebbe una crescita dal punto di vista sociale». Anche per questo, nonostante la situazione in Palestina sia disperata, la scena artistica teatrale e musicale è molto viva come abbiamo raccontato spesso su Left. «Ci sono anche delle scuole di cinema – aggiunge -. Molte sono gestite da registe. Più del 50 per cento della partecipazione al Nazra festival è femminile. Sono donne straordinarie perché escono da situazioni sociali che non offrono grandi possibilità. Molti genitori vogliono far studiare le figlie per far sì che nel mondo possano contare, ma la società tradizionale limita le aspettative delle donne». Gli esempi di registe di talento potrebbero essere molti a partire da quello dell’artista palestinese Samira Badran. È sua la potente opera di videoarte Memory of the land incentrata su un checkpoint. «Attraverso l’animazione di oltre duemila disegni ha saputo lanciare un fortissimo messaggio politico. Memory of the land è un’opera di grande spessore, un pezzo indimenticabile, rimane nella memoria, anche per la sensazione che si vive ascoltando quei suoni e quel linguaggio inventato che cerca di sovrastare la personalità dei palestinesi. Opere così dovrebbero fare parte della cinematografia internazionale».

Ma si potrebbero citare anche capolavori in ambito documentaristico che Nazra ha avuto il merito di far conoscere. Ne è un esempio High hopes del regista israeliano Guy Davidi costruito su un collage interviste e di immagini storiche, sulle note dei Pink Floyd. Racconta la vita dei beduini e dalle speranze che erano nate dagli accordi di Oslo. Sembrava si aprisse una nuova epoca, ricorda la direttrice di Nazra «intanto però lo Stato di Israele espropriava i beduini, distruggeva le loro tende, fino a costringerli in una discarica israeliana».

Quanto al teatro non possiamo chiudere senza ricordare il regista Juliano Mer-Khamis, fondatore del Freedom theatre nel campo profughi di Jenin, ucciso dieci anni fa. Anni prima era tornato in Palestina dove aveva ricostruito il teatro che la madre, israeliana, aveva costruito per i ragazzi di Jenin. «Faceva recitare bambini che vivevano ai limiti della sopportazione – dice Bastianello -, attraverso l’arte trovavano un canale per esprimersi. Quel teatro dette loro una risonanza internazionale. Alcuni di loro erano finiti in carcere ma lui riusciva comunque a dare speranza ai suoi allievi e gli diceva: guardate che voi non siete solo ribelli, non siete solo dei resistenti, voi siete degli artisti». Gli insegnava che l’arte è rivoluzione.


L’articolo è stato pubblicato su Left del 21-27 maggio 2021

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Effetti collaterali di un bagno di sangue

UNITED STATES - March 11: Rep. Rashida Tlaib, D-Mich., speaks during a news conference on rent and mortgage cancellation in Washington on Thursday, March 11, 2021. (Photo by Caroline Brehman/CQ Roll Call via AP Images)

«La nostra operazione giusta e morale richiederà tempo e continuerà per tutto il tempo che sarà necessario. Dico ai leader del terrorismo: nessuno ne sarà immune». Nella conferenza stampa del 15 maggio, il premier israeliano Netanyahu non ha compiuto un passo indietro sugli attacchi indiscriminati alle infrastrutture civili nella Striscia di Gaza, né all’elevato numero di civili palestinesi (molti bambini) uccisi nei bombardamenti. Quando è sotto pressione per le critiche che gli piovono da più parti, “Bibi” è solito passare all’attacco. In gioco, certo, c’è il bene dei «cittadini d’Israele” per cui promette il pugno di ferro contro chi si macchierà di nuovi «pogrom» interetnici all’interno dei confini del suo Stato. Ma in ballo c’è soprattutto la sua sopravvivenza politica.

I tumulti di Gerusalemme dopo lo sfratto (annunciato, ma per ora sospeso) di 40 palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah a favore di estremisti ebrei e i bombardamenti su Gaza sono stati ossigeno puro per il primo ministro più longevo nella storia d’Israele perché potrebbero fornirgli l’occasione per capovolgere una situazione politica che a breve lo potrebbe vedere fuori dalla futura guida da Israele e in balia dei processi di corruzione a cui è sottoposto. Incapace di costruire una maggioranza politica nelle scorse settimane, più che ai razzi da Gaza, il premier guarda con preoccupazione a una possibile intesa tra il capo centrista Yair Lapid (Yesh Atid) e il nazionalista religioso Naftali Bennet (Yamina).

Bibi alza la voce e si mostra duro anche perché nessuno in Occidente osa attaccare le politiche d’Israele.

I bombardamenti su Gaza hanno riproposto quello che va in scena ogni volta che…


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Quei diritti sotto sfratto a Sheikh Jarrah

JERUSALEM - MAY 15: Israeli forces intervene in the Palestinians during a demonstration held for the 73rd anniversary of Nakba, on May 15, 2021 in Sheikh Jarrah neighborhood of East Jerusalem. (Photo by Mostafa Alkharouf/Anadolu Agency via Getty Images)

Il caos a cui assistiamo in questi giorni in Israele e Palestina è terrificante: linciaggi tra civili arabi e israeliani, sparatorie, razzi e bombe hanno infiltrato entrambi i territori, dalla Galilea a Rafah, passando per Tel Aviv. Nella guerra aperta tra l’esercito israeliano ed i militanti armati a Gaza, sono già centinaia i morti nella striscia assediata e si contano anche le prime vittime israeliane. Una spirale di terrore, che rischia di far passare in secondo piano uno dei momenti più significativi nella storia recente del popolo palestinese: le manifestazioni alla Spianata delle moschee (Al-Aqsa), luogo sacro per i musulmani, avvenute tra aprile e maggio. Nato spontaneamente su iniziativa della popolazione civile, questo movimento ha unito in un solo abbraccio i residenti della frammentata Palestina che hanno manifestato per ottenere un risultato cruciale: impedire lo sfollamento forzoso di alcune famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah, quartiere di Gerusalemme Est, per far posto a un nuovo insediamento ebraico.
La repressione da parte della polizia israeliana è stata brutale, come denunciato da Amnesty international: centinaia di feriti, inclusi cinque giornalisti, due persone in condizioni critiche e altri tre hanno perso un occhio.
Ma chi si cela dietro il tentativo di sfollamento delle famiglie palestinesi a Sheikh Jarrah? È questa la domanda al quale l’avvocato Sami Ershied sta cercando di trovare una risposta.
Ershied è il legale incaricato dalla famiglia Sabbagh, che dal 1956 ha vissuto in una delle case a rischio di sfratto nell’area di Gerusalemme Est. Ad oggi, 58 persone in totale sono interessate dallo stesso provvedimento: altre sono state già sfollate negli ultimi anni.
Nel gennaio 2019, la Corte suprema israeliana ha rifiutato la loro ultima richiesta d’appello, basata sul ritrovamento di documenti in Turchia, risalenti all’epoca dell’Impero ottomano che, stando ai legali, avrebbero potuto riaprire la discussione in merito all’appartenenza dei lotti contesi con la controparte israeliana. I giudici, tuttavia, hanno deciso di non ammettere nuove evidenze al caso. Il 3 novembre 2020, in piena pandemia, la Corte distrettuale di Gerusalemme ha dato il via libera all’esecuzione dello sfratto: da allora, i membri della famiglia Sabbagh vivono nell’incubo di ritrovarsi per strada.
Ma non è la paura del coronavirus che tormenta Mohammed Sabbagh, il più anziano del gruppo famigliare, né tantomeno l’amara certezza di ritrovarsi senzatetto all’età di 72 anni. Insieme al suo avvocato, Mohammed sta cercando di ricostruire gli eventi storici che hanno portato un gruppo di coloni a reclamare diritti sulle loro case: chi sono queste persone che vogliono sostituirsi a lui, alla sua famiglia e ai suoi vicini di casa?
Nel 2002, un gruppo d’investitori ebraici rappresentati dalla Homot Shalem association ha comprato la terra dove è costruita la casa dei Sabbagh per 3 milioni di dollari da due fondi religiosi.
Pochi mesi dopo, la proprietà è stata ceduta alla Nahalat Shimon Ltd, società registrata nel Delaware, negli Stati Uniti. Il progetto immobiliare punta a “rigenerare” Sheikh Jarrah, costruendo 200 nuove unità abitative al posto delle attuali residenze palestinesi; un nuovo quartiere pensato per acquirenti ebraici. L’agenzia di stampa Jewish News Syndicate ha definito la Nahalat Shimo Ltd una organizzazione non governativa avente come missione quella di recuperare le proprietà perdute dai residenti ebrei espulsi dal quartiere a seguito della guerra del 1948.
I nomi dei dirigenti di Nahalat Shimon Ltd, responsabili delle azioni legali per lo sfratto delle famiglie palestinesi, non sono pubblici. Nel novembre 2019, durante l’udienza di una delle famiglie a rischio sfollamento, il manager di Nahalat Shimon Ltd, Zachi Mamo, ha dichiarato di non conoscere il nome di coloro che mensilmente gli versavano la busta paga.
Sami Ershied è convinto che sia un diritto delle famiglie coinvolte nel processo di conoscere questa informazione prima che qualsiasi tipo di decisione definitiva venga presa in merito al loro caso.
«Chi sta spendendo tutte queste risorse economiche per finanziare l’industria immobiliare degli insediamenti a Gerusalemme Est?», riflette. «Queste sono persone che stanno influenzando la direzione politica e diplomatica d’Israele, e noi non sappiamo chi sono».
«Avevamo una casa a Jaffa»
Le questioni sulla società Nahalat Shimon Ltd sono l’ultimo capitolo della lunga saga che il governo israeliano continua a sostenere essere solo una disputa immobiliare tra privati.
Durante la guerra arabo-israeliana del 1948, le comunità ebraiche che risiedevano nel quartiere sono dovute scappare, abbandonando le case in cui vivevano fin dall’epoca ottomana. A seguito del conflitto, la Giordania prese il controllo amministrativo di Gerusalemme Est e, in cooperazione con Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente), riallocò ventotto famiglie palestinesi, inclusi i Sabbagh, nel quartiere.
«Dopo aver perso la nostra casa a Jaffa (il porto vecchio di Tel Aviv ndr) nel 1948, siamo stati ospitati da alcuni parenti a Gerusalemme fino alla firma di un contratto allocativo stipulato con il governo giordano e l’Unrwa, nel 1956» spiega Mohammed Sabbagh.
Il contratto prevedeva un periodo di tre anni in affitto a Sheikh Jarrah, al termine del quale avrebbero dovuto ricevere un titolo legale di proprietà della casa, mentre la terra sarebbe dovuta rimanere sotto controllo dell’autorità giordana.
Tuttavia, ritardi burocratici hanno fatto sì che le famiglie del quartiere non ricevessero i documenti necessari per provare il loro status legale prima del 1967, anno di inizio della Guerra dei sei giorni, vinta da Israele e culminata con l’occupazione militare di Gerusalemme Est. Nel 1950, lo Stato d’Israele approvò una legge che permette a ogni cittadino ebraico proprietario di un immobile o di un terreno in Israele, abbandonato a causa della guerra, di rientrarne in possesso: dopo l’occupazione militare del 1967, questa norma è stata applicata anche a Gerusalemme Est. Un’opportunità colta da due fondi religiosi che nel 1972 registrarono il terreno su cui si ergono le case di Sheikh Jarrah a loro nome. Tale legge, tuttavia, non è applicabile ai profughi palestinesi provenienti da Gerusalemme Ovest o da altre parti d’Israele, di fatto impedendo a famiglie in situazione analoga ai Sabbagh di ritornare nelle loro città d’origine.
L’avvocato della società Nahalat Shimon Ltd, Ilan Shemor, ha ottenuto che la Corte riconoscesse alle famiglie palestinesi vissute a Sheikh Jarrah per oltre settant’anni il mero status di affittuari, escludendo ogni pretesa sulla proprietà. La decisione si basa su un patteggiamento firmato nel 1982 tra gli allora legali di ambe le parti: un formale riconoscimento della proprietà della terra delle comunità ebraiche, in cambio di un affitto calmierato e protetto legalmente per le famiglie palestinesi fino a tre generazioni.
Tuttavia, i rappresentanti legali dei palestinesi non chiesero il consenso esplicito dei loro assistiti nella fase di negoziazione e, di conseguenza, undici famiglie – tra cui i Sabbagh -decisero di non firmare l’accordo. «I nostri avvocati palestinesi erano in sciopero all’epoca, perché non volevano dare legittimità alla giurisdizione dello Stato occupante, Israele. Quindi la mia famiglia si è ritrovata obbligata ad incaricare un avvocato israeliano. È stato lui a firmare l’accordo d’affitto, senza coinvolgerci. Per alcuni questa decisione era inaccettabile, mio padre decise immediatamente di non firmare. Noi avevamo una casa a Jaffa. Ridateci la nostra proprietà di famiglia, e ce ne andremo da Sheikh Jarrah», spiega Mohammed Sabbagh.

Legge e giustizia
Stando all’avvocato difensore Ershied, gli sgomberi a Sheikh Jarrah sono discriminatori, perché la procedura legale di riferimento non tiene in considerazione che Gerusalemme Est è un territorio occupato. Stando al diritto internazionale, difatti, uno Stato occupante non può trasferire forzatamente i residenti dei territori occupati. Ciò nonostante, dal 2009 nove famiglie hanno perso la propria abitazione, mentre le altre rimaste sono tormentate dal terrore di essere presto sfollati. Agenti di sicurezza privata pagati dalle compagnie immobiliari pattugliano l’area tutto il giorno. Gli spazi pubblici sono stati riempiti da telecamere di sorveglianza, filo spinato e guardie private.
«È difficile vivere essendo considerato come un criminale a casa propria», sospira Mohammed Sabbagh.
Amy Cohen, direttrice delle relazioni internazionali per l’Ong israeliana Ir Amim, interpreta questa situazione in maniera netta: il sistema giuridico israeliano sta seguendo alla lettera la legge e le direttive amministrative per risolvere un contenzioso strettamente politico: «La corte non sta difendendo il diritto, ma agisce seguendo la norma legislativa in senso restrittivo. Mentre le azioni sul campo vengono intraprese privatamente dai coloni, assistiamo anche ad un alto livello di complicità tra il proliferare degli insediamenti e la politica dello Stato». Rafforzando la presenza ebraica a Gerusalemme Est, i coloni stanno di fatto cambiando la demografia a loro vantaggio. Un atteggiamento incoraggiato dal primo ministro Benjamin Netanyahu, attualmente indagato per corruzione e frode, che ha posto il tema di Gerusalemme capitale unica d’Israele come suo cavallo di battaglia.
«Le famiglie ebraiche che hanno perso la propria casa nel conflitto del 1948 hanno già ricevuto un risarcimento: restituire Sheikh Jarrah equivarrebbe a una doppia compensazione, mentre le famiglie palestinesi diventerebbero profughe una seconda volta», conclude Cohen. Le ricadute diplomatiche di tali decisioni potrebbero essere immense. Da anni il Jerusalem Institute for policy research identifica come una seria minaccia per la legittimità internazionale dello Stato d’Israele la costruzione di insediamenti illegali nei territori occupati da parte delle compagnie private. Gli innumerevoli cantieri aperti tramite cavilli amministrativi hanno di fatto deteriorato una situazione già estremamente delicata.
«Tramite le loro azioni, queste società stanno cambiando le carte in tavola in una maniera non necessariamente allineata con gli interessi vitali dello Stato d’Israele» dichiara uno studio accademico pubblicato nel 2010 sulla situazione a Sheikh Jarrah. Undici anni dopo è infatti proprio dalle proteste di quel quartiere che è esploso l’ennesimo conflitto oggi in corso.
In risposta ai recenti eventi, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha richiamato lo Stato d’Israele al rispetto della legge internazionale e chiesto di fermare immediatamente il trasferimento forzato degli abitanti palestinesi di Sheikh Jarrah.
Una posizione in linea con differenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu e con osservatori internazionali dell’Unione Europea, del consolato britannico e di numerose Ong che attendono con regolarità gli appuntamenti nelle aule di tribunali sul caso di Sheikh Jarrah. Nonostante le pressioni internazionali, questi da anni però proseguono senza una sostanziale inversione di rotta. Prima di ottenere un avviso di sfratto, la società Nahalat Shimon offre a ogni famiglia residente un contratto di affitto in cambio del riconoscimento formale dei loro diritti di proprietari sul terreno su cui le case sono costruite. «Se non riconoscono la nostra legittima proprietà, li vogliamo fuori dalle case» ha dichiarato l’avvocato della società, Ilan Shemer, durante la sua arringa in un processo del 2019 per ottenere l’ennesima ingiunzione di sfratto. «Se li evacuiamo, saranno lasciati senza niente … Stanno presentando la stessa difesa e le stesse carte della famiglia Sabbagh, ma i Sabbagh non hanno mai vinto la loro causa».

L’importanza dell’opinione pubblica
La lotta non è finita. I residenti di Sheikh Jarrah, visti gli scarsi risultati ottenuti tramite la diplomazia internazionale, hanno deciso di coinvolgere direttamente l’opinione pubblica. A marzo, quattro famiglie locali hanno ricevuto l’ordine definitivo di sfratto, da attuarsi entro i primi giorni di maggio. In questa circostanza, le famiglie hanno lanciato la campagna #SaveSheikhJarrah, diventata immediatamente trending topic tra la popolazione palestinese e giordana, fomentando le proteste alla moschea di Al-Aqsa durante il mese di Ramadam. I manifestanti hanno posto la questione di Sheikh Jarrah su un palcoscenico mondiale come mai era successo prima.
A seguito delle sempre più numerose manifestazioni nel quartiere e di nuove azioni degli avvocati difensori, il procuratore generale Avichai Mandleblit ha chiesto alla Corte di congelare temporaneamente ogni provvedimento, in modo da esplorare un’eventuale volontà del governo di diventare finalmente parte in causa nel processo e mediare tra i coloni e le famiglie residenti. Nuovi aggiornamenti in merito sono attesi per fine maggio.
Nel frattempo, continua la ricerca per capire chi si cela dietro a Nahalat Shimon Ltd, un dettaglio che potrebbe alimentare il dibattito politico intorno al tema e possibilmente influenzare non solo l’opinione pubblica palestinese ma anche quella israeliana. «Non so se rivelare i nomi dietro Nahalat Shimon possa cambiare qualcosa nel processo: se lo Stato non volesse i coloni a Gerusalemme Est, non durerebbe un secondo» ritiene Cohen. «Particolarmente a Sheikh Jarrah, abbiamo visto un rafforzamento delle procedure di sfratto durante l’amministrazione Trump. Tuttavia, questa informazione può fare la differenza politicamente, quando anche in Israele ci sarà un cambio di governo».
Dopo mesi d’instabilità politica e quattro elezioni in soli due anni, la guerra scoppiata tra Hamas e il governo israeliano sembra aver rafforzato il potere di Benjamin Netanyahu, attualmente alle prese con il tentativo di formare un nuovo governo.
I residenti di Sheikh Jarrah, tra un processo e l’altro, bevono il caffè nel cortile del Tribunale e sognano di poter un giorno viaggiare a Delaware – paradossalmente lo Stato americano rappresentato dall’allora senatore Joe Biden proprio quando la Nahalat Shimon Ltd veniva fondata – per proseguire le loro investigazioni sul campo.
Di concreto, invece, non gli resta che manifestare: da questo Ramadam, però, non più da soli.

L’autrice: Flavia Cappellini è giornalista e cineasta. Ha realizzato il docufillm Tour de Gaza, sul ciclista Alaa al-Dali, rimasto senza una gamba per un colpo sparato da un cecchino israeliano


L’articolo è stato pubblicato su Left del 21-27 maggio 2021

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Adania Shibli: «Cerco le parole giuste per ridare voce a Gaza»

«Confesso che qualche volta desidero di non provare nulla. Se permettessi ai miei sentimenti di emergere in superficie, sarei incapace di confrontarmi con questo male». L’autrice palestinese Adania Shibli, nata nel 1974, voce importante della letteratura araba contemporanea e non solo, che vive soprattutto a Ramallah, parla da Berlino. Nello sguardo di Shibli si coglie il senso di vuoto davanti al panorama di rovine israeliane e palestinesi destinate a stratificarsi su quelle passate.

Nelle librerie italiane è appena arrivato il suo romanzo Un dettaglio minore (La nave di Teseo, traduzione di Monica Ruocco), già finalista al National Book Award 2020 e in corsa per il prestigioso Man Booker Prize.

Shibli ha dedicato dodici anni alla creazione della storia che si sviluppa in due tempi distanti uniti dal dolore e dal tentativo di trovare una lingua per esso. Il primo scenario è il deserto del Negev, un anno dopo la guerra arabo-israeliana del 1948, dove militari israeliani di stanza nell’area per presidiare il confine con l’Egitto stuprano una giovane beduina, poi sepolta nella sabbia. Nel secondo tempo del romanzo una donna palestinese di Ramallah indaga sul crimine per restituire dignità alla vittima. Nel viaggio esplora l’attuale condizione di vita nei territori palestinesi.

Che cosa l’ha colpita della pronuncia della Corte suprema israeliana per l’allontanamento di quattro famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est?
La strada intrapresa corrisponde alla legalizzazione dell’ingiustizia. Per decenni è apparso che il sistema giudiziario israeliano agisse con maggiore equità, ma da anni registriamo un processo inverso anche nella nomina dei giudici della Corte suprema che è un organo fondamentale. Prima aveva un ruolo di contrappeso rispetto alle scelte politiche governative. Ora ha virato a destra. Lo spostamento ideologico conservatore ha permeato la giustizia.

Qual è la sensazione dominante?
Tento di essere razionale e di pensare a che cosa si possa fare per non…


L’articolo prosegue su Left del 21-27 maggio 2021

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Si parla di Palestina solo quando cadono le bombe

Two Palestinian boys hide themselves from the sun as others burn tires at the border fence with Israel, east of Jabalia in the central Gaza city, during a protest on April 13, 2018. Several thousand Gazans gathered for a third consecutive Friday of mass protests along the border with Israel after violence in which Israeli forces have killed 33 Palestinians and wounded hundreds of others. / AFP PHOTO / MOHAMMED ABED (Photo credit should read MOHAMMED ABED/AFP via Getty Images)

Una nuova escalation di violenza riporta all’attenzione dell’opinione pubblica uno dei più irrisolti conflitti dei nostri tempi, quello israelo-palestinese. Colpisce come dai media ufficiali l’oppressore venga immancabilmente trasformato in vittima e l’oppresso in terrorista. Al coro internazionale levatosi a sostegno del diritto di Israele a difendersi dai razzi lanciati da Hamas non ha fatto eco il diritto altrettanto legittimo del popolo palestinese a difendersi dall’espropriazione illecita di case e di terre e da una feroce occupazione militare che si protrae da oltre 50 anni. Occupazione noncurante di leggi internazionali e risoluzioni del Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite, responsabile di un sistema di controllo e segregazione razziale che anche organizzazioni israeliane per la difesa dei diritti umani come B’Tselem non esitano a definire un regime di apartheid.

Sarebbe importante quanto necessaria una analisi profonda sull’evidente scotomizzazione della realtà di oppressione che vive il popolo palestinese da parte dei media e dell’opinione pubblica internazionale e che forse non dovrebbe esaurirsi in considerazioni legate a interessi ed equilibri geopolitici. La politica di pulizia etnica messa in atto dal governo di Israele crea una profonda inquietudine nel riecheggiare una delle più grandi tragedie umanitarie del XX secolo di cui proprio il popolo ebraico è stato la principale vittima.

Per capire come si è innescato questo ennesimo scontro, che vede la Striscia di Gaza nuovamente teatro di una massiccia offensiva militare israeliana, ci avvaliamo della testimonianza diretta di Meri Calvelli che a Gaza vive e lavora da anni. Direttrice del Centro italiano di scambio culturale Vik, fondato a Gaza City in memoria dell’attivista per i diritti umani Vittorio Arrigoni, Meri è una profonda conoscitrice della questione palestinese. Da anni è impegnata con la ong Acs in progetti di sviluppo e cooperazione a Gaza dove ha vissuto in prima persona i conflitti armati tra Israele e Hamas succedutisi a partire dalla vittoria alle elezioni nel 2006 di Hamas e dal conseguente blocco terrestre, marittimo e aereo imposto da Israele alla Striscia di Gaza.

Raggiunta telefonicamente, pone immediatamente l’accento su ciò che distingue questo conflitto dai precedenti. «Di Gaza – afferma con amara ironia – si parla solo quando cadono le bombe e alle bombe ci siamo abituati. Il fatto nuovo di questo conflitto è che…

 

* L’autrice: Franca Marini è un’artista italiana. Dopo una lunga formazione internazionale in campo pittorico, dal 2005 realizza installazioni site-specific e opere video in cui sviluppa temi legati a contesti metropolitani e a problematiche sociali relative ai diritti umani. Le sue opere fanno parte di collezioni pubbliche e private in Italia, Costa Rica e Stati Uniti


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La volpe a guardia del pollaio

Al governo dei migliori è scappato un diplomatico di simpatie neofasciste nominato ambasciatore a Singapore. La decisione ricade sul ministro Luigi Di Maio ed è controfirmata dal Presidente della Repubblica anche se dal Quirinale si affettano a dire che si tratta semplicemente di “un passaggio formale” su una decisione del governo.

Lui è Mario Vattani, figlio di quell’Umberto che fu ambasciatore in Belgio e Germania poi consigliere del primo ministro Andreotti ed ex segretario generale per la Farnesina (sempre per quella vecchia storia che non esiste il familismo e che la diplomazia premia il merito) e nel maggio del 2011 venne ripreso mentre nelle vesti di Katanga (il suo nome d’arte) si esibì con il gruppo Sottofasciasemplice a una festa di CasaPound. Fu un trionfo, non c’è che dire: rispose al saluto romano del suo pubblico fascista, bandiere nere, “camerata presente!” e quelle altre solite cose così e nelle sue canzoni urlacciava versi contro i pacifisti e i disobbedienti, tipici del Ventennio fascista.

Era già ambasciatore nel 2011 (venne ribattezzato “console fascio-rock”) a Osaka ma se è vero che il ministro di allora Frattini lo salvò il suo successore Giulio Terzi lo richiamò con effetto immediato a Roma, lo deferì alla commissione disciplinare e si ebbe la sensazione che Vattani non avrebbe più rappresentato all’estero quella Repubblica che schifava con tanto ardore. Ci furono una serie di cause con lo Stato finché l’allora direttrice generale per le risorse umane Elisabetta Belloni (oggi a capo dei Servizi segreti italiani) gli diede un incarico di coordinatore per i rapporti tra Unione Europea e Paesi dell’Asia Pacifico.

Ora il colpo di scena: Vattani riprende a sorpresa il suo ruolo di ambasciatore meritandosi un’interrogazione di 8 deputati che non hanno perso la memoria (eccola qui). Ha perfettamente ragione l’Anpi quando dice: «Mandare Vattani a Singapore è come mettere la volpe a guardia del pollaio – lo scrive il presidente Gianfranco Pagliarulo – perché a Singapore rappresenta la Repubblica, quella che nel nel famoso concerto promosso da CasaPound dieci anni fa Vattani definiva fondata sui valori “degli epuratori, della violenza, del tradimento e sulla lotta armata fatta da banditi e disertori, dinamitardi e bombaroli”»

Attendiamo curiosi la risposta.

Buon venerdì.

Conoscere è il primo passo verso una soluzione

A Palestinian boy waves his national flag during an event marking Land Day near the Israel-Gaza border as mass rallies planned to commemorate the event were cancelled amid concerns about the spread of coronavirus disease (COVID-19), east of Gaza City, on March 30, 2021. (Photo by Majdi Fathi/NurPhoto via Getty Images)

La situazione attuale rappresenta l’apice di un sistema di disuguaglianze e ingiustizie che va avanti da troppi anni: l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi e l’embargo contro Gaza incarnano l’intollerabile violenza strutturale che il popolo palestinese subisce quotidianamente. Condanniamo le politiche razziste e di discriminazione nei confronti dei palestinesi #NotInOurName».

Questo messaggio di giovani israeliani è diventato virale in rete. Fa respirare. Dà speranza per un futuro diverso in cui finalmente i giovani palestinesi e israeliani possano dialogare per costruire la pace fermando le violente politiche di Benjamin Netanyahu di annessione e colonizzazione dei territori palestinesi, di segregazione e discriminazione degli arabi israeliani, politiche di estrema destra che nelle ultime settimane hanno fatto strage di civili palestinesi e di bambini.

Una strage avvenuta anche a causa dei razzi contro Israele lanciati da Hamas, formazione religiosa fondamentalista che ha tutto l’interesse ad ingaggiare un braccio di ferro con l’ultradestra israeliana per rafforzarsi nei Territori. Così come Netanyahu ne ha tratto vantaggio politico potendo usare l’alibi della difesa per bombardare l’inerme popolazione palestinese, distruggendo anche l’unico laboratorio anti Covid a Gaza nonché la torre Al Jalaa, sede di media internazionali come Al Jazeera e Ap.

Di tutto questo siamo tutti responsabili. L’escalation di violenza ingaggiata da Israele e da Hamas doveva essere fermata subito. Il dramma che si è consumato sulla pelle di civili palestinesi innocenti poteva e doveva essere evitato, ma la comunità internazionale non ha mosso un dito: il silenzio di Bruxelles è stato assordante, la Germania non ha rinunciato a consegnare al governo israeliano i sottomarini della Thyssenkrupp, come se niente fosse.

La stessa amministrazione Biden, che aveva sospeso (seppur temporaneamente) la vendita di armi all’Arabia Saudita, ha continuato a rifornire lo Stato israeliano. Il presidente degli Stati Uniti ha parlato di diritto di Israele a difendersi. E la parlamentare democratica Rashida Tlaib di origine palestinese, ha commentato che «nel leggere le sue dichiarazioni, difficilmente capiresti che i palestinesi esistono», come ricostruisce Roberto Prinzi in un pezzo che ben illumina lo scenario geopolitico su cui si innesta questa impennata del conflitto israelo-palestinese, la peggiore dal 2014.

Da esso cercano di trarre vantaggi in molti, dall’autocrate turco Erdoğan al presidente cinese Xi Jinping interessato a rafforzare la Via della seta. Puntando sulla carta della diplomazia e non sulle armi, Pechino, che esercita la presidenza di turno al Consiglio dell’Onu, si è offerta di ospitare colloqui tra le due parti.

Per antica vicinanza alla Palestina, ma anche per mantenere gli intensi rapporti commerciali che legano la Cina a Israele, snodo fondamentale del silk road, hub tecnologico fondamentale per il 5G. In questo scacchiere internazionale resta stritolato il popolo palestinese, stretto fra l’incudine del governo di destra israeliano e il martello di Hamas, mentre l’Autorità nazionale palestinese guidata da Abu Mazen ha sempre meno forza e credibilità.

Da quindici anni non si vota in Palestina. Le giovani generazioni che in queste settimane hanno acceso le proteste sono perlopiù apartitiche, come scrive Chiara Cruciati, non si sentono rappresentate. Sono ragazzi nati e cresciuti dopo la seconda intifada del 2000, cresciuti in enclave separate senza avere neanche la possibilità di conoscere i propri coetanei. Sono giovani che hanno sogni e aspirazioni che non trovano realizzazione, che hanno sempre vissuto fra muri e checkpoint.

In questo numero di Left cerchiamo di dar loro voce, di conoscerli più da vicino («Conoscere è il primo passo verso una soluzione» diceva Vittorio Arrigoni), raccontando anche quei loro coetanei israeliani che rifiutano di arruolarsi, che non accettano l’ostracismo teocratico proclamato nel 2018 con la legge su «Israele Stato-nazione del popolo ebraico».

A Gerusalemme est, nel quartiere di Sheikh Jarrah, il governo israeliano da anni attua politiche di gentrificazione che hanno come obiettivo più o meno latente la pulizia etnica come ricostruisce qui Flavia Cappellini che per anni ha seguito vertenze e processi. Di fronte a tutto questo la comunità internazionale non può chiudere gli occhi.

In attesa di conoscere quale sarà l’esito dell’inchiesta avviata lo scorso marzo dalla Corte penale internazionale che indaga sui crimini di guerra commessi da l’esercito israeliano (attacchi sproporzionati, omicidi intenzionali ecc) e sui crimini di guerra commessi da Hamas, non possiamo restare in silenzio.


L’editoriale è tratto da Left del 21-27 maggio 2021

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