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Ci sono anche buone notizie

Ieri la neo ministra della Giustizia Marta Cartabia è stata audita dalla commissione Giustizia della Camera sulle linee programmatiche del suo dicastero e si è avuta la netta sensazione di ascoltare finalmente parole nuove rispetto a certa giustizia turboferoce che abbiamo visto negli ultimi anni. Certo, dirà qualcuno, siamo solo alle parole ma le buone parole sono il preludio migliore per le augurabili buone azioni e mentre monta un certo cattivismo che vorrebbe “il carcere a vita” per qualcuno che viene processato direttamente sui social ascoltare un ritorno alla ragionevole umanità non può che essere una buona notizia.

La ministra ha chiarito che è impensabile pensare a una “riforma del sistema” vista l’enormemente larga maggioranza che sostiene questo governo (che sulla giustizia come su molti altri temi ha idee praticamente opposte) ma ha ribadito che vanno messi in campo «tutti gli sforzi tesi ad assicurare una più compiuta attuazione della Direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali». Cartabia ha anche parlato della «necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per una effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema costituzionale».

Finalmente si sente anche una ministra che ha il coraggio di dichiarare «opportuna una seria riflessione sul sistema sanzionatorio penale che, assecondando una linea di pensiero che sempre più si sta facendo strada a livello internazionale, ci orienti verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato». Con un parallelo la ministra ricorda in audizione ala Camera che «la certezza della pena non è la certezza del carcere, che per gli effetti desocializzanti che comporta deve essere invocato quale extrema ratio. Occorre valorizzare piuttosto le alternative al carcere, già quali pene principali. Un impegno che intendo assumere è di intraprendere ogni azione utile per restituire effettività alle pene pecuniarie, che in larga parte oggi, quando vengono inflitte, non sono eseguite. In prospettiva di riforma sarà opportuno dedicare una riflessione anche alle misure sospensive e di probation, nonché alle pene sostitutive delle pene detentive brevi, che pure scontano ampi margini di ineffettività, con l’eccezione del lavoro di pubblica utilità».

Erano anni che non si sentivano parole così, pensateci.

(Ah, per tutti quelli che ci faranno notare che proprio qui sul Buongiorno abbiamo criticato aspramente Cartabia per le sue posizioni oscurantiste sui matrimoni gay e per la sua vicinanza a Cl: sì, lo pensiamo ancora. Ma nel nostro patto con i lettori ci eravamo ripromessi di giudicare i fatti, passo dopo passo. E passare dal giustizialismo a un’ipotesi di giustizia giusta è una buona notizia)

Buon martedì.

Manon Aubry: «Campagna vaccinale Ue fallimentare, mettiamo Von der Leyen sotto inchiesta»

EP plenary session - The state of play of the EU's COVID-19 Vaccination Strategy

«Non ci andrò leggera, signora Ursula von der Leyen…». Iniziava così l’intervento di pochi minuti, limpido e appassionato, con cui l’europarlamentare francese Manon Aubry si è rivolta alla presidente della Commissione europea in merito alla fallimentare gestione della campagna vaccinale Ue. Era il 10 febbraio e da allora le parole della Aubry hanno “accompagnato” tutte le iniziative delle associazioni e delle forze politiche che sostengono la campagna di raccolta firme europea «per rendere i vaccini e le cure anti-pandemiche un bene pubblico globale, accessibile gratuitamente a tutti e tutte» facendo pressione sulla Commissione affinché metta l’istanza all’ordine del giorno. Abbiamo intervistato Manon Aubry, co-presidente del gruppo parlamentare Gue/Ngl ed esponente di France insoumise. Partendo da quel durissimo j’accuse le abbiamo chiesto per quale motivo lei e il suo gruppo considerino inadeguate e piegate agli interessi di Big pharma le scelte della Commissione.

«La strategia vaccinale della Commissione europea è tutta piegata agli interessi di Big pharma. La Commissione non si è neanche posta il problema di agire in modo diverso perché resa miope dai suoi dogmi: libera concorrenza, legge del profitto, legge del mercato. Così ha ceduto alle esigenze dei grandi produttori: nessuna trasparenza sui contratti, nessuna regolamentazione dei profitti, nessuna responsabilità in caso di problemi. Ed è inaccettabile perché sono stati i cittadini europei a pagare la ricerca su quei vaccini. I vaccini ci sono grazie ai soldi pubblici. Chiediamo perciò una cosa semplice: togliere i brevetti ai vaccini affinché escano dal mercato e ogni Paese possa produrli».

Da cosa dipende il fatto che ciò non accada?
C’è una dimensione ideologica, di fede quasi religiosa dei neoliberisti nella legge del mercato e del “laissez faire”. Ma c’è anche un…


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I Neet sono invisibili per la politica, questo è il problema

Stockholm, Sweden - September 12, 2016: Woman alone in stairs. Popular resting and meeting place for shoppers, commuters or any pedestrians downtown Stockholm. The major stairs of Sergels Torg, famous landmark next to the subway entrance.

I dati parlano chiaro: la crisi economica e sociale causata dal Covid-19 colpirà soprattutto donne e giovani, e ancora di più le giovani donne Neet (Not in education, employment or training).
Le donne, in prima linea durante l’emergenza sanitaria, fuori e dentro casa, hanno subìto gli effetti pesantissimi della crisi del mercato del lavoro. I dati Istat pubblicati a fine febbraio 2021 fotografano una situazione decisamente preoccupante: l’occupazione femminile ha perso circa un punto percentuale rispetto all’anno precedente (2019). In valori assoluti, su 444mila posti di lavoro persi, 310 mila erano di donne, ovvero il 70%. I dati sono ancora più allarmanti se si prende in esame il solo mese di dicembre 2020 in cui, su 101 mila posti di lavoro persi, 99 mila erano di donne, ben il 98%, e quasi interamente giovani e under 50.
I giovani, rimasti per troppo tempo nell’ombra e fortemente trascurati dalla politica già prima dell’emergenza sanitaria, hanno visto ridursi drasticamente le opportunità lavorative, rinunciando spesso alle proprie ambizioni professionali e private. Il tasso di disoccupazione giovanile nell’ultimo trimestre 2020 ha infatti sfiorato il 30%, posizionando l’Italia tra gli ultimi Paesi in classifica nell’area euro.

L’emergenza sanitaria ha gravato maggiormente sul settore dei servizi, dal turismo al settore alberghiero e della ristorazione, dove il tasso di occupazione femminile è più alto rispetto a quello maschile e dove spesso vengono richiesti profili professionali di “primo ingresso” per le/i giovani Neet. Ci si chiede quindi quali saranno le conseguenze per le giovani donne Neet, doppiamente “svantaggiate”, in quanto donne e giovani.

Neet, un universo femminile
Secondo i dati Eurostat, dall’inizio della pandemia sono aumentate le giovani e i giovani che non studiano e non lavorano in tutta Europa. L’Italia si conferma essere il primo Paese europeo per numero di Neet presenti sul territorio (20,7%), con un valore percentuale di circa 10 punti superiore alla media degli altri Paesi europei (12,5%). Nel nostro Paese ancora due milioni di ragazzi e ragazze tra 15 e 29 anni non lavorano e non studiano, ben 1 su 5. La pandemia ha avuto un impatto significativo sulle ragazze. Solo nel 2020, infatti, le Neet sono aumentate di 36 mila unità (+2,7%).
Anche nel caso dei Neet emerge quindi un sostanziale divario di genere, confermato dai dati Istat aggiornati al terzo trimestre 2020: la condizione è più diffusa tra le giovani, che rappresentano il 30,6%, contro il 20,2% dei ragazzi, e…

*-*

Le autrici: Chiara Parapini e Vittoria Pugliese fanno parte di Action Aid, Unità Gender and Economic Justice


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Antonio Di Bella: Fermare l’assedio di Trump è stato una vera svolta per gli Usa

WILMINGTON, DE - AUGUST 12: Presumptive Democratic presidential nominee former Vice President Joe Biden invites his running mate Sen. Kamala Harris (D-CA) to the stage to deliver remarks at the Alexis Dupont High School on August 12, 2020 in Wilmington, Delaware. Harris is the first Black woman and first person of Indian descent to be a presumptive nominee on a presidential ticket by a major party in U.S. history. (Photo by Drew Angerer/Getty Images)

«Da lontano, arrivando dalla Casa Bianca, sembra una porta, il disegno elementare di una porta, scarabocchiato da un bambino contro il cielo. Fa freddo. Nuvole basse e scure tingono di grigio l’erba, che scivola sotto i piedi, fangosa. Cammino verso quella porta e intorno ho un mondo mai visto prima, come se, per magia, fossi entrato all’improvviso in un visionario quadro di Bosch, in cui, al posto di pesci con mani umane e becco d’anatra, fragole giganti e conchiglie, ci sono bandiere minacciose e cartelli di varia foggia con la scritta Stop the Steal», scrive Antonio Di Bella nel suo nuovo libro L’Assedio (Rai libri). Era il 6 gennaio 2021, di lì a poco tutto sarebbe precipitato nel violento assedio a Capitol Hill in cui hanno perso la vita 5 persone.
Un assalto come gli Stati Uniti non avevamo mai visto. In quel marasma di facinorosi supporter di Trump segnali inquietanti, scritte e slogan suprematisti e filo nazisti, tanto da far dire all’ex governatore Schwarzenegger che quella del 6 gennaio è stata «la notte dei cristalli americana».
Ex direttore di Rai 3 e di Rai News e ora corrispondente dagli Usa Antonio Di Bella non ha mollato, non ha smesso di raccontare in presa diretta. Torna in mente la faccia preoccupata di Maurizio Mannoni quando, sotto le minacce di un figuro in mimetica Di Bella è sparito dallo schermo del Tg3 Linea Notte. «Per fortuna alla fine non ci è accaduto niente di drammatico – ci racconta da New York -. Abbiamo vissuto qualcosa di simile a quando da giovani facevamo la cronaca delle manifestazioni. Pensiamo piuttosto ai colleghi che raccontano le guerre». E poi con autoironia: «Devo ammettere però che ci è andata bene anche per la tecnica del mio operatore Mario Trebbi che non smetterò di ringraziare. Mentre io volevo scappare a gambe levate lui ha detto: andiamo via piano piano perché se ci mettiamo a correre è peggio…».

Quando ha chiuso il libro le indagini sull’assalto erano appena iniziate, che idea si è fatto nel frattempo? C’erano dei simpatizzanti di Trump fra i poliziotti? Perché non è stato raccolto l’allarme che già circolava da tempo? Perché non è scattato un allarme generale quando è stato sventato il piano per il rapimento della governatrice democratica del Michigan?
Pochi giorni fa un ex funzionario della amministrazione Trump è stato arrestato perché ha partecipato attivamente all’assalto di Capitol Hill. Testimoniando davanti al Parlamento a Washington ha detto che, invano, per ore aveva cercato di chiamare aiuti ma non gli hanno risposto, li hanno fatti arrivare solo a cose fatte. Certamente c’è stata una complicità. Io non credo molto alla teorie del complotto, alle trame oscure. Mi piacciono le analisi basate sui fatti e sulle persone. Ebbene tutti gli…


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Letta Continua

Siamo nell’epoca Letta. Lo so, siamo in un momento politico strano, talmente nauseati che anche i cavalli di ritorno ci provocano sussulti, del resto già da un po’ ci siamo ridotti a rimpiangere la Prima Repubblica vista la consistenza di quelle venute dopo. Politicamente la notizia è questa: Enrico Letta è stato votato segretario da quelli che nel 2014 lo cacciarono. E, badate bene, i protagonisti sono sempre gli stessi, travestiti o mimetizzati o nella parte dei convertiti, sempre loro.

Però nel momento storico in cui tutti i leader di partito si accodano allo smussamento rivenduto come buona educazione (quando invece è solo insana pavidità politica) Enrico Letta ha deciso, nonostante lo dipingano come annacquato, di essere smodato e di porre questioni che gli altri hanno finto di dimenticare. I punti che ha posto all’assemblea del Partito democratico sono comunque aria fresca rispetto allo stantio parlare a cui eravamo abituati e avere il coraggio in un momento come questo di parlare di ius soli spazza via molte delle giustificazioni che sono sempre state adottate, quando c’era altro a cui pensare, quando si aveva paura di prendere posizione, quando sembrava addirittura una bestemmia prendere di petto Salvini e le sue politiche. Nella nazione in cui si celebrano le arance perché italiane, le auto perché italiane, le magliette perché italiane gli unici italiani non italiani sembrano essere rimasti i bambini nati in Italia.

Anche il voto ai giovani di 16 anni è un tema che ha attraversato l’Europa e che solo qui da noi ci ha sfiorato da lontano solo qualche volta. Eccolo, è arrivato. Si può essere d’accordo o meno ma aprire un dibattito è doveroso. Anche sui giovani, come spesso accade, si ascoltano gli adulti dare lezioni e poco altro.

In una democrazia matura che i partiti (di qualsiasi colore) riescano a trovare una leadership all’altezza è l’auspicio di tutti, no? Quindi nella fase delle parole, che è la fase più facile, c’è da dire che Letta ha avuto il coraggio di osare.

C’è un piccolo particolare, però, tanto per non cadere in facili entusiasmi e l’ha raccontato benissimo ieri Civati in un’intervista a Repubblica. Dice Civati: «Sono almeno 10 anni che tutti i leader del Pd parlano di ius soli. Lo abbiamo fatto? No. La verità è che la sinistra nel Pd non c’è più, sono tutti democristiani. Non c’è la sostanza, non c’è il conflitto, è un partito di sistema. Io spero tantissimo che Letta l’abbia imparato e che riesca a rompere gli schemi».

Ecco, appunto.

Buon lunedì.

Che pasionaria, Gerda Taro

Portrait of photographers Gerda Taro (1910 - 1937) (left) and Robert Capa (1913 - 1954), 1936. (Photo by Fred Stein Archive/Archive Photos/Getty Images)

Primo agosto del 1937. Nelle strade di Parigi, una sfilata di bandiere rosse attraversa la città. Sulle note della Marcia funebre di Chopin una folla di 200mila persone si accalca per il funerale di Gerda Taro. Il corteo organizzato dal Partito comunista francese si dirige verso il cimitero laico di Père Lachaise. «Tutti i fiori del mondo si sono incontrati a Parigi», sono le parole di Louis Aragon che insieme a Pablo Neruda omaggiano la “biondina di Brunete”, che proprio quel giorno avrebbe compiuto ventisette anni. Tra la folla anche un disperato Robert Capa che nella mano stringe una foto scattata da Fred Stein, che lo ritrae sorridente insieme a Gerda. Non è solamente un funerale, ma un’occasione per esprimere solidarietà alla Repubblica spagnola, perché non è morta solamente una fotografa di guerra ma un’attivista, un’intellettuale, una donna che aveva deciso di utilizzare la fotografia come atto politico contro l’alleanza cattolico-franchista. Durante l’occupazione nazista del 1942 il suo epitaffio sarà l’unico che verrà cancellato, perché donna libera e antifascista divenuta figura simbolo della Resistenza francese. Sulla sua vita e la sua arte fotografica ora c’è anche il podcast che è stato realizzato in occasione dell’8 marzo dal Museo delle culture di Milano a cura di Nicolas Ballario, nell’ambito di una serie di appuntamenti dedicati a fotografe internazionali.

Il suo vero nome era Gerta Pohorylle, di estrazione borghese e origine ebraica, mostrò fin da giovanissima la sua natura rivoluzionaria di sinistra. Nel ’33, anno in cui Hitler diventò cancelliere, venne arrestata a Lipsia per aver distribuito volantini contro il Partito nazionalsocialista. Nello stesso anno decise di lasciare la Germania nazista per rifugiarsi a Parigi. Nel 1934 Endre Ernő Friedmann era un giovane ungherese ancora alla ricerca della sua identità di fotografo. Era stato ingaggiato per realizzare la pubblicità di una compagnia svizzera di assicurazioni sulla vita e per questo cercava una modella bionda con gli occhi azzurri. In un caffè sulla Rive Gauche chiese a Ruth Cerf di posare per lui; lei, diffidente, l’indomani si presentò insieme alla sua amica e coinquilina Gerta. Nonostante quelle fotografie non siano di certo passate alla storia, possiamo pensare che fu proprio quell’incontro a dare una svolta alla loro vita e alla loro carriera.

Endre e Gerta si amarono fin da subito e si ritrovarono uniti dalla passione politica ed artistica. Lei si appassionò alla fotografia e lui le insegnò i rudimenti della tecnica fotografica. Fu di Gerta l’idea geniale di creare uno pseudonimo che nascondesse le loro origini ebraiche e che avesse un suono accattivante per attirare le riviste del tempo. È così che nasce Robert Capa, ricco fotografo americano che…


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Sventola alta la rossa bandiera della Comune

Il'ja Efimovič Repin: Commemorazione della Comune di Parigi https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/08/Repin_Comune.JPG La riunione commemorativa annuale presso il muro dei Comunardi nel cimitero di Père-Lachaise a Parigi. 1883. Olio su tela. La Galleria Tretyakov, Mosca, Russia. Ilya Repin

Erano già 18 anni che Napoleone III, dopo aver sovvertito la Repubblica nel 1852, regnava su una Francia proiettata verso una solida leadership continentale. Con una popolazione di due milioni di abitanti, Parigi ormai rivaleggiava in grandezza con Londra. Il barone Haussmann ne aveva profondamente trasformato il vecchio volto medievale, radendo al suolo intere zone e sostituendo i grandi boulevard alle stradine medievali, troppo consone a quella malattia rivoluzionaria da cui il popolo francese, e segnatamente quello della capitale, sembrava non guarire mai.

Dopo la grande rivoluzione del 1789, altre due erano seguite: le “tre gloriose giornate” parigine del luglio 1830 – immortalate quasi in diretta nel celebre quadro di Delacroix in cui la Marianne è la libertà che guida il popolo contro il ritorno assolutista di Carlo X – e una terza rivoluzione con alcuni caratteri ormai dichiaratamente socialisti nella “grande primavera dei popoli” del ’48.
Ora, nel 1870, quel fuoco – l’imperatore lo sapeva bene – covava ancora sotto la cenere. Lo alimentavano conoscenze di lunga data: proudhoniani, radicali e neo-giacobini, e soprattutto seguaci del comunista utopista Louis-Auguste Blanqui, irriducibile nel predicare l’insurrezione armata come unica via per il riscatto del proletariato. Come non fosse bastato, a costoro si erano aggiunti dal 1864 anche inquietanti volti nuovi: quelli dei rappresentanti francesi della Prima Internazionale e dei marxisti.

A preoccupare l’imperatore non erano però solo questioni interne. A est si stava profilando lo spauracchio di un forte Stato germanico unito, a seguito della crescente influenza che la Prussia di Guglielmo I e di Otto von Bismarck stavano esercitando sui sovrani degli altri 37 staterelli tedeschi. Le tensioni si erano andate via via inasprendo, finché il 19 luglio 1870 Napoleone III dichiarò guerra. La decisione gli fu fatale: la perizia dei comandi germanici e i cannoni Krupp misero rapidamente in ginocchio l’esercito francese. Il 2 settembre l’imperatore capitolò e due giorni dopo una sollevazione popolare portò alla proclamazione della Repubblica, spazzandolo via dalla storia.

La guerra però non finisce. Il governo composto di borghesi conservatori e moderati è assai riluttante. Più che i prussiani, teme il popolo, che invece si mostra assai determinato a proseguire la lotta. Migliaia di volontari accorsero nelle fila della Guardia nazionale, mentre altri, i franc-tireurs, ingaggiarono una vera e propria guerra partigiana contro i prussiani, che reagirono con rappresaglie sui civili e incendi di villaggi.
È Parigi a dare l’esempio. Nella città, sotto tiro dei cannoni prussiani che l’assediano sin dal 19 settembre, decine di…


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Peskine e l’altrove dentro di noi

Nel 1521, ad Anversa, un pittore tedesco di Norimberga disegna il ritratto della serva di un mercante portoghese, una ragazza africana ventenne di nome Katharina. Non sappiamo da quale parte dell’Africa ella venisse, né quale fosse il suo primo nome. Del pittore invece sappiamo moltissimo: era Albrecht Dürer. Nel 2021 a Firenze, la città dove il ritratto di Katharina è conservato, un artista francese di sangue russo per parte di padre e brasiliano di madre crea tre ritratti (non proprio disegnati, ma a suo modo assai grafici) di fiorentini di origine africana, e li espone in una villa che era stata acquisita nel 1905 da un altro celebre pittore tedesco, Max Klinger, per farne una residenza per artisti e un laboratorio di creatività. Il luogo è Villa Romana e il francese è Alexis Peskine, nato a Parigi nel 1979 ma a suo modo protagonista di una sorta di diaspora africana non solo contemporanea, visto che la madre è di Bahia, e dunque discendente di schiavi e per questo non così lontana da Katharina.

Cinque secoli separano questi manifesti ideali di due globalizzazioni che nell’ovvia distanza di situazioni e di contesti pongono con eguale forza il tema del rapporto con l’altro e della sua percezione, e dunque di un’identità culturale frutto di contaminazioni dinamiche. Con la differenza che Dürer guardava a l’Africa che era fuori da sé, e dunque totalmente altra; Alexis Peskine invece ridiscute criticamente il rapporto tra culture facendo venir fuori l’Africa che è in lui. Il Cinquecento europeo diventava moderno scoprendo altri mondi. Il mondo postmoderno ha ora bisogno di scoprire se stesso guardandosi dentro e cercando il suo cuore in tasca, per cogliere e decifrare un’articolazione di più complessa di quanto narrazioni sovraniste e rigurgiti identitari lascino intendere.

l netto delle limitazioni pandemiche, merita il viaggio una mostra piccola ma preziosa come A piantare un chiodo, tutta ospitata dentro un parallelepipedo di vetro nel giardino di Villa Romana, in via Senese poco oltre le mura di Firenze, in una campagna che ricorda un altro fenomeno di cultura cosmopolita, quella del Grand tour e dei nordici che coltivavano l’Italia tra Otto e Novecento (fino al 20 marzo, su appuntamento). Sono soltanto tre opere, realizzate a Firenze da Peskine nel mese di gennaio presso il sistema di residenze d’artista Murate art district, nell’ambito del succoso progetto Black history month, una riflessione ampia sulla cultura nera nelle sue varie declinazioni che incrocia arte, musica, teatro, letteratura.
Solo tre opere, dicevamo, ma che opere! Peskine ricorre spesso al video e alla fotografia per sviluppare un…


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Il triste declino dell’Oms in ostaggio dei privati

GENEVA, SWITZERLAND: US computer billionaire Bill Gates, who has donated more than one billion dollars in recent years to major health campaigns dealing with HIV/AIDS, malaria, tuberculosis and vaccines, speaks at the opening session of the World Health Organization's annual assembly 16 May 2005, in Geneva. The meeting of 192 countries until May 25 is due to tackle controversial revisions to International Health Regulations, which were last updated in 1981 and only effectively allow worldwide controls to stop cholera, plague and yellow fever. AFP PHOTO JEAN-PIERRE CLATOT (Photo credit should read JEAN-PIERRE CLATOT/AFP via Getty Images)

C’è filantropia e filantropia. Nel 1952 il vaccino anti-polio, sviluppato da Jonas Salk, fornì la prima speranza di salvare i bambini in assenza di una cura. Lo scienziato non volle brevettarlo, perché “il vaccino apparteneva alla gente” e fare valere i diritti di proprietà intellettuale sarebbe stato come «brevettare il sole». Nel 1960, un secondo tipo di vaccino, sviluppato da Albert Sabin, accelerò la battaglia contro la malattia. Anche Sabin decise di non brevettare: «Tanti insistevano, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo».

Ce lo ricordano Nicoletta Dentico ed Eduardo Missoni, nel loro Geopolitica della salute. Covid-19, Oms e la sfida pandemica (Rubbettino Editore) da pochi giorni in libreria. Questo libro segue, nel giro di pochi mesi, l’altro di Dentico, Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo (Emi 2020), già segnalato da Left (v. il numero dell’11 dicembre 2020) in margine ad una intervista all’autrice e al quale mi sono anch’io riferito in un precedente intervento (v. Left dell’11 febbraio 2021).

In Ricchi e buoni? si narrava, in relazione alla salute globale, della presa di possesso da parte del capitalismo di un territorio, quello dei beni pubblici, tradizionalmente considerato di necessaria pertinenza dell’azione collettiva, vale a dire dell’intervento pubblico, governato dalla politica, che si sostituisce al mercato. E si descriveva come il cavallo di Troia per l’ingresso nel dominio dei beni pubblici sia stata la filantropia, non nel suo significato etimologico, come quella di Salk e di Sabin, ma come storicamente intesa, quella dei magnati della grande tradizione americana, da Carnegie a Gates e Buffet, passando per Rockefeller e Clinton. Una filantropia che, nella sua ultima fase, a partire dagli anni 90 del secolo scorso, sta portando il capitalismo al dominio globale: oltre il mercato, oltre ogni confine, potenzialmente su ogni manifestazione del vivere umano.                  

Ora, in Geopolitica della salute, più specificamente si guarda, con la straordinaria competenza che i due autori hanno maturato sul campo, ad una cittadella del sistema del multilateralismo uscito dalla Seconda guerra mondiale, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), presa d’assalto dal filantrocapitalismo.

La storia dell’Oms, nata il 7 aprile 1948 (ma nel volume si ricostruisce anche il lungo percorso antecedente, a partire dai primissimi antefatti, come la conferenza di Parigi del 1851) ben rappresenta una…


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Israele (e Hamas) sotto inchiesta per crimini di guerra

TO GO WITH AFP STORY BY HOSSAM EZZEDINE Palestinian children sit overlooking the West Bank refugee camp of Jalazoun, on the outskirts of Ramallah, on February 4, 2014. Workers of the United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA), responsible for managing the camp, are on strike demanding from UNWRA higher wages and better contracts conditions. On the background top, the Israeli settlement of Beit El. AFP PHOTO / ABBAS (Photo credit should read ABBAS MOMANI/AFP via Getty Images)

È incontenibile la rabbia d’Israele per la decisione della scorsa settimana della procuratrice Fatou Bensouda della Corte penale internazionale dell’Aia (Cpi) di aprire un’inchiesta formale per i presunti crimini compiuti da Israele nei Territori occupati palestinesi. Se il premier Netanyahu ha accusato la Cpi di «puro antisemitismo», il ministro degli Esteri Ashkenazi ha parlato di «atto di bancarotta morale e legale» per cui Tel Aviv compirà «ogni passo per proteggere i nostri cittadini e soldati». Sul banco degli imputati, infatti, potrebbero salire centinaia di soldati e figure di spicco del mondo politico israeliano. Bensouda ha spiegato che saranno indagati i presunti crimini compiuti a partire dal 13 giugno 2014. Per la procuratrice ci sono «basi ragionevoli» per ritenere che siano stati commessi crimini di guerra sia dalle forze armate dello Stato ebraico che dal movimento islamico Hamas durante l’offensiva israeliana “Margine protettivo” nella Striscia di Gaza. «Un’azione difensiva» per gli israeliani, «aggressione e massacro» per i gazawi.
Sul terreno restarono senza vita circa 2.300 persone (in buona parte civili) sul versante palestinese, alcune decine su quello israeliano (per lo più soldati). Senza dimenticare poi i feriti (oltre 11mila quelli palestinesi) e gli interi quartieri della Striscia rasi al suolo dalle bombe e dai tank israeliani.

L’annuncio di Bensouda della scorsa settimana si basa sulla decisione di inizio febbraio dei giudici dell’istruttoria preliminare del Tribunale dell’Aia di dare parere favorevole a pronunciarsi sulla giurisdizione della Cpi sulla Palestina. «La Palestina – hanno detto confutando la tesi israeliana – ha accettato di sottomettersi allo Statuto di Roma della Cpi (contrariamente ad Israele, ndr) e perciò ha il diritto di essere trattata come qualsiasi Stato per le questioni relative all’attuazione dello Statuto». Parole che hanno congelato Tel Aviv che teme che l’attenzione della Corte penale potrebbe presto estendersi anche alle colonie costruite in Cisgiordania e Gerusalemme Est e, più in generale, per l’occupazione di terra palestinese iniziata nel 1967 che viola il diritto internazionale.
Mentre si avvicinano le elezioni parlamentari del 23 marzo Israele fa sapere che non coopererà in alcun modo con l’indagine. La stampa locale ha anche riportato la notizia che Israele starebbe pensando di minacciare con sanzioni l’Autorità nazionale palestinese (Anp), che governa i palestinesi in Cisgiordania. Per il momento, però, l’Anp esulta. «È una vittoria della giustizia e l’umanità», ha detto il premier Shtayyeh. Anche Hamas si…


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