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E gli amichetti di Trump?

Il giorno dopo l’assalto al Congresso Usa qui da noi si è assistito a un teatrino desolante ma significativo. Qualcosa che va raccontato perché se è vero che le violenze hanno un nome e un cognome, Donald Trump che istigato, lisciato e perfino ringraziato i manifestanti, è anche vero che gli amichetti di Trump, quelli che per 4 anni hanno fatto finta di non vedere questo tragico intercedere dello svilimento della democrazia che si professa la “più importante del mondo” sono desolanti nella loro vergogna.

Gli amichetti italiani di Trump fischiettano facendo finta di niente e intercedono come se quello che sia avvenuto negli Usa sia qualcosa che non li riguardi, sorridono alle telecamere parlando il più genericamente possibile e sperano di non essere visti mentre si infilano la testa sotto la sabbia.

Partiamo da un presupposto: gli accadimenti americani sono figli di un presidente che prima ha usato la rabbia e la violenza per racimolare voti, poi ha alimentato la rabbia e la violenza con un linguaggio e dei comportamenti della stessa pasta e rilanciando notizie false, poi l’ha condonata quando sono accaduti episodi condannabili nel suo Paese da parte dei suoi sostenitori, poi l’ha legittimata inventandosi nemici per giustificare i propri limiti di governo e infine l’ha istituzionalizzata cianciando di elezioni truccate senza nemmeno riuscire a raccogliere uno straccio di prova a supporto della sua tesi. Quelli hanno occupato i palazzi delle istituzioni perché si sentono loro stessi “istituzioni” sotto assedio. Era immaginabile che finisse così.

Ma in Italia? Giorgia Meloni lo scorso gennaio a proposito di Trump diceva che fosse «la ricetta che vogliamo portare in Italia». Ora che dice, al di là di quattro tweet sputati di circostanza in cui condanna la violenza dimenticandosi di nominare il violento? Matteo Salvini che diceva lo scorso 5 novembre «ha ragione Trump a chiedere controllino voto per voto, seggio per seggio e non escludo nulla. Vedrete che potranno esserci sorprese», che dice delle sorprese che ci sono state? Lui che diceva «vigileremo» che dice? Ma attenzione, non si tratta solo dei destrorsi che a Trump si rifanno in tutto e per tutto da anni. Che dice Di Battista, grande fan di Trump piuttosto che di «quelli golpista di Obama», come ebbe a dire? Davvero il presidente del consiglio Conte non riesce a infilare il nome di Trump nei suoi comunicati di preoccupazione? Vi ricordate Beppe Grillo che diceva che Trump e il M5s avessero “delle similitudini” celebrando l’elezione di Trump a presidente?

La leadership si misura anche nella capacità di fare i nomi e i cognomi. Non è difficile. «Trump ha responsabilità in quanto accaduto» ha detto ieri la Merkel. Perfino il presidente della Ligura Toti e il braccio destro di Giorgia Meloni ci sono riusciti. Dai, sforzatevi, su.

Buon venerdì.

In un mondo che cambia

Un anno fa guardavamo con occhi sgranati quel che stava accadendo a Wuhan dove con grande rigore e senso di responsabilità i cittadini rispondevano all’obbligo di lockdown, unico modo per contenere la diffusione del coronavirus di cui poco o nulla si sapeva. Ricordiamo i servizi tv che mostravano la metropoli da 11 milioni di abitanti improvvisamente piombata in un vuoto pneumatico. Non avevamo ancora capito che presto sarebbe toccato anche a noi. E quando è accaduto la risposta non è stata quella di pensare all’interesse collettivo, ma si è scatenata una terribile caccia all’untore. In redazione setacciavamo le fonti scientifiche in cerca di quelle più validate e autorevoli per fare corretta informazione in un mare montante di fake news e stiamo stati fra i primi a denunciare l’inaccettabile sinofobia che stava divorando l’Italia: Weiying Sun, una ragazza di Shanghai che vive a Milano campeggiava in copertina di Left con la scritta: “Non sono un virus”. Era il 14 febbraio 2020.

Proiettare sull’altro, cercare un capro espiatorio, non è mai servito a niente. Se non a discriminare e a procurare maggiore sofferenza.

Malgrado gli enormi sforzi del personale sanitario, 11 mesi dopo, mentre siamo ancora immersi nella seconda ondata e non è ancora partita una massiccia campagna vaccinale, il bilancio è sanguinoso: più di 75.300 persone morte in Italia, più di un milione e ottocento mila persone nel mondo. Fra questi anche il medico Li Wenliang che fra i primi aveva parlato di una sospetta polmonite da coronavirus, ipotizzando una variante della Sars e fu accusato di procurato allarme dalle autorità cinesi.

Il doloroso e difficile anno che ci siamo lasciati alle spalle è stato anche l’anno in cui, nonostante l’assordante rumore dei negazionisti, gli scienziati hanno guadagnato la scena pubblica, collaborando strettamente a livello internazionale, arrivando in tempi record al vaccino. La salute come bene comune, rimettere al centro il benessere psicofisico delle persone, ripensare il modello di sviluppo perché sia più rispettoso dell’ambiente, ripensare il sistema di welfare per una società più giusta e inclusiva sono le questioni centrali oggi, anche a causa della dura lezione che la pandemia ci ha impartito. Abbiamo visto come le politiche neoliberiste abbiano fallito. Gli Stati Uniti di Trump hanno registrato un numero record di morti, con percentuali altissime nelle comunità afroamericane più povere, fra coloro che non si possono pagare l’assistenza sanitaria.

Ma quanto davvero teniamo conto di questa immane tragedia per cominciare a costruire un futuro diverso? Pochissimo diremmo, se guardiamo a quel che sta accadendo sulla scena politica italiana. Mentre i contagi stanno risalendo, mentre manca ancora un chiaro e organizzato piano pandemico, nelle ultime settimane non si è fatto che discutere di crisi di governo, di rimpasto, di deleghe ai servizi segreti, di politica piccola piccola. Mentre la crisi economica morde e in tanti più di prima non sanno come arrivare a fine mese, mentre una intera generazione di studenti ha perso quasi un anno di scuola, i media mainstream sono pieni di retroscena sui giochetti di potere di questo o quel partitino. Ma ci rendiamo conto che siamo di fronte a una crisi epocale che chiede visione politica, lungimiranza, inclusione, pianificazione, investimenti sul lavoro in vista di quando verrà meno il blocco dei licenziamenti? Ci rendiamo conto che i soldi del Recovery fund vanno spesi bene e in tempi utili? Ma soprattutto ci rendiamo conto che lo scenario internazionale è completamente cambiato e tanto più cambierà nei mesi a venire? Mentre i quotidiani a più larga diffusione in Italia rincorrono le dichiarazioni di Renzi, Salvini, Meloni ecc, il mondo va avanti.

Pensando a fare informazione come servizio ai cittadini sentiamo il dovere di allargare lo sguardo. Mentre la politica italiana si guardava l’ombelico il primo gennaio 2021 in Africa (vedi Left n. 52) è entrata in funzione l’African continental free trade Area, una vastissima area di libero scambio africana, avviando un processo epocale. Per restare sul piano degli accordi economici, ma che assumono molti altri significati sul piano geopolitico e del riassetto mondiale, ricordiamo che a metà novembre la Cina, che è riuscita a contenere la pandemia e ne sta uscendo con un’economia dal segno più, ha firmato un patto commerciale con 14 Paesi, compresi Corea e Giapponese. E che – con grande smacco degli Usa – ha firmato anche un patto con la Ue per cominciare ad aprire il mercato cinese interno promettendo nel frattempo maggiore tutela della proprietà intellettuale e della privacy.

In un momento in cui, anche per motivi di tracciamento sanitario, il controllo è diventato estremamente serrato in Cina, mentre la blogger Zhang Zhan è stata condannata a quattro anni per aver diffuso notizie sulla pandemia, in quale direzione andrà veramente il Paese guidato da Xi Jinping? Piaccia o meno la Cina diventerà presto la prima potenza economica mondiale. Da molti anni sta esercitando il suo “soft power” finanziando infrastrutture in Africa e ora sta tracciando una via della seta sanitaria per fare business.

Vogliamo cercare di capire quali sono gli elementi propulsivi, la straordinaria forza culturale di quel Paese ma anche i limiti che ancora sconta sul piano della tutela dei diritti umani? Questa a nostro avviso è una delle grandi sfide che attendono l’informazione in Italia. Per avviarci in questa impresa abbiamo chiesto al sinologo Federico Masini della Sapienza di guidarci e di fornirci strumenti critici e di riflessione, insieme ai suoi autorevoli collaboratori, docenti universitari in Italia e in Cina, E abbiamo chiesto a Francesco Radicioni di aiutarci a capire più a fondo cosa sta succedendo nel Sud Est asiatico, dove la lotta per la democrazia in Thailandia si lega a quella di Hong Kong. In modo che ognuno possa farsi liberamente la propria opinione. Conoscere per deliberare è il motto einaudiano e radicale che sentiamo anche nostro.


L’editoriale è tratto da Left dell’8 gennaio 2021

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La mossa del Dragone

Se non fosse stato un anno horribilis, dovremmo dire che il 2020 appena concluso è stato l’anno della Cina. Cinese è stato il primo caso di coronavirus scoperto nella città di Wuhan alla fine del 2019, cinesi sono stati i primi due pazienti in Italia e in generale la Cina ha dominato i mezzi di comunicazione di tutto il mondo per un anno intero, come non era mai accaduto negli ultimi millenni. La Cina è diventata vicina, allora?
Partiamo dai fatti. Al principio dell’anno, anche noi che eravamo appena rientrati da Wuhan a dicembre 2019, avevamo una sensazione di lontananza quando le televisioni diffondevano le notizie dei primi casi di Sars-Cov-2. Guardavamo con diffidenza quei medici vestiti da astronauti e mostravamo meraviglia per la rapida costruzione di un ospedale da campo; poi siamo restati sconcertati dalle misure – per noi allora giudicate folli – di completa segregazione di milioni di persone costrette a restare chiuse in casa. Io stesso, guardavo con sufficienza i miei studenti cinesi, che un giorno comparvero in aula, con una mascherina in volto, come fossero chirurghi in sala operatoria. Poche settimane dopo, i miei studenti italiani erano chiamati a fare da interpreti per i primi due pazienti cinesi, trovati in un albergo romano e ricoverati allo Spallanzani. Rapidamente nelle nostre città si erano diffusi mai sopiti sentimenti razzisti nei confronti dei cinesi, novelli untori. Un pezzo di Cina sembrava essere arrivata da noi e dovevamo contenerla, allontanarla, l’equazione cinesi e Covid-19 ebbe immediatamente buon gioco, perché fondata anche su un dato di realtà epidemiologico.

Improvvisamente, distanziato da un fuso orario lungo due mesi, tutto quello che avevamo visto in televisione, usciva fuori dallo schermo ed entrava nel nostro mondo. Era pandemia: tutto il mondo era come la Cina. Ciascun Paese, seguendo l’inesorabile fuso temporale della diffusione epidemica, adottava misure di contenimento pratiche, o solo ideologiche, come Gran Bretagna e Stati Uniti che, praticando una forma di annullamento della realtà, dichiaravano semplicemente che il virus non esisteva, salvo poi doverne fare le spese in maniera ancora più drammatica di altri. La Cina continuava, frattanto, a seguire i metodi più rigidi immaginabili, fatti di contenimento fisico, tracciamento, abolizione totale di ogni libertà personale e costruzione rapidissima di strutture sanitarie, avviando contemporaneamente una battaglia mediatica senza paragoni, sia a livello interno, come sempre accaduto nella sua millenaria storia, ma soprattutto – e questa e la vera novità – a livello internazionale.

Per la prima volta forse nella sua storia plurisecolare la Cina ha lanciato una campagna mediatica senza paragoni a livello planetario. Prima la politica delle donazioni di quelle mascherine di cui a quel punto avevamo un gran bisogno anche noi, e poi la collaborazione scientifica, con l’invio di delegazioni di medici e specialisti di Wuhan. Accanto a questi gesti concreti di solidarietà, la Cina si è candidata prima a diventare il primo fornitore al mondo di presidi sanitari anti Covid-19 e adesso a produttore di vaccini, spesso sperimentati in Paesi africani. Tuttavia, la campagna principale era quella mediatica, volta a contrastare l’equazione del presidente nordamericano, Covid-19 uguale «virus cinese», uguale attacco della Cina agli Stati Uniti. La lotta contro la pandemia era diventata una guerra commerciale per la supremazia mondiale. Mentre le economie segnavano il passo e le nostre stesse democrazie erano messe a dura prova dalle limitazioni delle libertà individuali e dal crollo delle attività produttive, il modello centralizzato cinese dava tutti i suoi frutti, sia nell’ambito del contenimento dell’epidemia, che dal punto di vista economico. La grandezza geografica della Cina aveva consentito la creazione di zone limitate di contenimento, mentre il resto del Paese proseguiva le proprie attività, cosicché alla fine la produzione nazionale pur avendo avuto un netto rallentamento nel primo trimestre, riusciva a segnare un più complessivamente per l’anno appena concluso. Infatti, la Cina è stata l’unica economia mondiale a segnare uno sviluppo anche nel 2020, il peggiore per le economie occidentali da un secolo.
Se ci fermassimo qui, allora potrebbe essere corretto il ragionamento delle destre, che il “virus cinese” ha portato benefici alla Cina, gettando in depressione tutto il resto del mondo.
Se consultassimo un qualunque motore di ricerca delle nostre parti ci potremmo accorgere che la parola più diffusa in tutto il mondo è stata virus o Coronavirus, nulla di strano. Ma in Cina? No in Cina questa è solo la seconda o la terza. Le prime…

*-*

L’autore: Il sinologo Federico Masini è docente di Lingua e letteratura cinese all’Università “La Sapienza” di Roma


L’articolo prosegue su Left dell’8 gennaio 2021

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Porti chiusi. Per ‘ndrangheta

Badolato è un gioiello calabrese appoggiato sulla costa jonica. Un comune in provincia di Catanzaro che negli anni 90 si è salvato dal declino dello spopolamento grazie ai molti turisti che lì hanno comprato dei vecchi edifici che sono stati messi in vendita e sono stati rimessi a nuovo. A Badolato da più di vent’anni si parla del nuovo porto come fiore all’occhiello di una rinascita calabrese che passi attraverso nuovi servizi e nuove infrastrutture. La storia potrebbe sembrare un piccola storia locale ed è invece il paradigma attraverso cui leggere un argomento che di questi tempi sembra sia passato completamente di moda: le mafie.

Il clan Gallace-Gallelli spadroneggia. Un’inchiesta passata, la Itaca Free-Boat, aveva evidenziato gli interessi di uomini di ‘ndrangheta per il porto. Bene, seguitemi: Carlo Stabellini è l’amministratore della Salteg che si occupa dei lavori di costruzione. Stabellini ha denunciato le pressioni subite dalla ‘ndrangheta e le sue dichiarazioni hanno permesso di fare luce su un sistema di oppressione mafiosa.

Il sindaco di Badolato è Gerardo Mannello, in carica dal 2016. Pochi giorni dopo la sua elezione è stato accusato di estorsione aggravata dal metodo mafioso in concorso proprio con gli uomini del clan Gallelli e proprio ai danni della Salteg, di Stabellini e dei suoi soci dell’epoca. E per quelle vicende è adesso sotto processo. Scrivono i magistrati che Mannello con altri, tra cui il boss mafioso della zona, si sarebbe adoperato negli anni dal 2001 al 2004 “per garantire la tranquillità nell’esecuzione dei lavori”, costringendo la Salteg ad una serie di assunzioni e ad affidare lavori in subappalto “per sbancamento, movimentazione terra, realizzazione della diga foranea alle ditte riconducibili a Vincenzo Gallelli “Macineju” e formalmente intestate ai generi Andrea Santillo e Luciano Antonio Papaleo, a quella del nipote Pietro Gallelli e a quella del suo storico referente Angelo Domenico Papaleo”. Il tutto con un’ estorsione anche di 100mila euro per il clan Guardavalle al tempo guidato da Vincenzo Gallace e Carmelo Novella.

Arriviamo ad oggi: il sindaco in carica Mannello (che non è decaduto) ha dichiarato cessata la concessione alla ditta Salteg (la stessa che è accusato di avere minacciato) per “gravi inadempienze contrattuali”. E fa niente che il tribunale scriva che il “persistente tentativo della ‘ndrangheta di condizionamento e infiltrazione nella gestione dell’attività portuale deducendone ulteriormente, che, a causa delle vertenze penali, il porto di Badolato è rimasto sequestrato dal 4 agosto 2004 al 6 maggio 2006 e dal 19 gennaio 2015 al 23 ottobre 2017 e che, pertanto la società non ha avuto la possibilità di completare i lavori ad essa demandati”.

“La burocrazia badolatese, con a capo il Sindaco Mannello – scrive in un’accorata lettera aperta Stabellini – ha ottenuto, volente o nolente, quello che i vari Saraco, Antonio Ranieri, Gallelli, Ammiragli, condannati nel procedimento penale “Itaca-Free Boat” per reati aggravati dal metodo mafioso, non erano riusciti a fare con le loro macchinazioni. Vedremo se il Consiglio di Stato, cui la Salteg ricorrerà, tra un anno saprà mettere fine ad una delle vicende più assurde e paradossali della storia calabrese”.

Dalla patria delle contraddizioni per ora è tutto.

Buon giovedì.

Anche la crisi è in crisi

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 10-03-2019 Roma Politica Matteo Renzi ospite di "12 ora in più" Nella foto Matteo Renzi Photo Fabio Cimaglia / LaPresse 10-03-2019 Roma (Italy) Politic Matteo Renzi guest for "12 ora in più" In the pic Matteo Renzi

Tanto tuonò che non piovve. Almeno per ora è solo una leggera foschia che però vedrete che si risolverà con qualche “mediazione” e quando la politica si fa magheggio le mediazioni di solito sono qualche posto al sole per qualcuno dei malpancisti che così si ristora un po’ e si mette calmo per il prossimo periodo.

La crisi di governo del governo italiano è una notizia che sbiadisce negli organi d’informazione, che vagheggia blanda tra gli addetti del settore e che irretisce quelli che si ritrovano ad affrontare malattia e incertezza. E siccome nel pieno di una pandemia l’incertezza è un elemento purtroppo popolarissimo questa crisi di governo, qua fuori, un po’ fa cadere le braccia per l’impopolare momento in cui si è voluta fare cadere, come se servisse altro per rimarcare la distanza tra i cittadini e i palazzi romani, come se non bastasse già questo senso di straniamento che percorre un Paese appeso al vaccino e al ritorno di una normalità che ci siamo già dimenticati che non fosse un granché.

Le voci dai corridoi del Parlamento dicono che nelle ultime ore stiano crescendo di molto le possibilità che tutto si risolva con un rimpasto. In sostanza si sarebbero passati giorni e giorni a dire “non ci interessano le poltrone” e invece cambiano le poltrone. Poi, beh, ci sarà qualche aggiustamento di tiro nel programma perché non è che si possa fare proprio sporca sporca. Sono in calo le quotazioni di una crisi pilotata, con Conte che chiede la fiducia alle Camere con un nuovo esecutivo. Bassissime le possibilità di un ritorno alle urne: l’attaccamento alla poltrona (e daje con le poltrone) di partiti che si vedrebbero le truppe dimezzate e che addirittura rischierebbero di sparire dal Parlamento sono un collante micidiale. Si sposteranno i ministri, qualcuno saluterà mesto e ovviamente un ministero importante si sta scaldando per la truppa di Italia Viva. Sì, sì, loro, quelli che non volevano poltrone (e tre).

Conte vorrebbe evitare di dover ritornare in Parlamento a chiedere la fiducia per la paura di qualche sgambetto. Fallito anche il tentativo di trovare “responsabili” in giro che gli permettessero di scrollarsi di dosso Renzi. Sulle percentuali di una sua possibile lista tra l’altro le sensazioni sono molto eterogenee, meglio non rischiare. Renzi, in caso di elezioni, sparirebbe con i numeri di oggi. E quindi figurati. Il M5S ne uscirebbe più che dimezzato, quindi niente. Perfino Giorgia Meloni preferisce aspettare il giusto tempo per continuare a erodere Salvini.

E così si sta, come d’autunno sugli alberi le foglie. Pronti anche ad affidarsi a un “governo di unità nazionale” (ovvero un “dentro quasi tutti”) pur di non andare al voto. Poi ci sarebbe da riflettere sul pericoloso can can sollevato nel bel mezzo della pandemia e nella fase cruciale dell’organizzazione della campagna vaccinale. Ci sarebbe da discutere del senso di responsabilità di chi ventila lo sfascio perché incapace di trattare su un tavolo squisitamente politico. Ma qui torniamo sempre ai soliti comportamenti dei soliti personaggi.

E guardando qui fuori, quello che accade nel Paese, potrebbe sembrare uno spreco di energie. Ma a qualcuno lì al governo no, a qualcuno è parsa un’ottima idea. Finché anche la crisi di governo non è entrata in crisi.

Buon mercoledì.

Zhang Zhan e gli altri, colpevoli di difendere i diritti umani

A pro-democracy activist holds placards with the picture of Chinese citizen journalist Zhang Zhan outside the Chinese central government's liaison office, in Hong Kong, Monday, Dec. 28, 2020. Zhang, a former lawyer and citizen journalist from Shanghai, has been sentenced to four years in prison for her reporting on the initial coronavirus outbreak in Wuhan, China. The activists demand the releases of Zhang, as well as the 12 Hong Kong activists detained at sea by Chinese authorities. (AP Photo/Kin Cheung)

In prigione per «aver provocato litigi e problemi» dopo aver documentato attraverso i suoi video e le testimonianze orali raccolte a Wuhan le prime settimane della pandemia da Covid-19. In prigione per i prossimi 4 anni. È questa la sentenza per la blogger cinese ed ex avvocato Zhang Zhan emessa da un tribunale di Shanghai, in Cina. Zhang Zhan è accusata inoltre di aver «diffuso false informazioni» sull’emergenza sanitaria prima sulla piattaforma social cinese WeChat e poi, quando il suo account è stato eliminato, su Twitter e Youtube che non sono accessibili legalmente dalla Cina.

Tutto questo è accaduto negli ultimi giorni del 2020 proprio nel momento in cui l’Unione europea e la Cina hanno chiuso lo storico accordo sugli investimenti e scambi commerciali (valore stimato: 560 miliardi), dopo sette anni di negoziati tormentati, più volte arenati su questioni delicate come i diritti umani. Già, i diritti umani. Tenendoli come punto di riferimento, la cronologia degli ultimi 3 giorni di dicembre è molto interessante. Il 28 dicembre Zhang Zhan è stata condannata, il 29 dicembre l’Unione europea, tramite le parole di Josep Borrell, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ne ha chiesto l’immediato rilascio insieme ad altri attivisti e avvocati dei diritti umani detenuti in Cina, tra cui Li Yuhan, Huang Qi, Ge Jueping, Qin Yongmin, Gao Zhisheng, Ilham Tohti, Tashi Wangchuk, Wu Gan, Liu Feiyue. Il 30 dicembre la stessa Unione europea ha siglato gli accordi con Pechino. Che cosa può essere successo tra il 29 e il 30? Bruxelles ha improvvisamente voltato le spalle al diritto di espressione e di cronaca della citizen journalist e degli altri attivisti? Oppure Pechino ha “promesso” qualcosa in loro favore? Sarebbe questa una vera svolta considerando che Zhang Zhan era già nota alle autorità cinesi – e nel mondo – appunto come attivista per i diritti umani. Va ricordato infatti che era già stata arrestata nel 2019 per il suo supporto e le testimonianze pubblicate durante le proteste di Hong Kong.

Qualunque sia la risposta, per mantenere viva l’attenzione sul suo caso ricostruiamo la vicenda.

All’inizio di febbraio del 2020 Zhang Zhan aveva deciso di recarsi a Wuhan per documentare di persona cosa stesse accadendo nell’epicentro della misteriosa polmonite virale che aveva costretto il governo centrale a isolare un’intera città di 11 milioni di abitanti.

Così come aveva fatto il giovane oculista Li Wenliang poche settimane prima di lei – che aveva dato per primo l’allarme sulla diffusione del coronavirus, ma non era stato ascoltato dalle autorità e anzi era stato iscritto nel registro degli indagati e messo in guardia dal diffondere «interpretazioni false» – i video incriminati di Zhang Zhan documentavano una situazione d’emergenza molto più grave rispetto alla narrazione ufficiale del governo. Mentre i media nazionali cercavano di minimizzare la pericolosità del Sars-Cov-2 ed elogiavano la gestione di Pechino, Zhang Zhan filmava i corridoi degli ospedali pieni di letti e barelle, e i crematori locali saturi, incapace di conteggiare i morti. Nei suoi video aveva anche raccolto con difficoltà alcune rimostranze dei familiari delle vittime nei confronti delle autorità e denunciava inoltre la scomparsa di altri reporter indipendenti recatisi a Wuhan con il suo stesso intento: Li Zehua, Chen Qiushi e Fang Bin.

Finché il 14 maggio 2020 non è svanita nel nulla anche lei. Secondo la Chinese Human Rights Defenders, organizzazione non governativa per la difesa dei diritti umani in Cina, la giornalista sarebbe stata portata a Shanghai e incarcerata immediatamente. Ma le accuse ufficiali sono arrivate solo mesi dopo, a settembre. Zhang Zhan si è dichiarata innocente, ha respinto l’accusa di aver fabbricato notizie false e per protesta contro la censura del governo cinese ha iniziato lo sciopero della fame.

Uno dei suoi avvocati, Zhang Keke, ha ottenuto due colloqui con la giovane assistita a novembre e dicembre e si è dichiarato seriamente preoccupato per il suo stato di salute mentale e fisico. L’aveva trovata debole, magrissima, psicologicamente esausta. Keke ha scoperto inoltre che la giornalista veniva costretta all’alimentazione forzata tramite sondino naso-gastrico e legata per evitare che lo rimuovesse.

Il 28 dicembre scorso è arrivato il giorno del processo e il verdetto: quattro anni per aver fatto quello che qualsiasi giornalista dovrebbe fare, raccontare la verità. L’avvocato Ren Quanniu ha dichiarato all’agenzia Reuters che probabilmente ricorreranno in appello e che la sua assistita è fortemente convinta «di essere stata perseguita per aver esercitato la sua libertà di parola».

Nel frattempo non si hanno ancora notizie certe degli altri citizen journalists scomparsi a Wuhan.

Li Zehua si era recato nella città a metà febbraio, in cerca del reporter e amico Chen Qiushi che sosteneva che il governo cinese stesse appositamente nascondendo la gravità della crisi sanitaria controllando le informazioni che provenivano dal suo epicentro.

Nei suoi primi video aveva raccontato non solo che gli ospedali erano al collasso e il numero dei morti molto più alto delle notizie ufficiali, ma anche che la sua presenza non era passata inosservata alla polizia locale. E infatti il suo ultimo video ne documenta l’arresto il 26 febbraio. Solo ad aprile, in un nuova registrazione, il giornalista ha potuto raccontare di essere stato interrogato, non incarcerato, ma trattenuto in quarantena forzata prima a Wuhan, poi nella sua città d’origine, senza dispositivi tecnologici. Nel suo discorso Li Zehua ha anche voluto ringraziare le forze di polizia e il governo cinese per il suo trattamento durante la quarantena. Un cambiamento di toni che è stato sottolineato dai suoi follower non solo in Cina.

Non si hanno invece notizie di prima mano su Chen Qiushi, avvocato per i diritti umani svanito nel nulla il 6 febbraio. Dopo mesi di silenzio, a settembre Xu Xiaodong, amico di Chen Qiushi, aveva postato su Youtube un video in cui diceva che starebbe bene, si troverebbe a casa dei genitori ma vivrebbe sotto stretta sorveglianza delle autorità, pur non essendo legalmente accusato di nulla. L’ipotesi è che anche lui sia stato costretto per mesi a una quarantena forzata non si sa dove da parte delle forze di polizia.

Non sembrerebbe essere stato altrettanto “fortunato” il terzo giornalista scomparso nello stesso periodo, Fang Bin. Businessman e abitante di Wuhan, fin dal 25 gennaio aveva iniziato a caricare sui social media cinesi e Youtube riprese della drammatica situazione in vari distretti della città, criticando duramente il governo per come stava gestendo l’emergenza e per l’arresto dei giornalisti che volevano raccontare la situazione reale della città.

Il 4 febbraio Fang Bin aveva ripreso e subito postato su internet la polizia presentarsi a casa sua due volte. Visibilmente preoccupato di essere arrestato, si era rifiutato di aprire la porta senza un mandato. Al 9 febbraio risale il suo ultimo breve video: l’immagine di un foglio con su scritto “Resist all citizens, hand the power of the government back to the people”. Ad oggi sono oltre dieci mesi che non si sa che fine abbia fatto.

Io e Internet al tempo del Covid-19. Mi vede mentre dormo, mi vede mentre veglio

Non vedo mia figlia. da un abisso di tempo. Lei è rimasta catturata in America tra Covid-19 e trappole sul visto. Quindi sono psicologicamente molto fragile sul fronte comunicazione. L’altro giorno mi dice “Papà guarda che prodotto fantastico, posso parlare e mi segue… va di qua e va di là come una ripresa televisiva vera, addirittura zooma e io vedo tutto sul mio grande Tv. Compralo ti prego così ci vediamo meglio”.
Non aspetto che un paio d’ore e compro il nuovo gadget. Il prezzo al solito è di lancio e con una offerta “imperdibile”. Naturalmente fa tutte le cose dette vere e anche molto di più. In una parola è il fratello maggiore di Ginexa (ricordate, su LeftInternet 3) e appartiene allo stesso clan. Mi segue veramente con la sua telecamera, rende naturale il parlarsi con due o in più persone e poi ci sono tutta una serie di App fatte apposta per nonni e genitori.

La storia interattiva è meravigliosa e fa sempre leva sulla separazione, un leitmotiv dei nostri anni e del lockdown globale. Anni fa ricordavo che un amico mi parlava del sollievo che gli dava Skype e il fatto di poter leggere una storia al figlio anche se separato dalla moglie. Preistoria! Oggi una storia viene raccontata in maniera altamente interattiva: chi legge viene mascherato a seconda dei casi con cappelli o barbe, può muovere oggetti e personaggi e apparire in un riquadro della fiaba che il bambino o la bambina guarda. Sempre a distanza.

Insomma il gadget è un must, per me. Nel frattempo ho letto pillole di saggezza da Calvin & Hobbes. Si tratta di una strip creata di Bill Watterson che la ha disegnato solo per il decennio 1985-1995 per poi ritirarsi. Si è sempre rifiutato di fare dei suoi personaggi “paccottiglia” per il merchandising, scrive Linus che lo pubblica ora in Italia.
Il fumetto si basa sui dialogo tra Calvin un bambino sarcastico e cinico e la sua tigre, sensata e saggia, Hobbes. Ecco una scena profetica.

Calvin ascolta la radio che dice “Ti vede mentre dormi, ti vede mentre vegli”. Nella vignetta seguente: “Se sei stato buono o cattivo lui lo sa, puoi stare sicuro”. Nella terza vignetta Calvin spegne la radio, e nella quarta dice: “Babbo Natale, vecchio Elfo gentile o agente della Cia?”.

 

La vignetta era del 1987 e sembra che i dati del problema fossero già chiaramente stesi tutti davanti a noi
Facendo leva sul nostro bisogno di comunicazione in questo drammatico anno il nostro mondo di internet ci ha inserito in un livello di sorveglianza ancora più sofisticato. L’occhio del fratello maggiore di Ginexa ci segue sempre, non solo ci ascolta, come la sorella, ma anche ci scruta. E ci inquadra solo le labbra, se magari parliamo troppo piano, può usar cosi il riconoscimento labiale. Ma non è fantastico? Calvin dice in una altra vignetta: “Tutta questa storia di Babbo Natale mi scoccia, soprattutto la faccenda del giudizio”. Io invece non sono cosi preoccupato, è sin dal 2006 che ho teorizzato (e pubblicato) questa idea che internet è la cosa più vicina a Dio che l’uomo abbia inventato (vedi qui). Si espande sempre più come verifichiamo di continuo, e ora letteralmente ci guarda!

Siamo di fronte al solito dilemma. Ma come sapete da ex motociclista io accetto il rischio, e vi invito con cautela ad accettarlo anche voi. Da marzo a giugno di quest’anno ho fatto un intero corso on line. Sono venticinque lezioni di 35 minuti l’una l’argomento è La rivoluzione informatica in architettura. Io parlavo in telecamera in tempo reale, avevo un blog di appoggio per le immagini. La mia idea era che fosse un corso solo per amici miei coetanei o per giovani curiosi. In realtà è servito anche istituzionalmente, meglio. Quest’anno magari ne faccio una versione implementata, in cui mi muovo in giro e anche chi mi segue può fare lo stesso. L’idea è che il corpo nella sua crescente complessità entri nella nostra comunicazione internet. Ci cominciamo a staccare dalla tastiera e dalla schermo anche quello smart dei telefonino per andare in giro. Credo che abbia enormi, inesplorate possibilità.

*-*
Antonino Saggio, insegna dal 1985 Informatica e Architettura prima alla Carnegie-Mellon di Pittsburgh, poi all’ETH di Zurigo e dal 1999 alla “Sapienza” di Roma. Ha fondato la collana internazionale “La rivoluzione informatica in Architettura” (Birkhauser, Edilstampa) che dal 1998 ha prodotto 38 volumi ognuno incentrato su una personalità o su un tema rivelante per comprendere il grande cambiamento di orizzonte teorico e culturale di cui l’Informatica è portatrice anche per l’architettura.

Su Left.it si possono leggere le quattro puntate di Io e Internet. Breve storia della rete, da Arpanet ai nostri giorni di Antonino Saggio

L’inessenzialità della scuola

Foto Claudio Furlan - LaPresse 25 Novembre 2020 Milano (Italia) News Lezioni nel cortile del Liceo Bottoni per protestare la didattica a distanza Photo Claudio Furlan - LaPresse 25 November 2020 Milan ( Italy ) News Lessons in the courtyard of the Liceo Bottoni to protest distance learning

Ora ci sono anche i numeri: nel periodo tra il 31 agosto e il 27 dicembre 2020, il sistema di monitoraggio dell’Iss, l’Istituto superiore di sanità, «ha rilevato 3.173 focolai in ambito scolastico, che rappresentano il 2% del totale dei focolai segnalati a livello nazionale». Lo dice il report Apertura delle scuole e andamento dei casi confermati di Sars-Cov-2: la situazione in Italia.

Solo il 2% dei focolai hanno origine in ambito scolastico. Ma il report fissa anche un altro punto: Le scuole non rappresentano i primi tre contesti di trasmissione in Italia, che sono nell’ordine il contesto familiare/domiciliare, sanitario assistenziale e lavorativo».

Fra pochi giorni si dovrebbe tornare a scuola ma non si tornerà, le decisioni verranno prese a macchia di leopardo, i presidenti di Regione ci ricameranno sopra un po’ di retorica elettorale e si ricomincia di nuovo. Si è parlato moltissimo della capacità di osservare il contagio, di convivere con il virus, di conoscere e controllare tutte le variabili in campo ma per le scuole ci si affida alle tifoserie in campo senza che si riesca a studiare un piano complessivo, qualcosa di più dei banchi con le rotelle e le finestre aperte. Sui trasporti si è perennemente in ritardo, sulle precauzioni in classe bene o male si è riusciti a fare qualcosa mentre non si è mai parlato seriamente di risolvere il problema della ventilazione. Ora vi diranno che è tardi. Eppure non sarebbe stato tardi pensarci in tempo, eppure non sappiamo quanto ancora questo elastico di aperture e di chiusure durerà.

Ieri Maddalena Gissi della Cisl Scuola ha rilasciato una dichiarazione che merita attenzione: «Continuiamo a leggere notizie giornalistiche ma con il Ministero non c’è nessun tipo di confronto. I dirigenti scolastici sono stremati; continuano a fare e rifare orari per le attività didattiche in presenza al 50%. Le famiglie sono confuse, i docenti si stanno reinventando modalità didattiche per tenere insieme i gruppi classe e quelli in Ddi (Didattica digitale integrata, ndr). Non è ancora chiaro se alle Regioni sono arrivate le risorse per ampliare la mobilità con mezzi aggiuntivi. In alcuni casi non vengono investiti i finanziamenti assegnati nei mesi scorsi per ritardi burocratici. Ci preoccupa tanto la disomogeneità delle soluzioni».

La Cgil fa notare che «attualmente siamo di fronte a contesti e realtà fortemente differenziate, non solo tra territorio e territorio, ma anche tra scuola e scuola, ecco perché sono necessari monitoraggi e strumenti flessibili finalizzati a fornire le giuste risposte alla varietà delle situazioni, valorizzando l’autonomia delle istituzioni scolastiche e fornendo le risorse necessarie».

Molti esperti temono la riapertura. Qualcuno sommessamente fa notare che l’Italia è uno dei Paesi che più di tutti ha penalizzato le scuole con la chiusura. Qualche virologo propone che vengano usati i tamponi regolarmente (accade nelle fabbriche, del resto, no?) ma niente.

Una cosa è certa: la frammentazione del dibattito indica chiaramente che no, la scuola non è una priorità come lo è stata l’apertura dei grandi magazzini sotto le feste di Natale. La scuola evidentemente non è un servizio essenziale. E, badate bene, non si tratta di chiedere un dissennato rientro in classe fregandosene della pandemia e della salute ma si tratta ancora una volta di sottolineare come la sicurezza in classe sia un argomento da affrontare sempre e solo qualche ora prima della prevista riapertura. Come accade ora.

L’altro ieri il professore di matematica Riccardo Giannitrapani ha condensato benissimo il concetto: «La gestione della scuola in questi mesi ha un grande valore didattico: insegna a ragazzi e ragazze che il cosiddetto mondo adulto può essere inadeguato. Una preziosa lezione sul fallimento».

Buon martedì.

Franco Loi: «La poesia è conoscenza»

Foto LaPresse - Stefano Porta 06/04/2018 Milano ( Mi ) Cronaca Intervista doppia agli scrittori in Viale Misurata 60 Nella foto: Franco Loi

Anche il poeta si accorge dell’Italia scunda «che laura e se despera». Nella lingua milanese, morbida come il suono di un flauto, Franco Loi canta dell’Italia nascosta «che lavora e si dispera». E va ancora più a fondo, senza alcun pudore, a cercare con le parole le cause del «mal». Che non è il «dulur», né tantomeno «la paura o la desgrassia / vèss pòer o ferì, / andà bèl biott…» (la paura o la disgrazia, essere povero o ferito, andare del tutto nudo), ma «despèrdess ne la nèbia del savè» (disperdersi nella nebbia del sapere). Loi ha da poco pubblicato per Interlinea la raccolta I niül (Le nuvole) in cui il grande poeta dialettale coglie immagini silenziose della città, sorpresa all’alba o all’imbrunire, lambita da nuvole rosa con sbuffi di scuro. Un’opera in cui soprattutto si manifesta l’interesse forte per l’umanità dolente dei nostri giorni. Come nelle pagine finali, in quel “monologo del povero cristo”, in cui la rabbia per l’ingiustizia è urlata a piena voce. Nato a Genova nel 1930 da padre ferroviere di origine sarda e madre emiliana, vissuto dal 1937 a Milano, Loi ha un passato di militante comunista, maturando poi una netta posizione critica che emerge anche oggi quando parla di ideologia. Loi, in questi tempi cupi di crisi economica e di lucide operazioni di “tecnici”, appare come un gentile e ostinato Mercurio. Un messaggero della forza del canto poetico, del “dire”. Lo farà anche al Salone del libro di Torino, giovedì 10 maggio all’incontro di cui è protagonista, dal titolo “La luce della poesia”.

Ed è da qui, dalla parola “luce” che inizia il colloquio con Franco Loi. La poesia, chiediamo subito, può illuminare lo “scuro”? Il poeta risponde: «Sì, perché la poesia non dice il nostro io cosciente. Tu ti affidi al tuo inconscio e dentro di te escono queste parole che sono poi suoni, ritmi». Il poeta “dice”, ed ecco che «la tua esperienza esce in modo completamente diverso da come l’hai nella mente. Tant’è vero che il poeta prima di tutto si stupisce di quello che ha scritto». Ma la poesia non solo desta stupore nel poeta. È uno strumento di conoscenza. «Il suo dire è pieno di cose, pensieri, sensazioni inconsce, emozioni» continua «e tutto questo ti fa capire di più e conoscere di più te stesso. Ecco perché io dico che fa luce dentro di te e rende chiaro qualcosa che prima era oscuro». E non si finisce mai di imparare perché anche il pubblico che ascolta può far notare qualcosa che era sfuggito all’autore. «La tua consapevolezza aumenta e tu impari sempre qualcosa di nuovo. Questo è straordinario. La poesia è una delle strade per la conoscenza, di te e delle cose che hai sperimentato nella vita». Certo, se ci si può affidare così liberamente a questa realtà interiore, significa che non se ne ha paura. Non c’è il mostro dentro di noi, quindi, come scriveva Stevenson ne Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr Hyde? «No. Anzi, io credo una cosa: che solo chi non fa continuamente conoscenza con se stesso allora sì che diventa un mostro!».
C’è anche, però, tra i poeti, chi è un po’ più prudente. Loi spiega: «Quando per esempio Zanzotto parla dell’inconscio e della poesia, fa il paragone con il terremoto del Friuli. E allora lui si ritrae perché è come se si trovasse davanti un baratro che lo può sommergere». Alla fine, continua il poeta milanese, è come «entrare in rapporto con il mistero della vita». Qualcosa, poi che accomuna poeti e scienziati, e qui Loi ricorda una frase di Max Planck (“Più conosco e più mi trovo davanti il mistero”). E a proposito di scienziati, cita volentieri («l’ho detto e lo ripeto sempre, perché è fondamentale») una frase di Einstein: «Non si perviene alle leggi universali per via di logica ma per intuizione. L’intuizione non la facciamo noi ma è possibile con il rapporto simpatetico, amoroso, con l’esperienza». Poeti, scienziati e anche filosofi. Franco Loi, inarrestabile, parla di Croce e di Dante e della celebre frase del “sommo poeta” (“Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta
dentro vo significando…”), per spiegare il «fare spirituale» che sta dietro al verbo greco poiein.

Ma, chiediamo ancora, se la poesia è conoscenza per il poeta, lo è anche per chi ascolta o legge? «Anche per lui! Intanto i suoni sono importanti: Yeats diceva che in poesia lo sono più dei significati apparenti. Quindi è come ascoltare la musica – la grande musica, Bach, Mozart… – e ti viene da piangere, senza sapere perché». «Se ascolti un poeta non è che senti solo i significati di quel che il poeta dice», continua Loi, «ma viene vuori anche il tuo significato, la tua memoria inconscia che si manifesta. È una crescita». E è qualcosa di profondamente diverso da quello che accade nel parlare comune perché c’è «quel legame tra chi dice e chi ascolta, che in genere nella chiacchera non c’è. La chiacchera è la chiacchera».

Questa però è un’epoca di “chiacchera” a cui contribuiscono anche quelle «antenn ‘me catanai/ ch’j porta merda aj gent denter i câ» (le antenne come arnesi / che portano merda alla gente dentro le case). «La sensibilità verso la poesia è diminuita tra la gente del popolo, ma le persone che ne sentono ancora il bisogno sono ancora tante», ammette Loi. «Il popolo, quello che ho conosciuto io, gli operai, gli artigiani, i contadini – gente che lavorava con le mani – guarda la televisione e crede che la poesia sia una cosa letteraria», aggiunge con una vena di tristezza. La scuola, poi, non la fa amare e la rende estranea ai ragazzi, perché «la insegnano come un gioco letterario, come una costruzione di testa e gli presentano come grandi poeti quelli che invece sono spesso pessimi poeti».
Ma la gente che ama la poesia c’è ancora, come c’è chi ama la musica, la pittura, «perché cerca, vuole capire». Quello che non va, aggiunge Loi, è l’ideologia, quella pretesa della conoscenza, di costruire una logica, «dopo di che rispondi all’idea, non pretendi più di conoscere te stesso e non ti confronti più con la realtà». È il rischio grande. Quello di perdere un frammento di meraviglia che può assalire leggendo per esempio queste parole: «E a l’umbra di purtun la lüna dansa / tra quèl tasè di üsèj ch’j par penser» (e all’ombra dei portoni la luna danza / tra quel tacere d’uccelli che sembrano pensieri).

Da Left del 4 maggio 2012

Il piano piano vaccinale di Gallera

Giulio Gallera, Welfare Counselor for the Lombardy Region attends a regional council meeting, in Milan, Italy, Tuesday, June 9, 2020. (AP Photo/Luca Bruno)

Io un giorno, per qualche ora soltanto, vorrei affittare un angolo della testa di Gallera, sedermi in disparte in qualche angolo e ascoltare quello che ci ronza dentro, sentire quel turbinio di pensieri che spinge l’assessore alla Sanità della regione più martoriata dalla pandemia a rilasciare interviste che sembrano elaborati copioni di un teatro dell’assurdo, frasi che abbatterebbero in un attimo la carriera politica di chiunque e invece lui, Gallera sempre in piedi, continua impunemente a sfoderare assurdità una dopo l’altra e non si muove una foglia, non viene mai messo in discussione.

Partiamo dall’inizio: arriva il virus e la Lombardia esplode. Eravamo all’inizio dell’anno scorso e Gallera ci spiega che la Lombardia ha numeri così alti perché è stata la regione “più colpita”. La giustificazione, per quanto fosse superficiale, poteva anche starci: peccato che a livello di contagiati (con il 22% dei casi nazionali) e di deceduti (ben il 33%) la Lombardia abbia continuato e continui a svettare. Insomma, l’effetto “sorpresa” ormai non regge più come scusa. Poi ci sono stati i pessimi risultati della medicina generale e delle Rsa, storie piene di dolore e di lutti che hanno attraversato tutti i quotidiani per mesi. Poi c’è stato il fallimento del tracciamento e dei tamponi, con lombardi che si sono ammalati e dopo mesi non hanno nemmeno un tampone che lo certifica. Poi ci sono i numeri disastrosi della campagna vaccinale antinfluenzale: al momento attuale siamo a 1 milione e 135mila vaccini su una popolazione di 2.302.527 persone, con una percentuale del 49,32 per cento ben lontana dall’obiettivo prefissato e addirittura inferiore a quella dello scorso anno quando venne vaccinato il 49,8 per cento della popolazione over 65. Peggio ancora per i bambini dai 2 ai 6 anni: l’obiettivo era vaccinarne il 50% e siamo al 16,72 per cento del totale, con picchi verso il basso dell’8,23 per cento nella zona di Pavia e del 9,58 per cento a Brescia.

Ora ci sono i numeri sconfortanti della campagna vaccinale anti Covid: la Lombardia svetta, come al solito, in fondo alla classifica con un vergognoso 3% sui vaccini consegnati. E qui Gallera si erge a livelli impensabili. Ci spiega che i suoi operatori sanitari sono in ferie (come se il piano ferie in Lombardia fosse diverso, chissà perché, da quello delle altre regioni), ci dice che non vuole bloccare “interi reparti per eventuali reazioni allergiche” (buttando lì a caso un po’ di allarmismo di cui non si sa niente e non si hanno evidenze), poi rantola su un’eventuale mancanza di siringhe (ma come? E le altre regioni?) e infine si supera affermando: «Agghiacciante una simile classifica. Per non parlare di quelle regioni che hanno fatto la corsa per dimostrare di essere più brave di chissà chi. Noi siamo una regione seria. Partiamo domani con 6000 vaccinazioni al giorno nei 65 hub regionali. I conti facciamoli tra 15 o 20 giorni».

In sostanza nella testa di Gallera il Veneto, Lazio e tutte le altre regioni che stanno facendo meglio si sarebbero messe d’accordo bisbigliando e dandosi di gomito solo per fargli fare una brutta figura. Infine, convinto di calare l’asso, ci dice che la Lombardia a pieno regime riuscirà a fare 10mila vaccinazioni al giorno. Campa cavallo: con 10 milioni di abitanti il calcolo viene semplice semplice, tenendo conto che di vaccini per ogni persona ne vengono fatti due, basterebbero 2mila giorni. In Israele, 9 milioni di abitanti, solo per fare un esempio, sono a 150mila vaccini al giorno.

Sarebbe una tragicommedia se non ci fossero di mezzo però tutti questi morti, questi contagi che ora tendono a risalire, questo futuro che appare ancora nero. Ma davvero, sul serio, lo dico anche ai leghisti che sostengono questo governo in Lombardia, cosa altro serve? Cosa, ancora?

Buon lunedì.