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Destra al governo e polizia violenta, così la Culla della democrazia rinnega la propria storia

Policemen gather around their injured colleague after an attack by protesters during clashes in Athens, Tuesday, March 9, 2021. Severe clashes broke out Tuesday in Athens after youths protesting an incident of police violence attacked a police station with petrol bombs, and severely injured one officer. (AP Photo/Aggelos Barai)

La Grecia da cinque mesi è in pieno lockdown, senza una diminuzione reale dei contagi, ma per l’esecutivo affrontare una pandemia non è abbastanza: nell’ultimo mese le questioni sociali sono diventate protagoniste del dibatto politico.
Domenica 7 marzo a Nea Smyrni, un quartiere residenziale di Atene, la polizia ha fatto irruzione nella piazza centrale multando persone e famiglie che erano sedute o passeggiavano. Due ragazzi si sono avvicinati per chiedere i motivi delle multe e dopo pochi secondi di conversazione i due poliziotti hanno colpito più volte con il manganello alle gambe uno dei due ragazzi, il quale non resistendo al dolore, urlava: «Mi fa male».

Una scena agghiacciante, in particolare per le famiglie e i bambini che giocavano nella piazza. Dopo l’avvenimento, sui social media si è scatenata la condivisione dei video che hanno ripreso le scene, diventando in pochi secondi virali. La polizia per difendersi, inizialmente ha dichiarato che le loro violenze fisiche erano nate per la necessità di far rispettare l’ordine pubblico. Tale dichiarazione ha fatto scatenare i residenti del quartiere e i cittadini di Atene, i quali il 9 marzo hanno organizzato una manifestazione pacifica con lo scopo di protestare contro gli abusi delle forze dell’ordine.

In pochi minuti la manifestazione pacifica si è trasformata in scontri in cui le forze dell’ordine hanno usato sostanze chimiche per disperdere la folla. Molte persone presenti alla manifestazione sono state sottoposte a violenze e portate in commissariato senza una ragione valida. Tra di loro molti minorenni e giovani ragazze che hanno subito violenze verbali di carattere sessuale da parte dei poliziotti. È un dovere ricordare il caso di Efi, una ragazza di 18 anni finita in custodia cautelare con l’accusa di avere utilizzato esplosivi contro la polizia, mai stati trovati. Sappiamo che per almeno una settimana non è stata visitata da nessun medico.

I casi di abuso di potere non si fermano. Nella stessa settimana della manifestazione, all’ Università di Salonicco gli studenti che avevano occupato varie sedi universitarie come protesta contro il governo, sono stati violentemente picchiati dalle forze dell’ordine, in particolare dalla squadra Delta, che si è formata solo da tre mesi con agenti che non sono neanche a conoscenza dei loro doveri e dei diritti dei cittadini, abusando di conseguenza dell’uniforme. Nella discussione parlamentare del 12 marzo, i partiti dell’opposizione hanno chiesto al presidente del consiglio Mitsotakis e al ministro della protezione civile Chrysochoidis di fornire delle spiegazioni sui fatti accaduti a Nea Smyrni, sui video girati in rete e non solo, e di spiegare il perché sono state rese pubbliche le informazioni relative al cittadino che ha subito le violenze. Dopo varie esitazioni, il presidente del Consiglio si è scusato per quello che è successo, ma non ha ammesso che le forze dell’ordine abbiano operato senza il rispetto della costituzione e dei diritti umani.

Tali tensioni sociali sono sempre esistite, ma dal 2019, con l’entrata al governo di Nuova democrazia, le violenze da parte dei poliziotti sono aumentate. Si sono registrate più di quaranta denunce negli ultimi mesi da parte di cittadini che hanno subito violenze fisiche e i canali televisivi e vari giornali non ne parlano, in molti casi avviene la divulgazione di informazioni false. Uno dei motivi principali di tale politica deriva dal fatto che nelle casse dei canali televisivi e di certi giornali sono entrati finanziamenti statali. I social media, di conseguenza, sono diventati l’unico mezzo di informazione libera.

Su Facebook e Instagram vengono condivisi video amatoriali di singoli cittadini i quali mostrano le violenze. In ogni Stato, le forze dell’ordine dovrebbero essere organi indipendenti che non devono rappresentare un colore politico. Difendere i diritti fondamentali del cittadino è sempre più difficile e la perdita della dignità umana è qualcosa che si avvicina sempre più. Nell’Unione europea sono diversi gli esecutivi che abusano del proprio potere. Ricordiamo le politiche di Orban in Ungheria e in Polonia da parte del presidente Duda. Nel caso della Grecia, l’Unione europea non ha segnalato nessuna violazione dei diritti fondamentali: non si comprende ancora il perché.

Luigi de Magistris: «La Calabria non sarà più la periferia d’Europa»

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 14-02-2019 Roma Politica Conferenza stampa del Sindaco di Napoli Luigi De Magistris contro l'autonomia differenziata Nella foto Luigi De Magistris a p.zza Montecitorio Photo Roberto Monaldo / LaPresse 14-02-2019 Rome (Italy) Press conference by the Napoli's Mayor Luigi De Magistris In the pic Luigi De Magistris

Luigi de Magistris, a pochi mesi dalla fine del suo doppio mandato come sindaco di Napoli, è pronto a ributtarsi in un’altra sfida politica che appare impossibile: diventare presidente della Calabria così sempre uguale a se stessa e farlo da ex magistrato che proprio lì, in Calabria, ha vissuto i suoi momenti più difficili. Gli abbiamo chiesto sensazioni e prospettive.
De Magistris, perché questa decisione di candidarsi come presidente proprio in Calabria?
È stata una scelta imprevedibile e imprevista. Non era nei programmi. Poi, a dicembre dell’anno scorso, sono arrivate una serie di sollecitazioni da persone che conosco e che mi hanno conosciuto nel corso degli anni, da amici, e hanno cominciato a chiedermi se fossi disponibile. Devo ammettere che all’inizio non ci pensavo molto, poi ho cominciato a rifletterci. La condizione vera è il mio amore per la Calabria: una terra a cui sono legato fin da bambino, in cui ho vissuto dieci anni e in cui per nove anni ho lavorato come pubblico ministero. È una scelta di passione e di amore legata a un progetto politico, all’idea di un laboratorio che possa realizzare la rottura di un sistema e la costruzione di un buon governo credibile attraverso storie e persone con le quali ci stiamo connettendo giorno dopo giorno. La definirei una scelta di profondo amore legato alla Calabria.
Però vista anche la sua vicenda personale, ciò che la Calabria le ha portato in passato, vedendo anche i risultati delle tornate regionali, non le viene il dubbio, come dicono alcuni, che sia una terra irredimibile?
No. È una terra fertile che una certa politica ha voluto desertificare rendendola arida e incoltivabile. Io credo che la Calabria – l’ho visto con i miei occhi e quindi ne sono testimone – sia ricca di storie personali e collettive straordinarie; penso al mondo della cultura, dell’impresa, dell’agricoltura, dell’artigianato. Penso all’impegno forte nel campo dell’ambientalismo e della lotta alle mafie. È una ricchezza che non ha mai trovato, soprattutto a livello regionale, un’adeguata rappresentanza politica.
A proposito di lotta alle mafie, c’è in corso in Calabria un processo storico come Rinascita-Scott e la sensazione è che ci sia intorno un evidente calo di attenzione non solo da parte dei media ma anche da parte dei cittadini. L’antimafia è passata di moda?
Che ci sia un calo di attenzione lo registro soprattutto a livello politico nazionale, il tema non fa parte più di un’agenda prioritaria. Rinascita-Scott è un processo molto importante. Che per tanti anni si sia abbassata l’attenzione, lo dimostra il fatto che uno dei principali imputati di quel processo, l’avvocato Pittelli, fu da me coinvolto in maniera forte nelle due indagini che mi furono sottratte illegittimamente, Poseidone e Why not, e anche all’epoca avevamo ricostruito il suo ruolo di anello di collegamento tra settori della criminalità e settori delle professioni, delle istituzioni, della politica e della magistratura. Ora siamo a 13 anni dopo. Pensate quanto questo personaggio avrà fatto in questi 13 anni. Se 13 anni fa ci fu un potere che ci fermò significa che c’è stato un clima…


L’articolo prosegue su Left del 26 marzo – 1 aprile 2021

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La sfida del Recovery Planet per disfarci dell’ideologia dell’homo oeconomicus

Foto Vincenzo Livieri - LaPresse 15-03-2019 - Roma Cronaca Fori Imperiali. "FridaysForFuture", la manifestazione mondiale contro i cambiamenti climatici e a difesa dell'ambiente Photo Vincenzo Livieri - LaPresse 15-03-2019 Rome (Italy) News "FridaysForFuture", the global demonstration against climate change and to protect the environment

La strada della “società della cura” è partita a giugno 2020 con un “picnic ribelle” a Villa Pamphilj. Era il tempo in cui si pensava di essere quasi usciti dall’incubo pandemico e il governo convocava “gli Stati generali dell’economia” per il piano di ripresa. «Quando ho visto il governo Conte invitare alcune realtà sociali e ambientaliste a discutere lasciandone altre fuori, a protestare, – dice Monica Di Sisto, ideatrice del picnic ribelle – è scattato, e non solo in me, un riflesso democratico: un senso di mancanza tra la suggestiva cornice di Villa Pamphilj e la realtà del Paese sprofondata dal Covid nell’ennesima crisi e al buio di risposte». Così non ci è voluto molto per trovarci a discutere in tanti a Villa Pamphilj, al margine degli Stati generali. Si è proseguito in modo virtuale.

Adesso su quella strada camminano 300 associazioni e si sono incontrate circa mille persone: impresa sorprendente, nel mare di solitudine che un anno fa avevamo combattuto con canti e suoni dai balconi, che invece ci è ripiombato addosso con il suo carico di disastri umani, di proteste economiche, di degrado della politica.

Attraverso queste traversie, la società della cura ha proseguito il suo cammino, perché è nata da una necessità, spiega Raffaella Bolini, una protagonista: «Credo ci abbia accomunato la necessità – quasi un dovere di cittadinanza – di provare a mettere in campo un’ iniziativa all’altezza di un tempo speciale. La pandemia sta dando dure lezioni all’umanità, e a prezzi altissimi dimostra ciò che diciamo inascoltati da decenni: globalizzare l’ingiustizia, commettere ecocidio, mercificare la vita porta a distruggere le condizioni del vivere sulla terra. Ci mostra quali sono i lavori essenziali, quasi sempre i meno pagati e i meno considerati. Ci dice che la sicurezza di ciascuno dipende da quanto sono al sicuro tutti gli altri. Queste lezioni non possono andare sprecate».

Aggiunge Marco Bersani: «È interessante che l’idea sia venuta contemporaneamente a più soggetti, su una identica riflessione: la pandemia ha accelerato le contraddizioni del capitalismo, rendendolo totalmente insostenibile e ha obbligato ciascuno di noi a cercare nuovi paradigmi per rendere più comprensibile l’alternativa di società. Dentro una tragedia che è anche la solitudine di ciascuno, il concetto di cura rende evidente di quale società ci sia urgente bisogno».

Il paradigma della cura viene da lontano, dice Monica: «…lo avevamo conosciuto nelle reti ecofemministe, ma soprattutto in America latina le realtà con cui siamo da sempre in dialogo, stavano organizzando concettualmente la loro reazione al Covid. Lo abbiamo condiviso e rilanciato ed eccoci qui, con tanta strada ancora da fare».

Anche Raffaella ne è convinta: «La cura è gesto, azione, pratica concreta. La cura è bisogno primordiale: i cuccioli, nella nostra specie, muoiono se non accuditi. La cura è un sentimento potente: rende forti i deboli per proteggere se stessi, la prole, il branco, la comunità. La cura è il contrario dell’odio, intorno a cui la destra ha costruito il suo consenso. Non è la rabbia che fa la storia. È l’amore per sè, per gli altri e le altre, per la natura ed il pianeta, che cambia davvero le cose: difendiamo la vita, presente e futura, umana e naturale. È un passaggio importante, nella cultura e persino nell’etica della sinistra: l’analisi razionale dei problemi non basta, c’è bisogno di ricostruire collettivamente un senso al nostro passaggio sulla terra, un senso al nostro esistere in un mondo che senso pare non averne più».

Alle spalle c’è quella storia di movimenti sociali che hanno messo insieme le forze, consapevoli che idee nuove e grandi possono nascere dallo scambio e dall’ascolto reciproco – contaminazione si diceva – con l’orizzonte comune di una trasformazione radicale: «Mi pare il passaggio più importante che abbiamo compiuto, in modo quasi naturale: dare un nome all’alternativa, dire cosa è quel mondo diverso possibile per cui abbiamo tanto lottato, la società della cura. È come se la pandemia, mettendo al centro la salute, abbia fatto emergere quello che finora era appartenuto solo al pensiero femminista, all’eco -femminismo, alle culture indigene: il mondo è malato, ha bisogno di cura».

A 20 anni dal Forum sociale di Genova e dal primo Forum mondiale di Porto Alegre, mi sembra di vederne tracce nella Società della cura: «Allora, per la prima volta dopo decenni, dice Marco – si disse che un altro mondo era possibile, oggi a quel mondo abbiamo dato il nome di società della cura, un orizzonte dentro cui ogni persona possa riconoscersi. Le due esperienze sono accomunate da comuni analisi, riflessioni e proposte, ma quello era un movimento immediatamente globale e planetario (con un radicamento territoriale insufficiente), mentre questo è un percorso nazionale e territoriale (e, per questo, sconta ancora alcune difficoltà teoriche e di iniziativa globale)».

Raffaella pone una questione in più: «La fatica e la gioia di costruire uno spazio comune per superare la frammentazione riprende sicuramente la pratica dei Forum sociali, e anche tanti contenuti dell’ altermondialismo. La vera differenza con quella esperienza mi pare sia che oggi ciascuno è forte dei propri contenuti, ma sappiamo tutti che non basta metterli uno a fianco all’altro. C’è una sintesi da costruire, una sorta di vocabolario nuovo che comprenda tutti e tutte. Abbiamo le tessere del mosaico, ma sentiamo che è ora di realizzarlo, attraverso una convergenza, dove ciascuno mantiene la propria identità, la propria agenda, la propria specificità, per comporre un disegno comune di società altra».

A novembre decine di manifestazioni diffuse. Ho visto a Roma in Piazza del Popolo, inattesa e colorata partecipazione, ricca di una forte volontà di riprendere la parola, di dire la necessità e il desiderio di imprimere una svolta, di uscire dalla solitudine.

A marzo una plenaria virtuale ha composto il Recovery PlanET: un assemblaggio, insieme alle letture femminista e ecologista, di proposte (Agricoltura e allevamento. Debito e finanza. Democrazia. Digitalizzazione. Una prospettiva di genere. Ecologia e ambiente. Formazione, ricerca e cultura. Infrastrutture sociali e welfare. Lavoro. Migrazioni. Pace, disarmo, giustizia globale. Salute. Territori, città, aree interne, abitare, turismo. Trasporti e Mobilità). La domanda più naturale: questo cammino ha dato risultati?

Marco ne ha chiari tre: «a) aver superato la fase difensiva e posto la sfida sull’alternativa di società; b) aver dato un nome a questa alternativa, permettendo l’aggregazione di soggetti differenti in un comune orizzonte; c) aver praticato la costruzione di una convergenza fra realtà, esperienze, lotte e pratiche non chiedendo alcuna omologazione, ma proponendone la sinergia, come tasselli della trasformazione sociale».

Monica è convinta soprattutto della sua originalità di “artigianato politico”. «È un processo autenticamente politico, parte da un’analisi quanto più possibile condivisa, cerca di cucire tutto ciò che è a disposizione, e si mobilita al meglio che si può nel contesto dato. Stiamo procedendo piano ma senza mai retrocedere, in una situazione in cui non si vede tanto altro in campo. Aver scelto la prospettiva femminista della cura abbracciando la sfida della cura del vivente e rinunciando all’ approccio economicista-industrialista e antropocentrico mi sembra un’ obbedienza alla realtà, sempre più compresa come necessaria anche nei diversi spazi di movimento e azione sociale. Tocca a tutte e tutti, essere capaci di farla camminare su più gambe (e teste) possibili, includendo, spiegando, cucendo. I più giovani, impegnati nell’ambiente e nel mutualismo, le seconde generazioni, ce ne ricordano sempre l’urgenza: “Non c’è più tempo da perdere, questo disastro che ci state consegnando va affrontato insieme, ora”».

E per questo si tessono fili con altre realtà in movimento: Non Una di Meno e l’assemblea della Magnolia della Casa internazionale delle donne, Black lives matter e Fridays for future… In mezzo a una politica che abbiamo visto diventare palude, per poi scattare ad applaudire unanimemente l’uomo di Bruxelles, potranno avere un peso queste persone, queste idee, queste volontà? «L’avere peso – dice Marco – dipenderà da quanto il percorso della società della cura sarà capace di comunicare non solo alle attiviste e agli attivisti ma all’insieme della società; da questo punto di vista i percorsi territoriali che si stanno costruendo sono di assoluto buon auspicio».

Raffaella guarda oltre: «La vera prova credo che debba ancora arrivare, ed è la capacità di trasformare in mobilitazione questo intenso e positivo lavoro collettivo. La pandemia ce lo impedisce per ora, ma questo è il salto che dobbiamo prepararci a fare. Il potere è sordo, offrire un punto di riferimento positivo contro la frustrazione di tante persone è ancor più necessario». Certo la strada è lunga e accidentata, anche da un virus che non arretra, per percorrerla dobbiamo avere una bussola: sostituire il “noi” cooperante all’”io” competitivo.

Educhiamo lo sguardo, può ferire più delle parole

Cara Gabriella le scrivo questa lettera perché credo ci sia molta confusione in Italia quando si parla di razzismo. Mi chiamo Jerry ho 30 anni e sono arrivato in Italia con mia madre dal Ghana quando ero in fasce.
Vivere con la pelle scura in Italia non è facile, quando esci di casa inizia un’avventura sempre diversa che non sai mai come finirà. Ma non è dei gesti violenti che voglio parlare, quelli per fortuna sono sporadici non quotidiani. Vorrei raccontarle del razzismo inconsapevole, quello che ci ferisce ogni giorno. Uno dei modi in cui arriva è lo sguardo e parlando di questo vorrei lanciare una provocazione: promuovere l’educazione allo sguardo.
Sarebbe bello averla come materia scolastica, l’evoluzione ideale dell’educazione civica o il suo proseguimento. Chi ha la pelle del mio colore o chi è diverso viene spesso trafitto dagli sguardi, quelli che il mondo intorno a te non vede ma che tu senti entrarti nella carne come una lama.
Ogni mattina prendo l’autobus per andare in studio, sono un avvocato, uno di primi che ha deciso di intraprendere la carriera da magistrato. Nonostante il mio modo di vestire sia molto classico e ricercato, appena salgo, incrocio gli occhi di alcune signore che appena mi vedono stringono la borsetta al petto. Io sorrido e faccio finta di niente ma poi mi accorgo di quell’altro signore distinto che mi fissa con astio come se mi conoscesse e come se gli avessi portato via qualcosa di importante. Dopo due minuti sale il controllore, si guarda intorno e viene dritto da me, “biglietto” mi dice e vedo i muscoli del suo collo tendersi.
Sono uscito di casa da soli 15minuti e almeno 5 persone mi hanno fatto capire di non essere uguale a loro e di non essere il benvenuto in questa società bianca. Cosa accadrà sino a questa sera? Quante volte dovrò difendermi da uno sguardo o un gesto di razzismo inconsapevole? Io sono un uomo, fatto e finito, ho le spalle grosse ma come torneranno a casa i ragazzini che subiranno le stesse brutte occhiatacce? Molti sono fragili, si sentiranno respinti, diversi, nemici in casa loro. Stiamo rovinando il nostro futuro, fatto di mille etnicità e mille sfumature. È per loro che non dobbiamo smettere di raccontare il razzismo inconsapevole, quello che vive nei pregiudizi e nella cultura di questo paese che tutti amiamo moltissimo.

*-*

L’idea di questa rubrica l’ho avuta dopo aver ricevuto centinaia di lettere tutte con la stessa richiesta: parlare di cultura antirazzista, raccontare il razzismo sistemico di coloro che lo vivono ogni giorno, dare voce a coloro che non ne hanno perché questa società li ritiene invisibili.
Ho voluto iniziare con la lettera di Jerry che trovo estremamente vicina al sentire di ogni afrodiscendente con il quale ho parlato negli ultimi anni. Lo sguardo può ferire più di mille parole perché è in quello che ci riconosciamo uguali e accettati.
Sino a quando, ci sarà questa percezione collettiva scorretta dei corpi neri, lo sguardo rimarrà una potente arma e i nostri figli saranno bersagli facili e indifesi. Attraverso questa rubrica, mi piacerebbe stimolare delle riflessioni che possano aprire la porta ad un nuovo sentire, più consapevole e con una visione verso la pluralità e la multietnicità che ormai fa parte della vita di ognuno di noi. Gabriella Nobile

*

L’autrice: Gabriella Nobile è fondatrice dell’associazione Mamme per la pelle. Ha scritto il libro “I miei figli spiegati a un razzista”, edito da Feltrinelli con la prefazione di Liliana Segre

 


L’articolo è tratto da Left del 19 marzo 2021

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L’Egitto, Regeni e le bugie di Guerini

Foto Ufficio Stampa della Presidenza della Repubblica/LaPresse24 novembre 2014 Roma, ItaliapoliticaIl Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con S.E. il Sig Abdel Fattah Al Sisi, Presidente della Repubblica Araba d'Egitto al QuirinalePhoto Press Office of the Presidency of the Republic / LaPresse24 november 2014 Rome, ItalypoliticsItalian President Giorgio Napolitano with SE Mr. Abdel Fattah Al Sisi, President of the Arab Republic of Egypt to the QuirinaleDISTRIBUTION FREE OF CHARGE - NOT FOR SALE

«In seguito all’omicidio di Regeni la Difesa, in completa sintonia e raccordo con le altre amministrazioni dello Stato, in primis con il ministero per gli Affari esteri e la cooperazione internazionale, ha prontamente diradato il complesso delle relazioni bilaterali con l’omologo comparto egiziano»: sono le parole del ministro alla Difesa Lorenzo Guerini alla commissione d’inchiesta parlamentare sulla morte di Giulio Regeni, pronunciate lo scorso 28 luglio. In fondo, se ci pensate bene, è la posizione di tutti i governi che provano a fare passare l’idea di un raffreddamento dei rapporti con al-Sisi (che sarebbe il minimo, visto quello che è accaduto).

Peccato che sia falso. Il bravissimo giornalista Antonio Mazzeo mette in fila tutto ciò che è accaduto tra Italia e Egitto dopo la morte di Regeni ed è un elenco che fa spavento e che grida vendetta. Una vergogna.

Nel 2016, l’anno della morte di Regeni, la Polizia italiana ha addestrato in diversi centri i poliziotti di al-Sisi oltre a spedire in Egitto un migliaio di computer e di apparecchi.

Nel gennaio 2018 l’Italia spediva in Egitto 4 elicotteri AugustaWestland già in uso alla Polizia di Stato e il ministero dell’Interno cofinanziava al Cairo un progetto di “formazione nel settore del controllo delle frontiere e della gestione dei flussi migratori”.

Dal 13 al 16 novembre 2017, una delegazione del Comando generale del Corpo delle capitanerie di porto ha fatto visita ufficiale per incontrare la Guardia costiera egiziana.

Il Comando generale del Corpo delle capitanerie di porto si è recato nuovamente in visita ad Alessandria d’Egitto dal 25 al 27 giugno 2018. Alcuni giorni dopo la conclusione della visita ufficiale in Egitto, l’allora ministra della Difesa, Elisabetta Trenta (M5s), s’incontrava a Roma con l’Ambasciatore della Repubblica araba d’Egitto, Hisham Mohamed Moustafa Badr. «L’Italia reputa l’Egitto un partner ineludibile nel Mediterraneo, affinché quest’area raggiunga un assetto stabile, pacifico e libero dalla presenza terroristica», dichiarava la ministra.

Il 13 agosto 2018 era la nuova fregata multimissione (Fremm) “Carlo Margottini” della Marina militare a recarsi ad Alessandria d’Egitto per svolgere con la Marina egiziana “un breve ma intenso addestramento, che ha permesso al personale delle due fregate di misurarsi in un contesto multinazionale”.

La prima delle due fregata multimissione ordinate dall’Egitto è stata consegnata a fine dicembre 2020 dopo due mesi di intense attività addestrative dei militari egiziani a La Spezia, condotte dal personale della Marina italiana e Fincantieri.

Il 22 novembre 2018 una delegazione della Forza aerea egiziana, accompagnata da rappresentanti del gruppo militare-industriale Leonardo S.p.a., si recava in visita al 61° Stormo e alla Scuola internazionale di volo con sede nell’aeroporto di Galatina (Lecce).

«Italia ed Egitto hanno completato nel 2019 un programma congiunto per l’individuazione degli effetti dell’esposizione alle radiazioni in caso di un’emergenza nucleare e delle contro-misure e dei trattamenti che possono essere predisposti», rivela un recentissimo dossier dello Science for peace and security programme della Nato.

A Roma dal 25 al 27 maggio 2016 si è tenuto un meeting in ambito nucleare-chimico-batteriologico tra Italia e Egitto tenuto segreto e rivelato da un dossier della Nato.

Questi sono gli incontri ufficiali, poi ci sono i soldi di cui abbiamo scritto. E poi volendo c’è anche il giochetto squallido sull’ambasciatore italiano: si minaccia di ritirarlo, poi sì, poi no.

Ora, vedendo tutti questi episodi (e sono quelli conosciuti) messi uno dopo l’altro davvero vi pare che siano rapporti “freddi”? Davvero nessuno ha un dito da alzare sulle parole di Guerini?

Buon venerdì.

Macerata 2018, non ebbero neanche il coraggio di dire che fu terrorismo

Il libro curato da Marcello Maneri e Fabio Quassoli, Un attentato “quasi terroristico”. Macerata 2018, il razzismo e la sfera pubblica al tempo dei social media, edito da Carocci, analizza con rigore la costruzione sociale, egemonizzata dai media tradizionali e dai politici, dell’episodio stragista consumato il 3 febbraio 2018, quando un neofascista, già candidato alle elezioni comunali per la Lega, sparò a caso su passanti africani, ferendone sei.

Il “quasi terroristico” del titolo potrebbe a prima vista apparire un’espressione pusillanime uscita su qualche giornale o sui social. Non è così. Si tratta di una locuzione cui gli autori arrivano muovendo dalla constatazione che “terrorismo” non è termine da adoperare serenamente se ci si immagina di definirlo con “esattezza scientifica”. La categoria di “terrorismo” ha un originario e ineliminabile potere performativo: non indica tanto un fenomeno, quanto agisce strategicamente, quando un potere preesistente o in formazione, istituzionale o almeno pubblico, evoca l’irruzione di un pericolo, di una minaccia, e propone con rituali partecipati la riparazione di una comunità in nome di valori profondi. In altre parole, il terrorismo non lo si descrive: lo si evoca, lo si dichiara e lo si usa.

Nel caso dell’attacco di Macerata, il tentativo, promosso da Roberto Saviano, di lanciare con un messaggio su Twitter un appello per definirla come terrorismo razzista non riuscì, per la mancata messa in atto da parte di agenti sociali accreditati e influenti di quei rituali di riparazione, senza i quali la categoria non decolla.

La definizione straniante di «quasi terrorismo» risulta efficace; essa è infatti il risultato, e non il presupposto, della ricerca, legittimato dalla qualità del suo percorso. Meglio, dei suoi percorsi: sei piste, seguite dai nove ricercatori, seguono rispettivamente il dialogo su Twitter, l’inter-discorsività tra i social e la stampa, il racconto dei Tg, la straordinaria diffusione di una notizia fuorviante e ingannevole (quella dei cori inneggianti alle foibe durante la manifestazione di Macerata), la pervasività del discorso razzista nei media italiani, la discussione dell’attentato su Wikipedia con i conflitti emersi per giungervi e le differenze tra le varie edizioni linguistiche di questo importante attore mediale.

L’appello di…


L’articolo prosegue su Left del 26 marzo – 1 aprile 2021

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Donne sull’orlo di cambiare il mondo

La Turchia ha deciso di uscire dalla convenzione di Istanbul che fu sottoscritta nel 2011 proprio nella metropoli sul Bosforo. Nei giorni scorsi Erdoğan ha annunciato il decreto di recesso al trattato per la prevenzione dalla violenza sulle donne che obbliga i governi ad adottare leggi per contrastare il femminicidio, le mutilazioni genitali ma anche la violenza domestica. Da tempo il presidente turco ha fatto proprie le istanze dei fondamentalisti islamici e della destra nazionalista che considerano la convenzione di Istanbul un attacco alla sovranità nazionale e alla famiglia tradizionale. E questo è il risultato.
Così dopo aver cercato di silenziare le voci libere nell’università turca ora Erdoğan fa un ulteriore passo contro i diritti umani e delle donne in particolare. Fa rabbrividire che la ministra della famiglia e delle pari opportunità, Zehra Zumrut Selcuk, dichiari che «la lotta contro la violenza sulle donne è garantita dalle nostre tradizioni». L’idea che fermare la violenza sulle donne tra le mura di casa incoraggi i divorzi e l’unità della famiglia appartiene alla logica patriarcale che vuole la donna sottomessa al pater familias, in Turchia come altrove. E pensare che in Turchia le donne conquistarono il diritto di voto e di eleggibilità nel lontano 1930 (con il governo di Atatürk). La laicità della Costituzione kemalista è stata frontalmente attaccata da Erdoğan come hanno denunciato, anche sulle pagine di Left, il premio Nobel Pamuk, l’avvocato e scrittore Burhan Sönmez, scrittrici e attiviste arrestate o costrette all’esilio come Asly Erdoğan, Ece Temelkuran e Pinar Selek.
Negli ultimi anni, e in particolare dopo la stretta autoritaria imposta dopo il fallito golpe del 2016, la condizione delle donne in Turchia ha subito una pesante regressione e il numero dei femminicidi, piaga endemica, è cresciuto moltissimo. Sono già più di 70 i casi accertati dall’inizio di quest’anno. Intanto, come scrive qui Chiara Cruciati, Erdoğan vuole mettere fuori legge il partito curdo e di sinistra Hpd, moltiplica gli attacchi militari in Siria e Iraq e, foraggiato dalla Ue, continua a bloccare i migranti e richiedenti asilo. Emma Bonino, che tanto ha lottato contro le mutilazioni femminili, contraddittoriamente spinse molto negli anni passati per l’ingresso della Turchia di Erdoğan in Europa. E questo ci dice molto delle pesanti contraddizioni dell’Europa liberale che si dice culla dei diritti umani ed esternalizza le frontiere affidandole a chi viola ferocemente quei diritti.
Ma su un punto la fondatrice di Più Europa aveva e ha ragione: nonostante i diritti conquistati sulla carta le donne sono- siamo- ancora invisibili. Anche in Europa, anche in Italia.
Accadeva prima che scoppiasse la pandemia. Ed è tanto più drammaticamente vero oggi. Le donne hanno retto sulle proprie spalle un anno di crisi sanitaria ed economica, durante il lockdown dovendosi dividere fra “lavoro agile”, la didattica a distanza dei figli, la cura degli anziani e della casa. A dicembre i dati dell’Istat hanno messo nero su bianco quel che già avevamo descritto: la gran parte delle persone che hanno perso il lavoro in Italia sono donne. Il 98 per cento dei posti andati perduti a dicembre erano occupati da donne, impegnate nei settori più colpiti dalla crisi come il terziario, il turismo, la cultura, perlopiù con partite Iva, contratti precari e a tempo determinato, senza garanzie. È accaduto nel silenzio generale, senza adeguate politiche di governo che mirino a sostenere e a rilanciare questi settori anche per il futuro del Paese. E nulla è cambiato da questo punto di vista nel passaggio dal governo Conte al governo Draghi. Insieme ai giovani le donne restano le più penalizzate.
Ma le donne sono anche la metà del mondo, una metà resistente, resiliente, nolente o volente, multitasking. Preparate, spesso creative e dotate di una intelligenza nuova che a che fare con la sensibilità, le donne hanno qualità fondamentali per uscire dalla crisi in cui siamo piombati e che ha reso evidente a tutti l’importanza della salute, del benessere psicofisico, della qualità delle relazioni e delle reti di protezione sociale. E questo è il dato che l’establishment politico non “vede”, che non vuol vedere.
Non si comprende che investire sulle donne non è (solo) un imprescindibile fatto di giustizia sociale, ma anche un volano per l’economia, anche solo per il fatto che – banalmente – se le donne lavorano aumenta anche la domanda di servizi. A questo proposito la rete nazionale Il Giusto mezzo chiede l’utilizzo delle risorse del Recovery Fund per la riduzione del gender gap, per sostenere la formazione e il lavoro femminile.
Con una precisa visione: le donne non sono solo una fascia debole da sostenere ma anche e soprattutto soggetti attivi del cambiamento, vogliono contare nella società e in politica per poter cambiare quella normalità malata che ci ha portati dritti in questa catastrofe sanitaria. Ed è questo aspetto meno raccontato del ruolo chiave che oggi giocano le donne in politica che abbiamo voluto mettere al centro di questa storia di copertina che abbiamo realizzato chiedendo a esponenti di sinistra progressiste, laiche, ambientaliste di mettere su carta idee e visioni per riprogettare il futuro.
Le donne sono sull’orlo di cambiare il mondo, per dirla con Annamaria Gallone, la direttrice del Fescaal, il festival del cinema africano dell’Asia e dell’America Latina, intervistata su questo numero.
Uno studio del World economic forum, curato da Supriya Garikipati dell’Università di Liverpool e da Uma Kambhampati dell’Università di Reading, sostiene che i Paesi guidati da donne, dalla Nuova Zelanda alla Finlandia, siano quelli che hanno reagito meglio alla crisi pandemica, chiudendo prima, proteggendo di più la popolazione. Indagheremo per verificare se sia andata effettivamente così. Quello che è certo, intanto, è che le politiche sovraniste, suprematiste, di presidenti e leader aperturisti in nome del profitto e della produzione ad ogni costo si sono dimostrate disastrose. Basta pensare all’ecatombe di morti nel Brasile del negazionista Bolsonaro e negli Usa di Trump, dove il maggior numero di vittime si è stato registrato fra gli afroamericani e le minoranze più povere. Senza dimenticare il Boris Johnson della prima ora che freddamente diceva alla popolazione di rassegnarsi alla perdita dei propri cari più anziani, come se il darwinismo sociale fosse un ineluttabile dato di natura e non il portato anche di politiche ultra liberiste.
Proprio in Gran Bretagna, la settimana scorsa, donne che manifestavano pacificamente sono state caricate dalla polizia. Era una veglia in memoria di Sarah Everard, rapita e uccisa da un poliziotto. La sicurezza, la libertà e l’emancipazione della donne è una questione che riguarda tutti.
Inquietanti segnali di involuzione confessionale e repressiva arrivano non solo dalla Turchia ma anche dal cuore dell’Europa, dalla Polonia di Kaczyński. Le attiviste e i giovani giustamente si sono riversati in piazza in oceaniche manifestazioni di protesta. Dobbiamo fare rete, respingere l’offensiva ai diritti delle donne a livello internazionale ma dobbiamo anche ascoltare la loro voce. È un’occasione per tutti. In molte parti del mondo le donne stanno scrivendo una nuova geografia politica, culturale, economica. Le donne sono protagoniste dell’impegno ambientalista. Dalle donne di sinistra – come leggerete anche in questo numero – vengono proposte che fanno la differenza per il futuro. L’empatia, l’attenzione per gli altri, per gli affetti, per la qualità della vita, per i bisogni e le esigenze delle persone, insieme alla capacità di governare i processi politici ed economici, sono le leve del cambiamento. E non sono certo un’esclusiva femminile, basta che gli uomini abbiano voglia di mettersi in gioco e scoprire queste qualità dentro in sé. La partita è aperta e quanto mai suggestiva perché per immaginare un mondo diverso, più giusto e più umano, serve una grande mobilitazione di intelligenza collettiva.

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Illustrazione di Chiara Melchionna, OfficineB5


L’articolo prosegue su Left del 26 marzo – 1 aprile 2021

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SOMMARIO

Quindi querelerà la Cia

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 09 febbraio 2021 Roma (Italia)Politica Secondo giro di consultazioni per la formazione del governo Nella foto : Matteo Renzi in Via della Missione davanti Palazzo MontecitorioPhoto Cecilia Fabiano/LaPresseFebruary 09 , 2021 Roma (Italy) PoliticsSecond day of government consultationIn The Pic: Matteo Renzi

Eccolo qui, il senatore fiorentino Matteo Renzi, che si incaglia ogni volta che incappa in un’intervista che non compie da solo e che davanti ai giornalisti, giornalisti veri che fanno domande vere e che non servono solo per reggere il microfono, si incarta in una serie di risposte che come al solito eludono le questioni.

Dice Renzi che non c’è nessun conflitto di interessi se un senatore della Repubblica italiana ed ex presidente del Consiglio viene usato, profumatamente pagato, per essere il fondotinta di uno Stato illiberale e dittatoriale come l’Arabia Saudita. Poi precisa che non esistano regole che glielo impediscano e qui sta il punto: il tema non è contravvenire una regola che (purtroppo) non esiste ma l’opportunità di quel gesto. Quindi Renzi rivendica il diritto di essere inopportuno finché non è illegittimo. Buono a sapersi.

Quando qualcuno gli fa notare che Tony Blair è un ex politico che non riveste nessun ruolo attivo il senatore fiorentino butta la palla in tribuna dicendo che comunque Blair riveste un ruolo attivo nel dibattito politico del Paese. Capito? Non coglie differenza tra un politico in carica e un ex politico. Bene così, buono a sapersi.

Ma il punto fondamentale e forse più vergognoso è quando dice «Mohammad Bin Salman? È un mio amico e che sia il mandante dell’omicidio Kashoggi lo dite voi. L’amministrazione Biden non ha sanzionato Bin Salman». Renzi deve avere letto molto distrattamente il report della Cia (ma evidentemente anche i documenti dell’Onu) che dicono tutt’altro. Oppure avrebbe potuto ascoltare le parole della promessa moglie del giornalista saudita. Ma pur di difendersi riesce addirittura a mettere in discussione un omicidio di gravità internazionale che è stato raccontato, studiato e indagato in ogni dove. E siccome la negazione traballa ci tiene a farci sapere che Biden non abbia «bannato» (dice proprio così, come se fossimo su Facebook) il principe saudita. Quindi finché gli Usa non bombardano i sauditi lui si sente tranquillo, buono a sapersi.

Quel “lo dite voi” ha lo stesso suono di quel “questo lo dice lei” che la grillina Castelli usò come “specchio riflesso” con l’ex ministro Padoan parlando (a sproposito) di spread: vi ricordate come ci divertimmo tutti a percularla? Bene, in questo caso c’è di mezzo un giornalista fatto a pezzi. Ognuno misuri le debite proporzioni.

Ora se Renzi è coerente immagino che continuerà a fare come sta facendo negli ultimi mesi, querelando a man bassa chiunque contravvenga la sua narrazione e quindi evidentemente scrivendo anche una bella querela all’Onu e alla Cia. E poi magari bannerà Biden su Twitter. E a posto così.

Buon giovedì.

Così rubavano i bambini, così la Chiesa argentina si girava dall’altra parte

Il 22 agosto 2014 le Abuelas di Plaza de Mayo annunciarono il ritrovamento della nipote di Alicia Zubasnabar de la Cuadra, la prima presidente dell’associazione, morta nel giugno del 2008 senza poter abbracciare la ragazza. È la centoquindicesima nipote ritrovata. Si chiama Ana Libertad ed è una cittadina dei Paesi Bassi, avendo sposato un uomo olandese, ma la sua storia è legata a doppio filo con l’Italia. Gran parte della sua famiglia di origine vive a Milano dopo un esilio forzato dall’Argentina nel 1977, l’anno della sua nascita.

Dalla sua vicenda, che chiama in causa anche l’attuale pontefice, Jorge Mario Bergoglio, all’epoca capo dei gesuiti argentini, prende le mosse il libro “Figli rubati. L’Italia, la Chiesa e i desaparecidos” di Federico Tulli (L’Asino d’oro ed.).

Ecco un brano del primo capitolo che pubblichiamo in occasione del 45esimo anniversario del golpe civico-militare argentino (24 marzo 1976-2021)

In cerca di Ana Libertad

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Verso le ore 21 del 23 febbraio 1977, undici mesi dopo quel 24 marzo in cui una giunta militare aveva preso il potere in Argentina, scatenando quella ‘guerra sporca’ che fece conoscere al mondo il fenomeno dei desaparecidos, un commando di uomini armati e in divisa attaccò improvvisamente con gas e lacrimogeni uno studio dentistico a La Plata, una tranquilla cittadina a circa 60 chilometri da Buenos Aires, al cui interno si stava svolgendo una riunione tra attivisti del Partito comunista marxista leninista (Pcml). L’azione militare durò pochi minuti; secondo la testimonianza di alcuni vicini si concluse con la cattura di sei persone costrette a uscire dall’appartamento per via dell’aria irrespirabile. Héctor Carlos Baratti, Elena de la Cuadra, Eduardo Roberto Bonín, Pedro Campano, Norma Estela Campano de Serra e Humberto Luis Fraccarolli Molina vennero caricati a forza su delle camionette, incappucciati e portati via velocemente verso il V Commissariato cittadino.

In un giorno imprecisato di luglio dello stesso anno, Alicia (Licha) Zubasnabar de la Cuadra trovò un biglietto sotto la porta dell’appartamento in cui viveva a La Plata: «16/6 la signora ha avuto una bambina, non si sa dove sia la bambina, i genitori stanno bene, de la Cuadra» scriveva un anonimo confermando così ad Alicia e al marito Roberto che la loro figlia Elena, rapita al quinto mese di gravidanza e di cui non avevano più avuto notizie, aveva partorito. La famiglia di Roberto e Alicia de la Cuadra era stata già duramente colpita dalla repressione. Il 2 settembre 1976, Roberto José, fratello di Elena e anch’egli membro del Pcml, era stato rapito in casa dei genitori. Sempre nel 1977 era stata la volta del marito di Estelita, sorella di Elena e Roberto José, Gustavo Fraire, e del cognato, Juan Raúl Bourg, e della moglie, Alicia Rodríguez Saenz. L’arresto di Gustavo costrinse Estelita a un esilio rocambolesco verso l’Italia dove viveva un altro fratello, Luis Eduardo: passò attraverso il Brasile dove entrò con suo padre, fingendo di essere una coppia di turisti. Poco dopo dovettero fuggire dall’Argentina anche l’altra sorella Soledad e il marito Carlos Horacio Bourg, fratello di Juan Raúl.

Due giorni dopo il rapimento di Elena i suoi genitori cominciarono a cercarla e presentarono immediatamente una richiesta di habeas corpus all’autorità giudiziaria senza alcun esito. Non ebbero fortuna nemmeno su intercessione della Chiesa cattolica locale. Il loro colloquio con il vicario militare Emilio Teodoro Grasselli, che gli confermò l’arresto di Elena, fu descritto nel 2011 da Estelita de la Cuadra nel corso del processo contro il Piano sistematico di appropriazione dei bambini, leggendo alcuni appunti presi dal fratello Roberto durante l’incontro. Grasselli «dice che Elenita sta bene e che si trova vicino La Plata», lesse la sorella Estelita davanti ai giudici. «Dopo di che il vicario militare consigliò di interrompere le ricerche e di tornare alcuni giorni dopo. Forse avrebbe potuto aiutarli ad avere ulteriori notizie».

Ma quello di Grasselli era solo un modo per liberarsi in fretta di due persone disperate. Figura ambigua, il prelato per anni era stato fedele segretario di quel cardinale Antonio Caggiano che nel 1961 aveva firmato la prefazione di un libro di Jean Ousset, leader del gruppo della Cité catholique e teorizzatore della violenza cristiana contro i pericoli del marxismo leninismo.

Secondo molte testimonianze, compresa quella di Estelita de la Cuadra, monsignor Grasselli aveva creato un ufficio nella cappella Stella Maris a Buenos Aires in cui riceveva i familiari dei desaparecidos. Accanto ai nomi dei morti aveva segnato delle croci, e molto probabilmente Elena era ancora viva quando il vicario parlò con Roberto e Alicia; ma da lui non seppero più nulla. Grasselli si adoperò anche per far fuggire all’estero molti ricercati e loro parenti; ma il fatto che procurasse dei biglietti aerei intestati al conto corrente della marina militare, unito alle informazioni sulla sorte dei desaparecidos, faceva pensare a un suo stretto legame con i loro assassini e torturatori. Un doppio registro molto diffuso tra le autorità ecclesiastiche argentine. E non era un caso che la Stella Maris fosse attigua al quartier generale della marina; proprio dove peraltro si trovava l’ufficio dell’ammiraglio Emilio Massera, uno dei capi della giunta. «Monsignor Grasselli», chiosa Estelita, «era uno che si divertiva a dare false piste ai familiari, pronunciando frasi del tipo: ‘Signora, corra a casa ché suo figlio è là che l’aspetta’. Cosa che poi non era vera».

Il 28 ottobre 1977, mentre Alicia Zubasnabar de la Cuadra sfilava con le prime madri di desaparecidos in Plaza de Mayo a Buenos Aires davanti alla Casa Rosada, sede del palazzo presidenziale, suo marito fu ricevuto da padre Jorge Mario Bergoglio, all’epoca provinciale dei gesuiti argentini. Poco tempo prima avevano ricevuto da Luis Velasco, un sopravvissuto del V Commissariato di La Plata (fratello del ct della nazionale italiana di pallavolo pluricampione del mondo, Julio Velasco), la conferma che il 16 giugno Elena aveva partorito una bimba: Ana Libertad.

«Ana era il nome che avevano scelto Elena ed Héctor in ricordo di Ana Villareal de Santucho, una militante fucilata durante il massacro di Trelew nel 1972» mi racconta Hilario Bourg, figlio di Soledad de la Cuadra e Carlos Horacio Bourg, il fratello di Juan Raúl, «poi durante la prigionia decisero per Ana Libertad. Il futuro papa» prosegue il cugino di Ana che quando arrivò a Milano con i genitori nel 1977 aveva 3 anni «ascoltò la storia che Roberto gli voleva raccontare, sollecitato dal superiore generale della Compagnia di Gesù, padre Pedro Arrupe. In poche righe Bergoglio liquidò la questione affidandola al vescovo ausiliario di La Plata, Mario Picchi». «L’ho incontrato su speciale richiesta di padre Arrupe», scrisse il gesuita a Picchi. «Le spiegherà di che cosa si tratta e gradirei che facesse tutto quanto le è possibile», concluse. Per monsignor Picchi fu alquanto semplice avere notizie che in quel momento migliaia di genitori disperati cercavano senza fortuna.

L’informazione decisiva gli arrivò dal colonnello Reynaldo Tabernero, vice del capo della polizia di Buenos Aires, Ramón Camps. Tabernero, morto prima di arrivare a processo, confermò a Picchi la nascita della bambina e che Ana Libertad era stata data a una coppia che non poteva avere figli. Riguardo a Roberto José, Elena ed Héctor si limitò a dire laconicamente che «non sarebbero tornati indietro».

Roberto José de la Cuadra era nato l’8 giugno 1952. Quarto di cinque fratelli, aveva studiato alla Albert Thomas Industrial School e poi lavorato con il padre in una piccola impresa. Qui fu segnalato per aver protestato contro l’aumento dell’orario di lavoro e per le cattive condizioni lavorative. Tanto bastò per essere sequestrato: scomparve il 2 settembre 1976, a 24 anni, e non è mai più stato ritrovato. Sua sorella Elena aveva 20 anni e faceva l’assistente sociale. Il suo compagno, Héctor Carlos Baratti, era un operaio tessile di 25 anni alla Ducilo de Berazategui, una delle più antiche fabbriche del paese. Di Elena non si è mai saputo più nulla: è una delle circa 30.000 persone attualmente scomparse vittime della repressione in Argentina.

Nel dicembre del 2009, il Centro di antropologia forense argentina ha identificato il corpo di Héctor: giaceva sepolto come N.N. in una fossa comune del cimitero Lavalle a La Plata scoperta oltre dieci anni prima. Secondo i medici legali il padre di Ana Libertad era stato gettato in mare da un volo della morte; la data dell’omicidio è ignota. L’ultima sua notizia in vita è stata fornita nel 1979 da Cecilia Vázquez de Lutzky; la donna, rapita il 19 luglio 1978 e tornata in libertà il 17 maggio 1979, in una dichiarazione ad Amnesty International affermò di aver condiviso la prigionia con Baratti nell’ottobre del 1978 all’VIII Comando di polizia provinciale a La Plata. Successivamente questa testimonianza è stata confermata da un altro ex desaparecido, Juan Frega, durante il primo storico ‘processo alle giunte militari’ del 1985.

Quanto a Bergoglio, una volta incaricato il vescovo ausiliario si disinteressò per sempre della sorte dei tre desaparecidos: madre, padre e figlia. È lui stesso ad ammetterlo sotto giuramento nel 2011, quando testimoniò a Buenos Aires al processo sul Piano sistematico di appropriazione dei bambini. È di nuovo Estelita de la Cuadra a raccontare: «Gli avvocati delle Nonne di Plaza de Mayo e il procuratore federale Martin Niklison ne fecero richiesta e il giudice María del Carmen Roqueta, presidente del tribunale, dovette trasmettere una richiesta scritta, privilegio di dignitari ecclesiastici, che il cardinale Bergoglio decise di accogliere». Costui giurò di dire la verità «su Dio e il Santo Vangelo» e ricordò che padre Arrupe gli raccomandava di ascoltare quelli che chiedevano aiuto «nella ricerca dei loro cari». Ma la sua memoria a un certo punto si inceppò: «Non ricordo i dettagli del colloquio» con de la Cuadra; «non ricordo che mi abbia detto che sua figlia era incinta»; «non ricordo di aver avuto conoscenza di incontri che lo stesso avrebbe avuto con monsignor Picchi» affermò sotto giuramento.

Dopo di che Bergoglio disse di non aver segnalato la denuncia ad alcuna autorità e ammise di non aver fatto nulla per aiutare la famiglia de la Cuadra. Infine, come aveva già fatto l’8 novembre 2010 nella deposizione giurata durante il maxi processo Esma (tortura, sequestro e omicidio di migliaia di persone alla Escuela superior de mecánica de la armada), ribadì di aver saputo dell’esistenza delle Nonne – e di conseguenza della loro attività di ricerca dei nipoti rubati – solo durante il processo alle giunte del 1985, non dimenticando di lodarle: «Hanno fatto e continuano a fare un lavoro immane».

Secondo Estelita, Bergoglio ha mentito: «La questione della gravidanza di Elena era nota sia a lui che a padre Arrupe. Lo stesso mese di giugno in cui nacque Ana, mia sorella Soledad andò in esilio con il marito in Italia. Qui viveva già un altro di noi cinque fratelli, Luis Eduardo. Papà le disse di provare a contattare don Pedro Arrupe che era la più alta autorità dei gesuiti di tutto il mondo. Arrupe aveva con i de la Cuadra un rapporto di lunga data. I miei fratelli chiesero immediatamente un colloquio e dopo un paio di giorni partirono per Roma. Il potente gesuita viene così a sapere del rapimento di Roberto e di Elena e che lei era incinta. Quindi accetta di parlare con il capo dei gesuiti in Argentina, che altri non era che Jorge Mario Bergoglio, per informarlo della situazione e tentare di aiutarli. Arriviamo così all’ottobre del 1977, quando mio padre viene finalmente ricevuto da Bergoglio a San Miguel, dove si trova il quartier generale dei gesuiti. Al termine dell’incontro Bergoglio dette a mio padre la lettera per monsignor Mario Picchi, il quale tra l’altro era il vice di monsignor Plaza, il confessore di Ramón Camps, capo della repressione a La Plata. Con la lettera del gesuita in mano, papà incontrò Picchi il quale disse: ‘Va bene, vedrò Tabernero’».

Due mesi dopo un agente dell’intelligence, Enrique Rospide, confermò a Picchi quanto già detto da Tabernero: dopo aver ribadito che la nipote dei de la Cuadra era stata data a una «buona famiglia», gli disse che dovevano smettere di cercare i familiari scomparsi. La versione di Estelita trova riscontro in numerose interviste rilasciate negli anni da María Isabel Chorobik de Mariani detta Chicha, una delle fondatrici – il 21 novembre 1977 – delle Nonne di Plaza de Mayo insieme a Licha de la Cuadra e altre dieci madri di desaparecidos. Chicha Mariani ha spesso ricordato che i de la Cuadra si rivolsero ai gesuiti di La Plata perché nel passato la famiglia aveva fatto all’ordine importanti donazioni. Peraltro, lo stesso giorno in cui Roberto portò la lettera di Bergoglio a Picchi, Chicha si trovava nella sede dell’episcopato per un appuntamento con lo stesso monsignore.

Era lì per chiedere notizie di Clara Anahí, la sua nipote rapita a tre mesi di vita il 24 novembre 1976. Ecco come andò: quel giorno una imponente operazione militare con carri armati, lanciagranate ed elicotteri distrusse una piccola stamperia clandestina a La Plata in cui la guerriglia peronista pubblicava il ciclostile “Evita Montonera”.

Durante l’assalto morirono tutti e cinque gli occupanti. Tra questi c’era Diana Teruggi, nata a La Plata il 3 dicembre 1950, nuora di Chicha e figlia di Mario Teruggi, di origine piemontese, e di Kewpie Dawson, cittadina Usa. Alcuni testimoni li informarono che un uomo in uniforme prese con sé Clara Anahí, uscita non si sa come illesa dall’attacco, e da quel momento di lei non si è saputo più nulla. Alcuni mesi dopo fu ucciso anche il compagno di Diana, Daniel Mariani, figlio di Chicha. Oggi lei ha 93 anni e continua a cercare la nipote: «Non ho il diritto di morire finché non l’ho ritrovata ». Nel 1989 si è separata dalle Nonne e ha creato una Fondazione la cui attività e il cui gigantesco archivio sono stati determinanti nella ricerca di tanti altri bambini rubati e nei processi contro i loro rapitori. Di quel giorno all’episcopato ricorda: «Roberto de la Cuadra mi parlò pieno di speranza della lettera che portava con sé e della ricerca della piccola nipote».

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L’immagine dell’articolo è tratta dalla mostra Ausencias di Gustavo Germano – Qui altre immagini: link alla mostra 

Il 24 marzo 2021 alle ore 12 Ausencias sarà inaugurata in diretta Youtube Italia/Argentina Un evento organizzato dall’ambasciata della Repubblica Argentina in collaborazione con l’associazione 24Marzo onlus e Chiesa valdese

Essere Marcucci

Foto Riccardo Antimiani/POOL Ansa/LaPresse 05-02-2021 Roma Politica Camera dei Deputati - Consultazioni del presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi Nella foto: Andrea MarcucciPhoto Riccardo Antimiani/POOL Ansa/LaPresse 05-02-2021 Rome (Italy) The delegation of Democratic Party composed by (L-R) Graziano Delrio, secretary Nicola Zingaretti, Andrea Marcucci and Andrea Orlando during a press conference at the Chamber of Deputies after meeting with designated-prime minister Mario Draghi, for the formation of a new government after the resignation of Prime Minister Giuseppe Conte In the pic: Andrea Marcucci

Se qualcuno vuole toccare con mano cosa sia stato per Zingaretti guidare il Partito democratico può comodamente assistere alla sceneggiata che si consuma in queste ore con il capogruppo al Senato Andrea Marcucci.

Un attimo, faccio un passo indietro: ci si dimentica spesso quando ci si ritrova a discutere del Pd che i parlamentari che siedono in Parlamento sono figli delle liste approntate da Matteo Renzi, uno che in termini di premiazione della fedeltà come immancabile qualità politica dei suoi è praticamente insuperabile. Quando si parla di Pd, di come il Pd è cambiato in questi ultimi anni, non si può non tenere conto che la squadra parlamentare è sempre quella, figlia di quell’esperienza, figlia di quel momento.

Andrea Marcucci è stato un renzianissimo: a 27 anni era già deputato nel Partito liberale italiano (non propriamente un erede di Berlinguer, diciamo), ha amato il Pd di Renzi che guardava a destra (ma va?), odia da sempre il M5s (basta andare indietro nelle sue dichiarazioni per accorgersene) e quando Renzi decise di andarsene per fondare Italia viva pianse. Però rimase nel Pd. Ieri Fiano durante l’assemblea dei senatori Pd ha sottolineato che nel Pd “non ci sono ex renziani”. Apprezziamo lo sforzo, ce lo auguriamo tutti ma che qualcuno abbia indossato le vesti del “sabotatore interno” è una sensazione che è emersa più di una volta.

Marcucci comunque diventa capogruppo al Senato e quando il nuovo segretario Letta chiede che siano due donne a guidare le compagini parlamentari, mentre Delrio alla Camera accetta di fare un passo indietro l’inossidabile Marcucci si aggrappa alla poltrona. Irresistibili le sue giustificazioni delle ultime ore: «Decidiamo insieme ma no a imposizioni», dice, come se la decisione di Letta non sia figlia di un organo dirigente e puntando un po’ a fare la vittima, poi aggiunge «crediamo che la questione dell’alternanza di genere sia fondamentale per il nostro partito – si legge nella lettera di Marcucci a Letta – Crediamo anche che oltre gli atti simbolici, che pur a volte sono necessari, serva allargare il campo alle prossime elezioni amministrative, si vota in 8 importanti città, ai tanti luoghi dove un Pd declinato troppo al maschile, esercita funzioni di governo, e non ultimo nella cariche apicali del partito, dove per troppi anni le donne non sono state protagoniste», proponendo in sostanza di trovare donne per sostituire altri uomini ma non lui e infine ha rivendicato “l’autonomia dei gruppi parlamentari”, sempre per quella vecchia storia di riuscire a mostrare sempre e ovunque disunità nel partito. Ora, com’è nelle sue corde, Marcucci ha convocato l’assemblea dei senatori per giovedì. Insomma, non ce la fa, è la sua natura.

Buon giovedì.