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Ecco “i migliori”/2

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 10-09-2020 Roma Politica Camera dei Deputati - Inaugurazione della nuova Sala delle Donne Nella foto Marta Cartabia Photo Roberto Monaldo / LaPresse 10-09-2020 Rome (Italy) Chamber of Deputies - Inauguration of the new Women's Room In the pic Marta Cartabia

Continuiamo con la galleria di quelli di cui dovremmo essere fieri, i componenti di questo governo delle meraviglie che è stato incensato ancora prima di cominciare e che dovrebbe (secondo una certa retorica piuttosto diffusa) comprendere il meglio a disposizione. La prima puntata, per chi se la fosse persa, la trovate qui.

Massimo Garavaglia. Poche ore di governo e il leghista Garavaglia è già diventato un simbolo dell’approccio salvinista all’esperienza Draghi: mentre tutti continuano ancora a sognare che Draghi possa “tenere a bada” (cosa significhi poi è ancora tutto da capire) i ministri lui, Garavaglia, ha organizzato una bella conferenza stampa con il suo sodale presidente della Lombardia Attilio Fontana per attaccare il governo sulla chiusura delle piste da sci. Peccato che il governo sia (anche) lui: avrebbe quindi potuto benissimo martellarsi in piazza e il messaggio politico sarebbe stato identico. Garavaglia del resto è anche quello angosciato da sempre per il salario minimo e il suo credo economico con cui osserva il mondo passa per il refrain del “diminuire i costi alle imprese”. Sempre quello, solo quello. Nel 2019 disse anche, tutto bello pasciuto e sicuro, che il 70% dei percettori del reddito di cittadinanza non ne avevano diritto. Venne smentito da tutti e ammise di avere sparato la cifra senza dati certi. Campione. Noto per perle come: «Gli statali del Sud? Meglio eliminarli». Ma è anche quello che si lamentava delle “troppe mance al Sud”. Bene, insomma. Quando è stato nominato ministro al Turismo, quindi in un certo senso portatore dell’immagine del nostro Paese, il suo account twitter aveva come immagine la copertina del suo libro che si intitola Antieuropeisti? (fantastico) e il suo sito ha come slogan “Tra il dire e il fare gh’è el mètes à drèe!”. In dialetto. Un migliore, sicuro.

Poi c’è Comunione e Liberazione. Non l’avete letta tra i ministri? Spiegamoci, con calma, perché come accade spesso con CL è sparsa un po’ qua e un po’ là e questa volta ha davvero fatto il colpaccio. La testimonial di punta ovviamente è Marta Cartabia, ministra alla Giustizia (che sicuramente non potrà che fare meglio del precedente ministro Bonafede, sia chiaro) e ex presidente della Corte costituzionale. Scriveva attivamente su Sussidiario.net e su organi molto vicini a CL. «I cd. “nuovi diritti” si alimentano di una concezione in cui l’uomo è ridotto a pura capacità di autodeterminazione, volontà e libera scelta», scrisse in un suo pezzo. Tanto per capirci. Prese posizione contro i famigliari di Eluana Englaro (come un Pillon qualsiasi) e scrisse: «Il diritto all’autodeterminazione del soggetto incapace: un ossimoro, se non fosse affermato dalla Suprema Corte di cassazione» (lo trovate qui). Strenuamente contro il matrimonio omosessuale (eccolo qui) e contro l’aborto (ecco qui), scrisse: «È così che si arriva persino ad affermare il “diritto a non nascere” o il “diritto a darsi la morte”, il cui effetto è la negazione del soggetto stesso». Ha partecipato per 10 volte (dieci) alla kermesse clericale del Meeting di Rimini. È meglio di Bonafede? Sicuro. Le auguriamo buon lavoro ma sul tema dei diritti ci permettiamo di dissentire e di opporci, eccome.

A proposito del meeting di CL: sono 13 su 25 i ministri che sono stati relatori  nella kermesse clericale del Meeting di Rimini: Bianchi, Cingolani, Di Maio e Garavaglia in una occasione. Due volte Draghi e Carfagna. Tre le volte per Brunetta, Giorgetti e Speranza. Ben cinque volte Colao, Gelmini e Giovannini. Campionessa assoluta Marta Cartabia con dieci edizioni. Sempre a proposito della laicità che scompare in questo governo vale la pena ricordare la ministra Gelmini che cantò “Tu scendi dalle stelle” per protestare contro i presidi che si azzardano a non far recitare canti liturgici in classe, la ministra Bonetti (Italia Viva) sempre affezionate alle scuole paritarie (che da noi significa cattoliche) e poi volendo ci sarebbero i segretari di partito: Renzi con il suo “nuovo rinascimento” saudita e Salvini che giura sul Vangelo.

A proposito: Draghi ha nominato Carlo Deodato a capo del Dipartimento degli Affari Giuridici e Legislativi: simpatizzante di CL e Sentinelle in Piedi. Da giudice estensore della sentenza del Consiglio di Stato ha annullato la trascrizione dei matrimoni egualitari celebrati all’estero.

La laicità insomma non è delle migliori.

Buon mercoledì.

Il valore di un lavoro indispensabile

04 May 2020, Brandenburg, Frankfurt (Oder): A woman pushes an elderly woman in a wheelchair across a sidewalk. Photo by: Patrick Pleul/picture-alliance/dpa/AP Images

Gisella ogni giorno si alza alle sette e mezza del mattino, prepara il bambino e lo accompagna a scuola. Rientra a casa e sveglia la nonna di ottanta anni che, instancabilmente, assiste ormai da tre anni. Fa i lavori di casa, prepara la colazione della nonna e si dedica a fare compagnia a quella signora anziana di cui è ormai diventata un punto fermo imprescindibile. Anno dopo anno Gisella svolge questa vita a Milano, dove è arrivata nell’ormai lontano 1992. Nata in Perù dove si era diplomata in ragioneria, lavorava al ministero dell’Interno per un stipendio irrisorio. Come molte persone è partita alla ricerca di un futuro migliore per sé e la sua famiglia. Il destino l’ha fatta approdare in Italia, dove, sola e non conoscendo la lingua, ha iniziato una “vita da irregolare” tra ansie e timori tipici di chi vive senza gli agognati documenti.

Gisella descrive quei giorni come «una malinconica prigione» provando un’enorme nostalgia per i propri cari rimasti in Perù. Nel corso degli anni ha preso coscienza dei propri diritti e ha iniziato un percorso sindacale per poter aiutare e sostenere tutte quelle donne che vivono in questo limbo privo di diritti. Con il sostegno di Confederazione unitaria di base immigrazione (Cub) crea con altre badanti un tavolo tecnico per riscrivere il contratto collettivo nazionale delle colf e badanti. Partendo dalle loro decennali esperienze nel mondo della cura, queste donne intendono rivendicare per le loro colleghe un miglior trattamento salariale, l’aumento del periodo di maternità, la retribuzione dei permessi, un preavviso di licenziamento più lungo rispetto a quello attuale di una sola settimana, e dignità.

Il valore del lavoro di cura sottopagato svolto per la stragrande maggioranza da donne (80,7%) e, in particolare, da donne povere e migranti (70,3%) è giunto a valere nel mondo 10,8 trilioni di dollari, ovvero tre volte tanto l’intero settore tecnologico mondiale. Questo lavoro sorregge la società ed è un sostegno per la crescita dei bambini, è alla base della sopravvivenza degli anziani e delle persone con disabilità. Rappresenta un mestiere faticoso, spesso invisibile, che viene delegato alle donne anche per un pregiudizio (la nostra supposta maggiore propensione biologica per il lavoro di cura e di pulizia) oltreché per la facilità con cui la società sfrutta il genere femminile.

Quello del lavoro domestico e di cura è tra i…


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Fingeranno sempre di passare lì per caso

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 15-02-2021 Roma, Italia Politica Lega - punto stampa Nella foto: Il leader della Lega Matteo Salvini durante consueto punto stampa delle H12.00 Photo Mauro Scrobogna /LaPresse February 15, 2021  Rome, Italy Politics Lega - punto stampa Nella foto: Il leader della Lega Matteo Salvini durante consueto punto stampa delle H12.00

Giornata interessante, quella di ieri. Giornata significativa anche per quelli che da qualche giorno sospirano petali di rosa sognanti per un Draghi taumaturgo che avrebbe il potere di cancellare i partiti, la politica, la mediocrità di certi leader e soprattutto i normali meccanismi democratici di un Parlamento.

Accade che il governo decida di chiudere le piste da sci che invece avrebbero dovuto aprire. Accade che lo faccia all’ultimo momento: l’ultimo momento del resto è il primo momento utile con i nuovi dati che arrivano dal Comitato tecnico scientifico e volendo ben vedere anche il primo giorno utile da un governo che è naufragato per regalarci il governo dei sogni, il governo dei migliori, il governo che avrebbe cambiato tutto. Accade che di fronte i dati dei nuovi contagi (perché la curva non si abbassa più e anzi in modo preoccupante tende a rialzarsi probabilmente a causa delle varianti del virus) si decide di tenere chiuse le piste sciistiche. Apriti cielo: ogni volta che qualcuno tocca un settore qualsiasi ovviamente (e giustamente) si levano voci sdegnate. Ma badate bene, qui non si tratta delle voci dei lavoratori, che si sono ritrovati nella pessima situazione di dover cancellare una riapertura programmata che è costata organizzazione, soldi, fatica e che inevitabilmente costa moltissimo in termini economici e di spirito. No, qui si levano le voci sdegnate dei politici.

«I ministri hanno la nostra fiducia. ma serve cambiare qualche tecnico – ha avvertito Salvini – La comunità scientifica è piena di persone in gamba». Il presidente di Regione Lombardia, il leghista Fontana dice: «Trovo assurdo apprendere dalle agenzie di stampa la decisione del ministro della Salute di non riaprire gli impianti sciistici a poche ore dalla scadenza dei divieti fin qui in essere, sapendo che il Cts aveva a disposizione i dati da martedì, salvo poi riunirsi solo sabato». «Sono allibito da questa decisione che giunge a poche ore dalla riapertura», dice il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio. Piste da sci aperte in Friuli Venezia Giulia dal 19 febbraio anche per gli sciatori amatoriali. Il governatore Massimiliano Fedriga ha firmato l’ordinanza urgente n. 4/2021 con cui apre anche agli sciatori amatoriali, a decorrere dal 19 febbraio e fino al 5 marzo, gli impianti nelle stazioni e nei comprensori sciistici. «Per noi viene prima di tutto la salute dei cittadini ma è raccapricciante e imbarazzante vedere un’ordinanza che proroga la chiusura degli impianti da sci pubblicata 4 ore prima di mezzanotte», dice il presidente veneto Luca Zaia. Ma badate bene, non è mica solo la Lega: «Il danno per l’economia dello #sci e della #montagna è davvero immenso. Il Governo si adoperi subito per indennizzi e ristori a chi è stato colpito. Questa è la priorità assoluta», spara il segretario del Pd Zingaretti. «Non posso non esprimere stupore e sconcerto, anche a nome delle altre Regioni, per la decisione di bloccare la riapertura degli impianti sciistici a poche ore dalla annunciata e condivisa ripartenza», dice il presidente dell’Emilia-Romagna e della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini. Italia Viva (figurarsi) chiede “un cambio di passo”. E via così.

Tant’è che a un certo punto si diffonde l’opinione che la decisione sia stata presa dal ministro Speranza, da solo rinchiuso nella sua stanzetta e che loro non ne sapessero niente. Peccato che a metà giornata Palazzo Chigi (quindi Draghi) fa sapere all’Agi che la decisione sugli impianti sciistici è stata adottata in base alle informazioni fornite dal Cts e condivisa dal governo e dal presidente del Consiglio Mario Draghi. Cioè la decisione è stata discussa con tutti i ministri e quindi si presume che i ministri abbiano avvisato i segretari del proprio partito e quindi si presume che sia tutta una posa, una finta sorpresa, un giochetto facile facile: questi fingeranno sempre di essere presi alla sprovvista perché appoggeranno il governo nella comoda posizione di chi comunque si sente un battitore libero. E continueranno a sparare cannonate perché Draghi potrà (forse) riuscire a tenere a bada i ministri e non i partiti, com’è normale che sia.

Ora capite perché la favola del “governo tecnico” è una bufala? Questi continueranno a fingere di passare di lì per caso, in Consiglio dei ministri, rimanendo stupiti tutte le volte, ognuno per proprio tornaconto elettorale. Il “governo dei sogni” è un governo che ha messo sul palcoscenico tutte le mediocrità, nessuna esclusa, e che rende facilissima la vita agli “oppositori interni”, quelli che sfasciano tutto per sentirsi vivi. Un capolavoro, insomma.

Buon martedì.

Perché la sinistra deve dire No al governo Draghi

La nascita del nuovo governo a guida Draghi pone molteplici ordini di problemi. La crisi italiana, già storicizzata, rischia di uscire aggravata da un esperimento politico che pare costituirne un estremo sintomo.

Una crisi di democrazia. Perché quando si forma una maggioranza del 95% dei parlamentari e l’opposizione è ridotta al 5%, per giusta di estrema destra, questa si chiama crisi della Repubblica. Confindustria e sindacati schierati dalla stessa parte, senza remore, né distinguo. Non funziona così una democrazia.

Una crisi politica. Questo governo sarà in tutti i sensi peggiore del precedente. Visto da sinistra è così. Non c’è cosa positiva eventualmente promossa dal governo Draghi, in termini di contrasto della pandemia, di gestione del Recovery fund, di giustizia fiscale, di politiche ambientali ecc., che non potesse essere fatta lo stesso e meglio dal governo precedente. Contro Renzi bisognava promuovere le ragioni di una maggioranza politica (non accattare “europeisti”). Votare Draghi equivale a dargliela vinta.

Una crisi di soggettività. Dei partiti e della classe politica, che ci assilla ormai da decenni. E che impatta direttamente sulla sinistra e sul centrosinistra. Abbiamo visto un Pd favorevole di seguito: al governo Conte 2, al governo Conte 3 con i responsabili e senza Renzi, al Conte 3 di nuovo con Renzi, infine al governo Draghi o in alternativa alle elezioni. Quando si dice una forza politica responsabile, con leadership adeguata. Un pilastro della democrazia matura.

La sinistra? Quel che resta di Liberi e uguali nelle due Camere è solo un caravanserraglio dove ognuno sta e va per sé. Non è mai esistito, men che meno oggi, come soggetto politico. Mpd vive solo di Speranza, Sinistra italiana all’ultimo congresso virtuale è entrata papa ed è uscita cardinale. Doveva entrare nel fenomenale progetto di Equologica, alla fine è rimasta se stessa, cioè Si.

Il punto è che siamo dentro – da tempo, certo – ad una crisi politica e della politica di cui non si vede la fine. Il governo Draghi è risultato, più che causa, di questo dramma storico. Eviterei di dire “è colpa di Renzi” o anche di Mattarella, che indubbiamente ha imposto l’apertura a Berlusconi e Salvini, mettendo in strettezze la ex maggioranza. Eviterei perché è stato il cedimento strutturale di questa a portarci dove siamo.

Non era già successo con Napolitano? Non era già successo nel 2011 con la crisi del governo Berlusconi? Otto anni dopo, nel gennaio 2019, fu Bersani in una intervista al Giornale a ricordare di quando la direzione del Pd, mentore il Presidente, lo obbligò a sostenere Monti invece delle elezioni. Dopo di che fu solo legge Fornero, salvataggi di banche col “debito buono”, cioè coi soldi nostri, pareggio di bilancio in Costituzione, “macelleria sociale” («espressione rozza ma efficace», Draghi dixit, da Governatore di Bankitalia, il 31 maggio 2010). Bersani col senno di poi si lamentava: «Molti si ubriacarono di retorica europeista», ricordando però che addirittura l’allora presidente della Commissione europea Juncker, ad un certo punto, disse che l’austerità forse era stata «esagerata e poco solidale».

Dov’è la differenza da oggi? Non capisco chi distingue fra governo Monti e governo Draghi. Mutatis mutandis lo schema è lo stesso. La retorica europeista torna al potere. In prima persona. Si dirà: oggi c’è la pandemia. Appunto. Ieri lo spread, oggi il virus. Ma c’è pure il Recovery fund, che della pandemia è l’anticorpo.

Chi gestisce i 200 miliardi e rotti? Questo il punto. Su questo è caduto Conte. Non da Renzi, ma da chi c’è dietro, in Italia e in Europa. Che poi è sempre “retorica europeista”. La quale dopo averci propinato decenni di austerity, si candida a propinarci anche il suo rimedio.

E anche qui parliamo di una prospettiva di anni. Si sta aprendo una nuova, lunga fase. E queste sono le spinte che hanno generato la fine del fragile esperimento del Conte 2. Capirlo permette di meglio posizionarsi per il presente e il futuro. Con il governo Draghi non è in questione il breve periodo da qui alla elezione del nuovo presidente della Repubblica. Non si tratta di bypassare il “semestre bianco”. Qui sta prendendo forma qualcosa che prefigura il dopo. Il dopo pandemia, il dopo populismo, il dopo sovranismo, il dopo Trump, forse anche il dopo liberismo. Qualcosa che non vorremmo fosse anche il dopo democrazia e, per quel che ci riguarda, il dopo sinistra.

Per questo trovo così importante opporsi al governo Draghi. I parlamentari che si dicono ancora di sinistra devono votare No. Non si tratta di non corrispondere all’appello del presidente. Ma di affrontare le ragioni politiche che hanno reso cogente quell’appello. Che significa intanto fare opposizione. Non lasciarla solo all’estrema destra. E dall’opposizione avanzare proposte alternative, su tutti i dossier: un nuovo modello di sanità, pubblica, statale, di qualità, la gestione del Recovery fund, il contrasto alla “macelleria sociale”, politiche fiscali eque e progressive, patrimoniale, un diverso modello di sviluppo, di consumo, di tutela e protezione ambientale, democratizzazione dell’Europa, politiche di pace.

Tutte cose che deve fare un governo politico. Quindi una maggioranza politica. Quindi nuovi soggetti politici. Quindi una nuova sinistra. Tutto da costruire. Ma bisogna cominciare. Da una opposizione democratica, di sinistra, di alternativa. Oggi e sempre la pietra dello scandalo è la stessa. La democrazia non si salva, non si salva l’ambiente, non ci salviamo noi tutti, senza una nuova sinistra. Dire no a Draghi, se si assume tutto questo, darà senso e dignità al nostro qualsiasi essere politico.


L’autore: Fabio Vander è filosofo della politica e autore di numerosi saggi tra i quali “Livorno 1921. Come e perché nasce un partito”, Lacaita (2008)

Le economiste della resistenza

Kurdish sisters Siti (L), 54, and Qumri Youssef, 50, who weave carpets with a traditional loom inherited from their ancestors, stand at the entrance of their home in Kerzero (Tall Adas) village, in the countryside of Rumaylan in Syria's Kurdish-controlled northeastern Hasakeh province, on January 15, 2021. (Photo by Delil SOULEIMAN / AFP) (Photo by DELIL SOULEIMAN/AFP via Getty Images)

È passato più di un anno da quando la Turchia ha lanciato l’ultima operazione militare contro il nord-est della Siria, noto anche come Rojava. I soldati di Ankara, nell’ottobre del 2019, sono penetrati in territorio siriano con il benestare degli Stati Uniti e da quel momento controllano una fascia di territorio che va da Serekaniye ad est fino a Tel Abyad ad ovest, lungo il confine turco. La popolazione residente, in maggioranza curda, si è trovata improvvisamente sotto il giogo della Turchia e delle milizie filo-turche, costretta ad assistere inerme alla distruzione della società tanto faticosamente costruita nei nove anni di guerra. Ma la presenza turca nel nord-est rappresenta un pericolo anche per i villaggi vicini e più in generale la sicurezza della regione. Durante il periodo estivo, per esempio, la popolazione di Deir ez-Zor si è trovata più volte senza acqua a seguito delle ripetute interruzioni nella fornitura idrica decisa dalle milizie filo-turche e sono sempre più numerosi gli episodi di violenze, rapimenti e confische arbitrarie perpetrate dai gruppi fedeli ad Ankara.

Recentemente, a preoccupare le Syrian Democratic Forces sono stati anche i bombardamenti che hanno interessato l’area di Ain Issa, villaggio del nord-ovest della Siria vicino all’area controllata dalla Turchia. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan durante la campagna elettorale americana ha più volte minacciato un nuovo intervento contro i curdi lungo il confine e l’obiettivo primario sembrava fosse la conquista di Kobane, città simbolo della vittoria dei curdi contro lo Stato islamico. A seguito della sconfitta di Donald Trump alle urne Erdoğan ha abbassato i toni, ma la tensione lungo il confine resta alta.

Nonostante la minaccia costante e il timore di una nuova invasione, la popolazione del Rojava non ha intenzione di lasciarsi intimorire, né di rinunciare alla sua rivoluzione. Curdi ed arabi continuano a costruire giorno dopo giorno una società più egualitaria, dove le decisioni sono prese collettivamente e in cui si tiene conto dei bisogni della comunità così come di quelli dell’ambiente, anche sotto il profilo economico.
Per riuscire a raggiungere questi obiettivi, l’Amministrazione autonoma del Rojava ha puntato anche sulla creazione di un’economia alternativa a quella capitalista, che metta al centro i lavoratori e il benessere della collettività, piuttosto che il mero profitto e il guadagno individuale. Alla base di questo sistema vi sono le cooperative, create grazie al contributo di…


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Anticipo pensionistico, idee per una riforma necessaria

Seniors wait to be vaccinated with China's Sinovac Biotech COVID-19 vaccine at a vaccination center set up at the Carmela Carvajal school in Santiago, Chile, Wednesday, Feb. 3, 2021. Chile is starting its vaccination plan for the general population on Wednesday, starting with seniors over 90 and health workers. (AP Photo/Esteban Felix)

L’ultimo report dell’Inail, aggiornato al 31 dicembre 2020, rileva che i contagi da Covid denunciati all’Istituto sono 131.090. La categoria più colpita risulta essere quella dei tecnici della salute, con un’alta percentuale di occupazione femminile, ben il 38,6% delle infezioni denunciate: infermieri, operatori sociosanitari, medici, operatori socioassistenziali, ausiliari e barellieri.

È evidente che l’impatto della pandemia ha fatto emergere nuove aree di rischio lavorativo che vanno tutelate. Anche alla luce di questi dati, la nostra proposta è quella di considerare, anche a fronte della scadenza a fine anno di Quota 100, la necessità di migliorare e allargare l’Ape sociale (anticipo pensionistico).

Il criterio guida, per noi, è quello di rendere strutturale la flessibilità nel sistema pensionistico, superando le rigidità anacronistiche introdotte dalla legge Monti-Fornero. Avere una previdenza flessibile è il massimo della modernità, anche per il fatto che stiamo entrando progressivamente nel sistema contributivo, che completerà il suo ciclo, iniziato nel 1996, tra poco più di dieci anni. In secondo luogo, collegare la flessibilità alle…

*-*

Gli autori: Cesare Damiano già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro durante il secondo governo Prodi (2006-2008) ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare. Marialuisa Gnecchi è stata parlamentare in due legislature per il Pd e con Damiano è stata la firmataria della proposta di legge n. 857 “Disposizioni per consentire la libertà di scelta nell’accesso dei lavoratori al trattamento pensionistico”.


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Eccoli “i migliori”

Renato Brunetta in un Paese normale, in un Paese capace di esercitare il muscolo della memoria almeno per qualche anno, sarebbe considerato un politico “finito”, uno di quelli che incassa con dignità le sue sconfitte e silenziosamente si ritira a fare altro. In Forza Italia, nella Forza Italia che si è sgretolata in questi ultimi anni, lui ha mantenuto invece la qualità politica che più conta da quelle parti, la fedeltà al capo e ad esserne lo scherano e così ce lo ritroviamo estratto dal cilindro. Brunetta fu già ministro nel terzo governo Berlusconi, proprio alla Pubblica amministrazione, ve lo ricordate? Fu quello che si presentò additando come «fannulloni» i dipendenti pubblici (e se ci fate caso quel vento sta tornando di moda, bravissimo Draghi a fiutarlo, chapeau) e pensò bene di installare dei tornelli negli uffici (voleva metterli anche nei tribunali) per risolvere il problema dell’assenteismo. Capite vero? Il governo dei migliori che dovrebbe farci dimenticare i banchi con le rotelle ha ripescato dal cassetto dei giocattoli rotti il ministro dei tornelli. Fu il Brunetta che si scagliava contro i magistrati che «lavorano due e tre giorni alla settimana» (ma per difendere Berlusconi bisogna per forza odiare i magistrati) e che aveva definito alcuni poliziotti dei «panzoni passacarte». La sua riforma che avrebbe dovuto rivoluzionare la pubblica amministrazione non ha cambiato nulla, nulla. In compenso Brunetta fu quello che accusava le donne di usare «gli ammortizzatori sociali per fare la spesa» e che, tanto per farsi un’idea dello spessore culturale, disse: «Esiste in Italia un culturame parassitario vissuto di risorse pubbliche che sputa sentenze contro il proprio Pae­se ed è quello che si vede in que­sti giorni alla Mostra del Cine­ma di Venezia». Un migliore, senza dubbio.

Mariastella Gelmini fu la ministra all’Istruzione che per quelli della nostra generazione ha lasciato come ricordo le macchie di un incubo. Tanto per stare sui numeri: un taglio in tre anni di 81.120 cattedre e 44.500 Ata (il personale non docente). È la sforbiciata complessiva di 125.620 posti dal 2009 al 2011 che avrebbe dovuto far risparmiare all’Erario poco più di otto miliardi di euro. Otto miliardi e 13 milioni, per la precisione, stima il Tesoro nel «Def 2011». Parte di queste risorse, il 30%, servivano a recuperare gli scatti stipendiali bloccati nel luglio 2010 da Giulio Tremonti. Da buona efficiantista non sognava una scuola migliore ma ambiva a tagliare “gli sprechi”. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, di fronte ai tagli alla ricerca, era però dovuto intervenire a gamba tesa nel 2009 invitando la ministra a «rivedere alcuni tagli indiscriminati». Delle donne disse che sono delle «privilegiate» se scelgono di assentarsi dal lavoro dopo la gravidanza. Nel 2009 pensò anche a un tetto del 30%, per ridurre il numero degli stranieri in classe. Una migliore, applausi.

Erika Stefani è ministra alle disabilità. Già il fatto che per le disabilità venga messo in piedi un ministero senza sapere e senza capire che il tema attraversi tutte le competenze ha la forma di un’elemosina, lo ha spiegato benissimo Iacopo Melio in questo articolo per Repubblica, ma uno si aspetterebbe che in quel ministero lì ci sia una persona empatica, inclusiva, con testa e cuore larghi. Erika Stefani è stata ministra con il primo governo Conte ma se la ricorda solo Wikipedia. Fino a qualche giorno fa aveva come copertina della sua pagina Facebook la sua foto in Parlamento mentre strillava con un cartello “No ius soli”. Era una di quelli che proponevano le gabbie salariali ovvero «alzare gli stipendi al Nord e abbassarli al centro-Sud». Una migliore, complimenti.

Poi c’è Giorgetti, sempre della Lega, come Stefani. Giorgetti è in Parlamento dal 1996 e ha il grande “pregio” di aver sempre seguito i potenti, passando indenne da Bossi a Maroni fino a Salvini. Parla poco perché quando parla dice cose che rimangono impresse a fuoco come quella volta che disse che i medici di famiglia non servono più. Infatti nella sua Lombardia i medici di famiglia sono stati disarticolati e la Covid ha preso piede con grande libertà. Un capolavoro. Giorgetti è uno di quelli stimati perché non parlano mai e rischiano di sembrare intelligenti, come Guerini nel Pd, sempre pronti ad attaccarsi alle braghe del potente giusto per risultare pontieri mentre invece sono solo camerieri. Giorgetti era uno di quelli che ci spiegò che i mercati europei attaccavano la Lega perché «i mercati sono popolati da affamati fondi speculativi che scelgono le loro prede e agiscono», disse proprio così. Ora è europeista. Che migliore, davvero.

Questo è solo un assaggio. Nei prossimi giorni li raccontiamo per bene tutti. Evviva i migliori. Evviva.

Buon lunedì.

«Aiutateci a fermare il massacro nel Tigray, prima che sia troppo tardi»

FILE - In this Tuesday, Dec. 1, 2020 file photo, refugees who fled the conflict in Ethiopia's Tigray region ride a bus going to the Village 8 temporary shelter, near the Sudan-Ethiopia border, in Hamdayet, eastern Sudan. Life for civilians in Ethiopia's embattled Tigray region has become "extremely alarming" as hunger grows and fighting remains an obstacle to reaching millions of people with aid, the United Nations said in a new report released late Thursday, Feb. 4, 2021. (AP Photo/Nariman El-Mofty, File)

Tzehainesc, in Italia da 40 anni, è una attivista storica giunta dal Tigray, o Tigrè, Nord dell’Etiopia, una regione che dal 4 novembre 2020 è in conflitto con le autorità centrali (v. Left del 6 dicembre 2020). Le notizie sono scarse anche perché ai giornalisti e alle organizzazioni umanitarie è impedito l’ingresso nel Paese e le testate tigrine sono state chiuse. «I tigrini della diaspora si stanno mobilitando in tutto il mondo per cercare di far intervenire la Corte internazionale di giustizia e per garantire sostegno a chi è dovuto fuggire in Sudan, agli sfollati, a chi sta subendo un tentativo di pulizia etnica», dice Tzehainesc (di cui omettiamo il nome completo per i rischi che corrono i familiari rimasti nel Tigray).

L’Etiopia è divisa come Repubblica federale in 10 Stati/regioni in cui convivono almeno 80 popolazioni con lingue diverse, per 20 anni è stata in conflitto con l’Eritrea, un tempo sua regione. Solo dopo il definivo riconoscimento dell’indipendenza, nel 2000 sono cessate le ostilità. Nel 2018 c’è stata la prima visita diplomatica in Eritrea, dell’attuale primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali, a cui è stato conferito nel 2019, il Nobel per la pace. Una pace che nel Paese è sempre stata in bilico a causa di tensioni interne. La capitale Addis Abeba ha conosciuto un rapido sviluppo diventando meta di arrivo anche dall’Eritrea. Dopo l’impero di Hailè Selassié e il regime di Menghistu, dal 1991 il Paese è governato dal Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf) che riuniva le 4 principali componenti etniche. Dal 1995 al 2012 (quando morì a Bruxelles) è stato primo ministro Meles Zenawi, appartenente al Fronte di liberazione del Tigray (Tplf). Il nuovo primo ministro è invece di etnia oromo, maggioritaria in Etiopia ed è il primo di tale gruppo a ricoprire questo ruolo. Nell’ottobre del 2019, ci sono stati scontri interni dopo l’arresto dell’oppositore Jawar Mohammed, anch’egli oromo. Abiy Ahmed Ali ha reagito disponendo la trasformazione dell’Eprdf in un unico soggetto, il Partito della prosperità, a cui non ha aderito il Tplf.

Nello stesso periodo il governo ha annunciato libere elezioni, rinviate poi col pretesto dell’emergenza da Covid. «In realtà le elezioni si dovevano e potevano fare, la pandemia è esplosa dopo, ma il primo ministro aveva deciso che chi non faceva parte del suo nuovo partito era fuorilegge – racconta Tzehainesc – e le elezioni le abbiamo svolte a settembre, con una partecipazione del 96% degli aventi diritto. Un piccolo partito indipendentista ha ottenuto 2 dei 190 seggi, tanto è bastato per…


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Rasha al-Amir, scrivere è impegno civile

«È strano che un uomo debba spiegare i motivi per cui certuni si astengono dall’ucciderlo, come se si scusasse per essere ancora vivo, rivolgendo le sue scuse sia agli uccisi, ai quali non si è aggiunto perché il fato ha decretato così, sia ai vivi, tra i quali è un intruso». Questa è una riflessione dell’imam minacciato di morte protagonista del romanzo Il giorno del giudizio, scritto dall’autrice ed editrice libanese Rasha al-Amir nel 2002 e pubblicato pochi giorni fa per La tartaruga, (che fa parte del gruppo La Nave di Teseo ndr), nella sua traduzione italiana. Parole forti, che fanno sentire come, già venti anni fa, le minacce del fanatismo fossero una realtà palpabile per la scrittrice il cui fratello, Lokman Slim, attivista e intellettuale impegnato in prima linea contro l’uso ideologico e politico della religione, è stato assassinato il 4 febbraio scorso.

Per Rasha al-Amir la letteratura non è solo un mestiere. È impegno civile a favore di una società basata sul diritto di cittadinanza e sulla memoria, non sul confessionalismo, una società che dovrebbe essere orgogliosa del suo straordinario patrimonio letterario che ha 1500 anni di storia e trarre dal passato lezioni per evitare di incappare, sempre, negli stessi errori. «Sai tu che cos’è il giorno del giudizio? Sì, sai che cos’è il giorno del giudizio?». Questo versetto del Corano, una domanda posta da Dio all’essere umano che, nella sua limitatezza, non ha la facoltà di immaginare gli sconvolgimenti della fine dei tempi, è riportato in epigrafe del romanzo. Per l’imam narratore della lunga e intensa lettera d’amore che è quest’opera, uomo che convive con i testi sacri della tradizione islamica, il suo giorno del giudizio arriverà in questa vita, al termine di una lunga attesa in cui ha vissuto passivamente, per repressione e mancanza di coraggio, la sua professione e la sua vita. Un uomo che si imbarazza come un bambino quando si trova da solo con la donna che lo attrae, un uomo dilaniato da un profondo conflitto interiore perché, nel contesto in cui vive – un Paese arabo volutamente senza nome – si sente alienato, esule, estraniato. Tutto quello che fa è cercare di sopravvivere in un Paese dove il governo è repressivo e corrotto e gli islamisti provano con tutti i mezzi a convertire le coscienze e a inculcare a giovani deboli che…


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Quei tre giorni del 1937 ci dicono cosa era il fascismo

«Ieri verso le ore 12, dopo ultimata la distribuzione delle regalie alle chiese, alle moschee e ai poveri di Addis Abeba fatta da S.E. Graziani in omaggio alla nascita di S. A. R. il Principe di Napoli, alla presenza delle autorità civili e militari e dei capi e notabili rappresentanti le comunità religiose copte e musulmane, da un gruppo di individui infiltratosi fra i poveri venivano lanciate, approfittando del movimento creatosi tra la folla al termine della cerimonia, alcune bombe a mano».
Questo il testo della agenzia Stefani, battuto il 20 febbraio 1937, che dà notizia dell’attentato al viceré Rodolfo Graziani, il successivo dispaccio della Stefani parla di 2mila fermi e comunica che «squadre di fascisti hanno ripulito taluni quartieri della capitale».

Il 19 febbraio, per festeggiare la nascita del principe di Piemonte, Graziani aveva infatti organizzato una pubblica elemosina per la popolazione indigente di Addis Abeba. Alla cerimonia, che si svolse nel cortile del piccolo Ghebì (l’ex palazzo di Hailè Selassié), sede del governo, parteciparono tutti i notabili etiopici presenti nella capitale, nonché gli alti vertici del governo italiano. La cerimonia venne organizzata fastosamente imitando una tradizione (quella che prevedeva per il giorno della Purificazione della Vergine una distribuzione di beni ai poveri) per almeno due scopi: «Quello di dimostrare che il governo italiano è più generoso di quello negussita, e quello di rompere con un gesto spettacolare e distensivo l’atmosfera di insicurezza che stagna da qualche tempo in città» (Angelo Del Boca, Italiani in Africa orientale, La caduta dell’Impero, Laterza). Addis Abeba era però considerata “sicura” molto diversamente dal resto del Paese, dove, nonostante la guerra fosse ufficialmente chiusa dal maggio 1936, la resistenza anti-italiana continuava a rendere ben poco sicuro l’impero e dove continuavano le sanguinose repressioni messe in atto dall’amministrazione italiana.

Circa duemila persone, affollavano il recinto della sede del governo, controllate da una cinquantina di carabinieri. Verso mezzogiorno l’attentato: due patrioti etiopi lanciarono alcune granate e Graziani venne investito quasi in pieno dall’esplosione del terzo ordigno. Mentre il viceré veniva soccorso iniziarono le reazioni all’interno del Ghebì: vennero immediatamente chiusi i cancelli, impedendo alla popolazione di fuggire e soldati e carabinieri reagirono sparando sulla folla. Coloro i quali non caddero sotto il piombo vennero poi rinchiusi per parecchi giorni nelle sale del palazzo.
I tre giorni che seguirono furono segnati dalla rappresaglia scatenata dagli italiani di Addis Abeba. Un vero e proprio pogrom coordinato dal partito fascista. Fu infatti il federale della città, Guido Cortese, che organizzò i presenti, li divise in squadre e li lanciò contro la…


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