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Uno sguardo nuovo sull’arte africana

VENICE, ITALY - APRIL 07: Nigerian playwright, poet and essayist, Nobel prize in literature, Wole Soyinka attends a photocall during Incroci di Civiltà International Literature Festival on April 7, 2018 in Venice, Italy. (Photo by Simone Padovani/Awakening/Getty Images)

Al di là dell’estetica. Uso abuso e dissonanze nelle tradizioni artistiche africane. Già il titolo del libro firmato dal Nobel nigeriano Wole Soyinka dice molto al lettore affascinato dall’arte africana, che in Europa è stata straordinaria fonte di ispirazione per artisti delle avanguardie storiche come Matisse e Picasso e molto più spesso esposta e vilipesa come trofeo di un colonialismo feroce.

Il libro di Soyinka ci costringe a cambiare radicalmente prospettiva, avvicinandoci a un’estetica completamente diversa da quella imposta dal canone occidentale, evocando un’altra idea e immagine di bellezza rispetto a quella “apollinea”, neoclassica o realista a cui, come occidentali, siamo assuefatti da secoli.
Dalle pagine di questo volume (in cui le parole dello scrittore hanno la stessa potenza di immagini di sculture, maschere, recipienti istoriati della tradizione Yoruba) emerge una composizione dirompente, splendidamente irrazionale, che ci tocca profondamente. La bellezza che ci riempie gli occhi e la mente vanno però di pari passo al dolore per le ferite ancora aperte dell’Africa profonda depredata, colonizzata (anche imponendo un’estetica occidentale), inascoltata. Di tutto questo Soyinka ci parla con linguaggio denso e poetico in questa serie di saggi, conferenze, riflessioni sull’arte a partire da opere che hanno nutrito il suo teatro.
Questo libro pubblicato da Jaca Book (editore anche de L’uomo è morto, il libro con cui Soyinka vinse il premio Nobel) ci parla anche della difficoltà di costruire ponti culturali.

Emblematica è l’immagine da cui parte la narrazione di Soyinka: una statua dedicata agli schiavi che partivano dal Senegal collocata nel centro di Dakar. Il titolo è Monumento del Rinascimento africano. Ma quest’opera colossale ben poco ha a che fare con la tradizione e l’arte e il contesto locale. Piuttosto sembra un massiccio monumento in stile realismo sovietico o di «arte pubblica fascista mascherata da realismo proletario».
Come è stata possibile questa violenta sovrapposizione alla cultura autoctona? Come è possibile che sia stata collocata in uno spazio pubblico e collettivo? In un anno in cui anche grazie al movimento Black Lives Matter molto si è giustamente discusso della necessità di rimuovere statue e monumenti che celebrano razzisti e schiavisti (anche in Italia con la contestazione della statua dedicata a Montanelli) le questioni poste da Soyinka ci interrogano profondamente. Per affrontarle lo scrittore nigeriano parte anche dalla…


L’articolo prosegue su Left del 23 dicembre 2020 – 7 gennaio 2021

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Così in Toscana trionfa il dogma della speculazione

Recentemente il sindaco di Firenze (autorevole esponente del Pd) e l’intera giunta fiorentina hanno sporto querela contro il critico d’arte Tomaso Montanari per danno d’immagine. Questa la frase “incriminata”: «Firenze è una città in svendita. È una città all’incanto, è una città che se la piglia chi offre di più, e gli amministratori di Firenze sono al servizio di questi capitali stranieri». Una semplice valutazione – largamente condivisa dalla Camera del Lavoro di Firenze e dalla Cgil Toscana – del peso della rendita immobiliare nell’orientare le scelte della politica cittadina espressa da Montanari durante una puntata di Report, che ha provocato non una risposta di merito, ma un atto dall’evidente valore intimidatorio.

Una scelta inquietante oltre che grave, che nega alla radice non solo il concetto di libertà d’espressione ma l’idea stessa che la società non sia una dimensione totalitaria e totalizzante, ma un corpo vivo attraversato da faglie e contraddizioni costituzionalmente garantite e valorizzate. Questo è il punto dirimente, oltre alla constatazione di come a seguito dell’elezione diretta le giunte comunali vadano sempre più configurandosi come staff del Sindaco, prive di ogni rilevante dialettica al proprio interno.

Lavoro, salario, profitto, rendita (immobiliare e finanziaria) sono elementi connaturati e conflittuali delle società moderne, riconosciuti dalle Costituzioni pluriclasse successive alla Seconda guerra mondiale. Capitale e Lavoro, in ultima istanza ed a partire dai luoghi della produzione di valore. Un atto, quello della querela, è spia di una concezione che nega un punto di vista autonomo del Lavoro nei confronti delle politiche degli enti locali e del governo nazionale. Nega l’esistenza di interessi delle persone in carne ed ossa che vivono (spesso provano a sopravvivere) del proprio lavoro diversi dagli interessi della rendita. Osteggia città fatte per chi ci vive, ci studia e ci lavora a fronte di città piegate dal turismo smodato, da affitti brevi tramite piattaforme, costellate di vetrine per operazioni immobiliari di fondi di investimento, studentati di lusso per ricchi e forse annoiati rampolli delle borghesie internazionali.

Una concezione, purtroppo, che affonda le proprie radici nella sconfitta del Lavoro come punto di vista (e pratiche) autonomo e separato proprio nei luoghi di lavoro. Una concezione che nega al lavoro vivo il ruolo di produttore di valore. Che cos’era quell’articolo 18 definitivamente tolto dal Jobs act di Matteo Renzi se non la riaffermazione del comando unilaterale dell’impresa nei luoghi di lavoro? Anzi, l’impresa come cellula fondativa della società non turbata da interne strutturali contraddizioni. Un articolo 18 assolutamente ad oggi non ripristinato ed uscito dallo stesso dibattito politico.

La querela del sindaco di Firenze è la manifestazione fenomenica non solo di una concezione proprietaria (centrata sul primato della proprietà) della cosa pubblica, ma di un sansimonismo di destra, un produttivismo organicistico che era alla base alla società dei Fasci e delle Corporazioni, dove il conflitto ed i diversi punti di vista ed interessi erano considerati innaturali, immorali, dannosi, eversivi ed antipatriottici: non da considerare come espressione politica ma come campo di pertinenza delle forze dell’ordine e dell’ordine pubblico.

Non solo: il gruppo dirigente di Toscana Aeroporti, in seguito ad una delibera votata dal Consiglio comunale di Pisa (maggioranza di centrodestra) pressoché all’unanimità dove veniva ribadito che lo scalo pisano non poteva essere penalizzato nei confronti di quello fiorentino di Peretola, ha dichiarato pubblicamente di interrompere i rapporti “diplomatici” con l’Amministrazione pisana. L’ironia è fin troppo facile, ma qual è l’idea sottesa a siffatta grottesca manifestazione? Siamo ben oltre il tema della postdemocrazia: si considera un organismo democraticamente eletto come subordinato ad una società privata (dove tra le altre dovrebbero rimanere tracce di proprietà pubblica nonché profili di pubblica utilità).

Siamo alla fine della democrazia rappresentativa, corroborata dalla pretesa che gli interessi dell’impresa – in questo caso una società che gestisce gli aeroporti di Pisa e di Firenze – rappresentino, sempre e comunque, il bene dell’intera società. Detto senza pudore e senso del ridicolo, con probabilmente una sincera sorpresa, scritto sulla stampa e ribadito. Non legittimi punti di vista alternativi, votati a larghissima maggioranza, espressione di un organismo votato dai cittadini, ma atti da non riconoscere negando la stessa legittimità alla politica di decidere sulle linee di sviluppo e sugli interessi generali.

E questo è l’altro aspetto che non viene sufficientemente evidenziato: la fine della Politica stessa, dichiarata in maniera stupefatta da chi ormai pensa – o a cui forse è stato fatto credere e dato rassicurazioni al proposito – che l’unico ruolo delle pubbliche istituzioni sia quello di sgombrare il terreno da lacci e lacciuoli a favore degli interessi privati. Le cose si tengono e si rinforzano vicendevolmente: attacco alla Costituzione ed al ruolo del Parlamento, negazione di interessi e punti di vista che non siano quelli della proprietà e della rendita, fine della Politica e delle istanze socialmente determinate delle classi popolari e del Lavoro, espunte dal novero della legittimità politico-istituzionale e consegnate all’ordine pubblico ed alla categoria dell’invidia sociale.

Di spirito di scissione c’è urgente bisogno, quello spirito che Gramsci riprendeva da Sorel: di riaffermazione dell’essere di parte per pensare il tutto. Di attivazione, mobilitazioni e scioperi. Ché quel che manca è proprio questo, al netto di querele e di ritiro degli ambasciatori. Per il Lavoro e per la Democrazia.

Libertà e politica

È noto che destra e sinistra intendono rispettivamente il principio di libertà e quello di uguaglianza come cardini della loro azione politica. La destra avrebbe come idea quella che non esiste un’uguaglianza universale e che il principio fondamentale è quello della libertà per cui ogni essere umano deve essere libero di fare quello che vuole per realizzare se stesso. Dall’altra parte la sinistra avrebbe come principio ideale che ciò che va perseguito è l’uguaglianza tra gli esseri umani anche se questo dovesse costare in termini di libertà.
Ora è chiaro che il discorso è molto ampio e non riducibile a due semplici frasi. Però credo sia interessante fare alcune considerazioni su questi due principi che sembrano sempre contrapporsi.
Va innanzitutto detto che quello che sempre si dimentica è che la libertà e l’uguaglianza si riferiscono evidentemente agli esseri umani. Chi ne parla lo fa avendo evidentemente un’idea di cosa è un essere umano. Di cosa significa per lui libertà e uguaglianza.

Il problema è capire se per caso l’idea che si ha dell’essere umano possa in qualche modo influenzare il principio di uguaglianza e il principio di libertà.
Consideriamo la libertà. Sappiamo che siamo liberi di fare tante cose, come cittadini del nostro Paese. Siamo liberi di muoverci, di incontrare persone, di associarci, di fare impresa, di esprimere e pubblicare le nostre idee. Siamo liberi di innamorarci e di lasciarci. Siamo liberi di votare chi vogliamo alle elezioni oppure di non votare. Siamo liberi di fare infinite cose. Sappiamo anche che è la legge che stabilisce quello che non si è liberi di fare. Infatti, potremmo definire la libertà come “poter fare tutto ciò che non è proibito dalla legge”. La legge definisce i confini che delimitano i comportamenti umani che sono permessi. Ciò che va fuori da quei confini non è permesso. Ma la libertà comprende la possibilità di andare oltre quel confine oppure no? Cioè la legge definisce il confine come norma di buon funzionamento della società oppure è un confine che vuole limitare la libertà degli esseri umani perché in alcune circostanze potrebbe rivelarsi pericolosa? Ecco che diventa evidente come l’idea di libertà si lega all’idea di essere umano: chi uccide lo fa perché esprime una libertà? Oppure nel commettere un crimine non si esprime alcuna libertà perché si sta compiendo una violenza? E perché mai agire una violenza sull’altro non è libertà?

È interessante qui notare come il pensiero dominante (ma non il pensiero comune) ritiene che gli esseri umani siano originariamente violenti. Nel senso che il bambino se lasciato, appunto, libero si esprime esercitando violenza verso i propri simili. In altre parole, la cultura dominante dice che la libertà “originaria” del bambino sarebbe la libertà di esercitare violenza verso i propri simili. Motivo per il quale sarebbe necessario stabilire regole e paletti che limitino tale istinto “aggressivo” del bambino. Da tale ragionamento deriva che tutti gli esseri umani avrebbero dentro di sé un mostro pronto ad agire, una realtà originaria perversa e animalesca pronta ad uccidere il prossimo se non adeguatamente controllata (si veda per esempio il film Il pianeta proibito).
In questo schema di pensiero la legge sarebbe la versione per adulti del genitore che dovrebbe controllare la violenza del bambino.

La realtà originaria del bambino sarebbe la tavoletta di cera che va definita dal genitore prima e dalla “cultura” poi per creare il bravo cittadino. Altrimenti l’essere umano realizzerebbe solo dissociazione e violenza. Se l’origine è perversa evidentemente non può esserci alcuna uguaglianza. E questo è tra l’altro un errore gravissimo che fa il pensiero di sinistra: se si dice che l’uguaglianza non è originaria ed è quindi qualcosa che si deve acquisire si sta sostanzialmente dicendo che l’uguaglianza è una costruzione artificiale e che in realtà non esiste. Si tratterebbe cioè di un’uguaglianza per costruzione necessaria per vivere con gli altri ma non reale. Un patto razionale con gli altri per trarre vantaggio dallo stare insieme.
Dobbiamo innanzitutto dire che i due termini, libertà e uguaglianza, non si riferiscono solo alla realtà fisica ma soprattutto alla realtà psichica degli esseri umani.

Ed è ovvio che sia così: la realtà fisica degli esseri umani è che tutti siamo diversi. Non esistono due Dna uguali nel mondo. Anche se sappiamo bene che i principi di funzionamento dell’organismo sono gli stessi per tutti. Ma tutti siamo leggermente diversi gli uni dagli altri. Mettendola sul piano materiale si va anche incontro a paradossi come quello dell’associazione dei produttori di armi americana che sostiene che l’uguaglianza sta nel possedere tutti un’arma perché in questo modo tutti hanno la stessa capacità offensiva a prescindere dalle differenze fisiche! Allo stesso modo la libertà, se la consideriamo su un piano materiale, dobbiamo pensarla come possibilità di movimento e di fare le cose. Allora ne deriverebbe che il giovane è più libero dell’anziano. O che chi ha più mezzi è più libero di chi ne ha di meno. Non possiamo pensare a queste due idee su un piano puramente materiale. Perché gli esseri umani non sono solo realtà materiale. E poi questi sono principi! Non sono cose. Perché dovrebbero riferirsi solo alla realtà materiale? Ma ancora non si capisce: chi viene prima, l’uguaglianza o la libertà?

La soluzione al dilemma sta nella Teoria della nascita di Massimo Fagioli. L’uguaglianza sta nel sapere dell’esistenza di un altro essere umano e del possibile rapporto con esso. La libertà è l’autonomia dal rapporto, separarsi e pensare a ciò che si è vissuto.
Allora si comprende come la libertà ha nel suo fondo l’uguaglianza tra gli esseri umani. Senza di essa la libertà non esiste. Non è libertà. E per questo non può mai essere lesione dell’altro. Perché chi agisce un crimine non sta esercitando la sua libertà ma sta ledendo il principio di uguaglianza con l’essere umano che subisce la violenza.
L’uguaglianza si realizza alla nascita con una dinamica che, in effetti, esprime una violenza assoluta, ma solo verso il mondo materiale quando il neonato realizza il pensiero “il mondo non esiste” come reazione allo stimolo inanimato della luce. Per il neonato esiste solo la realtà psichica umana. Simultaneo al “mondo non esiste” compare l’idea dell’esistenza di un altro essere umano simile a sé stessi con cui avere rapporto (si legga al riguardo M. Fagioli, Istinto di morte e conoscenza, L’Asino d’oro edizioni). È qui che compare l’uguaglianza che è quindi un pensiero sugli altri che sono simili a noi. Ed è il primo pensiero, la matrice che fa di noi degli esseri umani. Noi siamo per il rapporto con gli altri che sono uguali a noi stessi.

La libertà si svilupperà con le separazioni dopo il rapporto. Potremmo dire che la libertà deriva dalla memoria fantasia di ciò che si è vissuto.
Un pensiero che poi diventerà anche movimento fisico, capacità e possibilità di fare le cose per sé e per gli altri. Pensiero che può diventare quindi anche azione politica. Perdere l’idea di uguaglianza originaria significa dimenticare il principio base. L’azione politica allora diventerà tesa a confermare che l’uguaglianza non esiste ed il principio cardine è la libertà di agire anche a scapito degli altri. Si costruirà una politica di destra.
Se invece si riesce a conservare quell’idea di uguaglianza originaria, allora si cercherà di fare cose che sono un fare per gli altri e per la loro realizzazione. Si costruirà cioè una politica di sinistra.


L’articolo è tratto da Left del 23 dicembre 2020 – 7 gennaio 2021

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Cosa non cura il vaccino

A volunteer serves food and drinks to homeless people in Milan, Italy, Saturday, Nov. 7, 2020. As the Italian government placed four regions, including hard-hit Lombardy, into effective lockdown for two weeks because infections and hospital saturation levels were rising fast, canteens and shelters for homeless people had to be shut down, leaving them with nowhere to get a meal. (AP Photo/Antonio Calanni)

Con una gran fanfara è arrivato il vaccino. Sono solo le prime dosi, quelle che il commissario Arcuri definisce “simboliche”, ma non si può non riconoscere la portata storica del momento. Dopo nemmeno un anno dall’inizio della pandemia la scienza ha trovato il primo argine per combattere il virus. Non sarà facile, non sarà breve: c’è un’enorme mole di organizzazione e di lavoro qui dove troppo spesso l’organizzazione del lavoro è risultata deficitaria, c’è un progetto culturale per iniettare credibilità insieme al vaccino che non può essere sminuito a una semplice battaglia tra favorevoli al vaccino (che quegli altri chiamano “pecore” e “servi”) e contrari al vaccino (che quegli altri chiamano “ignoranti” e “irresponsabili”). Bisogna non cedere all’errore (in cui siamo già incorsi) di credere che sia già tutto risolto, tutto finito: ci vorranno mesi, se tutto andrà bene, per raggiungere l’immunità di gregge necessaria a un presumibile ritorno a una parvente normalità. Ci salva la scienza, ci salvano quelli che per anni hanno messo la testa sui libri e si sono dedicati allo studio, ci salvano le competenze. Segnatevelo.

Il vaccino però non cura le disuguaglianze sociali, quelle no. Non cura la frattura ancora più larga che si è creata in questi mesi di pandemia, in Italia e nel mondo, e che ha reso ancora più poveri i poveri, ancora più precari i precari, ancora più sfruttati gli sfruttati, ancora più abbandonati gli abbandonati, ancora più soli i soli. E nella fetta di nuovi poveri ci sono finite famiglie che fino allo scorso febbraio pensavano di avere davanti una vita almeno tranquilla, un futuro almeno immaginabile e ora non hanno più immaginazione.

Il vaccino non cura il sistema sanitario nazionale, quello che ha ceduto troppe volte sotto i colpi di una cronica carenza di mezzi e di persone e che ha fatto scontare le sue falle mica solo ai malati di Covid ma anche a tutti quei malati che non hanno trovato più lo spazio di cui hanno diritto per essere curati. Il vaccino non cura nemmeno la privatizzazione sfrenata. No, non cura.

Il vaccino non cura le serrande abbassate, le partite iva con l’acqua alla gola, le imprese che non ce la faranno a fingersi salvate e vaccinate.

Il vaccino non cura l’odio sociale, fomentato anche in tempi di pandemia, appuntito dalla paura crescente, quello che si è riversato sui soliti disperati che tornano sempre buoni per essere obiettivi fin troppo facili. La disperazione non si sconfigge portando pacchi a Natale.

Il vaccino non cura la risibilità delle politiche ambientali, la pandemia che non vediamo e che non vogliamo vedere e che costerà (sta già costando) molto più di un Coronavirus e che non si risolve trovando una buona fiala ma che ha bisogno di soluzioni strutturate, di pensieri complessi, di visioni strutturate.

Il vaccino non cura il disagio psicologico che è sceso come una mannaia e che rende più difficile una situazione già difficile. Non cura la disperanza, non cura l’afflizione, non cura gli scogli che non si riescono a superare.

Il vaccino non cura l’impianto economico che arricchisce pochi, sfrutta molti e tutela troppo poco.

Il vaccino non cura dall’avere una classe dirigente spesso imbarazzante, quasi mai all’altezza, troppe volte incapace di leggere la realtà.

Il vaccino non cura dalle macerie che vanno ricostruite, seriamente e in fretta.

Il vaccino va fatto, va distribuito ma c’è molta altra strada da percorrere: discutere della “normalità” a cui si vuole tornare è uno dei momenti più delicati e importanti di tutti questi ultimi anni. La scienza è stata all’altezza, il resto è tutto da vedere.

Buon lunedì.

Lo sguardo lungo di Giorgio Galli sulla sinistra. Addio al grande politologo

Fra le molte, dolorose, perdite di quest’anno, c’è anche quella del politologo Giorgio Galli. Lo ricordiamo  con questa intervista realizzata da Carlo Patrignani, apparsa su Left due anni fa.

 

Va smentito prima di tutto un classico, irreale luogo comune: la sinistra non c’è, non esiste. Non è affatto vero: un popolo di sinistra, e quindi la sinistra, in Italia c’è, esiste. Pd, Leu , Prc, Potere al popolo lo comprovano. Certo, è una sinistra che arranca, in grande difficoltà, può essere persino in declino, come in Europa, ma, pur avendo subito delle gravi sconfitte, c’è, esiste: è da qui, da quel che c’è, che bisogna ripartire”.

Così si pone il politologo e storico Giorgio Galli, un 90enne pieno dotato della rara capacità di far nessi tra il presente e il passato, davanti alla sfida culturale e politica di oggi: la diffusione dei populismi di destra e di sinistra nati sull’onda delle crescenti diseguaglianze economico-sociali prodotte dall’ideologia dominante, il neoliberismo.

Si tratta, hic et nunc, di ricercare, progettare e proporre ‘la via d’uscita’ dal “flagello del neoliberismo” e di costruire, “una nuova idea di socialità”, che – avverte il politologo e storico – “necessita di fantasia e di idee innovative”.

Bene professore, cominciamo dalla sinistra che c’è, che esiste, e che si è espressa, divisa, nel voto del 4 marzo: tra Pd, Leu e Potere al popolo il popolo di sinistra è fatto di 7,2 milioni di persone, poco più del 22%.

“Purtroppo la sinistra attuale difetta di una solida, autorevole direzione politica: è la sua debolezza, che discende dall’assenza di un ‘pensiero forte’ sul modello di società cui aspira. E questo ‘gap ideale’ spiega le divisioni. Manca una piattaforma di base, un collante, che, per me, è la critica del capitalismo, all’analisi dei suoi veloci cambiamenti strutturali, per la cui comprensione ineliminabile il marxismo serve ancora”.

Dunque è da qui, dal marxismo, che si può e si deve ripartire?

“Certo. La ragion d’essere della sinistra è la lotta per l’emancipazione dei più deboli dai più forti, dai privilegiati. Così fu alle orgini quando si iniziò a parlare di socialismo. La guida teorica poi divenne l’analisi e la critica del capitalismo e, con essa, al dogma del ‘libero mercato’, di cui, negli anni successivi al crollo dell’impero sovietico, la sinistra fece il suo ‘credo’. Questo deragliamento dai valori cardine – uguaglianza, libertà, giustizia sociale – e dall’analisi e critica del capitalismo, è avvenuto perché la cultura, l’intellighenzia di sinistra, ha dedotto che crollata l’Urss fosse crollato anche il marxismo”.

L’errore fu quello di aver confuso il marxismo con il regime autoritario e illiberale creato da Stalin nell’Urss?

“Sì aver identificato il marxismo e il socialismo con l’Urss ha determinato la decapitazione di quel grande prodotto culturale che è stato il marxismo, che avrebbe consentito di analizzare i veloci cambiamenti del capitalismo e di capire per tempo il capitalismo globabilizzato delle 500 muiltinazionali che governano il mondo, invece di ritrovarsi spiazzata dalla famosa idea della Thatcher ‘non c’è alternativa’ al sistema neoliberista, è l’unico possibile”.

La sinistra deve ricominciare a pensare, a riflettere in che mondo viviamo: chiedersi perché oggi ci ritroviamo i populismi di destra e di sinistra. Questo per non diventare succube del capitalismo delle multinazionali, per riacquistare un pensiero critico, per riappropriarsi di certi valori delle origini, tuttora validi.

E’ stato questo deragliamento un errore pagato a caro prezzo: ma non è mai troppo tardi per ravvedersi, suggerisce l’autore di tanti saggi che passano al setaccio cambiamenti e misteri dal 1945 ai nostri giorni, e spiega il perché delle sue affermazioni che illuminano il presente.

“Con l’ideologia neoliberista la sinistra ha sposato il dogma del libero mercato, il mercato che tutto aggiusta. E oggi sentiamo: i mercati sono preoccupati, i mercati reagiscono alle decisioni o non decisioni della politica, che si è fatta ancella dei mercati. Chiarissimamente va detto, allora, che i mercati non esistono: sono entità del tutto astratte, divine, che, come tali, non esistono.

Viceversa, esistono i manager, i top manager delle grandi multinazionali, dei grandi istituti bancari, delle agenzie di rating che governano il mondo: come sistema Italia, siamo l’anello più debole di questo sistema globale, di cui pochi o nessuno parla, proprio perchè non si fa più nè l’analisi nè la critica al capitalismo, per non infrangere lo status quo.

Ecco, io penso che la sinistra dovrebbe battersi perchè i componenti dei CdA delle grandi multinazionali, delle grandi finanziarie, delle agenzie di rating siano eletti a suffragio universale e non per cooptazione: è probabilmente un’utopia, ma per l’oggi, per il futuro chissà”.

Insomma il sentimento della rassegnazione non alberga nell’anomalo 90enne che ama osservare e approfondire i mutamenti politici, economici e sociali che alle spalle hanno sempre un ‘pensiero’ e rifarsi ai clerici vagantes che andavano in giro a raccontare alla gente la loro visione di un nuovo mondo e di “una nuova socialità”.

“Sono per natura ottimista e curioso di tutto quel accade in giro: se in Inghilterra il vegliardo Jeremy Corbyn ha saputo ricreare il socialismo delle origini attirandosi le simpatie di tanti giovani con l’obiettivo di una società per i molti, non per i pochi e se lo stesso percorso ha intrapreso negli Usa un altro signore avanti con gli anni, Bernie Sanders, con Our Revolution, non vedo perché lo stesso non possa accadere un giorno da noi”.

Prima di congedarsi, Galli ha un ultimo pensiero in serbo: “viviamo in un’epoca di grande incertezza. Pur se il voto del 4 marzo ha evidenziato il cattivo funzionamento del sistema politico, giunto forse al capolinea, visto che gli elettori hanno lasciato i partiti tradizionali, di massa, conosciuti nel ‘900, esso può essere, al tempo stesso, l’occasione storica per avviare la ricostruzione di una sinistra nuova, aperta e originale. Tocca a noi fare questo minuzioso lavoro ideale, e magari insieme”.

Da left del’l8 giugno 2018

Montanari ha denunciato quello che è un dato di fatto

UDINE, ITALY - FEBRUARY 11: Italian art historian Tomaso Montanari records a documentary footage on italian artists Giambattista Tiepolo and his son Giandomenico Tiepolo at Patriarchal Palace Diocesan Museum on February 11, 2020 in Udine, Italy. (Photo by Roberto Serra - Iguana Press/Getty Images)

Il movimento di solidarietà in favore di Tomaso Montanari che sindaco e giunta di Firenze hanno querelato richiedendo un risarcimento per danno all’immagine di 165mila euro per le opinioni espresse in una trasmissione televisiva, è cresciuto e si è allargato in brevissimo tempo. Sintomo sia di un sostegno a chi interpreta da anni, con passione e competenza, quel ruolo di intellettuale critico, tanto necessario quanto poco frequentato sui nostri media, sia anche dell’insofferenza nei confronti di un tentativo di intimidazione tanto più se compiuto da parte di amministratori pubblici.

Quanto ai contenuti della denuncia di Montanari, le immagini strazianti dei nostri centri storici desertificati durante il lockdown, senza più turisti e senza più abitanti, da tempo espulsi, a partire dalle fasce più deboli, hanno mostrato a tutti, impietosamente, lo stravolgimento sociale e antropologico cui sono state sottoposte ampie aree urbane, con una accelerazione crescente da almeno un decennio a questa parte.
Che Firenze, come Venezia, come Roma o Milano e tante altre città storiche sia una “città all’incanto”, come affermato da Montanari nell’intervista a Report, è un dato di fatto dimostrato da ormai decine di analisi e ricerche accademiche e inchieste giornalistiche. La resa politica e culturale delle nostre amministrazioni pubbliche alla monocoltura turistica ha portato alla svendita, pezzo a pezzo, dei centri storici a immobiliaristi privati e il loro abbandono alla colonizzazione delle grandi piattaforme di affitti brevi e delle catene commerciali: i veri attori che decidono di fatto le politiche urbanistiche.

Il patrimonio di tutti, i preziosissimi spazi pubblici, spesso rappresentati da evidenze monumentali di altissimo valore storico e architettonico passano di mano attraverso operazioni finanziarie spericolate cui le pubbliche amministrazioni non solo non si oppongono, pretendendo almeno una trasparenza assoluta, ma che anzi agevolano attraverso la progressiva deregulation che caratterizza, ormai da qualche decennio, la…

*-*

Gli autori: Pier Luigi Cervellati è un architetto e urbanista, Maria Pia Guermandi è archeologa e responsabile progetti europei presso l’Ibc Emilia Romagna; Rita Paris, archeologa, è presidente dell’associazione R. Bianchi Bandinelli


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Almirante, chi era il camerata che piace tanto a Meloni

Capita di dover sentir dire con malcelata soddisfazione democratica – anche da chi, sinistramente, si professa di sinistra – che Almirante e Berlinguer provassero reciproci sentimenti di rispetto se non addirittura di stima (mancherebbe l’affetto per una zuccherosa triade da Piccolo mondo antico). Capita che qualcuno rievochi quasi con deamicisiana commozione l’omaggio che il capo del Msi fece al segretario del Pci presso la camera ardente allestita in via delle Botteghe oscure in quel giugno della sua scomparsa. Capita di leggere righe di rimpianto per quella stagione politica segnata da Berlinguer e Almirante. Una stagione in cui, con le loro ali – destra e sinistra – perimetrarono il sempre affollatissimo centro presidiato dai tanti papaveri democristiani e le tante paperelle di contorno.

Con uno di quei democristiani – nello specifico, il di lui collega di beatitudine Aldo Moro – Berlinguer cercò di stringere quel patto scellerato affossatore di ogni progettualità dell’unione delle sinistre. Spaventatissimo dal golpe cileno e temendo di precipitare in quell’abisso, il segretario del Pci era nietzschianamente finito nei tentacoli della Democrazia cristiana (quella “buona”, s’intende, quella morotea), che con le braccia di Moro l’aveva accolto come figliol prodigo della democrazia. Un abbraccio che – nelle intenzioni e nelle intuizioni di Moro – avrebbe finito per stritolare il mondo comunista (come in effetti sarà sulla lunga distanza, con la lieve margherita a primeggiare sulla corposa quercia). Ma questa è un’altra storia, come suol dirsi. Torniamo a quella del segretario dell’insospettabile estimatore di Berlinguer, vale a dire quel segretario del Movimento sociale erede del Pnf, cui ha dedicato una ricerca storica Carlo Ricchini, già caporedattore dell’Unità, con un libro, L’avrai, camerata Almirante edito da 4Punte edizioni (i chiodi a quattro punte usati dai partigiani per sabotare gli spostamenti dei nazifascisti, e per questo, simbolo della Resistenza).

Si tratta, in buona sostanza, della restituzione della memoria a un Paese troppo spesso distratto, tanto da far avanzare da qualche amministratore pubblico proposte oscene quali quelle dello scorso 16 gennaio, quando, mentre il Senato nominava Liliana Segre presidente di un Comitato per contrastare ogni forma di razzismo e di violenza (con la vergognosa, seppur coerente assenza dei voti delle destre), nell’albo pretorio del Comune di Verona appariva la decisione di intitolare una via a Giorgio Almirante: decisione che portava la Segre a rifiutare contestualmente la cittadinanza onoraria offertale dalla città dei due amanti del balcone, con queste parole: «Le due scelte sono incompatibili per storia, etica e logica». Memore di…


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E ora l’Africa si riprenda la propria storia e identità culturale

Il 30 settembre 2020 è cominciato a Parigi un singolare processo per tentato furto. Alla sbarra c’è infatti Mwazulu Diyabanza, un attivista congolese (nato a Kinshasa nel 1978) le cui gesta somigliano più a quelle di un performer che di un ladro.
Nello scorso giugno, alla testa di un gruppetto di cinque persone, era infatti entrato regolarmente, in orario di apertura, in quel magnifico museo antropologico che è il Quai Branly-Jacques Chirac, si è fatto filmare in diretta Facebook mentre declamava un discorso contro i soprusi del colonialismo, ha afferrato un’opera africana ed è stato naturalmente bloccato dalla sicurezza prima di raggiungere l’uscita. Un esito non solo previsto, ma fortemente voluto, visto che da allora l’azione è stata ripetuta almeno due volte, a Marsiglia e a Berg en Dal, in Olanda. Diyabanza ha ottenuto una visibilità mediatica che gli ha permesso di rendere subito di dominio pubblico una linea difensiva che è in realtà un contrattacco molto pesante non a un singolo museo, ma a un sistema di valori consolidato, di cui il museo è espressione. Una linea amplificata dai movimenti di protesta che negli Stati Uniti come in Europa, sull’onda del Black Lives Matter, si sono scagliati contro monumenti e musei percepiti come manifesti di razzismo, schiavismo, colonialismo. «Non si chiede il permesso a un ladro per riprenderci quel che ci ha rubato – ha dichiarato più volte Diyabanza – così non pago per ammirare quel che è stato sottratto con la forza al mio continente». Non furto, dunque, ma riappropriazione del maltolto.

Siamo ben oltre Robin Hood, e per due ragioni. Diyabanza non si batte per una semplice redistribuzione di ricchezza, ma per il risarcimento di un patrimonio, e di un’identità culturale. E l’azione è rivolta verso non la singola comunità di un singolo Stato – perché le opere afferrate a titolo dimostrativo non venivano solo dal Congo – ma un intero continente. Un atto politico forte, che da un lato mette l’Occidente di fronte a responsabilità troppo a lungo minimizzate, o addirittura negate; dall’altro, risveglia e alimenta un orgoglio africano che deve esprimersi anche attraverso un rinnovato avvicinamento alla propria arte, tanto consapevole da diventare riappropriazione. Curiosamente, Diyabanza ha ricalcato le orme del protagonista di un film nigeriano del 2014, Invasion 1897 di Lancelot Oduwa Imasuen, uno studente che colpito da una lezione sul colonialismo, si introduce nottetempo in un museo inglese per trafugare alcuni bronzi del Benin e riportarli nel suo Paese, ma viene placcato dagli agenti. Al processo sostiene la stessa tesi di Diyabanza, rievocando in flashback la fine dell’ultimo regno africano rimasto indipendente (a parte l’Etiopia del nostro famoso avversario Menelik) annientato dalla “spedizione punitiva” britannica del 1897. In seguito alla quale, col pretesto di…

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L’autore: Fulvio Cervini è docente di Storia dell’arte all’Università di Firenze


L’articolo prosegue su Left del 23 dicembre 2020 – 7 gennaio 2021

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Un regalo: la comunanza

La chiameremo comunanza anche se è una parola che si è impolverata parecchio in questi anni di verbi ipermuscolari, di termini affilati per tagliare i pochi caratteri dei social e di aggettivi sempre magniloquenti e turbo per dopare il dibattito. Comunanza invece è una parola mite come la presa di coscienza collettiva, che non è mica arrendevole anche se quest’anno ha avuto la tentazione di arrendersi spesso. La comunanza è una chiave di lettura collettiva di persone che si riconoscono uguali in qualcosa: pensiamo che sia il virus, no, non è così semplice, non è così immediato, non è così superficiale.

Sotto l’albero quest’anno vi auguro di trovare un po’ di comunanza, anche una fetta sottile, da dividere come si dividono il pane quelle comunità che vivono degne perché rifiutano e allontanano gli ingollatori, li giudicano indegnamente avari per potere essere membri della comunità.

Abbiamo la comunanza di paure. Ed è un collante straordinario la paura. Pensa se sotto l’albero trovassimo la forza e la lucidità di riconoscersi spaventati per elaborare, ognuno con l’esperienza del proprio spavento, una strategia comune per riconoscere le paure, riconoscerne la dignità e per prendersene cura. Pensa se sotto l’albero trovassimo un vocabolario contrario a quello di chi usa e ha usato le paure per esacerbare gli animi e invece trasformassimo le paure in un’occasione di nobiltà e di gentilezza. La comunanza di paure genera mostri oppure costruisce comunità.

Abbiamo la comunanza di affetti da manutenere difficoltosamente. E quest’anno potremmo avere in regalo l’occasione di capire che gli affetti per sbocciare dignitosamente e per essere innaffiati hanno bisogno di capacità di spostamenti, di avere gli strumenti per poter dire che “andrà tutto bene” perché la frase da sola è uno slogan che non salva nessuno. Gli affetti hanno bisogno di un futuro possibile. Ce ne siamo accorti: il diritto all’affetto non è il diritto all’abbraccio (rifiutarlo può essere una premura) ma è il diritto ad esercitarlo con dignità. Questo Natale non mancheranno i cenoni, mancherà per molti la possibilità di dirsi che sì, ce la faranno.

Abbiamo la comunanza di sperare nel lavoro. E nel lavoro non ci si dovrebbe sperare in un Paese normale. I diritti quando mancano mancano come manca l’aria e ora il reddito spaventa anche chi aveva il lusso di non interessarsene. È una comunanza dolorosa ma su cui si potrebbe costruire uno scenario diverso se non fossimo qui ad accapigliarci per i chilometri da percorrere.

Abbiamo la comunanza della dignità della malattia. Erano così meno i malati che i loro diritti sembravano una fissazione per pochi e invece ora sono diventati terribilmente popolari, tragicamente popolari. Pensa che regalo se ora diventassero un chiodo fisso per molti.

Ecco questo Natale vorrei che la comunanza trovata sotto l’albero non si disperdesse e diventasse lei, lei sì, virale davvero. Pensa come cambierebbe tutto.

Buon venerdì.


L’illustrazione in alto di Fabio Magnasciutti è una delle opere che compongono il calendario 2021 di Left. Lo trovate in edicola fino al 7 gennaio in allegato al numero 52 

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Il senso del lavoro di Sgarbi

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 22-10-2020 Roma Politica Camera dei Deputati - Informativa del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulle ulteriori iniziative adottate dal governo contro l'emergenza Covid-19 Nella foto Vittorio Sgarbi durante il dibattito Photo Roberto Monaldo / LaPresse 22-10-2020 Rome (Italy) Chamber of Deputies - Report by the Prime Minister Giuseppe Conte on the initiatives taken by the government against the Covid-19 emergency In the pic Vittorio Sgarbi

Vittorio Sgarbi, da sempre incapace di entrare nel merito nelle sue baldanzose e sconclusionate uscite in cui attacca gli avversari politici di turno, ha pensato bene di criticare Virginia Raggi con una bella provocazione classista delle sue, dicendo: «Secondo me prima di fare il sindaco era una cameriera nell’ufficio di avvocati e guadagnava 600 euro al mese». Essere cameriera e guadagnare 600 euro al mese evidentemente per il critico d’arte è elemento di vergogna e di inettitudine. Del resto, mica per niente, Sgarbi da sempre è l’assiduo frequentatore di immorali imprenditori. Virginia Raggi, da canto suo, ha risposto parlando della dignità dei camerieri e tutto il resto, seguita a ruota da Di Maio.

Ma c’è un aspetto interessante in tutto questo: Sgarbi ha pronunciato la sua infelice frase mentre si candidava come sindaco di Roma (e già cerca di attaccarsi ai pantaloni di Calenda) e praticamente in contemporanea ha annunciato la sua candidatura in Calabria. Del resto che Sgarbi sia terrorizzato dall’idea di dover lavorare senza politica lo racconta benissimo la sua storia politica che Fondazione Critica Liberale ha messo tutta in fila e che letta tutta d’un fiato fa parecchio spavento:

«1) Unione monarchica italiana; 2) Partito comunista italiano, accettando la proposta di candidarsi al consiglio comunale di Pesaro, nel 1990, candidatura poi fallita per avere contemporaneamente accettato anche la proposta di candidato per il Psi; 3) Partito socialista italiano, per il quale è stato eletto nel 1990 consigliere comunale a San Severino Marche; 4) Dc-Msi, alleanza con la quale è stato eletto sindaco di San Severino Marche nel 1992; 5) Partito liberale italiano, per il quale è stato deputato nel 1992; 6) Forza Italia, con la quale è stato eletto deputato nel 1994, nel 1996, nel 2001 e 2018; 7) Partito federalista, che ha fondato nel 1995 e poi lasciato per aderire alla 8) Lista Pannella-Sgarbi; 9) “I Liberal – Sgarbi”, movimento da lui fondato nel 1999; 10) Polo laico, movimento effimero esistito nel 2000 per garantire una rappresentanza alle elezioni dell’anno successivo ai Liberali e ai Radicali Italiani; 11) Lista consumatori, con la quale si è candidato, per le Politiche del 2006, senza essere eletto; 12) Udc-Dc, alleanza con la quale è stato eletto sindaco di Salemi nel 2008; 13) Movimento per le autonomie con il quale è stato candidato alle elezioni europee del 2009 nel cartello elettorale L’Autonomia nella Circoscrizione Isole; 14) Rete Liberal Sgarbi-Riformisti e Liberali nelle elezioni regionali 2010 del Lazio; 15) Partito della Rivoluzione-Laboratorio Sgarbi, movimento politico fondato dallo stesso Sgarbi ufficialmente il 14 luglio 2012; 16) Intesa popolare, partito fondato nel 2013 assieme a Giampiero Catone; 17) i Verdi, in occasione delle elezioni comunali a Urbino del 2014, hanno sostenuto la sua iniziale candidatura a sindaco e poi la proposta al sindaco eletto di nominarlo assessore alla Cultura del Comune di Urbino, a seguito dell’alleanza tra i Verdi e la coalizione di Centrodestra, guidata da Maurizio Gambini; 18) Rinascimento, partito da lui fondato con Giulio Tremonti nel 2017 con il quale inizialmente si candida come governatore alle Regionali in Sicilia; in seguito appoggerà la candidatura di Nello Musumeci per la coalizione di centrodestra, che risulterà eletto. In vista delle elezioni politiche del 2018 il partito si federa con Forza Italia; 19) Alleanza di centro, il 12 dicembre 2019, nel gruppo misto della Camera, sei giorni dopo che Sgarbi ha lasciato il gruppo di Forza Italia, si costituisce la componente “Noi con l’Italia – Usei – Alleanza di Centro”, poi divenuta, il successivo 18 dicembre, “Noi con l’Italia – Usei – Cambiamo! – Alleanza di Centro”».

Eccolo il senso del lavoro per Sgarbi: navigare da un partito all’altro in cerca di un ruolo pubblico. Poi si potrebbe ricordare la condanna in via definitiva a 6 mesi e 10 giorni per truffa aggravata e continuata e falso ai danni dello Stato, per produzione di documenti falsi e assenteismo nel periodo 1989-1990, mentre era dipendente del ministero dei Beni culturali.

Poi, oltre a quello che fa, c’è quello che dice e come lo dice. Ma qui si cadrebbe in un dirupo, sarebbe troppo, anche per un buongiorno.

Buon giovedì.