Home Blog Pagina 414

E domani, chi li difenderà?

Ieri tutti i quotidiani (e anche oggi sulle edizioni cartacee) si sono improvvisamente svegliati sulle condizioni di lavoro dei dipendenti di Amazon. Sdegno e sconcerto sparso a fiumi come se la politica e il giornalismo avessero bisogno di uno sciopero per rendersi conto delle condizioni in cui si ritrovano moltissimi lavoratori (mica solo di Amazon, eh) e una diffusa “first reaction shock” per abusi che si sapevano da anni. C’è una buona notizia, comunque: scioperare serve ancora, anche alla faccia di chi in questi anni ha voluto svilire lo sciopero come bighellonaggine senza senso. Lo sciopero di ieri dei dipendenti di Amazon in Italia (con un’adesione altissima, circa il suo 75%, tenendo conto dei metodi feroci che l’azienda mette in campo contro qualsiasi suo dipendente che si permetta di alzare una qualsiasi osservazione) è stato uno sciopero nobile perché ha visto l’Italia in prima fila nel mondo: «Vogliamo augurare a tutti voi, fratelli e sorelle italiani, buona fortuna per il vostro sciopero nazionale. Questa è una lotta globale, una lotta di giustizia e siamo dalla vostra parte. Vogliamo ringraziarvi, esprimere la nostra solidarietà e condividere il nostro sostegno», è il messaggio arrivato ieri dal costituendo sindacato dei lavoratori Amazon in Alabama.

Ieri ci si è accorti che esistono aziende che impongono ritmi di lavoro insostenibili, calcolando tempi di spostamento che immaginano strade deserte e incessanti giornate di sole. «Basta essere schiavi dell’algoritmo», dice qualche politico giustamente sdegnato. Qualcuno li informi però che dietro la progettazione degli algoritmi ci sono gli uomini e tanto che ci siamo qualcuno dica ai media e alla politica (che improvvisamente si ridestano attenti sul tema) che ci sono aziende che non hanno algoritmi eppure imprimono ritmi massacranti ai propri lavoratori allo stesso modo, con una ferocia forse meno matematica ma con lo stesso risultato di perdita della dignità.

Lo stesso discorso vale per gli stipendi da fame (giustamente ieri i lavoratori Amazon facevano notare che nonostante facciano le notti non arrivino a prendere 1.300 euro) e allo stesso modo il problema dei contratti che durano solo qualche mese sono un problema diffuso anche fuori dai magazzini di Amazon. Insomma: se ieri in molti finalmente hanno riconosciuto che quelle condizioni non siano sostenibili allora adesso si potrebbe fare il passo successivo e ascoltare i troppi lavoratori che sono nelle stesse condizioni anche senza essere stipendiati da una multinazionale. Ieri, incredibile, per un giorno è diventato finalmente un tema di discussione l’indegna condizione di alcuni lavoratori in Italia. Se ne sono accorti perfino quelli che ci spiegavano come fosse bello consegnare cibo in bicicletta, inventandosi un genere letterario.

Poi ci sarebbe un’altra domanda: questi che esistono solo se scioperano, negli altri giorni, tutti i giorni, chi li difende?

Buon martedì.

Se il Colosseo finisce nell’arena

Roman Colosseum, Rome, Italy

l dibattito sulla costruzione dell’intero piano dell’arena nel Colosseo è iniziato oltre un secolo fa, rianimandosi periodicamente. La prima proposta risale al 1895: promotore presso il competente ministero fu l’Ufficio regionale per la conservazione dei monumenti di Roma, nella persona dell’ingegnere Domenico Marchetti che suggerì al ministro di completare gli sterri dei sotterranei per rendere di nuovo praticabile e libera la circolazione sul piano dell’arena. Il secondo proponente fu, intercessore il ministro dell’Educazione nazionale, il governatore F. Boncompagni Ludovisi. Al soprintendente ai monumenti di Roma, Terenzio, fu chiesto di procedere allo scavo integrale dei sotterranei e allo studio di una eventuale copertura ai «diversi fini della protezione dei resti sottostanti, della restituzione dell’aspetto del monumento, della creazione di un vasto piano utile per i convegni… che l’apertura della via dell’Impero rende ogni giorno più facili e frequenti».

All’ipotesi del governatore di utilizzare il piano dell’arena per i convegni di cui sopra fece seguito la proposta di Terenzio, vòlta a provvedere «ancora meglio alla destinazione dell’anfiteatro per solenni adunate». Eppure lo stesso Terenzio, nel 1932, a fronte dei danni compiuti dagli avanguardisti in occasione delle adunate, tra cui «frantumazioni» di marmi e capitelli, aveva rappresentato al ministro il gravissimo pericolo del ripetersi di grandi affollamenti  al Colosseo e chiesto di scongiurare il ripetersi di simili concessioni del monumento. Ciononostante, nel 1932 si ventilò di sostituire l’originaria copertura di legno con un lastrone di cemento armato utile a garantire «una visione molto più esatta della struttura originale dell’Anfiteatro e della sua grandiosità» e necessario per le «speciali adunate». Il progetto non ebbe seguito.

Completato lo sterro dei sotterranei alla fine degli anni 30 del secolo scorso, nel 1949 fu riproposta, per il Giubileo del 1950, l’ipotesi di una copertura, che in quell’occasione fu realizzata con un semplice impiantito di legno, probabilmente poco o affatto praticabile, in parte poggiato sui bordi dell’arena, ma sicuramente sostenuto da un fitto impalcato, il tutto rimosso al termine dell’anno santo. Si trattò di un evento eccezionale, effimero, come effimera fu, nel 1985, l’audace riproposizione di un settore della cavea e di una porzione dell’arena nell’ambito della prima mostra realizzata nel Colosseo, a cura dell’Ipsoa, L’economia tra le due guerre

La storia insegna e si ripete. Singolari coincidenze si ravvisano tra le proposte passate e attuali. I ministri competenti per la conservazione dei monumenti accolsero proposte avanzate da terzi, inattuabili perché ignoto era lo stato di conservazione della porzione ancora interrata dei sotterranei e per l’entità della spesa. Analoghi gli scopi: ripristino dell’aspetto originario del monumento, utilizzo di uno spazio utile per i “convegni” oggi funzionale, mutatis mutandis, a ospitare spettacoli. Assente ora lo scopo primario dell’azione di tutela, la conservazione del bene, mai citata nella volontà di ripristino. Il soprintendente Terenzio assunse un atteggiamento ondivago, da un lato la condanna per i danni prodotti dalle adunate, dall’altro il plauso per una ricostruzione che quelle stesse adunate avrebbe favorito e incrementato: una posizione difficile e immutabile nel tempo.

Come fosse il piano dell’arena oggi lo vede e lo comprende chiunque, perché una porzione è già stata ricostruita dalla Soprintendenza archeologica di Roma grazie ai fondi dello sponsor, l’allora Banca di Roma, con la direzione dell’architetto Piero Meogrossi e di chi scrive. Inaugurato nel 2000 il piano ha finora ospitato, in rare occasioni, eventi a carattere altamente istituzionale e/o umanitario, come si addice a un monumento unico come il Colosseo i cui sotterranei sono un monumento nel monumento, l’unica parte dell’anfiteatro che ci è giunta,  in assenza di riusi, cristallizzata nell’assetto che aveva alla fine del V secolo quando, anche per effetto dell’innalzamento della falda, fu completamente interrata.

Il progetto fu il risultato della stretta collaborazione tra la facoltà di Ingegneria dell’Università degli studi di Roma La Sapienza, l’Istituto archeologico germanico e la Soprintendenza. L’intervento, funzionale alla ricomposizione della continuità architettonica tra la cavea, la galleria di servizio circostante l’arena e l’arena stessa, fu filologicamente realizzato all’originaria quota d’età flavia, progressivamente innalzata in epoche successive. La realizzazione dell’opera fu resa possibile dall’assenza di strutture conservatesi in elevato, tali da pregiudicare l’intervento.

La Soprintendenza valutò anche la fattibilità di una copertura più ampia ed elaborò nel 2002 il progetto preliminare per l’estensione fino alla mezzeria dell’invaso del piano già realizzato, in prosecuzione della quota flavia. Oltre la mezzeria la quota cambia: l’arena del III secolo è più alta di circa 30 centimetri rispetto al piano originario.

La ricostruzione dell’intero piano, oltre a non configurarsi quale proposta originale, poggia su presupposti superati dagli eventi e dagli interventi già posti in opera. La sua realizzazione non porterebbe alcun beneficio alla capienza: il numero di presenze contestuali nel Colosseo non può superare le 300 unità per esigenze connesse alla sicurezza, come previsto dal vigente piano di evacuazione. Inoltre, oggi dal piano dell’arena la visuale del gigantismo architettonico è già garantita, così come la visuale opposta, dall’attico verso l’arena.

In passato era ignoto lo stato di conservazione delle strutture: oggi le informazioni derivanti da anni di studi, ricerche, analisi, rilievi, carotaggi, scavi archeologici, restauri delineano un quadro molto preciso delle modalità di costruzione dei sotterranei e delle successive modifiche. In sintesi: le murature originarie, pilastri in blocchi di tufo alti circa  6,50 metri, posano su fondazioni lineari e/o curve dalla profondità variabile tra metri 3,25 e 4,80; la loro costruzione fu seguita dalla posa in opera, sull’intera superficie ipogea, di un piano in conglomerato cementizio dello spessore di circa 50 centimetri. E su questo piano poggiano, prive di fondazioni, le murature costruite nei secoli successivi per rinforzare gli alti pilastri di tufo. Per gettare le fondazioni furono intaccate e inglobate strutture di epoche precedenti il bacino della Domus aurea, bacino di cui non si è mai rinvenuto il piano di fondo, presumibilmente non realizzato. Le fondazioni flavie sono gettate entro terreni perennemente imbibiti per la presenza di una cospicua falda che affiora a pochi centimetri di profondità dal piano ipogeo e tracima in condizioni di pioggia continua e/o abbondante fino a raggiungere, talora superare, il metro di altezza allagando l’intero invaso, con conseguente nocumento delle strutture, in particolare le originarie di tufo.

L’attuale copertura parziale ha giovato alla conservazione delle sottostanti murature, grazie a una continua circolazione dell’aria che garantisce la riduzione del tasso di umidità permanente. Una copertura integrale, anche se utilizzata per periodi brevi, altererebbe un microclima consolidato generando, a lungo andare, problemi conservativi. L’insieme delle strutture, benché restaurate, costituisce un sistema molto delicato nel quale è possibile intervenire solo ed esclusivamente con operazioni puntuali, utili alla comprensione del funzionamento del “dietro le quinte”, quali la riproposizione delle varie tipologie di montacarichi, uno dei quali già posto in opera, o del secondo livello ligneo ove attestato: in sintesi, l’arredo tecnico della macchina anfiteatrale.

Precludere ai visitatori, anche se non continuativamente,  la visione generale dei sotterranei e concedere solo a pochi la possibilità di visitarli con biglietto dedicato e a numero chiuso (tutti si affacciano ai vari livelli lungo i bordi dei corridoi per goderne la vista); alterare un’immagine consolidata, ormai storicizzata così come l’erronea ricostruzione della cavea operata da Terenzio; disperdere le energie e umiliare le competenze dei tecnici dell’Amministrazione per consentire la realizzazione di spettacoli, spettatori presenti o meno, quando le funzioni istituzionali del personale sono vòlte alla conservazione del bene e non al suo utilizzo improprio; devolvere una somma ingente per un intervento non necessario e potenzialmente dannoso per un monumento unico e noto a tutto il mondo, assimilandolo a tante altre arene: tutto ciò appare incomprensibile, alla luce di tanti altri interventi di cui il monumento avrebbe bisogno. Se ne citano solo alcuni: la metà del settore meridionale, versante Celio, è al primo livello ancora interrato e chiuso al pubblico. Da almeno 20 anni giace negli uffici dell’Amministrazione un progetto di scavo archeologico, restauro e sistemazione dei percorsi da aprire ai visitatori.

I livelli superiori del monumento, dal terzo all’attico, aperti alle visite lungo percorsi confinati, necessitano di consistenti e urgenti restauri; la galleria intermedia, funzionale in antico alla distribuzione dei percorsi, l’unica conservatasi nel suo assetto post anno 217, attende la prosecuzione e il completamento dei restauri. Percorso di enorme interesse e suggestione, sulle cui pareti si conservano graffiti, intonaci dipinti: sulla parte scoperta della galleria andrebbe ripristinata la volta, come già realizzato nel cosiddetto passaggio di Commodo, per preservare quanto conservatosi e ridurre le dannose infiltrazioni d’acqua che percolano nel secondo livello, ove si susseguono gli spazi museale ed espositivo. Ancora: il Colosseo non è un monumento isolato, ma è parte preponderante di uno spazio architettonico dai contorni illeggibili. La sua area di rispetto, profonda 17 metri, conservatasi lungo il versante labicano, è stata ripristinata solo lungo un tratto del fronte meridionale grazie a un intervento condiviso con il Comune di Roma ed è in attesa di completamento. Anche le disiecta membra (frammenti sparsi ndr) della porticus che circondava l’anfiteatro lungo tre lati sono note solo agli studiosi, e solo un pannello didattico ne ricorda tuttora l’esistenza, benché non manchino proposte di recupero architettonico e funzionale dell’area monumentale. Lo smaltimento delle acque piovane e di falda, problema enorme su cui si sono cimentati i tecnici dal XIX secolo, è ancora in attesa di una soluzione definitiva. Sono solo alcuni esempi.

Accanto all’assenza di motivazioni di merito, sussistono anche problemi di metodo. Un progetto di tale rilevanza non può essere considerato alla stregua di un progetto ordinario, ma deve prevedere un’ampia concertazione preventiva con gli organi tecnici competenti, come avvenuto per la costruzione parziale dell’attuale piano dell’arena. Non solo, dovrebbe ottenere l’approvazione di quello che un tempo era il competente Comitato di settore, organismo ormai emarginato.

*-*

L’autrice: Rossella Rea è archeologa, già direttore del Colosseo per la Soprintendenza speciale per i Beni archeologici di Roma


L’articolo è tratto da Left del 19-25 marzo 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Riprendiamoci i sogni insieme agli studenti

MILAN, ITALY - JUNE 02: A young students attends at the flash mob "La Scuola Sconfinata" in support of greater funding for the public school and its pupils after the coronavirus crisis on June 02, 2020 in Milan, Italy. Schools in the country remain closed, whilst many businesses continue to reopen after more than two months of a nationwide lockdown meant to curb the spread of Covid-19. (Photo by Roberto Finizio/Getty Images)

Prof 1 …E invece dovrebbero essere loro, le maestre e i maestri delle elementari, dovreste essere voi, i prof delle medie e delle superiori a fare dei corsi di aggiornamento a noi docenti universitari. Loro dovrebbero aggiornarci su come si riesce a far sentire a proprio agio, come in famiglia, qualcuno con cui non avresti legami, se non quelli della convenzione sociale per cui tu sei lì a insegnare e lei o lui, lì a imparare.

Prof 2 E invece da noi alle medie venite sempre voi! Ma è giusto: serve a far capire alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi cosa li aspetta quando cresceranno.
Prof 1 Però finisce a volte solo per spaventarli, purtroppo. La chiave dell’insegnamento è l’emotività, e nella scuola, in tutti i comparti, ci sono tanti problemi; ma il primo, a mio avviso, è la mancanza di continuità emotiva. Mi spiego meglio. Quando gli alunni dalle elementari passano alle medie, molto spesso subiscono un trauma emotivo. Il trauma, ad esempio, di passare da una situazione in cui si dà del tu alla maestra, a un’altra in cui il prof è già più distante: è meno mamma, meno papà, meno Dad mi verrebbe da scherzare, e più impiegato statale.

Prof 2 Ed è lì infatti che si rompe già qualcosa. Ma lo Stato siamo noi, come la storia. Dovremmo dirlo in classe che lo Stato sono anche loro, le ragazze e i ragazzi che vengono a scuola. Però questo significa che bisogna mettere il sistema sottosopra, per come la vedo io.

Prof 1 E tu pensa al concetto giornalistico molto usato nella pubblicistica anglofona della piramide invertita. Ovvero: se scrivi un pezzo di cronaca, la base della piramide, le fondamenta, i dati più importanti vanno all’inizio, mentre il picco della piramide, quello che dovrebbe puntare al sole, è in realtà, negli articoli di giornale, riempito di dettagli che il redattore può facilmente tagliare; e per questo che vanno alla fine. Ecco che giri la piramide sottosopra. La società e la scuola di rimando sono invece piramidali nel senso canonico e più brutto del termine: c’è tanta gente alla base della piramide, che viene schiacciata dalle gerarchie più alte; che a scuola sono chi teoricamente ne sa di più. Il picco insomma. I molti sono schiacciati dai pochi, la storia di sempre. La scuola invece per me dovrebbe fare come il giornalismo. In classe, in tutte le classi, la cosa più importante sono loro, i molti; voglio dire, le fondamenta, non i piani alti, non noi che rischiamo di esser visti ex cathedra. Senza di loro cadiamo anche noi. Gli studenti, non solo ci danno lavoro, ma ci legittimano, sono loro a…
(continua)

*-*

Gli autori: Pierluigi Barberio, (Prof 2), è un professore di scuola secondaria di primo grado. Enrico Terrinoni (Prof 1) è professore ordinario di Letteratura inglese all’Università di Perugia e traduttore


L’articolo prosegue su Left del 19-25 marzo 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Errare è umano, perseverare è Bertolaso

Foto LaPresse - Claudio Furlan 02/02/2021 - Milano (Italia) Conferenza stampa di presentazione di Guido Bertolaso come coordinatore del piano regionale per vaccini contro il covid 19 in Regione Lombardia Nella foto: Guido Bertolaso Photo LaPresse - Claudio Furlan Febrary 2, 2021 - Milan(Italy) Press conference to present Guido Bertolaso ​​as coordinator of the regional plan for vaccines against covid 19 in the Lombardy Region In the photo: Guido Bertolaso

Come va in Lombardia? Va molto Bertolaso, purtroppo. Va Bertolaso perché non passa un giorno che non accada un vergognoso malfunzionamento che se la Lombardia non fosse la Lombardia (e se Bertolaso non fosse così tanto Bertolaso) sarebbe su tutti i giornali, sentiremmo Giletti urlare come un ossesso, vedremmo decine di speciali televisivi con giornalisti indignati che ficcano il microfono sotto la bocca di Fontana, di Moratti e del Bertolaso così tanto Bertolaso.

Negli ultimi giorni è accaduto che Letizia Moratti si è perfino spettinata urlando tutta la sua vergogna contro «l’inaccettabile» inadeguatezza di Aria, la società della Regione titolare della piattaforma degli appuntamenti per i vaccini. Avete letto bene: Letizia Moratti se l’è presa con una società di Regione Lombardia di cui lei è vicepresidente, in pratica è il tennista che incolpa il suo gomito per la sconfitta. Ha ragione il dem Pierfrancesco Majorino quando dice che ormai non rimane che stare in attesa del comunicato in cui Letizia Moratti si indigna contro Letizia Moratti, così poi il quadro è completo, il cerchio è chiuso.

Ma in Lombardia continua ad andare tutto molto Bertolaso perché nei giorni scorsi Fontana e la sua allegra combriccola sono riusciti addirittura a superarsi per il caos che sono riusciti a produrre: sabato l’hub vaccinale di Cremona al mattino si è apparecchiato con vaccini, medici e infermieri e si è ritrovato 80 cittadini invece dei 600 previsti per un errore sulle comunicazioni della piattaforma. L’Asst si è messa a telefonare ai sindaci della zona per chiedere di recuperare in fretta e furia gente disposta a correre per farsi vaccinare e non buttare via le fiale inutilizzate. Deve essere stata una scena in cui il caos è esploso in modo inaudito se l’azienda sanitaria è stata costretta a un certo punto a lanciare un appello del genere: «Non venite qui, aspettate di essere chiamati. Continueremo a vaccinare le persone nelle categorie previste da questa fase del Piano vaccinale e quindi over 80, insegnanti, forze dell’ordine, personale sanitario ed extraospedaliero. Presentandosi di propria volontà si contribuisce alla creazione di file e di affollamento».

È andata molto Bertolaso anche a Como e Monza dove di persone ne sono arrivate meno di 20 e invece il personale sanitario ne aspettava 700. Via ancora con le telefonate. Per garantire il massimo dell’erogazione possibile, ha spiegato la direzione ospedaliera, sono state utilizzate liste interne di asili, Protezione Civile, volontari Auser fornite da Ats Brianza, e vaccinato personale scolastico che si è autopresentato, d’intesa con l’Ats e la Dg Welfare che è stata avvisata della problematica.

Qualcuno potrebbe immaginare che domenica almeno sia andata meglio e invece domenica a Cremona a mezzogiorno non si era presentato nessuno. Avete letto bene: nessuno. Zero. Nisba. Il “piano vaccinale” ancora una volta si è risolto in un convulso giro di telefonate per riuscire a svuotare i frigoriferi.

Errare è umano, perseverare è Bertolaso.

Buon lunedì.

A colpi di libri contro il razzismo

Side view of mixte ethnicity school kids sitting on cushions and studying over books in a library at school against bookshelfs in background

Alcune considerazioni sono d’obbligo nella 17esima settimana contro il razzismo (21-27 marzo) indetta dall’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali e finalizzata al contrasto delle discriminazioni etnico-razziali. Nell’ultimo decennio in Europa abbiamo assistito a ripetute azioni di discriminazione sociale e penale nei confronti dei migranti da parte di forze politiche e movimenti di ispirazione xenofoba. L’edificazione di barriere, fisiche e legislative, ha contribuito a dissolvere la ricchezza della differenza e a costruire una rappresentazione dell’altro come disordine e violenza. Si è andato così rafforzando una sorta di imperialismo ed etnocentrismo culturale che rigetta ogni alterità, salvo quando questa assume una funzione utile all’interno del proprio sistema; un atteggiamento che accompagna, da millenni, la storia dell’Occidente.

Anche per questo motivo è sempre più irrimandabile un reale ripensamento del significato del colonialismo italiano. Quasi ottant’anni di storia, dalla seconda metà dell’Ottocento al 1960, che ha riguardato in particolare il Corno d’Africa e la Libia e ha coinvolto tutti i governi succedutisi (Sinistra storica, liberali, regime fascista, fino ai primi esecutivi repubblicani). Ripercorrere quella storia assume oggi il significato di andare incontro ad un ripensamento profondo della nostra cultura, nella misura in cui da tempo sono loro – gli “altri” – che ci propongono un confronto. Storie in connessione. Ripensarci insieme, alla luce di una nuova cultura umanista, potrebbe allora servire a ridefinire l’identità stessa come ibrida e transculturale, non più chiusa e radicata dentro appartenenze e localismi ma aperta al molteplice, portatrice di un inedito e di un nuovo. Una vigorosa spinta al rinnovamento per la costruzione di una identità culturale creola capace di decolonizzare – alla radice – presupposti di unicità ed immutabilità.

Sono queste le premesse fondamentali con le quali un gruppo di attivisti dell’Associazione di promozione sociale Carminella, docenti, mediatori culturali, rifugiati, storici e scrittori – autoctoni e non – ha dato vita al progetto di una Biblioteca antirazzista nello storico quartiere romano del Quadraro. A partire da un’iniziale donazione di testi di epoca coloniale da parte della biblioteca della Fondazione Basso, il fondo si è presto arricchito di saggi critici di storia e antropologia, romanzi, raccolte di poesie e riviste, inviati da scrittori e case editrici. L’idea è di unire nello stesso luogo testi che raccontino le migrazioni di oggi e di ieri, il lento evolversi dei processi di schiavitù e disumanizzazione, così come le lotte di decolonizzazione e per l’autodeterminazione dei popoli. Storie di realizzazione e resistenza e non soltanto di sconfitta. «Ci siamo resi conto della necessità di allargare lo sguardo oltre il Corno d’Africa e la Libia – racconta Marina Chiarioni -, di seguire i processi di decolonizzazione e il neocolonialismo più o meno strisciante che…


L’articolo prosegue su Left del 19-25 marzo 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Covid19, effetto Bolsonaro

Women take part in a protest against Brazilian president Jair Bolsonaro, demanding coronavirus disease (COVID-19) vaccines and emergency aid during the pandemic, on International Women's Day in Sao Paulo, Brazil March 8, 2021. (Photo by Cris Faga/NurPhoto via Getty Images)

Dopo un anno di pandemia la situazione sanitaria in Brasile è letteralmente tragica. In queste prime settimane di marzo si è arrivati a superare gli 80mila casi ufficiali e i 2.200 morti al giorno, con numeri che, fatte le dovute proporzioni, solo gli Usa hanno raggiunto nella fase prevaccinale e nelle prime settimane di vaccinazione. Buona parte delle strutture sanitarie sono al collasso, soprattutto a causa della diffusione delle varianti più contagiose e letali.

La vaccinazione è ancora agli inizi, la percentuale di vaccinati con la prima dose è del 4,57% (dopo un mese e mezzo) e dovrebbe accelerare solo a partire da aprile o maggio, se le consegne della materia prima dall’estero e i ritmi di produzione non subiranno intoppi. Il Brasile, pur non essendo paragonabile alle economie più strutturate del mondo, non è un Paese povero (la distribuzione della ricchezza è qui assurdamente e vergognosamente disuguale, questo sì) e, soprattutto, ha una grande esperienza con malattie tropicali endemiche ed epidemie, ha già organizzato campagne di vaccinazione imponenti ed eseguite in tempi rapidi, tanto che alcuni dei suoi laboratori di ricerca e produzione di  vaccini e antidoti, come l’Istituto Butantã e il Fiocruz, sono tra i migliori al mondo.

Ma allora, perché questa impreparazione e ripetizione di errori di altri Paesi nel contrastare la diffusione e gli effetti della pandemia? La crisi e la frammentazione politica di questi anni sono sicuramente alla base delle difficoltà di gestione della pandemia. Ma vediamo, nello specifico, alcune questioni.

La presidenza della Repubblica è attualmente occupata da una figura non adeguata a…


L’articolo prosegue su Left del 19-25 marzo 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Come si resiste a uno sterminatore

Kayapó indigenous people from the "Baú" and "Menkragnoti" villages, near the city of Novo Progresso, in the south of Pará, Brazil, on August 17, 2020 , block the BR-163 highway in protest against the lack of resources to combat COVID-19, and claiming dialogue by part of the government in the plans of the Ferrogrão, a railway project for transporting grains between connecting the Midwest region to the port of Mirituba, in the north of the state of Pará, on Monday morning, on August 17, 2020. (Photo by Ernesto Carriço/NurPhoto via Getty Images)

Una «politica di sterminio». Così un’associazione di indigeni brasiliani ha definito la condotta di Bolsonaro nei loro confronti. Un piano portato avanti con l’incentivo delle pratiche estrattive di chi invade le zone abitate dagli indios per spremerne le risorse e con la dissennata gestione del Covid, che sta letteralmente decimando i popoli indigeni. Ma qual è la situazione reale nei territori indios? Come si stanno organizzando per resistere? Quali sono le sponde politiche su cui possono contare? Ne abbiamo parlato con l’antropologo Yurij Castelfranchi, professore associato di Sociologia dell’Università federale di Minas Gerais.

Come è vissuta la pandemia dai popoli indios? Come (non) sono stati tutelati, dal punto di vista sanitario, da Bolsonaro?
Una premessa. Come giustamente ricordi, quasi tutte le associazioni e ong indigene parlano apertamente di una “politica di sterminio” e di “genocidio”. In particolare il Coordinamento delle organizzazioni indigene dell’Amazzonia brasiliana (Coiab) e l’Articolazione dei popoli indigeni del Brasile (Apib). Insieme a loro stiamo cercando di raccogliere prove per aprire un processo per crimini contro l’umanità al Tribunale internazionale dell’Aia. Dopodiché, entrando nello specifico, il disastro delle politiche del governo Bolsonaro contro gli indios attraversa vari fronti. Da una mancata assistenza sanitaria ad una assistenza per così dire “criminale”.

Può farci qualche esempio?
L’organo del governo federale che si occupa dell’assistenza sanitaria agli indios è la Segreteria speciale per la salute indigena (Sesai), collegata al ministero della Sanità, e alcuni casi di contagio in villaggi indigeni remoti son correlati all’intervento di medici e tecnici di questo ufficio, che hanno portato il virus persino in zone dove abitano gruppi indigeni isolati o non contattati. Inoltre, il tracciamento è scarsissimo in tutto il Paese, e ancora più nei territori indigeni e i dati sulla diffusione del coronavirus sono poco trasparenti e poco aggiornati.

Nei giorni scorsi l’Apib ha comunicato che si sono superati i mille morti indios per Covid, ma molto probabilmente è una stima al ribasso.
Parliamo di una popolazione indigena brasiliana frammentata in oltre 170 tra gruppi e popoli, alcuni composti da poche decine di persone, quando non poche unità. Non è così facile fare una conta precisa. Un’altra cosa da segnalare è che molti degli indios ricoverati in condizioni gravi oppure morti per l’infezione avevano ricevuto come terapia il famigerato “kit Covid”, un sacchetto contenente farmaci già dichiarati inefficaci dall’Oms e dalle autorità sanitarie brasiliane. Un cocktail con antiparassitari, antielmintici, antibiotici, la famosa clorochina, poi vitamine e zinco. In alcuni casi non è presente neppure la confezione di queste medicine o il foglietto illustrativo.

È vero che alcuni medici ancora prescrivono il “kit Covid”?
Purtroppo sì, sebbene le…


L’articolo prosegue su Left del 19-25 marzo 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Crocifisso e moschetto, il “Bolsonero” perfetto

Tutte le mattine c’è lo stesso rituale. Alle sette, prima di andare a lezione, si issa la bandiera, si intona l’inno nazionale e poi ci si dirige a passo di marcia in aula. Appena arrivano gli insegnanti – che ovviamente sono dei militari, la classe deve scattare in piedi e rimanere in posizione fino a quando non verrà dato l’ordine di riposo. Un perfetto plotone di adolescenti. E no, non si tratta di una puntata del reality show di Rai 2 La caserma (anche se le divise e i modi di fare potrebbero farlo credere). È piuttosto la rigida routine che da più di due anni a questa parte molti studenti brasiliani sono costretti a dover seguire ogni volta che vanno a scuola.

La militarizzazione delle scuole è arrivata in Brasile nel febbraio del 2019 con una riforma firmata dall’ex ministro dell’Istruzione Ricardo Vélez Rodríguez. Rodríguez, di comune accordo con l’allora neo eletto presidente Jair Bolsonaro, stravolse il sistema educativo statale ponendolo sotto il controllo delle forze armate che lo riorganizzarono iniziando una trasformazione delle scuole pubbliche in accademie militari pensate per i ragazzi di età compresa tra i 6 e i 17 anni.

Un tipo di scuola diverso, con un…

* Illustrazione di Carolina Calabresi *


L’articolo prosegue su Left del 19-25 marzo 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Lo sguardo senza confini di Mohamed Keita

«Questo era tutto ciò che avevo, questa immagine rappresenta due punti nello stesso momento, venire e partire». Con parole semplici e di rara intensità il fotografo ivoriano Mohamed Keita descrive la prima foto del suo progetto Roma 10/20, edito dalla casa editrice Punctum che per realizzarlo ha deciso di intraprendere un progetto di crowdfunding. Mohamed Keita si racconta a distanza dalla periferia di Bamako dove da alcune settimane lavora nella scuola di fotografia Kenè (spazio in lingua maliana) da lui fondata nel 2017 per permettere ai ragazzi del luogo di trovare nuove chiavi espressive.

La prima foto del progetto “Roma 10/20”

Quando gli chiediamo il perché del voler realizzare questo libro ci dice che «non si può sempre prendere», ribaltando in un attimo il nostro modo di pensare, soprattutto di concepire un prodotto artistico. Conoscere anche solo una goccia della vita di Mohamed fa venire la pelle d’oca e ci ricorda le storie che da ragazzi possiamo aver letto sui libri di epica con la consapevolezza che fin da allora gran parte degli eventi narrati fossero stati nel tempo ingigantiti o falsificati per costruire miti e leggende. Ma come ha scritto Erri De Luca raccontando di migranti la verità è ben oltre certi stereotipi: «Faremo i servi, i figli che non fate, nostre vite saranno i vostri romanzi d’avventura». Ciò che Mohamed ha vissuto è reale ed è ben scritto nei suoi occhi, sulla pelle, nel suo modo di inquadrare nel mirino.

Mohamed Keita durante un’uscita con i ragazzi della scuola di fotografia Kené che ha fondato a Bamako

All’età di quattordici anni è stato costretto ad andare via dalla sua terra durante la guerra civile in cui ha perso alcuni dei suoi affetti più cari ed ha impiegato anni per arrivare a Roma dove per diverso tempo ha vissuto per strada nei pressi della stazione Termini. Poi grazie ad un’associazione che si occupava di programmi di sostegno si è avvicinato alla fotografia e lentamente le cose hanno preso una nuova forma. Riportare in breve ciò che ha vissuto può essere limitante e ce ne scusiamo, ma ci auguriamo che questo scritto possa essere solo il primo di una serie di approfondimenti per offrire a lui, e a noi, un’occasione di incontro in cui ci piacerebbe anche capire cosa abbia spinto un giovane a fondare addirittura una scuola di fotografia proprio nella terra da cui è fuggito. Ma il coraggioso viaggiatore non si ferma e ad ogni domanda risponde alzando la posta. Ci dice che molte volte preferirebbe che le persone si rapportassero a lui senza mettergli sempre addosso quell’etichetta del migrante che ha vissuto esperienze drammatiche.

Una mattina estiva nei pressi del Quirinale

Nel tempo ha trovato nella fotografia la sua espressione mischiando diverse tecniche, dalla pellicola al digitale. Ma ciò che salta agli occhi nelle sue immagini è questa luce africana che riesce a portare anche in un luogo come Roma, riscaldandone le ombre in modo personalissimo al pari di un pittore impressionista. Guardando le sue immagini sembra talvolta esserci un’influenza neorealista, con un misto di grottesca ironia nei confronti di certi personaggi fotografati che rimandano alla Mayer o a Diane Arbus. Ma Mohamed non sembra voler giudicare e dai suoi scatti emerge una voglia di scoprire silenziosamente una nuova realtà, quella di Roma che come lui stesso ci dice lo ha accolto. Nel guardare “il nuovo mondo” non smette mai di raccontare se stesso e di pensarsi in cammino. Viene voglia di fargli mille domande e nonostante la sua giovane età si ha la sensazione di essere davanti ad un vecchio saggio le cui risposte aperte fanno capire che ciò che avevamo chiesto per sapere i suoi segreti non era altro che una chiave per scoprire noi stessi.

Il libro Roma 10/20 si apre con un’immagine notturna per poi proseguire in un lungo girovagare a piedi per la città eterna. La luce di un flash illumina una busta di plastica con dentro forse qualche vestito, sopra a questa una cartella nera, sotto a tutto per isolarsi dal pavimento freddo un giaciglio di fortuna fatto con del cartone. Possiamo immaginare il nostro fotografo poco prima di riposarsi, che stesse invece per mettersi in cammino o ancora che avesse semplicemente iniziato a sperimentare attraverso l’occhio ciclopico della sua nuova compagna di viaggio. In ogni caso questa fotografia ci arriva come uno specchio d’acqua limpida, mettendoci davanti in un istante alla storia di Mohamed e forse anche alla nostra. In un tempo in cui siamo arrivati a fotografare bramosamente ogni cosa che ci succede per mostrarla senza pudore su un social network con l’ansia di essere visti dal maggior numero di persone possibile la generosità di Mohamed è un balsamo prezioso che ci fa chiedere: Ed io cosa fotograferei se dovessi mostrare “tutto ciò che possiedo” in questo momento?

È possibile sostenere il crowdfunding sulla piattaforma Kickstarter fino al 31 marzo 2021.

L’urlo di Candido, rider ribelle

Food delivery on bicycle. Panning technique, blued motion

Gli scioperi proclamati dai lavoratori essenziali della gig economy – logistica e consegne di Amazon per il 22 marzo; rider per il 26 marzo – tornano a raccontarci la metropoli come luogo di conflitto, incrinando la narrazione falsa e strumentale di una società eccellente e pacificata. Rompere la quarta parete dello spettacolo del tardo capitalismo, immersi nel quale abbiamo scambiato un fasullo potere d’acquisto per benessere collettivo; rovesciare la retorica secondo cui «tutto va bene» e «viviamo nel migliore dei mondi possibili». Abbiamo cercato di fare questo rivisitando in chiave contemporanea il Candido di Voltaire. In un futuro che è il nostro presente tra dieci minuti, in una città che ovunque dispiega i suoi dispositivi di controllo, Candido è un rider. Uno schiavo dell’algoritmo che – riscoperta la dimensione collettiva della vita, quella che l’ideologia dominante delle Big Tech annichilisce –, prende coscienza della sua condizione, decide di ribellarsi e insieme agli altri invisibili tenta di costruire un altro possibile modo di vivere.

I Diavoli

1.2 Estate – Candido e la bicicletta

Divorata in un attimo la colazione, vestitosi di tutto punto, indossata la pettorina verde fluorescente per le consegne e preparato lo zaino dello stesso colore, prima di prendere la bici Candido si collega in fretta a Voltaire. […]
Come sempre, il primo volto che appare sullo schermo è quello di Pangloss. Oggi il filosofo compare alle pendici di un alto monte innevato, circondato da mucche che scampanellano brucando e da monaci buddisti avvolti nelle loro tuniche arancioni in consapevole adorazione del creato; il tintinnare delle mucche e il salmodiare dei monaci sono accompagnati dal pizzicato di un sitar in sottofondo, a restituire alla scena la giusta e doverosa spiritualità. “Un cittadino modello sa qual è la posizione nel mondo che intende raggiungere. E per quanto il suo obiettivo sia difficile, esiste sempre una maniera di superare gli ostacoli” pontifica il volto di Pangloss, che si staglia in quello splendido paesaggio sacrale e bucolico. […]
A ben vedere, nel quartiere dove vive gli unici rumori sono quelli delle macchine scassate degli abitanti che si recano al lavoro nei poli logistici della pianura che circonda la città, dove una volta c’erano fiumi e boschi e ora giustamente ci sono magazzini, capannoni e nodi di scambio commerciale, e l’aria è talmente pesante e plumbea, anche d’estate, che più che alle bollicine fa pensare all’asfalto grigio con cui si fonde e confonde. […]
Passato da uno dei vari magazzini oltre la tangenziale in cui raccoglie il cibo da consegnare, tornato verso il centro e attraversata la prima stazione di controllo sulla circonvallazione, effettuato lo scanner biometrico, Candido con il suo bagaglio di entusiasmo entra finalmente nella zona privilegiata della città. La giornata lavorativa comincia però con un piccolo intoppo. Mentre si trova in un quartiere incluso di recente costruzione poco distante dal suo, nel quadrante sud, progettato dal Consiglio della città per accogliere i nuovi investimenti sullo sviluppo della tecnologia, capitali attratti grazie a un intelligente e prezioso abbassamento del costo del lavoro, non riesce più a raccapezzarsi su quale strada prendere. La mappa virtuale di Voltaire, cui è collegato attraverso il telefonino, segna davanti a lui una strada da cui è possibile imboccare, al secondo semaforo, la traversa che lo conduce agli uffici dove deve consegnare i cornetti e i caffè per la colazione. Ma di fronte a sé Candido vede solo un enorme grattacielo stracolmo di balconi, ognuno dei quali offre una collezione di piante mediterranee e tropicali tali da renderlo un vero e proprio bosco verticale.
“L’hanno appena costruito” lo informa un ragazzo in bicicletta con una mantellina e uno zaino come i suoi, anche se di un altro colore. Un giovane adulto alto e allampanato, dalle gambe lunghissime, ancora un po’ brufoloso e con un ciuffo di capelli rossi che fuoriesce dal caschetto di ordinanza.
“Spillo, amico mio! Che ci fai qui, hai finalmente cominciato a lavorare anche tu?” esclama felice Candido.
“Lascia perdere, Candido, è da tre giorni che faccio consegne e ho già voglia di dare fuoco a tutto e ammazzare quegli stronzi a cui portiamo da mangiare. Che senso ha rompersi il culo sul sellino tutto il giorno per portare a casa cinquanta crediti, se ti va bene, mentre ’sta gente ne guadagna a migliaia senza fare un cazzo?” borbotta Spillo smanettando sullo smartphone.
“Sempre a brontolare, amico mio, sai benissimo che più loro guadagnano, più generose saranno le mance. Se bruci tutto, poi chi ce li dà i crediti, ci portiamo la colazione l’uno con l’altro?” esclama sorridendo il nostro simpatico protagonista.
“Santa pazienza, Candido, sei irrecuperabile” mugugna il rosso. “Vieni di qui, va’, per circumnavigare questo palazzo infestato di piante rampicanti dobbiamo tornare indietro e prendere la seconda a destra. Manco le mappe aggiornano più in tempo reale…”
Poi gli dà appuntamento per il pranzo nel parchetto situato poco sotto la piazza circolare sopraelevata. […] Così, all’ora di pranzo, colmo di gioia, Candido giunge infine in un giardinetto spelacchiato, circondato da nastri gialli e reti pericolanti, che si trova sotto la piazza e dove i lavoratori possono riunirsi in santa pace. […]
Per tutta la mattina non ha fatto altro che pedalare come un forsennato pensando alla sua adorata Cunegonda, e adesso può concedersi il meritato riposo. Non sa, il nostro amato Candido, che Spillo è su tutte le furie perché, terminata una consegna, non ha ricevuto la mancia che si aspettava, e quindi non ha sorriso e ringraziato come richiesto dal contratto di assunzione firmato in triplice copia con lo scanner biometrico, e ora teme un provvedimento disciplinare. Non sa, il nostro tenero eroe, che i suoi nuovi amici passano il tempo della pausa pranzo a lamentarsi dei lunghi orari di lavoro e dei salari bassi, della fatica e dei rigidi controlli cui sono sottoposti senza ricevere in cambio adeguate garanzie e tutele.

(estratto da Candido di Guido Maria Brera con I Diavoli, La Nave di Teseo)

Il libro

Pubblicato da La Nave di Teseo “Candido” è una rilettura del celebre testo di Voltaire. Il protagonista non è più il giovane ingenuo del libro del filosofo francese, ma un rider che, per guadagnarsi da vivere, pedala senza sosta su e giù per la città al soldo dei colossi del delivery. Ed è un algoritmo il sovrano che tutto sorveglia e tutto stabilisce, sostenuto con forza da un novello Pangloss che appare come un ologramma sulle facciate dei palazzi, ripetendo in ogni angolo della città il potente mantra: “Tutto va bene”. Una serie di tragicomici eventi fa maturare in lui il disincanto, finché esplode la rabbia di chi si accorge di essere solo la minuscola parte di un ingranaggio di una società al collasso, nella quale solo i più ricchi possono sopravvivere.

Gli autori sono Guido Maria Brera che nel 2014 ha pubblicato il romanzo I Diavoli. La finanza raccontata dalla sua scatola nera, best seller da cui è stata tratta la serie tv su Sky. Per La nave di Teseo ha scritto Tutto è in frantumi e danza (2017, con Edoardo Nesi) e La fine del tempo (2020). Il collettivo I Diavoli è un laboratorio di narrazioni nato sul web per espandere l’universo dell’omonimo romanzo di Guido Maria Brera. “Informare raccontando” è la formula che restituisce il senso di un’attività di produzione on line e non solo, che racconta i grandi eventi di questo tempo