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Perché quanto è successo il 18 marzo a Bergamo ha diviso, non unito, la collettività

Foto Claudio Furlan - LaPresse 13 Luglio 2020 Bergamo (Italia) cronaca Nuovo Denuncia Day presso la Procura di Bergamo per presentare oltre 100 denunce per le morti da covid Photo Claudio Furlan - LaPresse 13 July 2020 Bergamo (Italy) news New Denuncia Day at the Bergamo Public Prosecutor's Office to present over 100 reports of covid deaths

Gli avvenimenti del 18 marzo 2021 a Bergamo mi hanno riportato alla memoria la battaglia di Roncisvalle. Non il mito, quello della Chanson de Roland, dell’Orlando Furioso dell’Ariosto, ma la storia. La battaglia di Roncisvalle (778 d.C.), sebbene ricordata come una delle più celebri battaglie condotte da Carlo Magno, re dei Franchi, fece parte di quelle operazioni militari con cui costui cercò di ampliare il suo impero. Ma a differenza di quanto si è soliti pensare, influenzati sicuramente dai miti, non furono in realtà i mori-saraceni, quegli “infedeli musulmani”, a sbaragliare la retroguardia dell’esercito franco, bensì fu un gruppo di montanari baschi appartenenti alla tribù dei vascones, per vendicare i saccheggi perpetrati dalle truppe carolinge in territorio navarrese. Ecco, io mi sentivo (e mi sento orgogliosa peraltro di esserlo) appartenente a quella tribù ed ai principi che quella tribù rappresentava, l’anima della propria Terra, il radicamento, il sentimento, l’appartenenza alle radici di una famiglia e di una comunità, della propria origine, dell’essere umano che umano deve restare nella propria umanità.

Con orgoglio perché noi, legali e familiari delle vittime, abbiamo dimostrato che la forza di volontà e l’onestà delle idee a difesa dei propri principi riescono ad avere ragione sulle stuole di cavalieri che, armati delle armature più ingegnose ed all’avanguardia, combattono per ridurre nel silenzio chi invece vuole rivendicare le proprie ragioni, diverse forse e forse in contrasto con quelle dei “re” abbarbicati ancora nei castelli delle loro blindate auto blu.
Il 18 marzo a Bergamo è successa davvero una “cosa” inaspettata per i cavalieri carolongi, perché eravamo in cerchio, noi familiari e legali delle vittime, a celebrare nel silenzio e nella compostezza la memoria dei nostri cari e di tutte le vittime in onore delle quali è stata istituita la Giornata del 18 marzo. Seppure non serva una giornata per celebrare persone e fatti. Sembra scontato ma forse non lo è.

Quello che è successo il 18 marzo a Bergamo ha diviso, non unito, la collettività ed è stato evidente a tutti: da una parte le istituzioni, invitate al Cimitero Monumentale ed al parco della Trucca a Bergamo, hanno sfilato sulle solite passerelle “proibite” alla partecipazione dei familiari; dall’altra gli stessi familiari delle vittime si sono raccolti in un cerchio naturale, nel silenzio rispettoso della memoria e del dolore…. e della delusione. Delusione nel vedere trasformata, ancora una volta, la loro richiesta di sentirsi ascoltati in un ronzio fastidioso da mettere a tacere proprio da parte di chi, per la verità, qualcuno di loro rappresenta. Delusione ed amarezza nel vedere sfrecciare davanti ai loro occhi ed ad alta velocità proprio chi, in realtà, dichiara che lo Stato c’è e ci sarà, come a volere fuggire il più in fretta possibile da chi ha proposto domande legittime e pretende altrettanto legittime risposte, da quelle istituzioni.
Delusione ed amarezza nel vedere presenti in luoghi, che molti dei familiari delle vittime sentono sacri, quelle stesse istituzioni che loro medesimi ritengono co-responsabili di una strage così immane, quasi venisse considerata una profanazione della memoria delle vittime, dei loro cari.

Ma quel cerchio e la presenza di tanti, tutti per la verità, gli organi di stampa, che ai familiari così provati hanno dato voce pubblica, profonda e rispettosa, hanno trasformato quel cerchio in un momento di condivisione profonda del sentire di ciascuno, di supporto, di sostegno psicologico ed emotivo per tutti, per chi era presente e per chi lo era solo con il pensiero e la condivisione emotiva telepatica. Quel sostegno e quella empatia che le istituzioni continuano a far mancare ai propri cittadini. Ed il valore e la forza delle persone ieri presenti in quel cerchio sono riuscite a dare vita palpabile alle immagini delle tristi colonne dei camion militari, come se ieri quei militari fossero li, davanti a noi, a condurre quegli stessi camion lentamente, davanti a quei familiari, che i feretri dei propri cari non hanno potuto mai vedere, per dare la possibilità di rendere l’ultimo saluto. E piangere. Uno spaccato: la velocità e la lentezza. Uno specchio, quello spaccato. Ma un “vento gelido del Nord” che in modo semplice e naturale, quale il vento è, ha sferzato cerimoniali e passerelle e protocolli, a dare prova a tutti che i valori e la forza della tribù dei vascones sono più che mai vive, ora. Nel qui ed ora del nostro triste tempo. Insieme a più di centomila persone, che in quel cerchio erano tornate ad essere vive intrecciando le loro mani con le nostre.

E adesso noi legali delle vittime e di circa 500 dei loro familiari attendiamo che il prof. Draghi voglia concretamente incontrarci, come hanno comunicato fonti interne alla sua segreteria.

*-*

L’autrice: L’avvocata Consuelo Locati è il legale dei familiari di vittime del Covid-19 di Bergamo

Tutti in lockdown tranne i trafficanti di armi

An emirati man watches the United Arab Emirates' air force Aerobatic Team, Al-Fursan, performing along with an Emirates Airline's Airbus A380 at the Dubai Airshow November 17, 2019. (Photo by KARIM SAHIB / AFP) (Photo by KARIM SAHIB/AFP via Getty Images)

Settantamila partecipanti e 900 espositori per la più grande fiera di armi del Medio Oriente per scovare potenziali clienti e vendere ognuno i loro ultimi prodotti, dai veicoli corazzati ai missili balistici. Se c’è un settore che pare non sia stato toccato dalla pandemia, è quello delle armi: il business militare non conosce restrizioni. E così dal 21 al 25 febbraio scorso, nel silenzio totale delle istituzioni internazionali che da una parte si preoccupavano di limitare assembramenti e contatti fisici e dall’altra inviavano le proprie aziende al primo grande evento in presenza di Abu Dhabi dallo scoppio del coronavirus, si è tenuta l’Idex, l’International defence exhibition and conference.

Non c’è Covid che tenga dinanzi ai preziosi interessi economici che ruotano attorno al mercato militare. Non è un caso che, sfruttando proprio l’evento, gli Emirati Arabi (uno dei Paesi impegnati nella criminale guerra in Yemen) hanno annunciato, tra le altre cose, contratti pari a 1,36 miliardi di dollari siglati con produttori locali e stranieri per fornire alle proprie forze armate di tutto, dai droni sudafricani all’artiglieria serba. C’è stato, però, anche chi ha deciso di non partecipare, come gli Stati Uniti, il più grande esportatore mondiale di armi. La ragione? Di mezzo, manco a dirlo, non c’è solo il Covid-19, ma soprattutto questioni di politica internazionale, a cominciare dal rapporto dell’intelligence Usa sul principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e sul ruolo che avrebbe avuto nell’omicidio di Jamal Khashoggi, pubblicato proprio – e forse non è solo una coincidenza – durante l’Idex.

Ad essere presente, invece, è stata l’Italia con un padiglione che ha accolto decine e decine di aziende, a cominciare da Leonardo (che ha forti interessi nella zona della penisola araba, tanto da avere una filiale proprio ad Abu Dhabi), Fincantieri, Elettronica, Iveco e Fiocchi munizioni. Non solo. Perché a partecipare c’era anche l’Aiad (Federazione italiana aziende per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza), l’associazione che raccoglie tutte le società del settore e membro Confindustria. La presenza dell’Aiad (il cui presidente è Guido Crosetto, attuale coordinatore nazionale di Fratelli d’Italia) all’evento non è affatto secondaria. A poche settimane dal…


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Fontana commemora ma dimentica

Ieri è stato un giorno dolorosissimo per Bergamo, in ricordo delle numerose morti accadute un anno fa in quella zona a causa del virus. Hanno partecipato tutte le più alte cariche dello Stato e tra loro svettava anche Attilio Fontana, presidente di Regione Lombardia.

In Italia c’è da sempre questo vizio di sperare che commemorare una tragedia sia il modo migliore per evitare la responsabilità di raccontarla. Forse andrebbe scritto anche che molti famigliari di vittime di Covid nella bergamasca proprio ieri hanno manifestato tutto il loro disappunto contro Regione Lombardia per i ritardi e gli errori nella gestione della pandemia (dalla “zona rossa” dichiarata solo dopo alcuni giorni, all’ospedale di Alzano chiuso e poi riaperto e molto altro).

Il modo migliore per commemorare delle vittime è costruire un sistema in grado di evitare che si ripetano quelle tragedie. Il prode Fontana con la sua truppa sta sbagliando tutto anche per quello che riguarda le vaccinazioni, nonostante il tuttofare Bertolaso. Alcuni consiglieri del M5s nell’ultima seduta del Consiglio regionale avrebbero voluto fargli notare alcuni punti ma gli è stato impedito di parlarne in aula.

Per comodità del presidente glieli mettiamo qui, nel caso voglia spiegarci qualcosa:

1) Il sistema di prenotazione gestito da Aria ha convocato molti anziani lontano da casa perché non aveva aggiornato i Cap dei comuni.

2) Anziani costretti a percorrere 200 km per farsi vaccinare.

3) Decine di migliaia di utenti over 80 sono rimasti senza notizie poiché non è arrivato alcun feedback della piattaforma.

4) Decine di migliaia di lombardi hanno finalmente ricevuto una convocazione e subito dopo una smentita con un successivo sms (tralasciamo l’orario di ricezione degli sms).

5) La campagna vaccinale per le persone più fragili è partita solo il 14 marzo (malati oncologici, pazienti affetti da malattia respiratori o cardiaca…) con settimane di ritardo rispetto agli annunci delle conferenza stampa.

6) La campagna per gli insegnanti è partita tardi perché nessuno nei mesi precedenti si era dato il pensiero di chiedere alle scuole gli elenchi degli insegnanti stessi. La campagna per gli insegnanti è partita tardi poiché mancavano gli elenchi completi dalle scuole (!).

7) Per gli insegnanti nessun feedback, dovranno controllare più volte al giorno la piattaforma.

8) Non tutti gli insegnanti riescono a controllare se è stato fissato un appuntamento poiché non hanno un fascicolo sanitario in Lombardia.

9) Per 3 giorni si sono iscritti alla piattaforma (attraverso un baco) anche cittadini che non rientrano nelle categorie per le quali sono aperte le vaccinazioni e adesso dovranno controllare tra gli iscritti, chi rientra nella lista dei 200mila insegnanti (sperando sia finalmente completa).

10) Ancora non terminata la vaccinazione nelle Rsa

11) Mancano vaccinazioni domiciliari di disabili allettati (diverso dai fragili).

12) Manca personale sanitario per vaccinare.

13) A Pavia i centri vaccinali sono vuoti perché le persone non ricevono la convocazione e gli operatori sanitari stessi non hanno nemmeno in mano gli elenchi.

14) 900 anziani in fila fuori dal Niguarda per vostri errori.

15) Gli atenei alla fine pesano sul Servizio sanitario regionale, sia l’organizzazione che la supervisione resta a carico del SSR, in particolare del Pio Albergo Trivulzio che, oltre a dedicare posti a disposizione per gli universitari, avrebbe addirittura predisposto una piattaforma informatica dedicata.

16) Dosi di vaccino buttate, sprechi assurdi per incapacità di inviare sms.

17) Sono state almeno 4, in differenti conferenze stampa, le presentazioni del piano vaccinale, con altrettante modifiche e promesse irrealizzabili alla popolazione.

Fontana commemora ma dimentica. Fontana commemora ma non risponde.

Buon venerdì.

(nella foto da destra il presidente Fontana con il presidente del Consiglio Draghi e il sindaco di Bergamo Gori, da un video della cerimonia a Bergamo in ricordo delle vittime della pandemia)

Colpevole di essere stata aggredita, cronache di ordinario regime nell’Egitto di al-Sisi

FILE - In this Aug. 30, 2014 file photo, Sanaa Seif, the younger daughter of Ahmed Seif, one of Egypt's most prominent civil rights lawyer and campaigner, receives condolences for her father at Omar Makram Mosque after being temporarily released from prison, in Cairo, Egypt. An Egyptian court on Wednesday, March 17, 2021, convicted Seif, a prominent human rights activist, of spreading false news and insulting a police officer, sentencing her to 18 months in prison. (AP Photo/Amr Nabil, File)

Sanaa Seif è un’attivista egiziana di 27 anni, la sua storia ci aiuta a capire cosa significhi vivere oggi in Egitto per chi è considerato non allineato al regime del presidente al-Sisi. Nove mesi fa, il 22 giugno, insieme alla madre e alla sorella Sanaa era appena giunta di fronte alla prigione di Tora in attesa che venisse loro consegnata una lettera del fratello Alaa Abdel Fattah (detenuto dal 2019).

In pochi attimi le tre donne sono state circondate e picchiate da un gruppo di altre donne armate di bastoni sotto lo sguardo indifferente della polizia penitenziaria. Il giorno dopo, mentre stava entrando negli uffici della Procura del Cairo per denunciare l’aggressione, Sanaa è stata arrestata con l’accusa di “aver diffuso notizie false”, “uso improprio dei social media” e “offesa a un pubblico ufficiale in servizio”. Il tutto sarebbe accaduto in relazione all’aggressione subita, stando alla sentenza del tribunale del Cairo che il 17 marzo l’ha condannata a un anno e mezzo di carcere. Accuse molto probabilmente infondate.

Dopo l’aggressione Sanaa decise di dare risalto all’accaduto attraverso dei post sui suoi canali social che secondo la sentenza sarebbero stati realizzati con l’intento di istigare la cittadinanza contro le forze dell’ordine locali. È di parere contrario invece l’associazione umanitaria Amnesty international: «I post pubblicati per denunciare l’aggressione del 22 giugno non costituivano affatto incitamento all’odio o alla violenza».

Altri post incriminati come fake news sono quelli scritti dall’attivista, precedentemente all’aggressione, per criticare la gestione della pandemia da Covid-19 da parte del presidente egiziano al-Sisi. L’ultimo capo d’accusa, «offesa a un pubblico ufficiale in servizio», farebbe infine riferimento a un alterco avuto da Sanaa Seif con un agente di polizia che avrebbe spintonato la madre verso il gruppo delle assalitrici.

Questa non è la prima sentenza contro Sanaa Seif. Nel 2014 commise il “reato” di partecipazione a una manifestazione considerata illegale. Condannata a due anni di carcere fu scarcerata poco tempo dopo avendo ricevuto il perdono presidenziale nel 2015. Perdono che oggi suona più come un ultimo avvertimento.

Firma qui l’appello per la liberazione di Sanaa Seif lanciato da Amnesty international Italia

Il ritorno di Lula e quel suo «non abbiate paura di me»

Former Brazilian president Luiz Inacio Lula da Silva reacts during a meeting with intellectuals at Oi Casa Grande Theater in Rio de Janeiro, Brazil, on January 16, 2018. / AFP PHOTO / MAURO PIMENTEL (Photo credit should read MAURO PIMENTEL/AFP via Getty Images)

Lunedì 8 marzo 2021. Luiz Inácio Lula da Silva (detto Lula) celebrerà questa data, non ad imperitura memoria delle conquiste sociali e della discriminazione delle donne, ma come il giorno della rinascita della sua vita politica. Tutti i processi penali nei suoi confronti sono stati annullati con un cambio di epilogo improvviso, quando la trama oramai veniva data per tracciata. Ciò che è accaduto ha evidenziando la fragilità del sistema democratico e giudiziario brasiliano. I difensori di Lula avevano, già dall’avvio delle indagini nel 2016, tentato di ricusare l’allora magistrato Sérgio Moro, per motivi di “incompetenza giurisdizionale”.

Due anni dopo, gli stessi avvocati sollevarono il “legittimo sospetto” che il magistrato stesse conducendo le indagini agendo in maniera arbitraria e infrangendo le basilari norme giuridiche. L’ex presidente veniva interrogato senza una previa notifica, l’intero staff difensivo era regolarmente intercettato e spiato, come anche la presidente Dilma Rousseff, la cui carica istituzionale richiedeva per l’avvio delle indagini nei suoi confronti l’autorizzazione da parte della Corte suprema. L’operazione Lavajato (Autolavaggio), condotta da Sérgio Moro, portò alla condanna in primo e secondo grado dell’ex presidente Lula per aver ricevuto tangenti, attraverso l’intestazione a prestanomi di immobili e ristrutturazioni.

La difesa di Lula nel processo ebbe negata ogni richiesta di ricorso che, secondo lo staff difensivo, avrebbe potuto tracciare in maniera chiara il flusso di denaro, scagionando così il loro assistito. Per sei anni Sérgio Moro ha agito indisturbato, senza che il Consiglio federale della magistratura evidenziasse un difetto di giurisdizione insegnato agli studenti del primo anno di Giurisprudenza, o che la Corte suprema (Stf) analizzasse, in tempi ragionevoli, gli atti illeciti commessi dal “paladino della giustizia” Moro, diventato nel frattempo eroe nazionale celebrato dal Carnevale ai salotti televisivi. Il giorno del suo insediamento come 38esimo presidente del Brasile, Jair Bolsonaro inserì nel suo discorso queste parole di ringraziamento a Moro: «Ha realizzanto la sua missione. Se l’avesse eseguita male io oggi non sarei qui, quindi, parte di ciò che è accaduto nella politica brasiliana lo dobbiamo a Sérgio Moro».

Parole indubbiamente vere. La riconoscenza di Bolsonaro nei confronti di Sérgio Moro non si è fatta attendere, nominandolo ministro della Giustizia. Ci sono voluti sei anni perché il giudice della Corte suprema Edson Fachin, che aveva in precedenza accantonato i ricorsi della difesa, dichiarasse nulle le sentenze di Sérgio Moro contro l’ex presidente per “incompetenza territoriale”. La vittoria di Lula dell’8 marzo, tuttavia, sembra aver avuto lo scopo di salvaguardare la tenuta del sistema giudiziario, che era stato ampiamente manipolato da Moro e dal procuratore Deltan Dallagnol, a capo della task force della Lavajato, accorpando al processo sulla “competenza territoriale”, quello che vedeva l’ex magistrato imputato per aver falsato atti processuali e condizionato le testimonianze.

Le modalità con cui il giudice Fachin ha provato ad archiviare le accuse di “legittimo sospetto” nei confronti di Sérgio Moro, trattandole come un’appendice del processo in cui ha annullato le sentenze di condanna a Lula ha fatto, però, insorgere gli altri giudici della Corte suprema che, il 10 marzo 2021, si sono pronunciati contro le azioni illecite dell’ex magistrato. Secondo quanto sostenuto da Gilmar Mendes, uno dei giudici del Stf, Sérgio Moro aveva messo in piedi «un sistema sovietico di monitoraggio delle strategie della difesa dell’ex presidente Lula». Anche il giudice Ricardo Lewandowski ha esternato la posizione di un evidente «abuso di potere dell’ex magistrato (Moro, ndr)» che aveva dimostrato, secondo le carte analizzate, di avere un «completo disprezzo per il sistema processuale del Paese».

Ad oggi la decisione finale del Stf sulle responsabilità di Moro è stata rinviata su…


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«Così ricordiamo il “partigiano” Orso, mio figlio»

Colpito alle spalle da miliziani jihadisti in un’imboscata nel villaggio di Baghouz, l’ultimo rifugio dei combattenti dello Stato islamico ormai prossimi alla disfatta. Così è stato ucciso il 18 marzo di due anni fa Lorenzo Orsetti mentre combatteva al fianco dei curdi per difendere la rivoluzione del Rojava dalla minaccia dell’Isis. Due giorni dopo, le forze curde sconfissero gli ultimi combattenti jihadisti, mettendo fine all’esperienza dello Stato islamico quale entità territoriale ed issando la loro bandiera proprio sulle rovine di Baghouz.
Orso – come lo chiavano i suoi amici – aveva 33 anni. La decisione di dedicare la propria vita alla difesa della causa curda e le parole riportate nel suo testamento hanno colpito molti, in Italia e all’estero, e dopo due anni il suo ricordo è ancora vivo. Ne parliamo con Alessandro Orsetti, suo padre.

Signor Orsetti, cosa avete organizzato in occasione del 18 marzo?
Quest’anno abbiamo deciso di far uscire un libro con gli scritti che Lorenzo ci aveva mandato dalla Siria e con le interviste da lui realizzate quando era in Rojava. Gli amici ci hanno lavorato molto e abbiamo pubblicato il volume in collaborazione con RedStrar Press. Per la distribuzione ci affideremo a due canali: le librerie – tramite la casa editrice – e la vendita militante. Pensiamo che il libro sia un modo per ricordare Lorenzo e per raccontare meglio chi era, in cosa credeva, quali erano i suoi valori e anche per seguirlo in un percorso che va dall’arrivo in Rojava fino alla decisione di rimanere in Siria e contribuire alla realizzazione del progetto curdo.
La mattina del 18 alle 12 saremo alla Basilica di San Miniato, ma non è nulla di organizzato. Verrà però anche l’Anpi, dato che Lorenzo ha avuto il riconoscimento dei partigiani di oggi. La sera alle 21 ci sarà un altro evento su Facebook e lanceremo la versione digitale del CD dedicato a Lorenzo.

Com’è nata l’idea di realizzare il libro?
Abbiamo pensato che i messaggi di Lorenzo non potevano andare perduti: chi li ha letti li ha trovati molto approfonditi e sentiti, per cui abbiamo pensato di rilanciarli e di portarli alla visione di tutti. Tanti ci hanno chiesto cosa provava Lorenzo quando era in Rojava, cosa pensava, cosa ci raccontava. Il modo migliore per rispondere a queste domande era dar voce direttamente a Lorenzo. Abbiamo anche pensato che il libro potesse servisse per continuare a perorare la causa per cui si è battuto, dato che non abbiamo visto grossi passi avanti in questi due anni. La nostra idea quindi era quella di rilanciare attraverso la memoria di Lorenzo la lotta dei curdi e l’importanza di scegliere da che parte stare. Vorremmo però che il libro uscisse dai canali degli impegnati e arrivasse il più possibile a biblioteche, librerie, scuole e associazioni. Per questo ci stiamo già organizzando per inviarlo a tutte le biblioteche comunali toscane.

Anche questa volta i ricavati serviranno a finanziare progetti umanitari?
Sì, tutti i ricavati saranno devoluti a progetti umanitari in Siria. Questa volta però pensiamo a qualcosa di diverso dal CD Her dem amade me, che è legato alla realizzazione di un ambulatorio pediatrico.

Come giudica l’atteggiamento dell’Italia nei confronti della “causa curda”?
Abbiamo visto che c’è un interesse ancora forte verso Lorenzo e anche un grande trasporto emotivo, ma mi dispiace vedere che ciò non basta per smuovere la situazione attuale: l’Italia non prende posizione, non c’è stato alcun sostegno per i curdi. Oltre agli attacchi dell’Isis e della Turchia, nel nord-est della Siria è anche in atto un’opera di arabizzazione, con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan che continua a trasferire popolazioni arabe culturalmente legate alla Turchia per emarginare i curdi e costringerli ad andare via. In tempi brevi questi territori di confine saranno sempre meno dei curdi e diventeranno sempre più uno Stato cuscinetto fedele alla Turchia di Erdogan.

Secondo Lei perché è così difficile prendere posizione in favore dei curdi?
Prima di tutto perché ci sono interessi economici e non solo. In secondo luogo, si temono le possibili ritorsioni della Turchia ed inoltre prevale sempre più l’idea di occuparsi dei problemi interni, mettendo da parte quell’internazionalismo in cui Lorenzo credeva. Ci stiamo sempre più rinchiudendo nei nostri territori, nelle nostre città, nei nostri quartieri. Anche chi è un po’ interessato all’argomento si blocca perché crede che la causa curda sia una realtà troppo lontana e complicata da capire.

La pandemia sta contribuendo a questa chiusura sempre maggiore nei nostri territori. Non trova che le parole di Lorenzo, l’invito a darsi agli altri, siano allora sempre più attuali?
La risposta della politica alla pandemia si è dimostrata miope: ci si è occupati solo dei propri territori, ma se il problema non viene affrontato globalmente non sarà mai davvero risolto. Le parole di Lorenzo richiamano proprio a quei valori della condivisione che molte persone in questo momento così particolare hanno ritenuto essere importanti. Lorenzo ha rinunciato al benessere per andare a condividere una realtà di guerra, di precarietà e povertà. Credo che la sua figura abbia davvero colpito tante persone, per questo secondo me Lorenzo può essere un esempio circa il modo in cui affrontare il mondo e la vita, soprattutto ora che ci stiamo sempre più chiudendo in noi stessi.

A due anni dalla morte di Lorenzo ha notato un cambio di passo da parte della politica?
Ad oggi nulla è cambiato. Quando Lorenzo morì furono fatte delle promesse che ancora non sono state mantenute. Era stato chiesto di fare una targa, un murales o qualcosa che lo ricordasse ma non siamo arrivati a molto. Ci sono ancora delle trattative in corso, ma nulla di concreto.

Eccoli i migliori /4

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 11–03-2021 Roma , Italia News Coronavirus, emergenza sanitaria - Ministero sviluppo economico MISE - tavolo su vaccini Nella foto: Giorgio Palù presidente dell’Agenzia Italiana del Farmaco Aifa al MISE Photo Mauro Scrobogna /LaPresse March 11, 2021  Rome, Italy News Coronavirus, health emergency - Ministry of Economic Development MISE - table on vaccines In the photo: Giorgio Palù president of the Italian Medicines Agency Aifa at MISE

Eccoci qui, con il nostro appuntamento sul governo dei migliori che sforna mediocri migliori.  Il 16 marzo la Protezione civile ha annunciato la nuova composizione del Comitato tecnico scientifico, l’organismo istituito fin dall’inizio della pandemia con il delicato compito di consigliare il governo sulla battaglia contro l’epidemia. Il fatto che il governo Draghi abbia voluto rinnovare alcuni consulenti lascia presumere che ci sia l’occasione di avere nuovi volti che si siano contraddistinti in questi 12 mesi per acutezza di analisi e per ponderatezza nelle loro esternazioni. E invece.

E invece nel nuovo Comitato entra di rincorsa Giorgio Palù. Giorgio Palù è un microbiologo, virologo e presidente dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). Palù fu quello che con molta delicatezza descrisse Crisanti come un “zanzarologo” e fu quello che ci ripeteva che i positivi asintomatici “non sono contagiosi”. Con lui c’è anche Donato Greco, quello che ci disse tutto sicuro che «l’emergenza è finita a maggio, non dobbiamo temere l’inverno». Palù e Greco, vale la pena ricordarlo, furono tra i firmatari della famosa lettera estiva pubblicata da Il Giornale  l’estate scorsa che dichiarava “finita” l’emergenza. E vabbè, dirà qualcuno, speriamo abbiano imparato dai propri errori.

Il personaggio più inquietante però è tal ingegnere Alberto Giovanni Gerli, che su LinkedIn si definisce data analyst, fondatore e Ceo della Tourbillon Tech Srl, uno che ha il mirabile merito di avere sbagliato praticamente quasi tutte le sue previsioni sulla pandemia, con un modello matematico evidentemente fallace che sventola smodatamente sui suoi social e sul suo canale YouTube. il 2 aprile del 2020 propone il suo modello via twitter all’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al presidente della Regione Veneto Zaia: «vi tornano i numeri?», chiede. Nessuno risponde. Silenzio, e allora il giorno stesso ha la brillante idea di chiedere a Fedez e Chiara Ferragni: «mi aiutate a diffonderlo?», scrive. Nessuna risposta. Il giorno successivo si butta (sempre dal suo account twitter) sulla giornalista Elena Comelli con un tweet che è un capolavoro: «ti ricordi di me? Illuminazione stradale a LED dai telescopi?».

Ma come funziona il modello predittivo di Gerli? Il 28 gennaio 2021 Gerli ha sostenuto che, in base a un proprio “modello”, in Lombardia i contagi si sarebbero ridotti velocemente nelle settimane seguenti, passando da circa 1.700 al giorno a 350 per metà marzo. E no, non è proprio andata così.

Il 1° febbraio Gerli disse che in Veneto «si potrà magari verificare qualche ritardo ma per la fine di febbraio la regione quasi certamente entrerà nella zona bianca». E no, non è proprio andata così.

Il 4 aprile dell’anno scorso Gerli scrive a Cuomo, Governatore dello Stato di New York in piena pandemia. Prevede 130.000 contagi al 30 giugno. La realtà sarà appena diversa: 420.000 infezioni.

Secondo il modello di Gerli bastano 17 giorni di dati per prevedere dove finirà la pandemia, a prescindere dalla forza delle misure di contenimento. Peccato che si sia rivelato assolutamente fallimentare.

Alberto Giovanni Gerli è membro del Cts.

È tutto.

Buon giovedì.

Non irridere la paura

Il caos è evidente e non è, come qualcuno vorrebbe comodamente farci credere, un caos provocato dalla paura dei cittadini, quella che qualcuno chiama “irrazionalità della rete” o qualcun altro butta nel cestino dei “No vax”.

Al di là degli inevitabili complottisti di cui poco ci interessa (a proposito, notatelo: prima negavano che esistessero morti per Covid e oggi invece sono sicuri che esistano morti per il vaccino dappertutto, fenomenali) c’è una larga fascia di popolazione che ha paura, una paura alimentata dai messaggi contrastanti che arrivano in questi ultimi giorni, paura provocata dalla sensazione di non comprendere le decisioni di chi governa (per questo forse sarebbe stato il caso di ascoltare parole nette dal presidente del Consiglio uscendo da questo solito stolto silenzio), paura che è figlia anche di un anno usurante che ci propone una luce in fondo al tunnel che si allontana ogni giorno per un qualche motivo, paura per la stanchezza accumulata, paura per il futuro difficile non solo dal punto di vista sanitario.

E certo la paura non va alimentata, certo che no, e non va nemmeno sfruttata per fini di propaganda: la paura però merita risposte, va governata, bisogna affrontarne le cause e ha bisogno di assunzioni di responsabilità. La paura si governa con un trasparente dibattito democratico fatto di numeri, di prospettive e di credibilità messa in campo.

Irridere la paura significa in questo momento creare due opposte tifoserie, tra scetticismo e fideismo, e non serve assolutamente per tenere insieme il blocco sociale essenziale per uscire da questa crisi. Un percorso che costruisca fiducia (e ancora di più che la ricostruisca dopo questi giorni neri) ha bisogno di una naturale predisposizione all’ascolto. No, non è vero che tutti quelli che in queste ore sono tramortiti siano degli scellerati negazionisti. E non è nemmeno vero che la comunicazione politica e scientifica di questi giorni sia stata all’altezza.

La credibilità si costruisce giorno per giorno, si alimenta giorno dopo giorno, non si rivendica irridendo le preoccupazioni. Sarà un percorso lungo, ora ancora più difficile.

Buon mercoledì.

Il Gip Guido Salvini: «Omicidio Piersanti Mattarella, così si può riaprire il caso»

The President of the Italian Republic, Sandro Pertini (with flowers) and the President of the Regional Government of Sicily, Piersanti Mattarella (behind), pay tribute to a police officer who was killed. (Photo by Vittoriano Rastelli/Corbis via Getty Images) 10 novembre 1979

Pare proprio che riprenda quota la pista neofascista per l’omicidio di Piersanti Mattarella (v. articolo di Sandra Rizza, ndr). Secondo quanto Left ha recentemente appreso da fonti giudiziarie, i magistrati palermitani, riservatissimi e intenzionati a non far trapelare nessun elemento investigativo, stanno rimettendo insieme elementi vecchi e nuovi, ragionando molto attorno a quattro paroline latine: Ne bis in idem. Letteralmente «non due volte per la stessa cosa», quel principio giuridico (art. 649 del Codice di procedura penale) stabilisce che i due principali imputati di allora, Gilberto Cavallini e Valerio Fioravanti, usciti assolti, non saranno mai più giudicabili. Dunque, quell’antica regola di origini romane può ostacolare le indagini ancora aperte sul caso mai risolto dell’assassinio di Piersanti Mattarella? Ne abbiamo parlato con Guido Salvini, oggi Gip a Milano, negli anni 90 impegnato come giudice istruttore (nel vecchio rito) nelle indagini per la strage di piazza Fontana dove mise a segno un grande risultato, quello di provare, nonostante il tempo passato e i tanti depistaggi, le responsabilità dei neonazisti di Ordine nuovo. In quell’indagine spuntò quel principio. «Grazie a nuovi testimoni, ricordo Digilio e Siciliano – racconta Salvini – riaprimmo le indagini sulla strage trovando nuovi elementi di accusa che riguardavano le responsabilità di Ordine nuovo cui appartenevano Giovanni Ventura e Franco Freda, usciti assolti al termine del processo di Catanzaro. Freda e Ventura non potevano essere portati a processo di nuovo ma questo non impediva di riaprire l’indagine sul fatto in sé e di procedere sulla stessa pista. Così vennero fuori Digilio e Maggi e la responsabilità di tutta l’organizzazione». Oggi possiamo ben dire con un importante esito finale, perché venne chiuso il cerchio attorno a Ordine nuovo: «Certamente – dice il magistrato milanese – perché le Corti nelle nuove sentenze pur confermando ovviamente che Freda e Ventura non erano più giudicabili, scrissero in motivazione che…


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Ecco chi uccise Piersanti Mattarella: l’ultima intuizione di Falcone

L’indagine sulla “pista nera” che Giovanni Falcone imboccò per trovare gli assassini di Piersanti Mattarella, e che lo portò a scavare su Gladio poco prima di essere assassinato a Capaci, ricorda le tragiche vicende dell’“Ulisse dantesco che giunse in vista del Purgatorio” e pagò il suo “folle volo” verso la conoscenza con un naufragio mortale. Lo scrivono i giudici della corte d’assise di Bologna che, motivando la condanna all’ergastolo dell’ex componente dei Nar Gilberto Cavallini per la bomba alla stazione del 2 agosto 1980, demoliscono l’esito della vicenda processuale palermitana, riabilitando le iniziali intuizioni di Falcone, poi abbandonate durante i giudizi di primo e secondo grado (confermati dalla Cassazione) che affermarono la responsabilità esclusiva di Cosa nostra nel delitto Mattarella e condannarono un pezzo della Cupola senza mai individuare i killer del presidente della Regione siciliana, assassinato a Palermo il 6 gennaio 1980.

Quell’inchiesta di Falcone, centrata sul connubio tra Cosa nostra ed eversione di destra si era conclusa proprio con il rinvio a giudizio del fondatore dei Nar Valerio Giusva Fioravanti e del suo complice Cavallini, ritenuti i protagonisti di un patto di scambio con Cosa nostra (l’esecuzione di Mattarella in cambio dell’appoggio della mafia all’evasione del leader “nero” Pierluigi Concutelli dall’Ucciardone di Palermo) ed entrambi accusati di essere i sicari del presidente siciliano.

Il movente? La rivoluzione legalitaria operata da Mattarella che minacciava gli appetiti della mafia per la torta degli appalti pubblici, ma anche le aperture politiche al Pci del presidente, fervente moroteo, che voleva importare la formula del “compromesso storico” in Sicilia. Indagando sul delitto Mattarella, Falcone era riuscito ad allargare la prospettiva delle indagini antimafia persino ai “sancta sanctorum” della P2 e di Gladio, anticipando la denuncia politica poi firmata nel ’93 dal senatore Pds Massimo Brutti sulla presenza in Sicilia di «una rete clandestina di Gladio facente capo al Sismi».

Ora i giudici di Bologna scrivono che la rivisitazione del delitto Mattarella è «un passaggio obbligato del percorso argomentativo seguito dalla corte d’assise» per emettere il nuovo verdetto sulla strage del 2 agosto 1980 e, per quanto consapevoli che la responsabilità di Fioravanti e Cavallini sul delitto Mattarella non può più essere sottoposta ad un “esercizio di giurisprudenza”, in virtù del ne bis in idem, ricordano quella pronuncia della Suprema corte secondo cui «il giudice del diverso procedimento è tenuto a motivare espressamente le ragioni per le quali è pervenuto a diverse conclusioni rispetto al giudizio già definito in precedenza».
Le “diverse” conclusioni che portano alla…

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Leggi anche l’articolo di Stefania Limiti -> Il Gip Guido Salvini: «Omicidio Piersanti Mattarella, così si può riaprire il caso»
Qui -> https://left.it/2021/03/16/guido-salvini-omicidio-piersanti-mattarella-cosi-si-puo-riaprire-il-caso/


L’articolo prosegue su Left del 12-18 marzo 2021

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