Home Blog Pagina 435

Il “regalino” dei banchieri Ue alle famiglie in difficoltà (nel frattempo in Vaticano…)

Rudolf Hilferding, grande conoscitore ed interprete del marxismo, ucciso dai nazisti, nel 1909 pubblicò “Il capitale finanziario”, mostrando tutte le sue perplessità sulla rivoluzione proletaria e teorizzando nel contempo l’affermazione del socialismo per via parlamentare.
Ma la straordinarietà di Hilferding sta nella sua analisi sulle dinamiche del capitale ancora attuali: “La caratteristica del capitalismo moderno è data da quei processi di concentrazione … in un rapporto sempre più stretto fra capitale bancario e capitale industriale. In forza di tale rapporto, il capitale industriale assume la forma di capitale finanziario …. la più compiuta realizzazione della dittatura dei magnati del capitale”. Dunque nel 1909 Hilferding aveva già teorizzato la finanziarizzazione dell’economia reale e aveva già previsto cosa accade quando la finanza divora l’economia. Oggi il capitale finanziario non si accontenta dei patrimoni privati, oggi il capitale finanziario vuole soggiogare il ”capitale umano” in una prospettiva di schiavizzazione che sostituirà la parola “diritto” con la parola “sopravvivenza” e la parola “libertà” con la parola “sottomissione”. Nella lucida follia dell’Unione europea, si è inserita l’Eba, l’Autorità bancaria europea, un altro mostro che determina regole astratte per garantire tragedie concrete.

Dall’1 gennaio di quest’anno l’Eba ha preteso che i conti correnti in rosso degli italiani dovessero essere strozzati in assenza di liquidità temporanea. Se le banche fino ad oggi avevano consentito sconfinamenti e garantito coperture per piccoli pagamenti, ora non sarà più possibile anche se si tratta di pagamenti di pochissimi euro. Migliaia di imprese e famiglie si ritroveranno, senza sapere perché, in una banca dati che li qualifica come debitori incalliti per una bolletta del gas rimasta impagata nella domiciliazione bancaria. La morsa perversa che si vuole stringere attorno al collo dei piccoli correntisti italiani, li renderà merce disponibile sul mercato senza tutele, una marea di schiavi in competizione per la sopravvivenza.
Alle banche sono stati imposte regole di bilancio tali da costringerle a stritolare comunque i correntisti in difficoltà, e soprattutto a liberarsi dei npl – non performing loans (prestiti non performanti) – ovvero i crediti deteriorati, quelli che fino a ieri erano prestiti e finanziamenti con margine di recupero difficile, e che oggi, con le nuove norme, includeranno anche i piccoli correntisti in rosso. I meccanismi finanziari consentono, ovviamente, la cartolarizzazione degli npl, che li trasforma comunque in merce di scambio, perché anche i debiti possono essere oggetto di speculazioni finanziarie.
Il capitale finanziario, comunque, non parla una sola voce, e non disdegna di guerreggiare nell’accaparramento e nell’accumulo. Sicché, se da una parte i proletari e le proletarie, e tra loro anche le partite iva, temono di affondare per un Rid respinto della società elettrica, anche di soli 100 euro, dall’altra c’è chi già da tempo ha avviato le proprie speculazioni sui npl, come ad esempio lo Ior-Istitute per le opere religiose, Ente della Santa Sede. Il 30 dicembre 2020 un giudice di Malta ha messo sotto sequestro 29 milioni dello Iop in una partita speculativa per l’acquisto di un edificio di lusso in Ungheria, iniziata proprio con una speculazione di 32 milioni di npl.
Alla fine del 2019 lo Ior aveva girato a Bergoglio, il suo unico azionista, utili per 38 milioni. Tra non molto conosceremo l’ammontare degli utili riservati al monarca pur in pendenza del sequestro per 29 milioni disposto da Malta. Queste sono le cifre della Chiesa povera di Bergoglio, in cui di realmente povera c’è solo la capacità cognitiva di chi pensa che non sia un capitalista come gli altri. In questo ribollir di guano, la classe politica italiana si arrabatta con regalie da brivido per gli italiani, inventandosi finanche i bonus idrici. In sintesi, visto che i proletari di tutto il mondo non si sono uniti, si sono uniti i capitalisti e mentre hanno finanziarizzato pure le nostre esistenze, ci hanno comunque lasciato lo spazio di manovra di una tirata di sciacquone su wc nuovi.

*-*

L’autrice: Carla Corsetti è segretario nazionale di Democrazia atea e componente del coordinamento nazionale di Potere al Popolo

Sulle tracce di Marcovaldo poeta in città

«Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza». Il Marcovaldo di Calvino si legge facilmente. Le righe scorrono, senza fatica. La scrittura è semplice, i periodi tutt’altro che articolati. Il vocabolario familiare. Insomma senza ricercatezze. Così inizia una delle venti novelle delle quali si compone il libro e quasi senza accorgersene si arriva alla fine. Per poi passare alla successiva. Accade perché si tratta di storie concluse. Dallo schema pressoché uguale. Anche per questo motivo credo sia utile lavorarci insieme ai ragazzi, in classe. Dedicargli del tempo. D’altra parte la prima edizione di Marcovaldo ovvero Le stagioni in città uscì nel 1963 in una collana di libri per ragazzi dell’editore Einaudi. Nel 1966 Calvino ripubblicò Marcovaldo in una collana di letture per la scuola media. Insomma, allo stesso autore era ben chiaro quanto questa opera potesse esercitare la sua benefica influenza sugli alunni delle medie. Sulla loro crescita. Come persone, naturalmente.

I motivi della mia scelta? Differenti, senza dubbio. Sono insiti nel sottotitolo di Marcovaldo, innanzitutto. Ovvero, “le stagioni in città”. Già, proprio quelle stagioni delle quali abbiamo perso in gran parte coscienza. La capacità di intravederne i caratteri nello scorrere dei mesi. Ma che ci sono, ancora. Anche se molto meno nitide rispetto agli anni Cinquanta del Novecento quando Calvino ha scritto le diverse novelle. La natura fa capolino qua e là nella città del Nord nella quale abita Marcovaldo. Si affaccia quando può. Dove trova uno spazio nel quale mostrarsi. Così, ecco il «piccolo giardino incolto» de “Il giardino dei gatti ostinati” e «la pianta in vaso dell’ingresso» della ditta nella quale lavorava de “La pioggia e le foglie”. «Il fiume nel suo corso a monte della città, e i fiumicelli suoi affluenti» de “Dov’é più azzurro il fiume” e «la collina» de “L’aria buona”. «Le rive del fiume» de “Un sabato di sole, sabbia e sonno” e «il verde di una piazza alberata» de “La villeggiatura in panchina”. Marcovaldo nota quel che…


L’articolo prosegue su Left del 23 dicembre 2020 – 7 gennaio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Pinocchio, un vero rivoluzionario

Ed ecco che, se si parla di favole moderne, non si può che iniziare dalla storia del burattino più conosciuta al mondo.
La favola di Pinocchio prende vita dalla penna o se vogliamo dal calamaio di Carlo Lorenzini; lo pseudonimo, che lo rese famoso a noi tutti (anche se ne usò diversi altri), è Carlo Collodi, nome del paese della madre. La Storia di un burattino nasce a puntate fin dal primo numero del Giornale per bambini fondato a Roma da Ferdinando Martini, che porta la data del 7 luglio 1881.
L’ultimo appuntamento con il racconto terminava con l’impiccagione di Pinocchio; furono i giovani lettori a protestare per avere un seguito diverso. Così Collodi continuò a scrivere la Storia – andata avanti per circa due anni – e, finita e raccolta in un volume, nel 1883 ebbe il titolo nuovo di Le avventure di Pinocchio. Quasi certamente l’autore non immaginava che la favola avrebbe viaggiato per il mondo con continue ristampe, edizioni e traduzioni in tutte le lingue oltre che con interpretazioni teatrali e cinematografiche. Nonostante alcuni elementi chiave rimangano immutati rispetto alla favola tradizionale, quello del burattino è sicuramente un racconto che spezza con il passato e la tradizione e si proietta nel futuro. Ed è per questo che la letteratura d’avanguardia del secolo trascorso, fatta di sperimentazioni e rotture, ne rimase da subito affascinata e piena di interesse nello studiarlo.

La novità assoluta fu quella di scegliere come protagonista non un re o un ragazzino “per bene”, ma un pezzo di legno. Cambiava tutto, nasceva una favola diversa.
Vivace e ludica, distante dal romanticismo poetico, dal grottesco delle storie del ’600 e dal gotico fatto di torri e castelli magici, la favola descrive una Toscana artigiana, contadina e popolare. Sulla scena del racconto non si incontrano mai orchi, streghe, draghi, i personaggi classici delle novelle e delle favole tradizionali. Si descrive la realtà dell’Italia di fine ’800 pur rimanendo vicini ad immagini di fantasia.
Lo scrittore si distacca dalle regole ed espressioni di un pensiero borghese. La modernità del racconto del Lorenzini, infatti, sta nel sottolineare la realtà di una società repressiva – che ci presenta con satira, attraverso la favola – in cui vige una classe dominante insieme a un processo del lavoro alienante. Si conviene che Pinocchio, oltre che una fiaba per ragazzi, sia in effetti un’allegoria della società moderna. Si può leggere in chiave realistica, come la storia di un ragazzo povero della provincia italiana dell’Ottocento.

Il libro è ambientato non per caso nella Toscana contadina dopo l’Unità d’Italia e testimonia quella opera di sensibilizzazione scolastica a cui Lorenzini partecipò con i suoi stessi lavori promuovendo nuove letture per i più piccoli. I personaggi sono tutti poveri, gente buona, rassegnati alla propria condizione, dai valori semplici della frugalità e dell’onestà, abituati a subire le ingiustizie dei potenti.
Ancora oggi ci si può chiedere quale sia il posto che spetta a Collodi nel complesso itinerario della cultura moderna, e come il romanzo si colloca rispetto alle indagini ottocentesche sull’infanzia e all’elaborazione di teorie pedagogiche avvenuta nel corso del Novecento.

Franco Cambi, professore di pedagogia, studia e spiega come in Collodi vi sia una precisa «immagine dell’infanzia» che si distacca sempre più sensibilmente dalle tematizzazioni ottocentesche per proiettarsi, con sottile preveggenza, verso alcune dimensioni delle teorie legate alle prime fasi della fanciullezza ed elaborate nel Novecento toccando quei temi-base che saranno sviluppati non solo sul testo letterario, ma anche su tesi antropologiche, soprattutto, con una maggiore ricerca, nella seconda metà del secolo scorso.
Questa del burattino è un’opera apparentemente molto semplice, anche se ha vari percorsi interpretativi e piani di lettura. Così come, già dal titolo del critico e letterario e scrittore Giorgio Manganelli ci viene presentato: Pinocchio: un libro parallelo.

Manganelli ci mette davanti a tutte le possibili interpretazioni simboliche e allegoriche della storia del burattino, come fosse una caccia al tesoro, un libro nel libro. Una lettura fatta di sequenze dopo sequenze che, come lui stesso dice, non dovremmo essere frettolosi nel leggere poiché nascondono gesti, silenzi, parole da cui possiamo capire molto altro, oltre alla costruzione della favola.
Collodi, prima di far nascere il suo capolavoro, lavorava da tempo per alcune testate giornalistiche dell’epoca occupandosi di argomenti artistici, teatrali e letterari e anche in chiave umoristica, e come dice il giornalista e critico letterario Renato Bertacchini in molte delle sue ricerche sulla figura di Pinocchio e del suo autore, di Collodi bisogna «aver presente il suo non conformismo scolastico». Lo scrittore venne invitato nel 1875 dall’editore Paggi a tradurre le fiabe francesi più conosciute: il risultato di questo lavoro è la pubblicazione l’anno seguente de I racconti delle fate con le belle illustrazioni di quello che sarà uno degli amici più intimi del Collodi, nonché affezionato collaboratore: Enrico Mazzanti.

Per Collodi, il lavoro che svolse per il giornale di Paggi, su cui firmò diversi articoli, è una ricerca sulla realtà che lo circonda, sulla cultura che attraversa, è una scrittura concreta fatta di visione di immagini; diventa quindi il percorso adatto a capire il metodo e l’interpretazione che fanno nascere tutti i personaggi dei suoi racconti dove, tra teatralità, percorsi geografici e archetipi, farà muovere la più moderna favola d’autore ad oggi scritta.
È molto probabile che Carlo Lorenzini si sia ispirato alle novelle popolari che aveva sentito raccontare fin da bambino. Il pedagogista Luigi Volpicelli ricorda le analogie con le storie raccolte dallo studioso del folklore Gherardo Nerucci, e in particolare con la novella montalese intitolata “Pipetta bugiardo”, «il cui protagonista ha tante somiglianze morali con Pinocchio. Come lui bugiardo, scapestrato, ghiottone e tuttavia, ancora come lui, di buona pasta umana e di buon cuore». E anche considerando le Novelle popolari toscane del Pitré le somiglianze sembrano tantissime.

L’autore fa una dedica alla Commedia moderna, alla Commedia dell’arte. Pinocchio è un burattino, così come sono burattini i protagonisti del teatro, ed il teatro dei burattini è un luogo frequentato dallo scrittore, ma il teatro, anzi, «il Gran teatro» è anche il luogo importante dove Pinocchio scopre il suo coraggio e la sua sensibilità, che lo stesso Mangiafoco gli riconosce.
Volpicelli dice: «Ne è venuta fuori, così, una creatura proverbiale e fiabesca, eppure realissima, un nuovo personaggio della commedia dell’arte, nelle cui maschere il nostro Paese espresse e raddensò la sua saggezza e la sua filosofia della vita». Prima di chiamarsi Pinocchio, e divertire i monelli di tutto il mondo, ha scritto una volta per tutte Paul Hazard – primo iniziatore della critica su Pinocchio – il nome del nostro burattino fu Arlecchino, Pulcinella, Stenterello.

Sono infatti gli stessi burattini, durante la rappresentazione in teatro a riconoscere Pinocchio, chiamandolo addirittura per nome. Anche lui, come loro, è personaggio popolare: «Quando Pinocchio entrò nel teatrino delle marionette, accadde un fatto che destò una mezza rivoluzione».
Uno di noi, «un nostro fratello», urlò Arlecchino che all’improvviso smise di recitare richiamando l’attenzione dell’intera sala. Come se a Pinocchio, oltre a riconoscergli le fattezze, gli si chieda con entusiasmo una complicità, una salvezza, «Pinocchio tu che sei uguale a noi ma diverso».
«Pinocchio vieni quassù da me! – grida Arlecchino – Vieni a gettarti tra le braccia dei tuoi fratelli di legno!».
E Pinocchio accetta subito l’invito, «spicca un salto» e dalla platea arriva fino ai posti distinti, saltando ancora «monta sulla testa del direttore di orchestra» e poi «schizza sul palcoscenico», poiché Pinocchio, come l’autore e il lettore, è attore e spettatore di questa storia.

Il protagonista rappresenta quello che può essere interpretato anche come un cambiamento culturale: si può decidere di non essere più marionette o burattini ed avere un proprio pensiero. Ed è l’immagine femminile, rappresentata della fata, ad aiutarlo a prendere coraggio. Rappresentato come marionetta di legno, soggiace alle leggi della natura, difatti si brucia i piedi, eppure pensa e agisce come un ragazzo, non legnosamente da burattino, si rende ben conto di ciò che è accaduto ed è lì che Geppetto – poiché Pinocchio nasce “orfano”, per quella magia che è la vita stessa – ha la possibilità di diventargli padre, facendogli nuovamente due gambe. Il falegname si commuove nel vedere il suo Pinocchio in quello stato, incapace di alzarsi e camminare, prende dunque gli arnesi del lavoro… E Geppetto gli rifà due piedi con due pezzetti di legno stagionato e glieli fa da «artista di genio».

Qui c’è qualcosa di strano – coglie Manganelli nel suo libro – ma che forse deve restare tale. Da questo momento Pinocchio è discontinuo a se stesso. Non è più tutto e solamente quel «pezzo di legno da catasta». Ha perso i piedi, protagonisti del suo primo espediente di fuga, i suoi piedi «materni»; ora dal padre ha in dono dei piedi, come che siano diversi. E, si precisa, «svelti, asciutti e nervosi» e infatti da artista. I nuovi piedi, una sorta di innesto, sembra abbiano qualcosa di singolare; e che il «genio» di Geppetto si provi in cosa tanto umile, vuol forse dire che quei piedi sono un capolavoro allusivo, un dono «d’autore». Si allude quindi che, «d’autore» sia l’intera storia, e Collodi, come mastro Geppetto, diventa padre di un libro che fa crescere generazioni intere. Le gambe rappresentano appunto il cammino, il viaggio; la possibilità di andare verso delle novità, ed infatti Lorenzini si incammina lui stesso, in veste sia di padre che di figlio, a scardinar una letteratura per ragazzi fatta fino a quel momento per dare consigli e velati rimproveri. Pinocchio supera le prove come un eroe, diventa umano, ora può veramente camminare per quella «fuga» che è la storia stessa del protagonista. Qui, con Pinocchio, si corre con nuove gambe. Tra paure e gioie, verso un’avventura fantastica!

L’articolo di Ilaria Capanna è stato pubblicato su Left
del 20 marzo 2020

SOMMARIO

Leggi e sfoglia online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

Buon anno buono

Forse abbiamo imparato che quello che accade agli altri conta anche per noi. E forse abbiamo imparato che le nostre azioni e i nostri comportamenti a volte infliggono. L’abbiamo imparato con il virus ma vale per tutto, per le cose buone e per le cose cattive, vale per i nostri gesti, per i nostri comportamenti. Spostandosi, lavorando insieme, incrociandoci ci passiamo aliti che potrebbero anche non portare virus ma che potrebbero costruire relazione, lasciare afflati positivi, cambiare le prospettive se diventano virali. Chissà se il 2021 non sia l’anno in cui ci si scambia germi buoni, si smette di strofinarsi addosso come isole. Nessun uomo è un’isola, ci ha detto il 2020.

Forse abbiamo imparato che le cose semplici non sono banali. Forse abbiamo imparato che ci capita, eccome se ci capita, di intendere come acquisiti i benefici di una compagnia, di un vezzo che ci concediamo, di un diritto a cui non facciamo caso, di un’abitudine o di un’azione. Chissà se il 2021 non sia l’anno in cui affiliamo il gusto di sentire tutto quello che ci passa con i pori tutti aperti, di dare valore al nostro tempo e al nostro spazio. E chissà che non si pretenda che ne abbiamo cura del nostro tempo e del nostro spazio.

Forse abbiamo imparato che il futuro non firma contratti, che tutto è molto caduco e che il diritto di attraversare le intemperie è qualcosa che interessa anche a persone che non pensavano di averne mai bisogno. Essere garantiti non significa essere dei privilegiati ma significa avere uno scafo abbastanza sicuro per superare anche le onde più alte e impreviste. Chissà che il 2021 non sia l’anno in cui finalmente si decida di fissare degli standard minimi, come dicono i dirigenti, quelli che in italiano si chiamano dignità, che è una parola faticosa ma liberatoria, la dignità.

Ci auguro un anno in cui si rimettano in moto quegli ingranaggi azzurri della speranza, quella voglia di attraversare i giorni per lasciare impronte dappertutto, in cui si assapora il gusto di essere comunità, una comunità larghissima, con la voglia di essere una comunità onnicomprensiva. Noi qui a Left abbiamo provato a fare seriamente la nostra parte, abbiamo tornito le parole proprio in quest’anno in cui le parole sono diventate pesantissime perché ci è mancato molto del resto. E nel nostro piccolo ci siamo fatti comunità.

Buon 2021, che sia un anno buono.


L’illustrazione in alto di Fabio Magnasciutti è una delle opere che compongono il calendario 2021 di Left. Lo trovate in edicola fino al 7 gennaio in allegato al numero 52

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Lettera aperta ai “grandi” del pianeta

02 December 2020, Brandenburg, J'nschwalde: Behind a lake, steam rises from the cooling towers of the J'nschwalde lignite-fired power plant of Lausitz Energie Bergbau AG (LEAG). The lignite is mined in the nearby J'nschwalde opencast mine. The lignite-fired power plant is scheduled to go off the grid by the end of 2028. Block A is to be shut down as early as 2025. Photo by: Patrick Pleul/picture-alliance/dpa/AP Images

Un titolo altisonante, People, prosperity, planet, è stato dato al G20 che si svolgerà questo 2021 e di cui l’Italia ha la presidenza, assunta già dal primo dicembre scorso. Molto enfatici gli obiettivi: incentrare le azioni politiche sulle persone; fornire risposte su questioni chiave come il cambiamento climatico, il degrado del suolo, la perdita di biodiversità; sfruttare tutto il potenziale della rivoluzione tecnologica per migliorare concretamente le condizioni di vita dei cittadini di tutto il mondo, in ogni aspetto della loro vita. A suggello il logo scelto richiama l’Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci.

Intorno al vertice dei leader dei Paesi più industrializzati che si svolgerà il 30-31 ottobre 2021 è previsto un nutrito calendario di appuntamenti, di meeting e di eventi speciali. Spicca tra questi ultimi il Globalhealth summit, tra i ministri della Sanità, che si terrà il 21 maggio sempre a Roma con la collaborazione della Commissione europea. Si partirà il 3-4 maggio a Roma, quando si affronteranno Cultura e turismo, e poi si girerà tra varie città italiane per parlare dei molti temi: Lavoro e istruzione (Catania, 22-23 giugno); Esteri e sviluppo più sessione su cooperazione (Matera e Brindisi, 28-30 giugno); Economia e finanze (Venezia, 9-10 luglio); Ambiente, clima e energia (Napoli, 22-23 luglio); Innovazione e ricerca (Trieste, 5-6 agosto); Salute (Roma, 5-6 settembre); Agricoltura (Firenze, 19-20 settembre); Commercio internazionale (Sorrento, 5 ottobre). Il 26 agosto ci sarà una conferenza ministeriale internazionale sul Women’s empowerment. In occasione del vertice finale ci sarà un incontro tra i ministri di Economia-finanze e quelli della Salute. Altri eventi speciali sono in definizione, ma certamente il cuore sarà l’evento sulla salute visto che, per riprendere il titolo del G20, la prosperity delle people del planet è messa duramente alla prova dalla pandemia.

Il G20 è uno di quei luoghi “informali” che hanno caratterizzato l’epoca della globalizzazione liberista. Ne fanno parte i 19 Paesi più industrializzati più l’Unione Europea. Pesa i due terzi del commercio e della popolazione mondiale e oltre l’80% del Pil. L’esordio fu a Berlino nel 1999. Inizialmente partecipavano ministri delle Finanze e banchieri centrali. Dal 2008, in concomitanza con la prima grande crisi, a Washington si ha il primo vertice con i capi di Stato. A che punto saremo a maggio con la pandemia non lo possiamo sapere. Certo è che…


L’articolo prosegue su Left del 23 dicembre 2020 – 7 gennaio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Leghismo in briciole, a Lodi

Foto Piero Cruciatti / LaPresse 16/10/2018 - Lodi, Italia News Presidio per i bambini stranieri esclusi dalla mensa a Lodi Nella foto: uscita dei bambini dalla scuola elementare Cabrini di Lodi Foto Piero Cruciatti / LaPresse 16/10/2018 - Lodi, Italia News Demo against the denial of school meals to migrant children in Lodi In the photo: pupils leaving Cabrini school in Lodi

Il Canto di Natale quest’anno è stato scritto a Lodi, città incastrata nelle campagne lombarde e che ci porta un dono di fine anno significativo perché rimette i sensi a posto, restituisce alle parole il suo significato e perché racconta una vicenda che è un vocabolario politico per comprendere come il leghismo ma più in generale il cattivismo, la voglia di disgregazione e l’arroccamento ignorante franino di fronte alla realtà degli eventi e delle leggi.

Qui a Lodi nel 2017 la sindaca Sara Casanova aveva pensato di ritagliarsi un po’ di notorietà con un nuovo regolamento comunale che discriminava l’accesso dei bambini stranieri ad alcuni servizi essenziali come la mensa scolastica e lo scuolabus. Aveva pensato, quel gran geniaccio di sindaca, di imporre delle regole apposite per i genitori degli alunni stranieri prevedendo l’accesso alle tariffe agevolate (che in Italia vengono stabilite in base al reddito) richiedendo dei documenti aggiuntivi che certificassero chissà quali ricchezze nascoste nei loro Paesi di origine. Del resto era un ottimo modo per inoculare il dubbio che gli stranieri scappino dalla guerra lasciando enormi ricchezze. Una persona normale ci riderebbe su, i sovranisti invece, poverini, ci scrivono golosi teoremi e profondi editoriali.

La vicenda era odiosa perché metteva di mezzo gli stranieri ma soprattutto perché se la prendeva con i bambini. Del resto è tipico dei leghisti fare i forti con i deboli, loro ci riescono solo così. E si sentono perfino dei condottieri, poveretti, quando sono solo gli scherani di una poraccitudine che affila i denti sulle prede indifese. Era andata a finire che molti genitori avevano chiesto di condividere i pasti dei propri figli con i bambini stranieri. Del resto dividersi il pane dovrebbe essere l’atto politico più alto e nobile. Dovrebbe.

Nel 2018 l’Asgi, associazione degli studi giuridici sull’Immigrazione, e il Naga, associazione volontaria di assistenza sociosanitaria e per i diritti di cittadini stranieri, rom e sinti, presentò un ricorso contro il regolamento del Comune di Lodi. Il 13 dicembre 2018, un’ordinanza del tribunale di Milano stabilì che il regolamento era discriminatorio e chiese il ripristino dei precedenti criteri di accesso alle agevolazioni per le mense e il trasporto scolastico.

La sindaca Casanova insiste, presenta ricorso. Ora la Corte d’appello di Milano ha respinto il ricorso. Nella sentenza si legge: “La differenziazione introdotta dal regolamento del Comune di Lodi introdotto con Dgc 28/2017 in punto di documentazione su redditi/beni posseduti (o non posseduti ) all’estero costituisce una discriminazione diretta nei confronti dei cittadini di Stati extra Ue per ragioni di nazionalità perché di fatto, attraverso i gravosi oneri documentali aggiuntivi richiesti, rende loro difficoltoso concorrere all’accesso alle prestazioni sociali agevolate, così precludendo ai predetti il pieno sviluppo della loro persona e l’integrazione nella comunità di accoglienza; ne consegue il respingimento dell’appello presentato dallo stesso Comune”. Il Comune di Lodi è stato anche condannato a pagare le spese legali sostenute dal Comitato Uguali Doveri, una rete di cittadini che in quei giorni si è costituita per difendere il diritto di essere uguali.

Sconfitti e costosi: eccoli i sindaci leghisti. E quei giorni orrendi sono diventati un manifesto d’umanità.

Buon giovedì.

 

Simon Njami: La decolonizzazione culturale dell’Africa è incompiuta

NEW YORK, NEW YORK - MAY 30: Simon Njami speaks during the Moleskine Foundation "I had a dream" Exhibition Opening at The Africa Center on May 30, 2019 in New York City. (Photo by Jemal Countess/Getty Images for The Moleskine Foundation)

«Restituzioni temporanee o definitive del patrimonio africano in Africa». Di questo parlò Emmanuel Macron il 28 novembre 2017 a Ouagadougou, in un discorso che fece grande scalpore tra i Paesi europei colonizzatori e aprì il dibattito sulle restituzione delle opere artistiche e dei manufatti depredati al continente africano. In Belgio, in Germania, nei Paesi Bassi sono fiorite le riflessioni su come realizzare il ritorno del patrimonio in Africa. Dopo l’annuncio, nel 2018 la filosofa Bénédicte Savoy e l’economista Felwine Sarr hanno redatto un rapporto sulle possibili modalità di resa delle opere africane, su richiesta del governo.

Dopo la convocazione di una Commissione mista paritetica che ha recepito le richieste dei due rami del Parlamento, il disegno di legge per la restituzione di una sciabola al Senegal – attribuita a El Hadji Omar Tall, condottiero e religioso dell’Africa occidentale del XIX secolo – e di 26 manufatti al Benin è stato approvato definitivamente dall’Assemblea nazionale (la Camera bassa) il 17 dicembre. Ma quasi nulla di concreto è stato ancora fatto in termini di restituzione. Inoltre, i Paesi africani sembrano svolgere un ruolo minore in tutta questa vicenda, nella quale dovrebbero essere invece i protagonisti. Ne parliamo con Simon Njami, scrittore, curatore e critico d’arte camerunese, co-fondatore della rivista di arte contemporanea africana Revue Noire e direttore artistico per molti anni della biennale di fotografia di Bamako.

La restituzione del patrimonio artistico-culturale africano si basa su una reale volontà di giustizia o segue solo interessi diplomatici?
È una forma di auto-promozione, per mostrare un’apertura mentale. In realtà, nei depositi dei musei francesi ci sono migliaia di manufatti sottratti in Africa. La Francia ne può rendere una parte e dire di aver compiuto un gesto fantastico, ma non sappiamo in realtà quanto si continua a tenere. L’operazione che compie il governo francese serve per dare l’apparenza di aver rotto col proprio passato coloniale.

Il possesso di opere africane da parte dei Paesi europei è il riflesso di un processo di decolonizzazione incompiuto?
No, non penso che rappresenti il prosieguo in altre forme della dominazione coloniale. Il possesso di questo patrimonio riflette la colonizzazione passata. Inoltre, al Louvre ad esempio ci sono anche opere d’arte italiane: c’è un sistema di dominazione più generale in questo ambito. Bisogna poi dire che…


L’articolo prosegue su Left del 23 dicembre 2020 – 7 gennaio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Il prezzo dell’indipendenza

Sessanta anni fa il mondo scoprì che l’Africa non era una entità indistinta ma un complesso mosaico politico, culturale, economico. Nel 1960 diciassette Paesi acquisirono l’indipendenza e iniziarono travagliati percorsi. Cambiarono le carte geografiche di un continente e per un breve lasso di tempo si pensò che da quegli Stati, i cui confini erano stati tracciati dalle potenze coloniali, potesse nascere un mondo nuovo. Ancora oggi, nell’immaginario eurocentrico, si confondono popoli e Paesi in un unico oscuro calderone.

Proprio l’1 gennaio di quell’anno fatidico si rese indipendente il Camerun, con il presidente Ahmadou Ahidjo che provò a ricomporre il Paese. Con le dominazioni passate, si era creata una maggioranza francofona e una minoranza anglofona, permanendo poi ulteriori divisioni interne. Non riuscì nel compito, dovendo affrontare anche una guerra civile, ma il Camerun conobbe un periodo di relativa prosperità. Si dimise nel 1982 per lasciare posto a Paul Biya ancora oggi al potere con un regime autoritario.

Il 27 aprile nacque il Togo di cui…


L’articolo prosegue su Left del 23 dicembre 2020 – 7 gennaio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Dora

«Io quest’anno non ho voglia di festeggiare niente, l’idea di passare le feste senza mia mamma è lacerante. Ho dovuto a malincuore preparare l’albero per mia figlia ma voglio solo che quest’anno passi il più velocemente possibile, il più silenziosamente possibile». Non trattiene la commozione Roberto Leoci mentre racconta a Left la drammatica storia di sua mamma Teodora Scarafino, per tutti Dora, che è uno delle migliaia di lutti che attraversano il Paese in quest’epoca di pandemia ma che assume i contorni di un enorme schiaffo in pieno viso per come si sono svolti i fatti.

Dora era il perno della famiglia, sempre attiva, sempre dedicata alle cure di suo marito, dei suoi figli e dei suoi nipoti. La sua cucina era sempre in movimento per ospitare qualcuno a pranzo o a cena, lei che la domenica andava in campagna per raccogliere ciliegie e i capperi e gli asparagi e preparare quelle cene di famiglia che tenevano insieme quattordici persone.

«Non era una presenza: era la presenza», dice il figlio. E proprio per essere in forma in occasione delle feste che arrivavano Dora aveva deciso di farsi operare all’anca, «avremmo anche potuto ritardare» dice Roberto. E invece il 7 settembre la signora Scarafino viene ricoverata nella clinica Mater Dei di Bari per un’operazione che avrebbe dovuto essere di routine. «Effettua il tampone in ingresso, negativo, – racconta il figlio – va tutto bene e dopo tre giorni viene trasferita nel reparto di riabilitazione motoria per iniziare il suo percorso di recupero». Anche in questo caso tutto procede nella norma, arriviamo ai primi di ottobre: «Era il 2 o 3 ottobre e ci sentiamo telefonicamente poiché le visite erano proibite dalle norme anti Covid. Mia madre mi racconta, un po’ preoccupata, che la sua vicina di letto, in stanza con lei, lamenta tosse, febbre e dolori vari».

I quattro figli di Dora si preoccupano, durante la prima ondata del virus a marzo l’hanno tutelata con molta attenzione. «Comincia a fare dei ragionamenti non suoi, sragionava, ad esempio mi chiedeva se mio padre fosse rientrato dal lavoro eppure mio padre è in pensione da anni». I figli chiedono informazioni a medici e infermieri ma non ottengono risposte, vengono sommariamente rassicurati, gli dicono che non c’è nessun problema e che la febbre della compagna di stanza è una semplice influenza, probabilmente dovuta a un colpo di freddo.

Il 5 ottobre la signora Dora comunica ai figli che alla vicina di letto è stato fatto il tampone, una risonanza e i raggi ai polmoni. «Aumenta ovviamente la preoccupazione – racconta il figlio al nostro settimanale – ma dalla clinica la risposta è sempre la stessa: state tranquilli. La signora continua a rimanere in camera con mia madre. Addirittura il giorno successivo, il 6 ottobre, me la passa al telefono e quella mi saluta, “tranquillo tranquillo” mi dice mia mamma»·

Quello stesso giorno, nel pomeriggio, tutto precipita: «Nostra madre ci chiamava e ci dice che l’hanno spostata in un’altra camera, con tutte le sue cose, il suo letto, il suo armadietto, i suoi vestiti, che non le permettono nemmeno di affacciarsi sul corridoio dell’ospedale, che si sente reclusa. Io e mio fratello partiamo subito, cerchiamo di parlare con vari medici, non ci fanno entrare e riusciamo solo a metterci in contatto con una dottoressa che ci dice che l’ex compagna di stanza di nostra madre non è positiva al tampone e di stare tranquilli. Addirittura prende nostra mamma dalla stanza dov’era e la fa affacciare dalla finestra. Mia madre continua a sragionare, in quell’occasione disse a me e a mio fratello di “fare i bravi con i medici” perché la stavano trattando bene».

I due fratelli tornano a casa, a Monopoli, in attesa del risultato del tampone. Quella sera stessa leggono alcune notizie di un focolaio di Covid proprio nella clinica Mater Dei di Bari. La mattina dopo si rimettono in macchina e ripartono, riescono a parlare con il direttore sanitario della struttura che li rassicura, ancora, conferma che ci sono casi di positivi nel reparto ma dice di non preoccuparsi. Alle 15 arriva l’esito del tampone: negativo. «Diciamo a mia mamma di firmare le dimissioni, anche perché erano cinque giorni che non faceva più riabilitazione e non aveva senso rischiare. Arriviamo in ospedale e in tre minuti fanno uscire nostra madre al freddo, in pigiama, con la sua valigia. In auto non stava bene: tossiva, aveva dolori e difficoltà respiratorie». Ma era negativa, nessuno si preoccupa. Due ore dopo la clinica richiama e dice che c’è stato un errore: avevano scambiato il tampone di ingresso con quello di uscita, la signora Dora è positiva. I figli non possono credere di ritrovarsi in una situazione del genere: chiamano il 113, scrivono all’Asl, alla Regione Puglia, decine di mail, nessuna risposta. Solo il medico di base prescrive una cura.

Il 14 ottobre la donna viene portata via in ambulanza. Tutta la famiglia si mette in isolamento, una figlia viene ricoverata per Covid. Dora viene portata in terapia intensiva dove il suo ultimo calvario finisce con la morte: «Un percorso in ospedale di tre settimane che l’ha portata alla morte – racconta il figlio – ma l’ultimo schiaffo doveva ancora arrivare. Il giorno 9 novembre ci restituiscono il corpo e la bara viene trasportata in un ufficio del cimitero di Monopoli adibito a deposito. La bara di mia madre la ritroviamo in mezzo a sacchi della spazzatura, ossari, lettighe per le tumulazioni. Veniamo addirittura minacciati da chi avrebbe dovuto prendersi cura di quel luogo. Noi siamo andati completamente fuori di testa, ho scoperto lati di me che non conoscevo, vedere il corpo di mia madre in quelle condizioni mi ha ferito perfino di più di quella clinica che l’ha uccisa». Ora la famiglia di Dora sta preparando le denunce mentre i responsabili del cimitero si sono sommariamente scusati con un articolo su un giornale locale e il direttore della clinica Mater Dei ha parlato di un “errore fatto in buona fede”.

«L’ultima volta che l’ho sentita – racconta Roberto – prima che entrasse in terapia intensiva le ho detto che qui tutti, i suoi figli e i suoi nipoti, le volevamo un gran bene e lei senza rendersi conto che era un addio mi ha detto “sono vostra madre, è normale che mi vogliate bene”». Ora i figli di Dora chiedono di ottenere, dopo il dolore, un po’ di giustizia.

E i tamponi?

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 15 Dicembre 2020 Roma (Italia) Cronaca : Tamponi nelle farmacie per le feste natalizie in sicurezza natalizio Nella Foto : farmacia Viminale Photo Cecilia Fabiano/LaPresse December 15 , 2020 Roma (Italy) News: Pharmacy making a lots of swabs during Christmas time In the Pic : Viminale pharmacy

Ci sono dei numeri su cui vale la pena riflettere e che scompaiono dalla discussione generale: nell’ultimo mese il numero dei tamponi eseguiti a settimana si è quasi dimezzato da circa 1,5 milioni di novembre ai 900mila di questo mese. La ricerca è del fisico Giorgio Sestili che a marzo di quest’anno ha fondato il progetto “Coronavirus – Dati e Analisi Scientifiche” e si occupa di comunicazione scientifica.

″È un calo molto importante, che può essere positivo se legato al fatto che si abbassa la curva dei contagi, in quanto se meno persone hanno i sintomi c’è meno richiesta, ma è negativo se vediamo salire il rapporto fra casi positivi e tamponi, come sta accadendo in questi giorni”, dice Sestili.

E che non sia un calo positivo lo dice l’altissimo tasso di positività del 27 dicembre che ha toccato il 14,9%, come non accadeva dallo scorso 23 novembre mentre il rapporto fra i casi positivi e i casi testati (ossia il numero dei tamponi al netto di quelli fatti più volte alla stessa persone) ha raggiunto il 36%, “in assoluto il valore più alto della seconda ondata”.

È sempre la vecchia storia delle tre “t” (trattamento, tracciamento, tamponi) che da mesi fatichiamo a inseguire. E a proposito del tracciamento il virologo Francesco Broccolo, dell’Università di Milano Bicocca e direttore del laboratorio Cerba di Milano, dice: “fino a un mese fa – ha osservato – si facevano più tamponi, mentre adesso dopo 21 giorni di isolamento alle persone positive asintomatiche il tampone non viene più fatto in quanto sono ritenute non contagiose”.

Quindi mentre si festeggia per il vaccino si ha la sensazione che si sia mollata la presa sul controllo, come se la possibile soluzione futura sia diventata la panacea anche per il presente. E si ha la sensazione di incorrere negli stessi errori di leggerezza del passato. Augurandosi di sbagliarsi, ovviamente.

Buon martedì.