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L’altra salute (oltre al Covid)?

Foto LaPresse - Andrea Campanelli 17 03 2017 Brescia ( Italia) Cronaca Brescia, Spedali Civili reparto di oncologia pediatrica dove insegna Annamaria Berenzi decretata miglio professoressa di Italia nella foto: reparto di oncologia pediatrica

C’è un’altra sanità, oltre alla questione Covid, su cui forse conviene fare una riflessione. Sono numeri spaventosamente alti che aggravano una situazione endemica che già esisteva: le liste di attesa degli interventi chirurgici si sono inevitabilmente allungate all’infinito e i numeri nel mondo sono spaventosi. Ora finalmente se ne ricomincia a parlare dopo che il viceministro Sileri ha confermato le stime che giravano già da mesi e il dibattito, badate bene, merita tutta la nostra attenzione perché dietro ai numeri ci sono sempre le persone. E allora parliamone.

Un’analisi dell’Università di Birmingham già lo scorso maggio stimava che, nel periodo di 12 settimane del picco epidemico che ha portato all’interruzione di molti servizi ospedalieri, gli interventi chirurgici elettivi annullati o rinviati potrebbero essere stati 28,4 milioni in tutto il mondo, cioè il 72,3% di quelli pianificati.

La situazione italiana era sulla stessa linea: Nomisma aveva contato circa 410mila interventi chirurgici rimandati a causa del dirottamento di anestetisti e infermieri verso i reparti Covid e della necessità di ridurre il rischio di esposizione al virus. Si va dal 56% dei ricoveri per interventi legati a malattie e disturbi dell’apparato cardiocircolatorio alla quasi totalità dei ricoveri per patologie afferenti all’otorinolaringoiatria e al sistema endocrino, nutrizionale e metabolico, oltre l’area ortopedica con 135mila ricoveri rimandati.

E, secondo Sileri, la situazione si sarebbe poi ulteriormente aggravata. «Abbiamo purtroppo un numero importantissimo, vicino al milione, di interventi chirurgici saltati e ovviamente rinviati, e un numero importantissimo di indagini e visite ambulatoriali saltate e rinviate, intorno ai 20 milioni», ha dichiarato il viceministro della Salute a fine settembre, in occasione della presentazione del rapporto annuale sull’innovazione in campo sanitario e farmaceutico dell’Istituto per la Competitività.

Le diagnosi di tumore e le biopsie, inoltre, sempre a maggio erano calate del 52% e nei reparti di oncologia si era registrata una diminuzione del 57% delle visite: gli oncologi dichiaravano che in media prima dell’insorgenza del Covid-19 visitavano circa 80 pazienti alla settimana, ma che nell’ultima settimana presa in esame ne hanno visitati 34. Ancora: il 45% dei malati oncologici aveva rimandato la chemioterapia. E nulla fa pensare che questa emergenza si sia risolta.

Volendo poi c’è il cronico problema della mancata informatizzazione del nostro sistema sanitario: un sistema che non dialoga con gli altri ospedali e che spesso addirittura non riesce a dialogare tra reparti e che nel mondo invece è considerato determinante per migliorare le cure e per diminuire gli sprechi (le ripetizioni di esami già fatti è solo un esempio).

C’è anche altra salute, oltre al Covid.

Buon mercoledì.

Che brutto Paese ha in testa Bonomi

Foto Claudio Furlan - LaPresse 06 Ottobre 2020 Cremona (Italia) News Assemblea Generale Associazione Industriali di Cremona presso CremonaFiere Nella foto: Carlo Bonomi Photo Claudio Furlan - LaPresse 06 October 2020 Cremona (Italy) Assemblea Generale Associazione Industriali di Cremona In the photo: Carlo Bonomi

Sempre lui: Carlo Bonomi, il turbopresidente di Confindustria, quello che almeno ha il coraggio di non nascondere di odiare i poveri, quello che difende a oltranza i capitalisti che fanno i capitalisti con i capitali degli altri (quelli pubblici) e che chiama lo stato sociale “assistenzialismo” per racimolare applausi gaudenti. Ne abbiamo scritto lungamente nel numero di Left del 9 ottobre e ora Bonomi torna alla ribalta presentando un bel tomo di 385 pagine dal goloso titolo Il coraggio del futuro in cui non si limita a rappresentare gli industriali ma addirittura propone la visione del Paese del futuro, con la sua solita innata modestia.

E com’è l’Italia vista da Confindustria? Pessima, disuguale e sempre più precaria. Partiamo dal lavoro: dice Bonomi di volere un «mercato del lavoro più libero e leggero» che in sostanza si traduce in licenziamenti più facili, facendo sempre meno ricorso al giudice del lavoro e sostituendo i diritti con compensazioni economiche. Soldi, soldi, soldi, siamo sempre lì: i diritti si comprano, come al mercato. Eccola la visione. Ma la chicca sul mondo del lavoro sta lì dove Confindustria spiega che «occorre avere il coraggio di affrontare in modo equilibrato anche il tema dei licenziamenti per motivi oggettivi, in modo tale che non costituiscano più un evento traumatico ma possano essere vissuti dal lavoratore in un quadro di garanzie tali da renderlo un possibile momento fisiologico della vita lavorativa». Chiaro? Allevare una nuova generazione di lavoratori sempre pronti a essere licenziati. È la turboprecarietà come ricetta per rilanciare l’economia. Roba da pelle d’oca. E non è tutto: «lo smart working può essere un terreno ideale per portare avanti questa maturazione culturale che chiede di “essere” partecipativi: non è certamente foriero di risultati stabili pensare la partecipazione in termini di “avere” – cioè ottenere attraverso la contrattazione – se poi la mentalità di fondo è e rimane quella antagonista», scrive Confindustria. In sostanza i lavoratori maturi sono quelli che non avanzano pretese. A posto così.

Poi c’è il sogno di Confindustria e di Bonomi: il lavoro a cottimo. Però le argute menti degli industriali chiamano il lavoro a cottimo “purezza”. Scrivono infatti: «Occorre disciplinare questo rapporto non restando rigidamente ancorati a tutte le caratteristiche del contratto di lavoro classico, connotato da uno spazio e da un tempo di lavoro. Serve una regolamentazione che consenta, da un lato, di vedere il lavoro “in purezza” come creatività, sempre più orientato al risultato, e, dall’altro, di remunerarlo per il contributo che porta all’impresa nel processo di creazione del valore». Fenomenale l’idea di cancellare anni di lotte sindacali e sociali, non c’è che dire.

Poi c’è la scuola, che Bonomi e i suoi associati vedono unicamente (ma va?) come fabbrica per produrre lavoratori, mica persone. Per farlo addirittura scomodano il vecchio (e fallimentare) pensiero dell’homo faber. Scrive Confindustria: «il sapere, il saper fare, il saper essere insiti nelle risorse umane, combinati insieme, influiscono positivamente sulla produttività del lavoro a livello di singola azienda e, per aggregazioni successive, innalzano il potenziale di crescita del sistema nel suo complesso». La scuola come fabbrica (di Stato) che produce lavoratori in serie, mica persone.

E poi la sanità. Sanità che per Confindustria non significa “salute” ma mera economia. Si legge: «è necessario misurare gli effetti delle politiche sanitarie in base al loro impatto sulla struttura industriale (occupazione e produzione) e sulla capacità di attrarre investimenti (…) Occorre valutare le prestazioni, non solo in base al costo, ma anche al rendimento, quindi ai risultati generati, che nel caso della sanità sono di natura clinica, scientifica, sociale, ma anche economica. Abbandonare modelli di gestione che non tengono conto delle forti interazioni nei percorsi di cura e determinano costi molto elevati per le imprese, a danno dell’innovazione e della sostenibilità industriale». Una salute che Bonomi vede sempre più verso il privato (ma va?) e che addirittura viene rivenduta ai dipendenti dalle aziende come pacchetti di welfare.

E questo è solo un assaggio.

Buon martedì.

Per approfondire: Left del 9-15 ottobre 2020

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Li vedono i mezzi pubblici? (E le tre T)

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 24 Agosto 2020 Amatrice (Italia) Cronaca : Passeggeri ed autisti con le mascherine sugli autobus Nella Foto: i mezzi a piazza dei Cinquecento Photo Cecilia Fabiano/LaPresse August 24 , 2020 Amatrice (Italy) News: Passengers and drivers with facial safety mask on Buses In the pic : buses on central station square

Dunque il governo si sta preparando a emanare regole più stringenti per l’incremento di casi di positivi al Covid e per frenare l’aumento dei contagi. La nuova convivenza con il virus, lo sapevamo, ci costringerà ancora per un bel po’ a stringere e allargare le maglie dei nostri comportamenti per riuscire a convivere con il virus. È inevitabile, lo sapevamo. Chi finge di essere stato colto impreparato dal ritorno del virus probabilmente non ha letto un giornale negli ultimi sei mesi, chi sperava che il virus fosse scomparso è un fatalista piuttosto pericoloso se si ritrova in un ruolo di governo.

Ora, vedrete, ripartirà la caccia all’untore, che infatti comincia a puntare sui bar, sul calcetto e sulle feste private. Manca però un particolare che non è di poco conto: non si capisce, e non ci dicono, quale sia il reale peso dei contagi in queste circostanze e forse una comunicazione più chiara aiuterebbe anche un’informazione meno basata sulla paura che di certo non aiuta, no.

C’è però un punto che sembra essere scomparso dal radar del dibattito pubblico e che continua a martellarmi in testa: ma li vedono i mezzi pubblici? Li vedono i mezzi che portano i ragazzi a scuola (quelli che vengono additati come colpevoli per gli assembramenti poi ma di entrare in classe ma hanno viaggiato tutti belli assembrati per arrivare fin lì)? Li vedono i mezzi dei lavoratori che tutte le mattine si spostano per andare sul posto di lavoro? Le immagini sono centinaia e si moltiplicano ogni giorno: tram, metropolitane, treni che sono fuori da qualsiasi norma perfino di buonsenso, gente accalcata che si infila in carrozze strapiene per non perdere l’orario di ingresso al lavoro.

La sottosegretaria ala Salute Sandra Zampa l’ha detto a chiare lettere in un’intervista a La Stampa: «Fissare all’80% il limite massimo di capienza dei bus è stato rischioso. Avere una soglia così alta, senza un controllo effettivo a bordo, vuol dire lasciare la possibilità che si arrivi facilmente a mezzi pubblici pieni al 100%». Per questo propone di abbassare la capienza massima dei mezzi pubblici al 50% e di utilizzare i guanti. Tutto benissimo, per carità: ma se ora sono strapieni e le corse non vengono aumentate come farà la gente ad andare a lavorare o a scuola? Questo è il tema.

Poi c’è la vecchia storia delle tre T (tamponi, tracciamento e trattamento) che sembra fare acqua in più di qualche regione. L’ex candidato alla Regione Liguria Ferruccio Sansa racconta sul suo profilo Facebook la sua esperienza con un figlio positivo: «Alla fine per avvertire i miei contatti ho dovuto fare un post su Facebook. Altro che Immuni. Altro che tracciamento. Vi promettono che tracciano i contatti dei malati: balle. Vi raccontano che useranno Immuni: fantascienza. Vi dicono che vi seguiranno mentre siete malati a casa: aspetta e spera». E aggiunge: «Consola sapere che altre centinaia di persone in Liguria oggi sono nella nostra stessa situazione. Nella stessa solitudine. Gente che non fa il calciatore e non può fare migliaia di tamponi ogni weekend. Gente che non si chiama Trump, Berlusconi o Briatore e sa di poter contare su scorte di remdesivir come Dom Perignon. Ma se io faccio un post magari qualcuno interviene. In fondo conosco medici e pneumologi per i casi di emergenza. Ma tanti altri che sono davvero soli che cosa possono fare? È tanto diverso il Covid visto da un letto se per dire che stai male devi usare Facebook».

Buon lunedì.

La colpa di essere donne

Chissà se è tornata in azione la famigerata Armata bianca, il movimento integralista ecclesiale che alla fine degli anni Novanta scorrazzava per i cimiteri di mezza Italia con l’obiettivo di celebrare funerali e seppellire feti abortiti all’insaputa delle donne che avevano deciso di interrompere volontariamente la gravidanza come prevede la legge 194. È uno dei nodi che scioglierà l’inchiesta della procura di Roma che dal 2 ottobre è scattata sul caso del cimitero dei feti al Flaminio di cui nessuno ha mai chiesto la sepoltura. La storia è tristemente nota ed è venuta alla luce nella seconda metà di settembre quando una donna per caso ha scoperto una croce con il suo nome nel cimitero Flaminio di Roma dove qualcuno tumula feti abortiti senza il consenso delle persone interessate. Dopo la prima segnalazione che, dato l’abominio denunciato, dai canali social è arrivata velocemente nelle prime pagine di alcuni quotidiani (non molti a dire il vero) se ne sono aggiunte altre di donne che sono andate a controllare. A prendere in carico le loro istanze è stato l’ufficio legale dell’associazione Differenza donna che dopo aver visitato il sito con le croci e i nomi di donna ha deciso di promuovere una class action passando la palla ai pm di piazzale Clodio. Toccherà a loro individuare un profilo penale di quanto accaduto e gli eventuali responsabili dipanando la matassa degli stucchevoli rimpalli tra la Asl, l’Ama (che si occupa dei servizi cimiteriali per conto del Comune di Roma) e gli ospedali dove sono avvenute le interruzioni di gravidanza.

Secondo l’avvocato dell’associazione, Teresa Manente, tra i reati ipotizzati ci sono la violazione dei diritti fondamentali della donna e della legge 194. Di contro c’è chi minimizza parlando di zelo burocratico, ma resta ignoto chi è che avrebbe deciso la rigida applicazione del Regolamento di polizia mortuaria seppellendo il materiale organico senza il consenso delle donne. E c’è chi punta il dito contro un vuoto normativo nel quale si è insinuato chi ha deciso di indicare il nome delle donne sulle croci, cosa che per esempio non avviene nell’altro cimitero romano, il Laurentino. Su questo è intervenuto anche il Garante della privacy che ha aperto un’istruttoria per accertare eventuali violazioni. E questa pubblica gogna è certamente la violenza subita più odiosa e vigliacca, come ha raccontato su Facebook una delle donne “coinvolte” suo malgrado: «Per tre volte chiesi, dopo l’aborto, che fine avesse fatto il feto e per tre volte mi sentii rispondere “non sappiamo”… Vedere il mio nome su quella brutta croce gelida di ferro in quell’immenso prato brullo è stata un’altra profondissima pugnalata, un dolore infinito e una rabbia da diventar ciechi… Ora che conoscete i fatti, mi concedete di usare il termine tortura?». In attesa dei primi risultati dell’inchiesta si muove la politica.

La capogruppo della Lista Zingaretti in Consiglio regionale del Lazio, Marta Bonafoni, prima firmataria di una interrogazione consiliare sul caso, ha puntato il dito contro un «regolamento del 1990» evidentemente farraginoso e sulla «discrezionalità da eliminare, che ha portato alla situazione del cimitero Flaminio». Dopo di che il 5 ottobre ha presentato insieme ad Alessandro Capriccioli (capogruppo di +Europa Radicali) una proposta di legge regionale «per disciplinare in maniera inequivocabile le modalità di trasporto e sepoltura dei feti». È il riferimento al 1990 che fa venire in mente il movimento integralista cattolico dell’Armata bianca di cui si parlava all’inizio poiché proprio quell’anno iniziò a mettersi in mostra arrivando a inaugurare nel 1991 il primo monumento in Italia dedicato ai “Bimbi non nati” nel cimitero de L’Aquila con il benestare del Vaticano nella figura dell’arcivescovo Mario Peressin. L’iniziativa fu in seguito replicata a Iglesias e nel tempo il Movimento per la vita Armata bianca, che si rifà al rito cattolico preconciliare ed è stato fondato da padre Nicola D’Ascanio, è arrivato a contare qualche migliaio di adepti e a stipulare convenzioni con diversi cimiteri italiani per poter celebrare funerali di feti e seppellirli in aree dedicate al loro interno. Tra il 1999 e il 2000 il leader D’Ascanio insieme ad altri adepti è finito sotto inchiesta con l’accusa di aver violato la legge che consente la sepoltura dei feti solo in presenza di autorizzazione da parte della donna che ha abortito.

L’intesa raggiunta con alcune Asl del Piemonte e Abruzzo prevedeva che i feti abortiti fossero messi dal personale sanitario in contenitori, forniti dall’associazione, indicando la data dell’intervento. Nella sola Novara in circa due anni la “setta” tumulò circa duemila feti fino a quando quattro esponenti del Consiglio regionale (le tre Ds Silvana Bortolin, Giuliana Manica e Marisa Suino e la socialista Carla Spagnuolo) non riuscirono a far bloccare tutto. Le analogie con il “caso romano” si sprecano ma va detto che la rivolta piemontese contro questo abominio non impedì che anni dopo nascessero come funghi cimiteri per feti in diversi comuni amministrati anche dal centrosinistra (basti ricordare il caso di Firenze nel 2013 con l’allora sindaco Matteo Renzi che fresco di candidatura alla guida del Pd fece approvare e difese a spada tratta la delibera che autorizzava l’istituzione di uno spazio per la sepoltura dei feti). Armata bianca o no – il Movimento è peraltro caduto in disgrazia presso il Vaticano dopo la dimissione dallo stato clericale del suo fondatore per violazione del VI comandamento (l’accusa era di abusi su minore) – è indubbio che da tempo si sia inasprita l’offensiva della Chiesa cattolica contro la legge 194 e le donne che decidono di abortire. Offensiva che passa per la loro sistematica colpevolizzazione che trova l’apice nei frequenti interventi di papa Francesco sul tema. «La vita umana è inviolabile, no a diagnosi prenatale per abortire» ha detto nel 2019; l’aborto «è come affittare un sicario» disse nel 2018 e via così con le donne descritte come mandanti di un omicidio, come se il feto fosse persona e nella

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L’omicidio di Lecce e quelle motivazioni senza senso

La cronaca è nota. Lunedì 21 settembre poco dopo le 21 le telecamere di sorveglianza poste in via Fleming a Lecce riprendono per pochi secondi un uomo incappucciato con uno zaino che cammina con passo tranquillo. L’uomo si chiama Antonio De Marco, 21 anni, ed è uno studente di infermieristica. Stando alle sue ammissioni fatte ai carabinieri e riportate nei giorni seguenti dai giornali, ha appena ucciso con ferocia inaudita una giovane coppia e sta tornando a casa dove, racconterà, dormirà per tutta la notte. Nei giorni successivi all’omicidio De Marco ha continuato la sua vita come ha sempre fatto, nessuno dei conoscenti dice di aver notato qualcosa di anomalo, neanche a posteriori. Anzi De Marco, sempre taciturno e isolato, si dimostra anche più socievole del solito, andando alla festa di una collega, ballando e conversando con alcune ragazze. E rimane tranquillo, affermano i carabinieri, anche quando viene arrestato: «Non ha mostrato nessuna agitazione», preoccupandosi solo di chiedere «da quanto» lo stessero «pedinando».

Tutto questo stride fortemente con quanto successo nel condominio di via Montello dove De Marco ha ucciso barbaramente con oltre 30 coltellate a testa i due ragazzi che lo imploravano inutilmente di fermarsi, arrivando a disperderne le interiora per casa e sul pianerottolo dove ha finito il ragazzo. De Marco conosceva Daniele De Santis e Eleonora Manta avendo convissuto per un breve periodo nello stesso appartamento in cui li uccide. Tra i tre giovani non era mai avvenuta nessuna lite prima dell’omicidio, riferisce il comandante dei Carabinieri di Lecce Paolo Dembech, il quale inoltre afferma che non c’è stato «nessun movente passionale».

Nel verbale dell’interrogatorio riportato dai media De Marco dice: «Sono colpevole, ammetto di averli uccisi. Qualcosa mi ha dato fastidio, ho provato e accumulato tanta rabbia, che poi è esplosa. Non mi hanno mai trattato male: la mia rabbia, forse, era dovuta all’invidia che provavo per la loro relazione». 

Si tratta di affermazioni che fanno raggelare il sangue e sulla cui interpretazione credo sia necessario fare chiarezza anche in relazione a quanto scritto su alcuni giornali che descrivono un quadro assolutamente lontano dalla realtà. Ovvero: fondamentalmente De Marco non sarebbe malato perché ha ucciso per…

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Da Gramsci a un pensiero nuovo sull’uguaglianza

MOSTRA GRAMSCI-TOGLIATTI, MANIFESTO, DISEGNO, POLITICA, POLITICI, COMUNISTI, PARTITO COMUNISTA ITALIANO, COMUNISMO, PCI, ITALIA, B/N, 196868, 03-00004884

Gramsci e le donne di  Noemi Ghetti è una narrazione straordinaria, scorre come un romanzo. Ma poi bisogna tornare a leggere, perché il pensiero è denso, importante. È importante per noi, donne e uomini, che ancora oggi cerchiamo una dimensione di vita e di pensiero di sinistra, che – ci dice Noemi leggendo Gramsci – può essere solo una dimensione di trasformazione profonda, e deve essere insieme personale e sociale.

Il pensiero va subito a quel marzo 1917, come ce lo fa vivere Ghetti in questo libro edito da Donzelli. Prossimità e distanza. Torino e Pietrogrado. Il teatro Carignano e l’insurrezione femminile contro il governo zarista.

È una delle dimensioni del libro. Un primo piano e un più ampio scenario storico e politico sullo sfondo. In primo piano il rapporto di Gramsci con le donne: le compagne di lotta a Torino, poi quelle, come lui, ai vertici del movimento comunista internazionale; ma anche le mille compagne della militanza, quelle con cui conversa in cucina, piantando lì i compagni mariti, e le tante che incontra nelle conferenze delle donne comuniste, da lui fortemente volute.

Sullo sfondo, i grandi momenti di rifiuto collettivo delle donne, vividamente dipinti: dopo l’8 marzo 1917 a Pietrogrado, l’agosto a Torino, l’insurrezione delle operaie che dà inizio allo sciopero generale, e poi, tra le altre, quella splendida immagine del congresso panrusso delle operaie e contadine del novembre 1918 a Mosca, «ove si attendevano 300 delegate, e a sorpresa ne arrivarono 1147 in rappresentanza di un milione di lavoratrici … molte con figli al seguito da alloggiare e sfamare, in tempo di gelo e di grande carestia con i pochi mezzi messi a disposizione dal partito». Questo libro non poteva che essere scritto da una donna.  Solo una donna, credo, poteva intuire e proporci come, in quel marzo del ’17 a Torino, il pensiero di Gramsci sulle donne, nitidamente espresso nella recensione alla rappresentazione di Casa di bambola, fosse maturato nel rapporto con una donna. La capacità di Gramsci di vivere, nel rapporto con le donne, una trasformazione interiore che diventa pensiero nuovo. Ne fa un cenno lo stesso Gramsci in una lettera a Giulia del 29 marzo 1924: «Il tuo amore mi ha rafforzato, ha veramente fatto di me un uomo, o per lo meno, mi ha fatto capire cosa sia un uomo e l’avere una personalità. Il mio amore per te non so se abbia avuto conseguenze simili in te: credo di sì, perché ho sentito vivacemente anche in te, come in me, questa potenza creatrice».

Una capacità di trasformazione interiore che Lenin non…

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In quelle stragi in mare affonda l’idea di Europa

A migrants rescued from a rubber dinghy off the Libyan coast looks at the sea from aboard the Open Arms aid boat, of Proactiva Open Arms Spanish NGO, Saturday, June 30, 2018. 60 migrants were rescued as Italy's right-wing Interior Minister Matteo Salvini tweeted: "They can forget about arriving in an Italian port." (AP Photo/Olmo Calvo)

Ai partecipanti dell’assemblea: “L’acqua è una frontiera?” organizzato da Agora Europe e dal Comune di Hendaye

Sono profondamente lieto di avere l’opportunità di condividere con voi questo intervento, per mezzo di Caterina Di Fazio, in occasione della vostra iniziativa, alla quale auguro ogni successo, e che sia portatore di speranza e di risoluzione.

Naturalmente, sarebbe stato ancora meglio, più piacevole, più evocativo di ciò che ci unisce, poter fare fisicamente il viaggio ed essere con voi qui, di fronte al mare. Viviamo in tempi strani, dove il movimento degli esseri umani, più vitale che mai, è soggetto a divieti e ostacoli di ogni tipo. Alcuni sono giustificati, altri sono più aberranti che mai, sia dal punto di vista delle libertà che degli interessi comuni. Ragione in più per insistere sulla riflessione e sull’azione.

L’acqua dei fiumi, dei laghi, dei mari e degli oceani è la condizione stessa della nostra vita. A volte ce ne dimentichiamo, e le dure realtà ecologiche stanno cominciando a ricordarcelo. Dovremmo vedere anche qui una frontiera? Perché no, a patto che questa nozione venga strappata alle istituzioni e all’immaginazione dell’ostacolo, del proibito, del rifiuto, della selezione degli esseri umani secondo la loro nazionalità o razza, della fortificazione o della trappola, per raggiungere il suo altro significato: quello del viaggio, dell’incontro, della cooperazione, della traduzione. Come frontiera in movimento, aperta all’avventura e alla condivisione delle risorse, il mare può essere un ambiente di vita. Come spazio di sparizione, di naufragi provocati, di barriera contro la speranza di un rifugio, diventa uno dei volti terribili della morte di massa. Questo è l’inevitabile dilemma che il mondo di oggi si trova ad affrontare.

Qualche anno fa, quando la Aquarius è stata bloccata dall’azione congiunta dei governi europei (inclusi quelli italiano e francese), questa nave di salvataggio in mare la cui missione è ancora oggi portata avanti dalla Mare Jonio e dall’Aita Mari qui rappresentate, ho parlato pubblicamente di pratiche di genocidio. Esagerazione, mi è stato detto! Ma come dovremmo chiamare l’insieme delle…

 

*-*

L’autore: Étienne Balibar è un filosofo francese, professore emerito presso l’Università di Paris-X (Nanterre) 

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Fronte sul porto (di Taranto)

TARANTO, ITALY - DECEMBER 8: The port of Taranto on December 8, 2017 in Taranto, Italy. The Ilva steel plant of Taranto is the largest in Europe. For years they have been discussing on the environmental impact produced on the city of Taranto, the nearby inhabited areas and in particular the Tamburi district, an area inhabited in the seventies by steel workers, today sadly known for the very high percentage of deaths due to tumors and lung diseases. The recent crisis and the procedures for the sale of the plant, today puts at risk the future of the workers and of the induced, the Italian Government has started a series of consultations to guarantee the work of about 14,000 workers and the health of the residents, announcing the desire to keep the factory open, despite the long-standing environmental issue. (Photo by Ivan Romano/Getty Images)

Sono settimane ormai che le antenne dei nostri servizi segreti sono alzate e sintonizzate su Taranto. «Stiamo aspettando ulteriori dossier che dovrebbero arrivare entro la prossima settimana», spiega una fonte interna al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. L’organo, presieduto dal leghista Raffaele Volpi, già a fine agosto aveva acquisito un documento di sintesi realizzato dagli 007 sugli interessi espressi da compagnie cinesi verso l’area strategica di Taranto: gli impianti industriali dell’ex Ilva e l’affidamento della gestione del porto.

La città pugliese, di fatto, potrebbe presto trovarsi ad essere pedina fondamentale nello scacchiere economico, commerciale e geopolitico che vede da una parte gli interessi (mai sopiti) degli Stati Uniti e dall’altra quelli (sempre più manifesti) della Cina. Che il porto di Taranto d’altronde ricopra un ruolo strategico da un punto di vista marittimo e commerciale, non è una novità: lo era già al tempo dei Greci, lo è a maggior ragione oggi. Specie dopo l’accordo italo-cinese della Via della Seta, un accordo mal digerito da Washinghton già impensierita dal monopolio di Pechino sulla rete 5G.

A rendere il quadro ancora più instabile sono…

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Michele De Palma: Ma se siamo noi lavoratori ad aver difeso le imprese

A woman wearing a protective facemask looks on as she takes part in a metalworkers' national demonstration in Rome's central Piazza del Popolo, to protest against worsening of the crisis following the Covid-19 outbreak (the novel coronavirus). (Photo by Tiziana FABI / AFP) (Photo by TIZIANA FABI/AFP via Getty Images)

Il presidente di Confindustria Bonomi va all’attacco, stigmatizzando come «sussidistan» i sostegni, in questa fase più che necessari, a chi non ha reddito, mentre torna ad attaccare quota 100 e a chiedere sacrifici ai lavoratori (che dal suo punto di vista dovrebbero pagarsi l’Irpef). Su questi temi, sui molti tavoli aziendali di crisi e sullo scenario che si apre con il venir meno del blocco dei licenziamenti abbiamo chiesto un commento al sindacalista Michele De Palma.

«Colpisce la decisione del presidente di Confindustria di attaccare in modo così duro le scelte fatte dal governo per tutelare le persone che hanno pagato il prezzo più alto della pandemia e della crisi», dice il segretario nazionale Fiom Cgil. «Parliamo di persone che già avevano pagato un prezzo alto. Come ben sappiamo l’emergenza Covid ha portato in primo piano e ampliato le disuguaglianze. Molti lavoratori e lavoratrici hanno perso il lavoro. Molti di loro erano già precari in precedenza, altri erano già in ammortizzatori sociali».

Come intervenire in questo grave quadro di crisi?
Se calcoliamo le risorse che sono state investite nel corso di questi anni sul sistema d’impresa versus quelle che sono state investite sulle persone che per vivere devono lavorare si nota una assoluta sproporzione. In questo momento occorre investire sulla domanda interna. Quando si danno risorse alle persone in termini di salario (aumentandolo e aumentando le indennità di cassa integrazione) si risponde anche alle esigenze delle imprese, alimentando il mercato interno. Il solo export non basta, lo abbiamo visto bene durante questa crisi. Se si uscisse da un certo populismo e si affrontassero gli interessi del sistema Paese ci si renderebbe conto che certi slogan che inseguono il consenso non risolvono i problemi reali con i quali facciamo i conti tutti i giorni nelle aziende. Faccio presente che noi abbiamo continuato a negoziare con le imprese. Vedo invece una superfetazione politica nell’approccio del presidente di Confindustria. Noto un certo populismo delle classi dirigenti.

Tornando ai finanziamenti alle imprese, il segretario Cgil Landini ha detto che dal 2015 al 2020 hanno ricevuto sussidi pari a 50 miliardi di euro.
Bisogna vedere se quei soldi abbiano determinato un aumento della produttività del sistema Paese. La produttività da…

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Bergamo e la pandemia, perché non accada mai più

Foto Claudio Furlan - LaPresse 13 Luglio 2020 Bergamo (Italia) cronaca Nuovo Denuncia Day presso la Procura di Bergamo per presentare oltre 100 denunce per le morti da covid Photo Claudio Furlan - LaPresse 13 July 2020 Bergamo (Italy) news New Denuncia Day at the Bergamo Public Prosecutor's Office to present over 100 reports of covid deaths

Ci sono storie che vengono a cercarti e implorano di essere scritte. Una di queste è contenuta nel libro-inchiesta Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale, edito da Laterza: in cui ho  tentato una ricostruzione in presa diretta dei fatti e dei retroscena accaduti nella bergamasca (e in Lombardia) tra il 23 febbraio e fine marzo. Una storia che intreccia negligenze e omissioni, complicità e paradossi, ipocrisia e incredulità. Sullo sfondo  ci sono le testimonianze agghiaccianti dei sopravvissuti a una catastrofe sanitaria senza eguali nella storia italiana degli ultimi 70 anni.

Il fatto che Bergamo sia la mia città natale e che lì abbia le mie radici e buona parte dei miei contatti professionali ha certamente avuto un ruolo decisivo nella stesura di questo libro. La mia famiglia e la rete di conoscenze sul campo sono state la mia fonte primaria di informazione. Tra fine febbraio e inizio marzo un medico di base bergamasco, che non finirò mai di ringraziare, mi ha aperto gli occhi sull’orrore che ancora non vedevo scritto da nessuna parte. L’attenzione era tutta concentrata sulla zona rossa di Codogno, nel lodigiano. La caccia al paziente zero sembrava la ricerca del Sacro Graal. Eppure, proprio in quei giorni drammatici di fine febbraio, accadevano fatti di cui nessuno parlava. Sulle prime pagine dei giornali campeggiavano titoli che invitavano sì alla prudenza, mischiati però ad appelli – nemmeno troppo velati – per un ritorno alla “normalità”: shopping, aperitivi e cene al ristorante. La parola d’ordine era “no panic”. Una strategia politica studiata a tavolino, che oggi sappiamo celava invece una conoscenza allarmante dei dati reali del contagio. Un contagio che già il 27-28 di febbraio risultava evidente si fosse propagato ben al di fuori della zona rossa di Codogno.

Non tutti ne erano consapevoli. Alcuni, però, non potevano non sapere.

Tra questi rientrano senz’altro gli scienziati della task force lombarda, con la sua squadra di tracciatori, che a partire dal 21 febbraio su mandato di Regione Lombardia inizia a fare il contact tracing intorno al paziente uno, Mattia Maestri. Un lavoro disperato di tracciamento epidemiologico, di cui si perde il controllo dopo pochissimi giorni. Si tamponano interi condomini, scuole, palestre: il virus non ha più nemmeno l’ombra di un legame con il paziente 1 e galoppa già a decine e decine di chilometri fuori dalla zona rossa del lodigiano. È a Bergamo, a Cremona, persino in Valtellina. Salta tutto. Perché, allora, non viene…

L’articolo prosegue su Left del 9-15 ottobre 2020

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