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Porti delle nebbie. Il governo italiano e i respingimenti illegali in Libia

Some of 260 migrants prepare to disembark late on May 11, 2021 from the "Asso Trenta" ship after a failed transhipment attempt on the quarantine ship "GNV Azzurra" on the island of Lampedusa. - Italy called Tuesday for "solidarity" from its European Union partners in managing increasing number of migrants after more than 2,000 people landed on its shores in recent days. (Photo by Mauro Seminara / AFP) (Photo by MAURO SEMINARA/AFP via Getty Images)

Circa 270 persone affidano i loro sogni e la loro esistenza alla capacità di resistere di alcuni vecchi gommoni. Salpano dalle coste di Tripoli. Alle loro spalle, i tormenti e le mostruosità che si vivono in un lager per migranti. Ma, dopo una ventina di ore di navigazione, sono alla deriva. I profughi chiamano l’Italia, per lanciare l’Sos. Una motovedetta libica, la Zwara, interviene per recuperarli. Ma la nave è troppo carica.

Allora interviene un mercantile italiano, l’Asso ventinove, di proprietà della Augusta offshore, che operava nei paraggi a supporto delle piattaforme petrolifere presenti in quel tratto di mare. È notte. I viaggiatori, in teoria, hanno compiuto la loro missione. Si trovano su un’imbarcazione battente bandiera tricolore. In acque internazionali. Sono in Italia.

Avrebbero diritto a chiedere asilo. A loro viene comunicato che si arriverà nel Belpaese. «Adesso dormite», gli dicono. E alcuni si addormentano. Il loro risveglio però è un incubo. La nave commerciale approda a Tripoli. Fine del viaggio.

I passeggeri vengono internati nei lager di Tarek al Mattar e Triq al Sikka. Dove torture, stupri e privazioni sono all’ordine del giorno. Tra di loro (si stima la presenza di 29 donne e 54 minori) ci sono anche Josi, che avrebbe perso la vita poche settimane dopo in uno di quei luoghi infernali per una tubercolosi non curata, e Daya, incinta all’ottavo mese di Loni, che in uno di questi lager viene alla luce. Dai loro nomi deriva quello del collettivo che ha scoperto la vicenda di cui stiamo parlando: Josi e Loni project (Jlp).

I fatti riportati risalgono al periodo che va dal 30 giugno al 2 luglio del 2018. Somigliano molto a quelli di un caso “gemello”, quando il 30 luglio, un mesetto dopo, la Asso ventotto, parte della flotta del medesimo armatore, imbarca 101 profughi in acque internazionali decidendo di fare rotta verso la Libia. Quell’episodio, però, fa scalpore. Tg e quotidiani parlano a lungo della palese violazione del diritto di asilo.

A Napoli per questa vicenda è in corso un processo penale. L’altro episodio, quello di inizio luglio, per molti mesi rimane nascosto. Nessuno ne parla. Nessuno ha visto o sentito nulla. Il nostro settimanale, mettendo in fila le testimonianze e le prove raccolte dal collettivo animato dalla scrittrice e blogger Sarita Fratini, è il primo media a denunciare la vicenda. Forse i nostri lettori lo ricorderanno: “Deportati in Libia, storia di un respingimento segreto” era il titolo dell’inchiesta pubblicata su Left il 14 giugno 2019.

Da quel giorno, molti sono stati i passi in avanti nella ricerca della verità. Grazie anche all’impegno quotidiano, instancabile, di Sarita e del collettivo Jlp. Lo scorso febbraio cinque cittadini eritrei, cinque tra le persone deportate ad inizio luglio 2018, avviano un’azione legale presso il Tribunale civile di Roma, sostenuti dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e da Amnesty international.

La causa viene intentata nei confronti dell’allora governo Conte I, con Matteo Salvini al ministero degli Interni, Danilo Toninelli ai Trasporti ed Elisabetta Trenta alla Difesa, del comandante della Asso ventinove, Corrado Pagani, e della compagnia Augusta offshore di Napoli. Una mossa che fa venire a galla molti nuovi elementi.

L’armatore della Asso ventinove avrebbe consegnato documenti in cui non solo viene ammesso il respingimento (non più) segreto, ma viene indicato anche il ruolo di coordinamento che avrebbero avuto le autorità militari italiane di stanza a Tripoli, a bordo della nave Caprera, e di quelle che partecipano all’operazione Mare sicuro, a bordo di nave Duilio. Secondo le carte, tra cui il diario di bordo della Asso ventinove, la Augusta offshore avrebbe preso ordini diretti dalla Marina tricolore. Sarebbe stata l’Italia…


L’inchiesta prosegue su Left del 28 maggio – 3 giugno 2021

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Umanità sconfinata

FILE - In this July 25, 2017 file photo, sub saharan migrants wait to be rescued by aid workers of Spanish NGO Proactiva Open Arms, in the Mediterranean Sea, about 15 miles north of Sabratha, Libya. Rival Libyan militias have turned their guns against each other in fierce fighting that has killed dozens the past weeks and endangered Roman ruins in Sabratha. The fighting is in part fallout from an Italian-backed deal that funded militias to act as police forces to stop migrants from crossing the Mediterranean to Europe. The deal dramatically reduced migrant crossings, but sparked a backlash from other militias in the city. (AP Photo/Santi Palacios, File)

Un giovane senegalese raggiunge la riva dopo una disperata traversata verso la costa spagnola. Sulla battigia scoppia a piangere. Lei, una coetanea spagnola stagista della Croce Rossa, gli dà un po’ d’acqua e, non potendo fare altro, semplicemente l’abbraccia. Il gesto più naturale del mondo.

Eppure per quel gesto umanissimo Luna Reyes, questo il suo nome, è stata riempita di insulti, violenti, osceni, infami. Nonostante le ricerche non siamo riusciti a trovare traccia, nelle cronache e altrove, del nome del ragazzo. Anche questo la dice lunga.

(Dopo essere andati in stampa abbiamo saputo che il ragazzo si chiama Abdou e ha 27 anni, lo ha scoperto una testata giornalistica spagnola. Abdou è stato rispedito in Marocco dalle autorità di Ceuta, ndr).

Nonostante gli insulti, la foto, per fortuna, ha circolato moltissimo diventando una immagine simbolo. Anche per questo l’abbiamo scelta come copertina di questo numero di Left in cui, nuovamente, torniamo ad occuparci di migrazione.

È un’immagine che ci parla di vita, di speranza, della migliore gioventù, libera da pregiudizi, che non resta indifferente, che rifiuta la disumanità di barriere, muri, respingimenti.

Come quel filo spinato di divieti, lungo molti anni, che impedisce ai migranti l’approdo in Spagna, respingendo chi arriva attraverso Ceuta e Melilla, due enclave spagnole situate nella costa nord del Marocco eredità antistorica del passato coloniale. Lungo quel confine da tempo è schierata la Guardia civil, segnale che la Spagna (come del resto gran parte dei Paesi europei) tratta la migrazione, fenomeno sociale inarrestabile, come un problema di ordine pubblico, negando i diritti umani.

Indebolito anche dalla batosta politica presa dal leader di Podemos, Pablo Iglesias, a Madrid dove purtroppo ha vinto la destra, il governo spagnolo ha adottato il pugno duro.
Il primo ministro socialista, Pedro Sánchez, non è il primo leader progressista a sconfessare gli ideali di sinistra respingendo chi arriva in cerca di un futuro migliore scappando da guerre, persecuzioni, emergenze climatiche e povertà. Peggio di lui aveva fatto nel 2005 il socialista Luis Zapatero. Ma certo questo non consola. Anzi.

Come ci ricorda Marina Turi con il suo reportage è già sbiadito il ricordo di quando Sánchez, nel 2018, accoglieva la nave Aquarius della Ong Sos Mediterranee con a bordo 629 migranti, mentre Salvini brandiva l’ascia dei porti chiusi contro persone inermi e bisognose di aiuto.

Come abbiamo osservato in Italia all’epoca dei governi Renzi e Gentiloni rincorrere le destre sul loro terreno per tentare di fermare un fenomeno complesso ed epocale come quello dell’immigrazione significa prendere una china inaccettabile di negazione dei diritti umani e per il centrosinistra anche fortemente autodistruttiva.

Il centrosinistra ha perduto ogni credibilità progressista quando Marco Minniti da ministro dell’Interno ha avviato la “criminalizzazione” delle Ong e il processo di screditamento del modello di accoglienza realizzato a Riace da Mimmo Lucano; accanimento politico che ancora continua da parte della procura di Locri, come riporta qui Mimmo Rizzuti.

Per quanto tutti i processi a carico di Ong intentati in Italia siano fin qui terminati senza condanne (compreso quello contro la capitana di Sea watch Carola Rackete), per quanto i decreti Salvini siano stati in parte modificati recependo i rilievi del presidente Mattarella, i fermi amministrativi a cui sono sottoposte le navi Ong ne impediscono comunque l’attività, come ci ricordano Giulio Cavalli e Giorgia Linardi di Sea watch.

E intanto in mare si continua a morire, come testimoniano le agghiaccianti foto di bambini che abbiamo visto nei giorni scorsi. E si muore lungo la rotta balcanica dove i migranti vengono picchiati e respinti dalla polizia croata. Si muore nei lager libici dove i naufraghi vengono riportati dalla guardia costiera che noi foraggiamo lautamente. Mario Draghi ha persino plaudito pubblicamente al loro buon servizio.

Il 25 maggio il premier è andato a Bruxelles per sollevare la questione almeno di una redistribuzione dei migranti in Europa ma ha fatto un buco nell’acqua, non c’è stata nemmeno discussione, tutto è rimandato al Consiglio che si terrà a fine giugno.

Non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla violenta ipocrisia di un’Europa arroccata su se stessa, disposta a pagare regimi autoritari e clan di ogni tipo perché trattengano i migranti sull’altra sponda del Mediterraneo; persone che poi vengono usate alla stregua di merce di scambio e strumento di pressione come ha fatto il governo marocchino a Ceuta. Come ha fatto più volte il governo turco guidato da Erdoğan.

Nelle settimane scorse la commissaria Ue per gli Affari interni, Ylva Johansson è andata in Tunisia con la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese per fare ulteriori accordi di contenimento dei flussi, per concordare respingimenti e rimpatri. Nessun provvedimento solidale e costruttivo sarà preso prima dell’estate. Nessuna revisione degli accordi di Dublino è all’orizzonte. Nessun piano di corridoi umanitari.

I Paesi di Visegrád alzano i soliti muri. E intanto incombe la spada di Damocle del patto per la migrazione annunciato dalla presidente della Commissione europea Ursula Von der Layen lo scorso settembre. Tra le proposte sul tavolo, come ha ricostruito l’inchiesta di Leonardo Filippi, c’è anche quella di esternalizzare ulteriormente le frontiere con un sistema di hotspot per fare screening dei migranti in barriera, concedendo a persone estremamente vulnerabili solo pochi giorni per presentare l’eventuale domanda di protezione.

Un meccanismo che svuota del tutto il diritto di asilo come hanno denunciato gli avvocati di Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. Di fronte a questo scenario di desertificazione dei diritti umani i politici di destra – da Salvini a Meloni – a reti unificate tornano a sventolare la bandiera di una invasione che non c’è.

Blaterano di difesa della sicurezza nazionale. Da chi sarebbe messa a rischio? Da invasori come quel neonato salvato da un militare della Guardia civil che abbiamo visto in una toccante foto?

Ancora una volta le destre vanno a caccia di un capro espiatorio cercando di occultare la sicurezza che davvero manca in Italia, quella sui posti di lavoro, quella sulle reti di trasporto. Nonostante la recente strage in funivia, nonostante il crollo del ponte Morandi, le destre di lotta e di governo invocano la cancellazione del codice degli appalti, la liberalizzazione dei subappalti, il ritorno delle gare al massimo ribasso per velocizzare i cantieri di grandi opere, mettendo a rischio la vita dei lavoratori, aprendo le gare alla possibilità di infiltrazioni mafiose.

Rischi per altro già paventati da Raffaele Cantone, ex presidente dell’Anac. Quella del Recovery plan doveva essere la grande occasione per ammodernare il Paese, per mettere in sicurezza il territorio creando posti di lavoro e invece per la gestione che intende farne il governo Draghi dando ascolto a Salvini, rischia di riportarci direttamente agli anni Cinquanta.

Perfino gli Usa di Biden, come nota nella sua analisi Natale Cuccurese, sono più progressisti dell’Italia del governo dei migliori. Basta pensare ai 2.300 miliardi di dollari stanziati dal presidente nordamericano per un piano infrastrutture, ai 200 miliardi stanziati per gli asili, agli investimenti per corsi universitari biennali gratuiti e borse di studio pagati con una forma di patrimoniale.

Parola che nell’Italia di Draghi neanche si può pronunciare. Così come non si può dire che per far ripartire il Paese occorre sbloccare gli investimenti, non i licenziamenti. Ma noi non ci facciamo mettere il bavaglio. Nemmeno dai (cosiddetti) migliori.


L’editoriale è tratto da Left del 28 maggio – 3 giugno 2021

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Ripartenza senza freni

Foto Piero Cruciatti / LaPresse 26/05/21 - Stresa, Italia News Incidente funivia Stresa-Mottarone Nella foto: Il luogo dell’incidente della Funivia Stresa-Mottarone dove è visibile il dispositivo che mantiene aperte le ganasce del freno detto 'forchettone' Foto Piero Cruciatti / LaPresse 26/05/21 - Stresa, Italia News Cable car disaster site In the photo: Members of the Alpine Rescue team work on the site of the cable car disaster that killed 14 people on Sunday

Il quadro che esce dalle prime indagini sulla tragedia del Mottarone dove una funivia caduta ha provocato la morte di 14 persone sta assumendo contorni terrificanti. Siamo solo nelle fasi preliminari, certo, ma che le tre persone fermate (Luigi Nerini, proprietario della società che gestisce l’impianto, la Ferrovie Mottarone srl, il direttore dell’esercizio Enrico Perocchio e il capo servizio Gabriele Tadini) abbiano ammesso di avere consapevolmente disattivato il freno di emergenza segna già un punto importante. Quel freno provocava il blocco dell’impianto e l’ultimo intervento tecnico non era riuscito a risolvere il problema così si è pensato bene di manometterlo per non interrompere il servizio.

Per giorni ci si è interrogati sui eventuali difetti di materiali o un errore tecnologico mentre ora, ancora una volta, riaffiora l’errore umano. Anzi, a bene vedere, tanto per tenerci all’ecologia del linguaggio, si potrebbe dire che qui stiamo parlando di avidità umana, roba un po’ diversa dal semplice errore: si tratta di avidità, di scelte prese consapevolmente a discapito della salute per non avere perdite di fatturato. Il discorso è sempre quello: considerare la sicurezza un disturbo, una perdita di tempo o un vezzo burocratico significa assegnare poco valore alle vite umane. Forse è accaduto sul Mottarone, molto probabilmente è accaduto per il ponte che avrebbe fatto perdere soldi alle autostrade, accade quando per velocizzare la produzione si asportano le protezioni dai macchinari che si inghiottono i lavoratori, accade quando non si mettono in sicurezza i cantieri da cui volano gli operai, accade quando si finge di non sapere i livelli di inquinamento degli impianti (accade più lentamente ma accade), succede quando si risparmia sulla manutenzione. «L’errore umano ci può sempre essere, la consapevolezza nel togliere le misure di sicurezza non può, non deve e non bisogna neanche sognarsela», ha dichiarato Valeria Ghezzi, presidente dell’Associazione nazionale esercenti funiviari.

È sempre il profitto ritenuto più importante delle vite umane. Sempre quel vecchio discorso che nessuno vuole affrontare con parole chiare. È il pensiero di una società che va ripensata proprio dalle fondamenta da questo punto di vista. E allora sorge un dubbio, volendo allargare il discorso: semplificare le procedure di sicurezza per proteggere il fatturato è esattamente il pensiero che sta dietro a certe proposte anche di questo governo. E che questa “voglia di ripartenza” per molti sia smodata voglia di fare in fretta soldi per recuperare il perduto rende l’argomento ancora più sensibile. Pensateci, vale davvero la pena soffiare nella ripartenza senza freni?

Buon giovedì.

(nella foto: funivia Mottarone, il “forchettone” che manteneva aperte le ganasce del freno)

A scuola di libero pensiero con le Giornate della laicità di Reggio Emilia

Le Giornate della laicità di Reggio Emilia tornano in presenza, dal 10 al 13 giugno 2021. A quasi un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, dopo mesi di isolamento e difficoltà, ci riappropriamo finalmente di quella dimensione sociale del confronto e della discussione che è propria del nostro modo di essere e fare cultura.

Di fronte a uno scenario così complesso come quello della ripartenza, sono tanti i motivi per cui è importante tornare a parlare di laicità e pensiero critico. Il primo è forse il più evidente, perché mai come oggi il pensiero critico, razionale e scientifico e la conoscenza rappresentano le uniche armi in nostro possesso per interpretare la realtà che ci circonda e affrontare le sfide del futuro.
La pandemia prima o poi finirà, ma le scelte che prenderemo oggi segneranno gli anni a venire. Proprio per questo diventa fondamentale rilanciare quei principi alla base del pensiero laico – concetti quali la libertà, il rispetto, la tolleranza e la solidarietà – come anticorpi contro il rischio e l’avanzata di visioni confessionali o reazionarie, che puntano a ridurre i diritti delle persone e la loro possibilità di autodeterminarsi.

Infine torniamo a parlare di laicità con tutto il senso politico che questa azione comporta, facendo sentire la voce di una comunità che si oppone all’invasione dei fondamentalismi nello spazio pubblico, e che chiede una vera applicazione di quel principio di laicità sancito nella Costituzione che è garanzia di uguaglianza per tutti, indipendentemente dal credere in qualche religione. Un impegno che come associazione Iniziativa laica condividiamo con Left e MicroMega, mediapartner di un’edizione importante e che segna una “rinascita” del festival.

“La scimmia nuda. Natura (è) cultura” è il tema di una quattro giorni di dibattiti e riflessioni a più voci, con la direzione scientifica di Cinzia Sciuto, in un’inedita formula ibrida che vedrà la compresenza di incontri dal vivo e appuntamenti in sola diretta streaming, con la partecipazione di autori e pensatori di fama internazionale tra cui gli amici di Left Simona Maggiorelli e Federico Tulli.

Hanno già confermato la loro presenza Maurizio Ferraris, Simona Argentieri, Francesco Remotti, Guido Barbujani, Roberta de Monticelli, Paolo Nichelli, Paolo Flores D’Arcais, Eva Cantarella, Sumaya Abdel Qader, Michela Milano, Chiara Saraceno, Giorgio Maran, Carlo Sini, Elena Gagliasso, Massimo Baldacci, Elena Granaglia e Telmo Pievani. Ad oggi sono 15 gli appuntamenti in programma, cui se ne aggiungeranno presto altri in via di definizione.

A fare da filo conduttore sarà il rapporto tra natura e cultura, due termini spesso pensati quali antitetici nonostante la natura di esseri umani sia esattamente quella di animali culturali che, grazie alle elaborazione e all’uso della propria intelligenza, riescono a interagire e a trasformare sé stessi e l’ambiente che li circonda. “Tutto ciò che l’essere umano produce – nel bene e nel male – è frutto della sua ‘natura’ di Homo Sapiens. E cultura significa libertà. Essere animali culturali significa essere (almeno in potenza) soggetti autonomi, non determinati dagli istinti ma neanche da quella sorta di ‘seconda natura’ che a volte ci cuciamo addosso: l’imprinting culturale e tradizionale del contesto in cui ci capita di nascere. La scimmia nuda quale noi siamo, armata solo del proprio intelletto, si trova di fronte ai problemi del nostro tempo: i cambiamenti climatici, la gestione del fine vita, le società complesse, le crescenti diseguaglianze, i diritti civili, le pandemie. Senza un dio a cui delegare responsabilità e da cui pretendere salvezze, sta a noi uscire dallo stato di minorità e assumerci la responsabilità delle nostre scelte. Una sfida importante. Una sfida entusiasmante.

Ad aprire le Giornate della laicità sarà il filosofo Maurizio Ferraris con una lectio sull’influenza prodotta dal web sul linguaggio umano e sulla capacità di documentare e trasmettere conoscenze”. Il tema della corrispondenza tra natura e cultura sarà affrontato sotto diversi aspetti: spetterà all’antropologo Francesco Remotti fare un approfondimento sul significato di appartenenza ad una determinata cultura e sull’influenza che quest’ultima ha nel determinare la nostra identità e una specifica visione del mondo, mentre il genetista Guido Barbujani farà un viaggio a ritroso nella nostra storia di essere umani, analizzando la biodiversità nelle popolazioni antiche e il successivo determinarsi delle diverse culture.

Si riallaccia al dibattito attuale sull’identità di sesso, genere e identità l’approfondimento della psicoanalista Simona Argentieri, mentre il libero arbitrio fra neuroscienze e filosofia sarà al centro del dialogo tra la filosofa Roberta de Monticelli e il neurologo Paolo Nichelli.

Non mancherà una riflessione sul fine vita, con un approfondimento del filosofo e direttore di MicroMega Paolo Flores d’Arcais; sempre sul tema dell’autodeterminazione, la storica e giurista Eva Cantarella si concentrerà sul percorso di emancipazione di Homo Sapiens dai vincoli imposti dalla natura e dalla volontà degli dei, in un lungo percorso che parte dai poemi omerici per arrivare ai giorni nostri.

La libertà di espressione e il diritto alla blasfemia, a partire dalla decapitazione del professor Samuel Paty da parte di un fanatico musulmano per aver mostrato in classe alcune vignette che ritraevano Maometto, saranno invece il filo conduttore del dialogo tra Cinzia Sciuto e la scrittrice e attivista Sumaya Abdel Qader.

La direttrice dell’Alma Mater Research Institute for Human-Centered Artificial Intelligence Michela Milano proporrà invece un approfondimento sull’intelligenza artificiale, tra potenzialità e rischi.

Non poteva mancare uno sguardo sulla contemporaneità della pandemia, con una lectio del filosofo della scienza ed evoluzionista Telmo Pievani sull’etica della responsabilità dopo Covid-19. “Lavoro di cura e cura del lavoro” sarà invece la chiave di lettura degli interventi della sociologa Chiara Saraceno e dell’economista Giorgio Maran, per un incontro organizzato in collaborazione con Cgil Reggio Emilia, che vede la partecipazione del segretario generale Cristian Sesena in veste di moderatore.

Il rapporto tra scienza, politica e cittadini, fra diffidenza complottistica e affidamento fideistico, sarà al centro dell’approfondimento dell’epistemologa Elena Gagliasso, mentre il pedagogista Massimo Baldacci si concentrerà sul ruolo e il valore dell’istruzione come elemento portante del renderci esseri umani.

La povertà e le diseguaglianze sociali intese come esito di precise scelte politiche ed economiche, anche in relazione alla pandemia, saranno il filo conduttore dell’intervento della docente di Scienze della Finanze di Roma Tre Elena Granaglia, e infine il filosofo Carlo Sini approfondirà “i confini dell’umano” e il tema del post-umano. Spetterà al giornalista e scrittore Marco D’Eramo chiudere le Giornate della laicità con un dialogo sul concetto di libertà nell’epoca del capitale umano.

I dettagli del programma sono disponibili sul sito www.giornatedellalaicita.com

Foto di Eleonora Attolini da Pixabay

Intelligenti pauca

Noto in giro una certa sicumera nel descrivere l’azione israeliana su Gaza come una chirurgica operazione di bombe “intelligenti”. Del resto, se ci pensate bene, assicurare di avere colpito solo terroristi e luoghi di terrorismi è l’unico modo per cercare di dare un minimo di credibilità all’assalto.

Che rimane a Gaza? Le Forze di difesa israeliane ci fanno sapere di avere colpito obiettivi sensibili, ucciso uomini di punta di Hamas e avere distrutto più di 90 chilometri della rete di tunnel sotterranei di Hamas: 1.500 «obiettivi terroristici», dice il governo di Netanyahu, aggiungendo anche 675 «basi di lancio di razzi» e più di 200 «terroristi neutralizzati» (cioè ammazzati, per essere chiari).

Manca qualche altro dato: ci sono 1.200 persone ferite, mille edifici distrutti tra case e negozi e 750 case rese inagibili. L’Onu parla di 77mila persone sfollate in tutto. Sono 17 gli ospedali che sono stati danneggiati (non propriamente basi terroristiche, si immagina). Rovinati anche tre grandi impianti di desalinizzazione che hanno lasciato senza acqua potabile 800mila residenti (praticamente metà della popolazione). Almeno 53 le scuole danneggiate. Ammontano a 22 milioni di dollari i danni alla rete elettrica della città. Secondo l’Ufficio delle Nazioni unite per il coordinamento degli Affari umanitari, a causa della chiusura o del funzionamento limitato delle strutture idriche e igieniche, l’approvvigionamento idrico è crollato di oltre il 40%. Secondo le stime dell’Onu 47mila degli sfollati rimasti senza casa hanno trovato rifugio nelle scuole dell’Unrwa e il resto da parenti e amici. Circa 12.800 abitazioni sono state parzialmente danneggiate. Centinaia di uffici privati e di Ong sono stati gravemente danneggiati e 33 uffici stampa sono stati completamente demoliti. Distrutto l’unico laboratorio per i test Covid. Nel mirino dei caccia è entrata anche una struttura di cinque piani, la libreria e la casa editrice Al-Nahda sono state demolite, così come una farmacia e l’ufficio centrale dell’Istituto per gli orfani al-Amal.

L’agricoltura ha subito danni per 24 milioni di dollari. Ben 40 milioni di dollari i danni al commercio e all’industria. Tra i siti che hanno subito danni c’è una società farmaceutica, una fabbrica di gelato (italiano) e una fabbrica di materassi, una di inscatolamento di pomodori. Danni totali? Mezzo miliardo di dollari. Mezzo miliardo di dollari.

E torniamo sempre allo stesso punto, a quegli 11 giorni di guerra che sono stati fatti passare come una legittima difesa con bombe intelligenti. Davvero ci vedete legittimità e intelligenza? E poi una domanda: chi paga la ricostruzione?

Buon mercoledì.

L’amara beffa della sanatoria

Bergamo, Italy - September 20, 2014: Immigrants from Pakistan picking grapes during the harvest season in a vineyard in Lombardy, region of Italy.

Un anno fa, in questi giorni, il governo Conte 2 approvava il decreto legge n. 34 con il quale, all’articolo 103, si impegnava a far uscire dall’irregolarità lavoratrici e lavoratori occupati in agricoltura e lavoro di cura attraverso un meccanismo costoso e pieno di ostacoli. Sono state presentate in poco tempo 207mila richieste, di cui meno del 15% in agricoltura, dove un salario dignitoso con un contratto regolare sembra ancora, per molti, un’utopia. Ad ottobre veniva poi approvata una timida riforma dei decreti Salvini. A che punto è l’applicazione delle due riforme?

Partiamo dalla “regolarizzazione”. Poche migliaia sono i permessi di soggiorno rilasciati. «Una situazione di stallo, con pesanti conseguenze in termini di sicurezza sociale, sanitaria e di legalità per il nostro Paese», attacca Giulia Crivellini, tesoriera dei Radicali italiani. Nel Recovery plan è previsto un piano per la lotta al lavoro sommerso e al caporalato, mediante “Incentivi per regolarizzazioni e maggiori ispezioni” intanto, a febbraio solo il 5% delle domande erano state esaminate, e lo 0,71% aveva concluso la procedura con 1.480 permessi rilasciati. Al 10 maggio c’è stata una accelerazione delle procedure. Gli sportelli unici delle Prefetture avevano richiesto il rilascio alle questure di 22.898 permessi di soggiorno mentre risultano rigettate 2.691 richieste di regolarizzazione e 861 rinunce. Le domande esaminate a tale data sono il 12,7 %, dopo 10 mesi. Per le prefetture la lentezza dei tempi è dovuta alla scarsità di personale addetto, tanto è che si è provveduto ad assumere personale con contratto interinale per aiutare gli uffici governativi.

Un numero sufficiente? Sentendo chi sta seguendo le vicende, la risposta è no. Michela Arricale, avvocata, ricercatrice del Cred (Centro ricerca elaborazione per la democrazia) e attiva in alcuni sportelli legali, racconta il disagio provato dopo un incontro alla Prefettura di Roma. «Il prefetto ci ha spiegato che per l’intera provincia lavorano alla regolarizzazione 13 persone e che ne stanno aspettando altre 25, ma restano poche. Il fatto è che – riprende l’avvocata – che questa regolarizzazione è nata sulla paura di non avere abbastanza lavoratori a buon mercato e quindi non ci sono stati controlli formali alla presentazione delle istanze, i funzionari hanno solo protocollato le domande. Tanti hanno presentato la richiesta pur non avendo i requisiti, solo per ottenere, nell’attesa, un titolo di soggiorno valido sapendo che la regolarizzazione è ferma. Solo in quest’anno si sono aperte delle quote per l’ingresso. Le persone con cui lavoro sono preoccupate. Non abbiamo ancora i dati quantitativi sui dinieghi, su cui vorremmo costruire un osservatorio in cui raccogliere le motivazioni. Tra l’altro questi sono impugnabili solo al Tar e costano 600 euro solo di bolli». Arricale parla di prassi illegittime, di errate iniziali interpretazioni delle norme che…


L’articolo prosegue su Left del 21-27 maggio 2021

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Frontiere blindate, il Patto spietato dell’Ue

A man aboard the Asso Trenta ship waits to be taken offshore and transferred on the quarantine ship Gnv Azzurra, on the Sicilian island of Lampedusa, southern Italy, Tuesday, May 11, 2021. Several hundred more migrants have reached a tiny Italian island, swelling to past 2,100 the number of arrivals in 24 hours. Italian state radio said four boats arrived at Lampedusa island after being escorted the last miles to port early Monday by Italian coast guard or customs police vessels. (AP Photo/Salvatore Cavalli)

Dopo le crisi umanitarie sulle isole greche, gli infiniti muri della rotta balcanica, le stragi nel Mediterraneo o quelle nell’Atlantico di chi tenta di sbarcare in Spagna, è davvero possibile rendere le politiche migratorie europee ancora più disumane? Sì, si può. Anzi, ci stanno già lavorando. E non i sovranisti del gruppo di Visegrad, attenzione, bensì la Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen, che lo scorso 23 settembre ha presentato il Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo. Un insieme di testi composto da una Comunicazione, in cui si introducono le misure selezionate, alcune raccomandazioni, che lasciano il tempo che trovano non essendo vincolanti per i Paesi Ue, e cinque proposte di regolamenti, il vero cuore della proposta.

Le bozze di riforma sono state presentate in pompa magna l’anno scorso come strumenti per garantire un «un approccio europeo globale alla migrazione», «procedure migliori e più rapide durante tutto il sistema di asilo e migrazione», «un equilibrio tra i principi di equa ripartizione della responsabilità e solidarietà». Ma, oltre questa fragile coreografia di slogan, la realtà è ben diversa.
«Con questo Patto, l’Ue attuerebbe uno “svuotamento” del diritto di asilo», dice a Left Salvatore Fachile, avvocato e socio Asgi. «Formalmente resterebbe in vigore, certo – prosegue – ma il suo esercizio diverrebbe impraticabile».

Ulteriore “dettaglio”, al Piano è allegata una road map, che indica le scadenze temporali da rispettare. Per la maggior parte dei provvedimenti – tutti quelli più importanti – non si sarebbe dovuti andare oltre al secondo trimestre 2021. Mancherebbe, insomma, poco più di un mese. Se sommiamo questa circostanza al ritorno dell’immigrazione nella parte alta delle agende dei Paesi del Mediterraneo, con l’aumento degli sbarchi legato alla bella stagione, è facile capire che le sorti del Piano potrebbero decidersi nelle prossime settimane. Se poi aggiungiamo che a luglio la Slovenia subentrerà alla guida del Consiglio europeo sostituendo il Portogallo – una leadership di destra, al posto di una socialdemocratica – è lecito supporre che il Piano nel suo iter di realizzazione potrebbe subire un’ulteriore torsione “sovranista”.
I negoziati «sul nuovo Patto su asilo e migrazione stanno avanzando, anche se a rilento», ha puntualizzato nei giorni scorsi Ylva Johansson, commissaria europea agli Affari interni. Lo scorso anno l’allora responsabile Sicurezza della Lega Nicola Molteni aveva etichettato il progetto come una «patacca» che «non cambierà nulla» e non modifica il regolamento di Dublino – che attribuisce al Paese di primo approdo la responsabilità della accoglienza e gestione dei migranti. M5s e Pd avevano sfoderato, dal canto loro, un…


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Fare il leghista con i diritti degli altri

Foto LaPresse - Claudio Furlan 08 Maggio 2021 - Milano (Italia) Cronaca Manifestazione dei Sentinelli ‘Il tempo è scaduto’ a sostegno del ddl Zan in corso all’Arco della Pace a Milano. Photo LaPresse - Claudio Furlan 08 May 2021 - Milano (Italy) Milan, the Sentinelli demonstration in favor of the Zan bill to ask for the approval of the Zan law against homotransphobia has been moved to the Arco della Pace due to the many adhesions. Foto LaPresse - Claudio Furlan 08 Maggio 2021 - Milano (Italia) Cronaca Manifestazione dei Sentinelli ‘Il tempo è scaduto’ a sostegno del ddl Zan in corso all’Arco della Pace a Milano. Photo LaPresse - Claudio Furlan 08 May 2021 - Milano (Italy) Milan, the Sentinelli demonstration in favor of the Zan bill to ask for the approval of the Zan law against homotransphobia has been moved to the Arco della Pace due to the many adhesions.

La notizia era uscita qualche giorno fa ma è passata inosservata e l’ha ripescata con curiosità chirurgica Cathy La Torre, avvocatessa da sempre attiva sui diritti. Leggetela bene perché dentro c’è tutta l’ipocrisia di questo tempo politico e della manfrina tirata strumentalmente in piedi intorno al Ddl Zan e ai diritti Lgbt.

Accade nell’hinterland milanese dove un esponente della Lega, consigliere comunale del Carroccio in un comune dell’hinterland milanese, ha querelato Efe Bal (transessuale impegnata da anni per la regolarizzazione della prostituzione) che lo aveva apostrofato su Facebook dandogli del “frocio”.

Il leghista se l’è presa moltissimo, ha ritenuto la parola “frocio” un insulto ed è iniziata una battaglia giudiziaria che è finita in Cassazione. Ora, seguite con attenzione: per i giudici della Cassazione gli epiteti «costituiscono, oltre che chiara lesione dell’identità personale, veicolo di avvilimento dell’altrui personalità e tali sono percepite dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana». Non solo, aggiungono che «è destituita di ogni fondamento l’affermazione che tale espressione abbia perso il suo carattere dispregiativo per una presunta evoluzione della coscienza sociale. Perché nella prassi, molti ricorrono a quella parola per offendere». In sostanza nella sentenza c’è tutto l’impianto giuridico che sta dietro al Ddl Zan e il consigliere leghista ha combattuto in tribunale perché venisse riconosciuto.

Fenomenale la risposta della condannata che tramite il suo avvocato fa sapere che «rimane convinta di avere ragione. Resta convinta che frocio non è un insulto, che lei è libera di esprimere le proprie considerazioni. E per sostenere fino in fondo le sue idee sarebbe disposta anche a finire in galera. Se il ddl Zan fosse stato legge – ha detto il legale – sotto accusa per omofobia sarebbe finito lui, l’ex consigliere comunale leghista: in interviste e post ha fatto dichiarazioni pesantissime contro i gay».

Sono mesi che i leghisti ci spiegano che davanti alla parola “frocio” bisogna saper ridere poi arriva uno di loro che ci dà una mano a ribadire l’ovvio in tribunale. Fantastici, non c’è che dire. Meglio di uno sketch di Pio e Amedeo.

Buon martedì.

Quel gioco delle tre carte con l’energia pulita

Civitavecchia/Italy - September 14 2014: View from the sea of the port of Civitavecchia in Italy, Europe. Civitavecchia is a sea port on the Tyrrhenian Sea, it is located 80 kilometres west-north-west

Quel fazzoletto di terra e di mare che unisce Civitavecchia con Montalto di Castro è stato il crocevia di importanti lotte ambientaliste. Due in particolare vanno ricordate per trarne suggerimenti per agire oggi: quella vinta contro l’energia nucleare e l’altra invece persa per impedire la centrale a carbone a Civitavecchia. In entrambe si lottò contro un “potere forte”, quello dell’Enel. che da quel territorio prima tentò di far partire un ambizioso programma nucleare, bloccato da due referendum, poi riuscì a rilanciare il carbone che, per confondere le acque magicamente chiamarono “pulito”.

Nessuna di quelle lotte ha avuto la forza di far decollare un modello energetico alternativo, riconvertendo a questo fine le numerose professionalità di Enel ed Eni. Oggi che l’Enel propone di riconvertire la centrale di Civitavecchia a carbone, in una a turbogas, le cose appaiono apparentemente più circoscritte. La maggioranza della popolazione, sostenuta da gran parte dei sindacati e dallo stesso sindaco della città, eletto dalla Lega, si oppone a questo nuovo scempio, sebbene si tenti di convincerla col solito ricatto dei posti di lavoro.
Viene spontaneo domandarsi perché l’Enel insista tanto. In realtà fare o no quella riconversione nasconde un disegno più ampio, di respiro nazionale: decide se l’Italia rimanderà per altri venti anni la transizione energetica, piuttosto che diventare un Paese virtuoso che, non solo sceglie di concentrare la ricerca e gli investimenti sulle tecnologie che riducono il bisogno di produrre energia, ma genera quella veramente necessaria, usando sole, vento e l’acqua, facendo dell’Italia un Paese all’avanguardia nella lotta globale al cambiamento climatico.

La centrale turbogas è solo il cavallo di Troia con cui si tenta di convincere il governo a spendere in una transizione a gas le risorse europee. Basta una lettura superficiale del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) per capire che questa nefasta ed antistorica campagna di Eni ed Enel sta ottenendo risultati.
Se questa è la dimensione della posta in gioco a Civitavecchia, va detto che non è possibile vincere la sfida che è stata lanciata puntando solo sull’opposizione della popolazione, sebbene sostenuta da una parte consistente del movimento sindacale, dalle associazioni ambientaliste, dal sindaco della città e dall’assessora Lombardi alla transizione ecologica della Regione Lazio. Per quanto forte questa mobilitazione per non essere sconfitta deve assumere una dimensione nazionale. Ciò significa che alla transizione ecologica che puzza di gas, proposta da Enel ed Eni, anche quando si parla di idrogeno, va contrapposta una…


L’articolo prosegue su Left del 21-27 maggio 2021

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A volte ritorna… il Ponte inutile e costoso

Era il 9 ottobre del 2012, Beppe Grillo per ribadire il No al ponte attraversava a nuoto lo stretto di Messina aprendo la campagna elettorale del M5s alle regionali siciliane a sostegno del candidato presidente Giancarlo Cancelleri.
Pochi mesi dopo, il 16 febbraio del 2013, Silvio Berlusconi all’apertura della campagna elettorale per le elezioni politiche al teatro Politeama di Palermo disse: «Sogno, perché l’ho sempre avuto nel cuore di poter passare, prima di morire, sul ponte sullo Stretto, che farà della Sicilia una terra super italiana».

Lo scorso 9 maggio lo stesso Cancelleri, ora diventato sottosegretario alle Infrastrutture, con un voltafaccia acrobatico annuncia che il ponte si potrà fare e che verrà realizzato in dieci anni, ma il 5 febbraio del 2018 lo stesso Cancelleri affermava: «Ho sentito Berlusconi dire che la priorità della Sicilia è il ponte sullo stretto. Sì sì, eravamo convinti di esserci sbarazzati (del ponte e di Berlusconi) e invece puntuale a ogni elezione, eccolo ritornare (il ponte e Berlusconi)».
Cancelleri non è il solo a subire gli effetti da pentimento esercitati dal ponte sullo stretto di Messina.

Anna Finocchiaro diceva: «Il ponte era il caviale mentre il pane sono le strade, ferrovie e i porti per la mobilità interna in Sicilia». Durante le primarie contro Bersani, Renzi disse che il ponte sullo Stretto era una brutta pagina da chiudere. Fassino nel 2006, da segretario dei Ds, sosteneva che l’analisi costi e benefici non reggeva, Orlando da ministro dell’Ambiente che era un capitolo chiuso.
Per mesi il governo Draghi ha rassicurato che il ponte non sarebbe mai stato finanziato con i fondi del Pnrr, ma in realtà è stato fatto entrare dalla finestra ciò che apparentemente era stato fatto uscire dalla porta.

Il ministro Giovannini nei primi giorni di maggio ha inviato al Parlamento la relazione tecnica del ministero delle Infrastrutture, in realtà molto politica, che dice sì al ponte – fatto imbarazzante, dedica su 158 pagine totali una pagina e mezza al rischio sismico – e che svela il meccanismo attraverso il quale verrà finanziata l’infrastruttura che non è stata inserito nelle opere del Pnrr. Il meccanismo prevede di destinare al ponte i fondi pubblici provenienti dalle opere che sono finanziate dal Pnrr, e che ora possono essere utilizzati per altri scopi.