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Il Sud depredato si protegge dal Covid come può

A man wearing a respiratory mask rides a bicycle along the seafront by Castel dell'Ovo in Naples on March 11, 2020, a day after Italy imposed unprecedented national restrictions on its 60 million people on March 10 to control the deadly coronavirus. (Photo by Carlo Hermann / AFP) (Photo by CARLO HERMANN/AFP via Getty Images)

C’è da restare basiti nel vedere quello che sta accadendo in Italia all’approssimarsi della seconda ondata della pandemia, un ritorno all’emergenza ampiamente previsto da tutti i virologi. Ancora più sorpresi si resta davanti a quello che sta accadendo in Campania dove il presidente De Luca, dopo aver usato ogni sorta di chiusura e di “bazooka” prima delle elezioni, quando l’epidemia in Campania riguardava solo sporadici casi, dopo le elezioni regionali appare impreparato ad affrontare l’emergenza in atto.
A dire il vero De Luca non è il solo a mostrarsi impreparato, anche nel Lazio si vivono le stesse situazioni, con cittadini terrorizzati in fila, così come in Campania, dalle prime ore del mattino per effettuare un tampone nei pochi presidi pubblici aperti, mentre causa l’emergenza si autorizzano alle analisi anche le strutture private a costi esorbitanti per il cittadino. Non a caso pochi giorni fa il presidente dell’Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri italiani, Alessandro Vergallo, ha dichiarato: «Se l’andamento dei casi di infezione da Sars-cov-2 continuerà con i ritmi ed i numeri attuali, e senza misure di ulteriore contenimento, stimiamo che in meno di un mese le terapie intensive al Centro-Sud, soprattutto in Lazio e Campania, potranno andare in sofferenza in termini di posti letto disponibili».
La buona notizia è che comunque, al momento di andare in stampa, il numero dei ricoverati in terapia intensiva cresce molto più lentamente del numero dei contagiati ed i letti occupati (solo il 6% del totale, dati del 10 ottobre) sono ancora ben lontani dalla saturazione. Il picco si ha appunto in Campania, seguita dal Lazio e dalla Lombardia.

Ben poco comunque è stato fatto nei mesi estivi per rafforzare la medicina pubblica sul territorio e ora le scene quasi apocalittiche a cui si assiste all’esterno delle poche strutture abilitate per i tamponi, non solo provocano disagio e timore nei cittadini, ma rischiano seriamente di diffondere ulteriormente il virus nella calca che si crea inevitabilmente al di fuori dagli ambulatori.
Altro che movida, i cittadini non vanno criminalizzati, vogliono solo comprendere bene cosa sta accadendo e avere regole certe da seguire. Servizi ed accesso alla sanità, ai trasporti e alla scuola adeguati e pubblici, dotati dei giusti supporti per poter ben funzionare nell’interesse di tutti. A tal proposito è…

L’articolo prosegue su Left del 16-22 ottobre 2020

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Il partigiano Mario Fiorentini: «Attenzione all’inganno dell’uomo solo al comando»

Rai news 24

«Provenivo da una famiglia di origine ebraica, durante gli anni dell’adolescenza per fortuna – non avendo fatto il liceo – non ero stato assorbito dal regime e dalla sua propaganda manipolatoria», racconta il partigiano Mario Fiorentini che il 7 novembre compie 102 anni. E ci immergiamo subito nella sua storia.
Quando e perché il giovane Mario Fiorentini, nome di battaglia Giovanni, decise di entrare nella Resistenza e di far parte dei Gap?
I fatti avvennero in modo molto precipitoso e ci trovammo in guerra. Io ero stato chiamato al servizio militare, ma una enterocolite mi aveva tenuto mesi a letto, altrimenti mi avrebbero spedito in Africa. La caduta del regime l’8 settembre 1943, risvegliò molte coscienze dal torpore imposto con la forza dal fascismo: quell’inevitabile indottrinamento dei giovani, era un atto deliberato per piegarne la coscienza ai voleri del regime. Dopo l’8 settembre crebbe la consapevolezza della necessità di agire, di non essere complici, anche sfidando le imposizioni dovute allo stato di guerra. Vivevamo in un clima di pericolo continuo: cercarono di portare via i miei genitori per deportarli ad Auschwitz e solo l’eroismo di mia madre salvò mio padre da morte certa, era la dimostrazione che dovevamo combattere per riconquistare una nuova dignità, una presa di coscienza personale della necessità di ribellarsi, non solo alle ingiustizie contro noi ebrei, ma soprattutto contro la barbarie della guerra in cui ci avevano trascinato con l’inganno.

Lo storico Claudio Pavone ha scritto che la Resistenza fu: guerra civile, guerra di liberazione e guerra di classe; secondo lei sono valide tutte e tre le interpretazioni?
Sì certo, soprattutto fu una guerra di liberazione da un regime oppressivo le cui astute menzogne, diffuse tramite la pervadente propaganda di regime, con la crisi successiva agli anni di guerra, mostrarono tutte le proprie incoerenze e fragilità e misero in luce gli inganni abilmente nascosti al popolo.

Come si viveva e si moriva a Roma, durante i nove mesi dell’occupazione, sotto i bombardamenti, e perché i romani odiavano così tanto i tedeschi?
Quando l’esercito nazista entrò a Roma, sfilarono silenziosamente nella città; io e Lucia, il giorno del loro arrivo in via Zucchelli, li vedemmo entrare quasi solenni, minacciosi e determinati, mi ricordo che dissi: “Siamo in un cul de sac, siamo in trappola, poiché i rischi che correvamo, avendo questo temibile nemico dentro casa”. Era un pericolo tangibile da cui non si poteva più scappare. Sapevamo che finire nelle loro mani equivaleva a essere torturati e uccisi, mi ricordo ad esempio un giorno, io e Trombadori che era il mio comandante, eravamo in un appartamento in via Giulia dove, in clandestinità, alcuni artificieri che facevano parte della Resistenza, confezionavano bombe rudimentali e altre armi, con cui avremmo potuto attaccare e difenderci dai nazisti. Quel giorno uscimmo giusto in tempo da quello stabile, dove, forse per colpa di qualche delatore, i nostri compagni vennero catturati e portati via. Sapemmo in seguito che, dopo essere stati torturati, vennero uccisi dai fascisti rimasti nella Capitale.

Questione di minuti…
Per puro caso c’eravamo salvati: aleggiava questo pericolo incombente e oppressivo, per puro caso potevamo venir catturati, torturati e uccisi. Noi eravamo poco e male armati, anche perché, fino ai momenti difficili dello sbarco di Anzio non era visto bene il fornire di armi delle forze autoctone di Resistenza con fede politica comunista; poi la necessità ci fece superare questa iniziale diffidenza. La città era divisa in zone, per fortuna la popolazione era dalla nostra parte e ci dimostrò solidarietà in molti episodi; se li avessimo avuta contro, molti di noi sarebbero stati catturati. Combattevamo una guerra impari con un nemico armato fino ai denti e educato alla crudeltà spietata e marziale della disciplina militare nazista, dovevamo, seguendo le indicazioni anche degli alleati, cercare di colpire duramente per fiaccare le retrovie tedesche che spesso transitavano a Roma, dopo periodi al fronte impegnati nella guerra contro le forze alleate.
Io credo che la città, ormai indebolita e terrorizzata dalle bombe, consapevole del cambio repentino rispetto alle bugie del regime fascista, non tollerasse più questi soldati che spadroneggiavano per Roma, ci fu una presa di coscienza, alcuni romani decidessero di ribellarsi e combattere nemico.

Come ha conosciuto Lucia Ottobrini, l’amore della sua vita?
Con Lucia ci siamo conosciuti a un concerto di musica classica, che durante il fascismo erano tenuti a Roma all’aperto. Lei e la sorella Delia parlavano francese, ci siamo conosciuti che era giovanissima per un colpo del destino. Lei ricordava sempre che, dopo avermi conosciuto pensò «questo è il mio ragazzo» e infatti quel nostro amore, nato fra un conflitto e momenti di paura, affrontati con un coraggio incredibile, ci ha poi legato per tutta la vita avendo vissuto una guerra terribile e la morte di un figlio ventunenne.

Siete stati insieme più di 72 anni…
Lucia è stata la persona più importante della mia vita, e mi ha permesso, non solo di combattere e rimanere salvo in una guerra straziante e terribile come la Resistenza, ma anche dopo, mi ha permesso di diventare l’uomo e il matematico che sono; credo di dovere a lei e ai suoi sacrifici tutto quello che ho ottenuto nella vita e soprattutto la consapevolezza che l’umanità che era nel suo cuore, ti permettono di restare umani e veri anche dopo aver affrontato tutte le tragicità, l’alsaziana che amava i tedeschi e combatteva i nazisti. «La guerra è morte» diceva sempre, perché per lei, cattolica, era impensabile per sopravvivere, dover combattere e difendersi da altri esseri umani, uomini che avevano scelto di essere soldati, che obbediscono agli ordini e forse anche per questo lei non amava parlare delle azioni che abbiamo dovuto compiere in quegli anni terribili.

Come ricorda Rosario Bentivegna (Paolo) e Carla Capponi (Elena) suoi compagni dei Gap?
Di Bentivegna potrei dire tanto: all’inizio era osteggiato da alcuni nostri compagni in quanto trotskista, poi si è distinto in tante azioni insieme a noi, anche quella dall’esito tragico di via Rasella: in quell’azione, io ero contrario all’utilizzo del carretto e di quella quantità di esplosivo, pensavamo più a un’ azione dimostrativa, il comando invece insistette a procedere con quelle modalità, poi le bombe a mano legate alle cinture del battaglione Bozen ampliarono notevolmente l’esplosione. Si è parlato tanto di quell’azione e dei suoi effetti, col rastrellamento e l’eccidio delle Ardeatine; spesso s’è voluto far apparire una azione legittima, contro un nemico implacabile e determinato come un’azione di cui noi partigiani non volevamo prenderci la responsabilità; la verità fu che il comando tedesco dovette, per ordine di Hitler, compiere l’eccidio di nascosto, come reazione alle perdite di soldati tedeschi, con la famosa proporzione 10 italiani per ogni tedesco, compiendo un arbitrio e cercando poi di dipingerci come dei vigliacchi che non si erano presentati, mentre fu un’ azione premeditata da parte loro, fatta in segreto per evitare una sommossa popolare.

E Carla Capponi?
Lei entrò nella Resistenza in seguito a delle riunioni tenute in casa sua: veniva da una famiglia borghese antifascista, loro vivevano vicino a piazza Venezia e in quella casa spesso si discuteva animatamente fino a tarda notte. Anche lei partecipò a molte azioni e fu molto coraggiosa, in una di queste, ci si erano inceppate le pistole e lei salvò la vita a me e Lucia colpendo a morte un ufficiale nazista; questo è solo un piccolo esempio di come, entrando nella Resistenza, le nostre vite erano legate ai nostri compagni e al proteggerci l’un l’altro.

L’azione di via Rasella fu atto di guerra riconosciuto da tutti i tribunali, ciò nonostante è stata oggetto di polemiche, soprattutto da certa stampa di destra che parla di responsabilità dei Gap nell’eccidio delle Fosse Ardeatine; vuole confermare ai nostri lettori quanto è già stato appurato sulla questione, perché ancora oggi molti parlano di manifesti e di inviti a presentarsi al Comando tedesco?
La Resistenza e tutte le attività del Cln evitarono al Paese un numero ben maggiore di bombardamenti con molte più vittime fra i civili, quando l’esercito alleato risalì dal Meridione e poi con lo sbarco di Anzio. Il fatto di avere il nemico tedesco impegnato sia sul fronte alleato e anche in attività di contrasto alla guerriglia urbana interna, risparmiò dai bombardamenti gran parte della popolazione civile: spesso di questo non si tiene conto; quelli che parlano di questi inviti nazisti, cadono in un tranello molto abile messo a punto dagli occupanti. Fu un’attività di abile propaganda, nata per screditare le nostre legittime azioni di guerra e farci passare per terroristi, incuranti delle conseguenze delle nostre azioni, non fu diramato nessun comunicato, perché si sarebbero presentati moltissimi parenti dei rastrellati. Sulla legittimità del diktat imposto dai nazisti, lanciato per scoraggiare qualsiasi nostra azione con la minaccia della repressione sanguinosa, penso che chi dà per scontata una tale imposizione abbia dei pregiudizi di fondo. Per noi che ci eravamo ribellati al regime e vedevamo questo nemico invasore crudele e implacabile, c’era il rischio tangibile di venir imprigionati, torturati e uccisi e quindi non potevamo accettare quel diktat, era una necessità combatterlo, per sopravvivere. Tutta l’operazione di ritorsione brutale venne fatta di nascosto soprattutto per motivi militari e cercava di scongiurare che quell’ordine sanguinario potesse far rivoltare l’intera città contro di loro.

La mancata Norimberga italiana, cioè la mancata condanna dei fascisti, responsabili di crimini di guerra, ha ostacolato il ripristino della democrazia?
Io sono stato insignito dal governo americano della medaglia Donovan, col grado di maggiore, come ufficiale coordinato dell’esercito americano di Liberazione per le numerose azioni soprattutto al Nord. Ma la Resistenza, che voleva ridare dignità alla nostra patria, non poteva cancellare l’errore dell’alleanza dei fascisti con i nazisti tedeschi. In seguito agli accordi di Parigi, l’Italia, come Paese sconfitto, avrebbe salvaguardato, sul piano legale e processuale, tutte le azioni compiute dai gruppi partigiani in guerra, in quanto ispirate alla collaborazione fra esercito di liberazione e alleati nel combattere i nazisti e liberarci dal fascismo. Questa risoluzione poneva però dei problemi sul piano pratico e anche politico. Innanzitutto occorreva creare un clima di riappacificazione e collaborazione nell’ottica di ricostruire un Paese distrutto da una guerra persa, e dovevamo ispirarci a quei valori di coesione sociale ed eguaglianza solidale, che erano stati manipolati dal corporativismo fascista sin dalle origini. I padri Costituenti avevano in mente il ripristino di tutti quei diritti che erano stati cancellati di fatto dal regime e che poi ispirarono le linee guida della nostra Costituzione .
In secondo luogo l’Italia aveva vissuto per vent’anni in un regime che aveva imposto uomini nei ruoli chiave della gestione del Paese e una epurazione tout court, sarebbe stata complicata e irrealizzabile.

Ritenne giusta l’amnistia voluta da Togliatti nel 1946?
Si è scelto, nella gestione della ricostruzione, di non guardare indietro e non cercare i colpevoli, eccezion fatta per le azioni più gravi, s’è cercato di credere alla buona fede che in futuro avrebbe animato le coscienze dei singoli e della collettività, tutti insieme per condividere pacificamente questa realtà nuova, non più sudditi di un regime, ma uniti per un bene comune: occorreva capire il cambiamento e Togliatti preferì cercare di mettere pace in un Paese dilaniato da una guerra civile, guardando al futuro e confidando che, tolte le storture del regime, la nostra nuova Repubblica avrebbe reso efficienti le nuove regole e più giusta la società. D’altronde gli ideali di progresso materiale, ispirati alle idee socialiste di evoluzione industriale di un Paese moderno, dovevano, col benessere materiale, creare le condizioni politiche per le scelte dei nuovi governi che dovevano guidare il Paese.

Lei è stato grande combattente ma anche un matematico di fama internazionale; quale importanza ha avuto questa scienza nella sua vita?
La matematica è stato l’inizio della mia terza vita dopo l’amore per la cultura, la frequentazione degli ambienti artistici italiani e la lotta di Resistenza fatta per salvaguardare la nostra patria. La mia nuova vita da matematico fu una vera avventura: devo a mia moglie Lucia, oltre che ai miei sforzi, il fatto di aver potuto studiare in quegli anni difficili, mentre lei si occupava della famiglia e lavorava. Ero uno studente lavoratore con famiglia, i maestri di quegli anni mi fecero scoprire un modo nuovo di vedere il mondo e la bellezza della logica matematica; mi sono inoltrato nel campo della geometria algebrica, venendo a conoscenza delle teorie matematiche allora all’avanguardia del gruppo dei Bourbaki e di Groethendiek. E ho impegnato tutta la mia vita, dal dopoguerra in poi, nello studio, scrivendo teoremi e incontrando professori e studenti impegnati nella comprensione di questa affascinante materia. “La serva padrona”, la definisco scherzando, poiché la logica che la sottende e i risultati puntuali che si cerca di ottenere permettono una visione più ampia e di intersezione con il pensiero umano. Viviamo in un’epoca di collaborazione e scambio di conoscenze e aver studiato e poi insegnato matematica mi ha permesso di vivere questo nuovo clima di collaborazione fruttifera anche fra Paesi, dopo gli anni bui del fascismo e dei suoi baroni universitari: è stata una fortuna poter incontrare e scambiare esperienze con tanti professori di studi matematici, in ambito internazionale, forse uno degli arricchimenti maggiori della mia vita.

Lo studio della storia e una corretta informazione, potrebbero contrastare questa sciagurata avanzata delle destre nel nostro Paese?
È molto difficile dirlo, probabilmente sì. Il regime democratico e la situazione internazionale hanno in sé gli anticorpi e le regole per contrastare questi populismi nazionalisti che stanno facendo proseliti, occorre avere delle chiavi di lettura della storia il più possibile complete e approfondite, le motivazioni che indussero un popolo a cedere progressivamente libertà, diritti e democrazia ad un regime fascista. L’Italia del tempo doveva scongiurare il rischio bolscevico, ma un filo che lega i totalitarismi europei del ’900 fu costituito da un insieme di fattori: innanzitutto aderirono alle dittature tutti quei Paesi in mano alle monarchie più retrive e belligeranti, le nazioni democraticamente meno sviluppate e dove un certo tipo di coscienza di classe e lo status quo erano più forti, inoltre sia i ceti militari in Russia, che i reduci in Italia, appartenenti ai Fasci di combattimento, furono fra i protagonisti di questi attacchi alla democrazia rappresentativa; poi ci furono la guerra civile in Spagna e le lotte fra socialisti e fascisti in Italia, in particolare l’inganno semantico operato dal regime con il Manifesto del fascismo, cercò di illudere il popolo che le istanze egalitarie collettiviste si sarebbero sposate con lo status quo dei ceti elevati. Questa menzogna veicolava un concetto usato ancora oggi dalla propaganda. Il nazionalismo pone l’individuo sempre nella difesa del suo passato, della sua identità, è una logica che guarda indietro. Se si pensa invece a figure come Giorgio Marincola, un partigiano di origine somala che ha combattuto per la liberazione dal fascismo, pagando con la vita, negli ultimi giorni di guerra, si capisce quanto siano universali le lotte per la libertà di tutti e lo sguardo al futuro.

Come possiamo avvicinare i ragazzi e le ragazze di oggi, ai valori resistenziali e della sinistra?
Innanzitutto occorrerebbe applicare la nostra Costituzione, i valori democratici che essa rappresenta e che spesso le nuove generazioni danno per scontata. Per questa nostra Carta sono morti molti compagni e compagne. Bisogna studiare la storia cancellando l’idea fasulla che il fascismo rappresenti l’anno zero del nostro Paese. L’Italia ha vissuto gli anni più bui, dopo le lotte risorgimentali e la guerra mondiale, sotto il fascismo; il sacrificio di Matteotti, di Gramsci e di tutti i partigiani torturati e uccisi dovrebbero far riflettere molto di più i giovani e magari avvicinarli a figure come quella di Calamandrei.

Oggi in molti si battono per l’ambiente, la pace, i diritti umani, contro le disuguaglianze, e il razzismo; sono questi i nuovi partigiani?
Le nuove sfide che ci attendono in questa crisi sono più complesse e impegnative che mai. La pandemia di oggi ha mostrato che una società deve coniugare solidarietà e rispetto delle regole, se vuole superare integramente gli sconvolgimenti di una crisi sanitaria. Nella crisi pandemica attuale, un regime dittatoriale sembra uscirne indenne con le condizioni sanitarie imposte; credo sia questo un segno tangibile dei rischi che corriamo, ancora una volta, come un secolo fa. La grande sfida delle democrazie occidentali oggi, è quella di non farsi accecare dalla falsa sicurezza di una dittatura, dal potere dell’uomo forte, ma di cercare una forma di sviluppo e cooperazione, che non porti le potenze mondiali al confronto militare per l’egemonia delle risorse materiali e dei mezzi di produzione.

L’articolo è stato pubblicato su Left del 16-22 ottobre 2020

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Ci vogliono credenti. Ma sono credibili?

Con un paziente lavoro di raccolta di atteggiamenti e dichiarazioni Fabio Chiusi racconta la parabola di Luca Zaia nei confronti dell’app Immuni, quella che nelle intenzioni avrebbe dovuto aiutare la fase di tracciamento dei contatti dei positivi (che funziona poco e male) e che il governo ha fortemente sponsorizzato mentre una parte dell’opposizione ha osteggiato fin dall’inizio. Matteo Salvini, per dire, proprio ieri ha raccontato di non avere scaricato l’app perché sua figlia gli “incasina sempre il telefono”. Siamo un Paese così. Messo così.

Tornando a Zaia si torna al 26 marzo quando il presidente del Veneto proponeva di “sospendere la privacy” per garantire il tracciamento. Disse Zaia: «in questo Paese sono convinto che in questo momento bisognerebbe sospendere le norme sulla privacy e lasciare ai sistemi sanitari di essere un po’ più liberi». E si lanciò addirittura a proporre Israele come modello: «sulla tracciabilità abbiamo disponibilità anche da Israele per la verifica degli spostamenti con sistemi intelligenti», disse.

Il 20 aprile chiede addirittura che l’app sia obbligatoria e che i vigili possano controllare: «se noi passeggiamo per strada un vigile può controllare che abbia guanti e mascherine e poi chiedere di vedere il telefono, per verificare che la app sia accesa». Ci si immagina quindi che Zaia ci tenga veramente moltissimo all’utilità dell’app, a differenza del capo del suo partito.

Il 21 maggio Zaia cambia idea e dice che l’app è stata poco scaricata per le «giuste preoccupazioni di privacy e gestione dati». Quella stessa privacy che voleva abolire. Ma va bene così.

Arriviamo al 3 giugno quando il presidente del Veneto ci delizia con un’altra dichiarazione: «l’app immuni ha due grandi limiti il primo è che non sa dove finisce il gran bagaglio di dati, il secondo che rischia di mettere in crisi l’ossatura della sanità». Come possa entrare in crisi l’ossatura della sanità sapendo dei contatti a rischio è un mistero.

Arriviamo al 14 ottobre quando si scopre, grazie a una segnalazione del Corriere del Veneto che il database di Immuni nella regione non è mai stato aggiornato. Sostanzialmente l’app Immuni nel regno di Zaia è inutile.

E, badate bene, stiamo parlando di uno di quei presidenti che nei tempi della pandemia è stato ritenuto tra i più “credibili” e che ha sempre mostrato il pugno di ferro. Zaia dovrebbe essere, secondo molti, il compagno bravo e buono di Salvini. Però questa breve cronistoria ci pone un problema sostanziale che stiamo vivendo in questi mesi: la comunicazione della politica (tutta, mica solo Zaia) durante la pandemia è stata pessima, discordante, incoerente e spesso molto superficiale. Il governo e le regioni hanno dondolato tra dichiarazioni e scelte (spesso che si smentivano l’una con l’altra) che chiedono ai cittadini di “fidarsi ciecamente” di decisioni che forse sarebbe il caso di spiegare e di motivare con più cura, con più responsabilità e con più precisione. Perché altrimenti lo sforzo sembra quello di allevare cittadini credenti piuttosto che amministratori credibili. No?

Buon venerdì.

Diritto alla salute: regione che vai…

A medical worker performs swabs as drivers line up at a drive-through testing facility for COVID-19 on April 24, 2020 in Rome during the country's lockdown aimed at curbing the spread of the COVID-19 infection, caused by the novel coronavirus. (Photo by Laurent EMMANUEL / AFP) (Photo by LAURENT EMMANUEL/AFP via Getty Images)

La gola che inizia a pizzicare. Qualche colpo di tosse di troppo. E poi la linea di mercurio che oltrepassa la fatidica soglia dei 37.5 gradi. Nulla di grave, è una forma di malessere comune quando i primi freddi d’autunno ci fanno dire definitivamente addio alla bella stagione. Non ci sarebbe bisogno di preoccuparsi, se ci trovassimo in tempi normali. Ma la seconda ondata della pandemia, al primo sintomo sospetto, ci costringe a stare all’erta. E a correre ai ripari.

E allora si resta a casa, si prova a mantenere le distanze pure coi propri familiari o conviventi e ci si rivolge al medico per valutare se fare accertamenti. E qui comincia l’odissea che stanno affrontando migliaia di persone che vivono nel nostro Paese. Tra centralini Covid subissati di chiamate, postazioni drive-in per fare i tamponi con code da esodo estivo (fino a 270 auto incolonnate nei centri della Capitale), le squadre che vanno a casa dei sintomatici – le cosiddette Usca – che non riescono a stare dietro alle richieste, laboratori privati che offrono percorsi privilegiati a prezzi talvolta esagerati per chi si può permettere di bypassare la sanità pubblica. Ma le variabili cambiano, non di poco, da regione a regione. Gli otto mesi e mezzo trascorsi dai primi casi confermati di coronavirus in Italia non sono bastati per mettere in piedi un sistema di prevenzione, testing e tracciamento capace di muoversi all’unisono. E così, da Bolzano ad Agrigento, il diritto alla salute dei cittadini viene negato in varie misure.

I sintomi citati qualche riga sopra li ho avuti anche io. Vivo a Roma da molti anni, ma ho ancora in Toscana residenza e medico di base. Provo a contattarlo, ma non può fare nulla. La struttura pubblica in cui potrei mettermi in fila per il tampone molecolare è vicina, ma per accedere c’è bisogno della ricetta di un medico “di famiglia” del Lazio. Chiamo allora il numero verde regionale. Una voce premurosa mi spiega che tutto sommato ho un quadro clinico per cui potrei anche non avere il Covid. È sabato, e mi fa capire che, se le mie condizioni non fossero peggiorate, molto difficilmente qualcuno sarebbe venuto a visitarmi, ed eventualmente a prescrivere accertamenti, prima della settimana successiva. Il suggerimento è di aspettare qualche giorno e richiamare se le cose non migliorano. Passano quattro giorni e la…

Il reportage prosegue su Left del 16-22 ottobre 2020

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Fratelli d’Italia

Supporters of the Greek ultra nationalist party Golden Dawn hold Greek flags and torches during a rally in Athens, Greece on February 3, 2018. Supporters of Golden Dawn gathered to commemorate the death of three Greek military officers during Imia crisis in 1996. A greek army helicopter crashed on January 31, 1996 in the Imia islets, at the Greek-Turkish sea borders. (Photo by Giorgos Georgiou/NurPhoto via Getty Images)

Una staffetta partigiana, la consegna di un simbolico passaggio di testimone e una importante responsabilità nella lotta ai neofascismi in Europa: Atene chiama Bari. La sentenza storica che il 7 ottobre 2020 ha concluso il processo ad Alba dorata – dichiarata organizzazione criminale, responsabile dell’omicidio di Pavlos Fyssas e numerose altre aggressioni – si lega direttamente con un filo nero all’inizio del processo contro CasaPound Italia, il 12 ottobre a Bari. Tra le imputazioni, la ricostituzione del partito fascista (ai sensi della Legge “Scelba” n. 645 del 1952), oltre che l’aggressione squadrista del 21 settembre 2018: una «spedizione punitiva atta ad offendere, colpire e reprimere indiscriminatamente qualunque soggetto avesse partecipato alla manifestazione con corteo dichiaratamente “antifascista”», si legge nel verbale che ha già disposto il sequestro preventivo della sede di CasaPound nel capoluogo pugliese.

Il filo nero tra Atene e Bari è costituito simbolicamente anche da una data: il 21 settembre 2018. A Bari, era da poco terminata la manifestazione antifascista e antirazzista “Bari non si lega”. Sulla via del ritorno, incontriamo due giovani donne con due bambine, all’angolo tra via Crisanzio e via Eritrea, fortemente preoccupate per un minaccioso schieramento di uomini nella strada che devono attraversare. Ci fermiamo con le ragazze per non lasciarle sole, per istintiva solidarietà: in fondo alla strada c’è la sede di CasaPound e quello schieramento preoccupa le due donne, che oltretutto non hanno la pelle sufficientemente chiara per quei signori vestiti di nero. Dopo pochi secondi quello schieramento si muove velocemente verso di noi: ci intimano di andarcene perché lì comandano loro, partono le minacce, l’aggressione verbale e fisica con manubri da palestra, cinghie, tirapugni. Una aggressione «premeditata» e «unilaterale», si legge sempre dal verbale che dispone il sequestro.

Lo stesso giorno, il 21 settembre 2018, ad Atene Zak Kostopoulos, attivista Lgbtqi, veniva…

 

L’autrice: Eleonora Forenza è stata deputata al Parlamento europeo dal 2014 al 2019 per la coalizione L’altra Europa per Tsipras (gruppo Gue/Ngl)

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Le relazioni pericolose

Alba dorata non è un partito politico ma un’organizzazione criminale. Questa la sentenza pronunciata il 7 ottobre scorso dalla Corte d’Appello di Atene nei confronti di ben 68 esponenti   dell’organizzazione, praticamente l’intero gruppo dirigente, giunta al termine di un lunghissimo processo durato cinque anni e mezzo. Alla sbarra erano finiti Nikos Michaloliakos, fondatore e leader del gruppo, accusato insieme ad altri 17 dirigenti (tra loro nove ex parlamentari) di essere il mandante dell’assassinio del rapper antifascista Pavlov Fyssas, 34 anni, ucciso il 18 settembre 2013 in un quartiere del Pireo da Yorgos Roupakias, un attivista dell’organizzazione reo confesso, nonché di altri due tentati omicidi sempre al Pireo: contro alcuni pescatori egiziani e un gruppo di attacchini comunisti. Il resto dei 68 imputati doveva rispondere delle responsabilità materiali di queste e di altre aggressioni a migranti, sindacalisti e antifascisti, a partire dal 2012.

Quando è stata letta la sentenza un gigantesco boato di approvazione si è levato dalle oltre 15mila persone che si erano radunate davanti all’edificio, convocate da partiti, movimenti di sinistra e gruppi antifascisti. Un esito tutt’altro che scontato con il pubblico ministero praticamente allineato sulle posizioni della difesa a sostenere l’innocenza del capo del partito, dei membri del Consiglio nazionale e del vecchio gruppo parlamentare. L’unico da condannare, secondo la procuratrice della Repubblica, era l’assassino Roupakias. Ora secondo il sistema penale greco l’ammontare delle pene verrà comunicato in seguito. Il killer di Pavlov Fyssas rischia l’ergastolo, mentre per Michaloliakos e gli altri dirigenti le pene dovrebbero oscillare tra i 5 e i 15 anni.

La parabola di Alba dorata
Alba dorata, Chrisì Avgì in greco moderno, era stata fondata attorno alla metà degli anni Ottanta da Nikos Michaloliakos, 62 anni, nostalgico del regime dei colonnelli (da giovanissimo aveva militato nel Movimento 4 agosto di Konstantinos Plevris) oltre che convinto negazionista dell’Olocausto, allontanato dall’esercito greco per possesso illegale di armi da fuoco. Ufficialmente come partito politico Alba dorata verrà però registrata solo nel 1993. Il suo simbolo, apparentemente un innocente meandro su sfondo rosso, richiama in realtà una svastica. Non a caso. «È un partito nazista, che ha assunto in…

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Sciogliere le formazioni neofasciste, subito

Per anni hanno imperversato, seminando terrore in Grecia con azioni squadriste contro venditori ambulanti, centri sociali di sinistra, arrivando anche ad uccidere. Nel 2012 la formazione fascista Alba dorata aveva ottenuto 21 seggi in Parlamento con il 7% dei voti. Sembravano inarrestabili. Il 7 ottobre 2020 finalmente, la svolta: il processo di Atene ad Alba dorata si è concluso con una sentenza storica. È stata dichiarata organizzazione criminale, responsabile dell’omicidio del musicista e militante antifascista Pavlos Fyssas nel 2013 e di numerose altre aggressioni. Con tutta evidenza la questione della messa al bando delle formazioni fasciste non è qualcosa che riguardi il passato. È più che mai necessaria oggi.

Non riguarda solo l’Europa del Nord dove un movimento neonazista lo scorso settembre progettava 20 attacchi antisemiti nel giorno dello Yom Kippur in Danimarca, Svezia, Norvegia e Islanda. Spicca positivamente la reazione della Finlandia che ha prontamente bandito il gruppo che pare abbia centinaia di membri nei Paesi scandinavi.

Non riguarda solo la Germania dove manifestazioni no mask e negazioniste del Covid vedono la partecipazione di gruppi neonazisti, e dove, a inizio ottobre sono emerse attività di estrema destra nella polizia, nell’esercito e nei servizi di intelligence. (Addirittura una intera compagnia di forze speciali è stata sciolta per questo motivo).

Non riguarda solo gli Usa dove l’attuale presidente Trump da sempre flirta con gruppi fondamentalisti religiosi e personaggi filonazi come Dave Duke e ora plaude ai Proud boys, un violento movimento che inneggia alla supremazia bianca. Negli Stati Uniti che si preparano alle presidenziali, pochi giorni fa, è stata scoperta l’attività criminale di una formazione di estrema destra che nel Michigan intendeva rapire la governatrice democratica e pianificava azioni di destabilizzazione per creare un clima da “guerra civile”.

Non è neanche una questione che riguardi solo autocrazie come la Russia di Putin, accusato di finanziare gruppi di estrema destra in varie parti d’Europa.

La messa al bando di formazioni neo fasciste è qualcosa che ci riguarda da vicino. Sciogliere gruppi che si auto definiscono fascisti del nuovo millennio è urgente in Italia. Come impongono la nostra Costituzione nata dall’antifascismo e la legge Scelba del 1952.

Il processo che si è aperto il 12 ottobre a Bari contro CasaPound finalmente punta a fare giustizia su quel che avvenne il 21 settembre del 2018 quando l’europarlamentare Eleonora Forenza, il suo assistente parlamentare Antonio Perillo e altri attivisti furono aggrediti e pestati a sangue al termine di una pacifica manifestazione antirazzista e contro Salvini. 

Gli esponenti di CasaPound alla sbarra a Bari sono accusati di aggressione squadrista ma anche di ricostituzione del partito fascista. Di quella gravissima vicenda ci occupammo molto su Left. Anche per l’importante azione politica che ne seguì: coinvolgendo altre due parlamentari europee, Ana Miranda e Soraya Post, Eleonora Forenza stilò una risoluzione per la messa al bando delle formazioni neofasciste. L’approvazione di quella risoluzione da parte del Parlamento europeo nell’ottobre del 2018 fu un atto di grande valore, anche sul piano simbolico.

Anche per questo abbiamo chiesto a Forenza di inviarci una sua testimonianza oggi. Accanto al suo contributo troverete la puntuale (e spiazzante) ricostruzione dei fitti rapporti fra Alba dorata e formazioni neofasciste italiane ed europee fatta da un attento studioso come Saverio Ferrari dell’Osservatorio democratico sulle nuove destre. Ma anche l’appassionato e appassionante dialogo a distanza fra il partigiano Mario Fiorentini (che il 7 novembre compie 102 anni) e lo studente liceale Gabriele Bartolini che a 14 anni decise di iscriversi all’Anpi, Non è il solo.

La ventiduenne Valentina Tagliabue, alla guida del circolo di Cesano Maderno, in Brianza, è la più giovane presidente Anpi d’Italia. Patria indipendente, la rivista dell’Anpi riporta che sono il 10% gli iscritti juniores fra i 18 e i 30 anni. Non credono alle scorciatoie populiste che offrono soluzioni veloci per problemi complessi, rifiutano l’uso della forza contro i deboli, chi semina odio e costruisce capri espiatori. «Io sono femminista, antirazzista, sono per la laicità dello Stato e per i valori della Costituzione, vivo per una società che non adotti la disumanità come legge», scrive Bartolini. Ecco cosa significa essere partigiani e antifascisti oggi.

L’editoriale è tratto da Left del 16-22 ottobre 2020

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SOMMARIO

Rimozione collettiva fallita

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 13 Ottobre 2020 Roma (Italia) Cronaca : Il personale sanitario dell’ospedale San Giovanni Addolorata si occupa dei numerosi tamponi che vengono effettuati al drive in e nell’ambulatorio Nella Foto : lo staff al lavoro nel drive in Photo Cecilia Fabiano/LaPresse October 13 , 2020 Roma (Italy) News : The sanitary staff of the San Giovanni Addolorata hospital takes care of the numerous covid swabs that are carried out at the drive in and in the clinic In The Pic : The staff working in the drive in

In fondo è un atteggiamento psicologico che si conosce bene, in cui si cade spesso, convincersi che qualche pericolo sia passato senza che nessun fatto lo dimostri, solo per quella sensazione di passeggero benessere che incrociamo in un momento e che ci invita a deresponsabilizzarci per essere più leggeri. Così è accaduto quest’estate in cui il Covid era sparito mica solo nei numeri ma anche e soprattutto nei pensieri, negli affanni, negli interessi e, ancora peggio, nella programmazione di quello che sarebbe venuto.

La sensazione, a vederla oggi con i numeri che ricominciano a risalire, si direbbe che la rimozione collettiva della pandemia sia miseramente fallita e sia stata una vacanza che forse non ci si doveva concedere, soprattutto quelli che si ritrovano a essere classe dirigente e responsabile di un Paese che affronta la cosiddetta “seconda ondata” di cui tutti parlavano, già prima dell’estate, di cui molti scrivevano e che da alcune settimane era già negli accadimenti degli Stati vicini a noi.

Se davvero lo Stato decide di essere paternalista con i suoi cittadini, ancora una volta, allora risponda anche ai dubbi che sorgono di fronte alla situazione attuale, ci spieghi esattamente come può accadere che già ora sia rientrato in crisi il sistema dei tamponi, ci dica dov’è finito quel benedetto piano di Crisanti che è rimasto inascoltato (e che di tamponi ne prevedeva 300.000 al giorno), perché è accaduto (lo dice il consulente del ministro Speranza Walter Ricciardi) che molte regioni del sud si siano “addormentate” facendosi trovare impreparate di fronte al prevedibile, ci diano per favore i numeri esatti dell’aumento di terapie intensive che era stato promesso e che non si riesce a verificare, ci dicano come pensavano di risolvere il tema dei trasporti pubblici.

È vero che ci sono alcuni cittadini incauti ed è vero che ora da parte di tutti serve una maggiore attenzione ma questi mesi estivi dovevano essere il tempo utile per essere pronti a quello che accade in queste ore ed è troppo facile, troppo banale e perfino offensivo raccontarci che il problema siano gli alcolici dopo le 24. La rimozione collettiva (fallita) non è solo opera dei dubbiosi e dei negazionisti ma è stata anche una superficialità di pezzi di governo e di regioni e la sensazione di essere arrivati impreparati scotta terribilmente. Sentire il presidente della Lombardia Fontana che parla di “movida” mentre non è riuscito a procurarsi il vaccino antinfluenzale che serve per tutti i fragili della sua regione rilancia un vecchio adagio che sarebbe il caso di non ripetere: se ci ammaliamo è colpa nostra e se non ci ammaliamo è merito loro. Basta, dai, un po’ di serietà, su.

Buon giovedì.

Le accuse assurde di un giudice spagnolo per “far fuori” Pablo Iglesias

Spain's second Deputy Prime Minister Pablo Iglesias arrives to take part in a parliamentary session in Madrid, Spain, Wednesday May 6, 2020. Spanish Prime Minster Pedro Sanchez is appearing before Spain's Parliament on Wednesday to ask for a fourth two-week extension of the state of emergency that has allowed his government to apply a strict lockdown in response to the COVID-19 outbreak. It appears he will have the support despite losing the backing of the main opposition party. (J.J. Guillen, Pool Photo via AP)

La magistratura spagnola è un’istituzione dove il passaggio del ’78 dalla dittatura franchista alla democrazia costituzionale stenta a notarsi tanto che ancora oggi, dopo più di 40 anni, quella transizione mostra i suoi limiti e continuano a prevalere tra i giudici orientamenti conservatori e di destra, se non proprio franchisti. E non sembra esserci alcuna possibilità di cambiamento finché in Parlamento le opposizioni, in particolare il Partito popolare (Pp), boicottano il rinnovo del Tribunale costituzionale e del Consiglio generale del potere giudiziario, il massimo organo di autogoverno dei giudici. Ciò nonostante sorprendono i fatti accaduti negli ultimi giorni che rivelano vere trame di una giustizia ad uso e consumo del Pp e delle destre per far cadere il governo progressista di Sánchez.

Il giudice Manuel García-Castellón ha infatti chiesto al Tribunale supremo di incriminare Pablo Iglesias, segretario di Podemos e vicepresidente del governo di Spagna, trasformandolo da parte lesa in una provocazione ideata contro di lui, in un imputato di reati tali da giustificare la richiesta di dimissioni immediate.

Breve riassunto della vicenda. Nel 2015, in pieno governo Rajoy e con Podemos in auge, viene rubato il telefonino di Dina Bousselham, collaboratrice presso il Parlamento europeo del segretario di Podemos. Si scoprirà poi che il furto è stato commissionato da poliziotti deviati appartenenti ad una struttura di fatto illegale che agisce nel cuore democratico del sistema spagnolo.

La copia delle informazioni presenti sulla scheda telefonica arrivano a testate giornalistiche che le usano per screditare Podemos e il suo segretario che fin qui risulta parte lesa. È il caso “Dina”, viene accusato l’ex-commissario José Manuel Villarejo, già al centro di un’importante indagine giudiziaria su una presunta rete di spionaggio che vanta venti anni di intercettazioni telefoniche, registrazioni sotto copertura e produzione di dossier e pedinamenti illegali ai danni di politici, dirigenti d’azienda, giudici e giornalisti a scopo di ricatto. Ora lo stesso giudice che indaga sul poliziotto accusato del furto del telefonino chiede di indagare Iglesias per aver commesso atti illeciti, come una falsa denuncia e avere in maniera fraudolenta strumentalizzato la vicenda, parlando di macchina del fango, per trarne un beneficio elettorale nelle votazioni del 2019.

Ancora non è dato sapere cosa deciderà la Corte suprema, perché Iglesias in qualità di ministro gode dell’immunità nei tribunali di grado inferiore, ma l’uso politico che le destre stanno facendo di questa richiesta di incriminazione è eclatante. Pablo Casado del Pp ha subito twittato «Sánchez dovrebbe immediatamente licenziare il suo vice presidente Iglesias», cercando di aprire la crisi politica.

Gli attacchi a Pablo Iglesias sono una costante. Questa estate le vacanze in Asturia del vicepresidente e famiglia sono state interrotte per le troppe minacce di morte. La casa appena fuori Madrid dove vive con la compagna Irene Montero, ministra dell’Uguaglianza, e i figli è da mesi oggetto di manifestazioni e presidi da parte di gruppi fascisti e ,proprio in coincidenza con la richiesta di imputazione di Iglesias, la giustizia spagnola ha deciso di non dare rilevanza penale alle diverse denunce di Montero per le minacce ricevute, archiviandole.

Questa campagna di odio dell’estrema destra spagnola e la tempistica non sono casuali. C’è sempre qualche tentativo di sviare l’attenzione sull’ennesimo caso di corruzione in cui è coinvolto il Pp, ma soprattutto queste sono le settimane cruciali in cui il governo sta per chiudere il documento di bilancio per il 2021, dove si indica come la Spagna intende spendere la quota di miliardi previsti dall’Europa con il Next Generation Ue e soprattutto la maggioranza con cui vuole approvarlo. L’obiettivo chiaro è costringere Iglesias a dimissioni per scardinare il governo progressista, anche a costo di tornare ad elezioni anticipate. Meglio affondare in un caos istituzionale che esercitare una opposizione alle scelte con cui il governo progressista intende affrontare le difficoltà del Paese sopraffatto dalla seconda ondata di coronavirus, che rende più urgente che mai la ricostruzione della sanità pubblica e territoriale, e attanagliato da una già vasta crisi sociale su cui pesa il crollo del turismo.

Volontà di attacco e spregiudicatezza sono il comportamento delle destre, e dei poteri forti che le appoggiano, preoccupate di non poter mettere le mani sui miliardi di risorse europee assegnate alla Spagna e che proprio non tollerano che possa amministrare quei fondi, insieme ai socialisti, la forza che ha dato rappresentanza al moto di indignazione che caratterizzò la Spagna nel 2011. È ovvio che queste trame delle destre non avrebbero senso e spazio politico se non potessero contare anche su forze interne allo stesso Psoe, forze che con altrettanta determinazione vogliono riportare il partito socialista spagnolo su contenuti più moderati, stemperando la transizione ecologica e gli obiettivi di uguaglianza e giustizia sociale su cui è indirizzato il governo di coalizione, vogliono rompere la scomoda alleanza con Unidas podemos per rilanciare quella più tollerante rispetto a certe politiche con Ciudadanos. L’obiettivo di questi tentativi più che Pablo Iglesias e Unidas podemos è proprio Pedro Sánchez e il suo tentativo di riportare a sinistra il Psoe. Che questo poi passi per una drammatizzazione della situazione politica e sociale del Paese, alle destre preoccupa poco. Quelle stesse destre che negli ultimi mesi Pedro Sánchez ha cercato di spaccare attirando Ciudadanos nell’area di governo. Ora è chiaro che il tentativo è destinato a fallire, non solo per l’evidente incompatibilità di programmi, ma anche perché né a Madrid, né in Andalusia, Ciudadanos ha pensato di mettere in crisi l’alleanza con Pp e Vox.

La Spagna in piena emergenza sanitaria avrebbe bisogno di una opposizione più responsabile, l’impressione è che la maggioranza del Paese continui ad appoggiare il governo progressista, le forze che lo hanno eletto e soprattutto l’idea di Paese che si sta progettando.

L’altra salute (oltre al Covid)?

Foto LaPresse - Andrea Campanelli 17 03 2017 Brescia ( Italia) Cronaca Brescia, Spedali Civili reparto di oncologia pediatrica dove insegna Annamaria Berenzi decretata miglio professoressa di Italia nella foto: reparto di oncologia pediatrica

C’è un’altra sanità, oltre alla questione Covid, su cui forse conviene fare una riflessione. Sono numeri spaventosamente alti che aggravano una situazione endemica che già esisteva: le liste di attesa degli interventi chirurgici si sono inevitabilmente allungate all’infinito e i numeri nel mondo sono spaventosi. Ora finalmente se ne ricomincia a parlare dopo che il viceministro Sileri ha confermato le stime che giravano già da mesi e il dibattito, badate bene, merita tutta la nostra attenzione perché dietro ai numeri ci sono sempre le persone. E allora parliamone.

Un’analisi dell’Università di Birmingham già lo scorso maggio stimava che, nel periodo di 12 settimane del picco epidemico che ha portato all’interruzione di molti servizi ospedalieri, gli interventi chirurgici elettivi annullati o rinviati potrebbero essere stati 28,4 milioni in tutto il mondo, cioè il 72,3% di quelli pianificati.

La situazione italiana era sulla stessa linea: Nomisma aveva contato circa 410mila interventi chirurgici rimandati a causa del dirottamento di anestetisti e infermieri verso i reparti Covid e della necessità di ridurre il rischio di esposizione al virus. Si va dal 56% dei ricoveri per interventi legati a malattie e disturbi dell’apparato cardiocircolatorio alla quasi totalità dei ricoveri per patologie afferenti all’otorinolaringoiatria e al sistema endocrino, nutrizionale e metabolico, oltre l’area ortopedica con 135mila ricoveri rimandati.

E, secondo Sileri, la situazione si sarebbe poi ulteriormente aggravata. «Abbiamo purtroppo un numero importantissimo, vicino al milione, di interventi chirurgici saltati e ovviamente rinviati, e un numero importantissimo di indagini e visite ambulatoriali saltate e rinviate, intorno ai 20 milioni», ha dichiarato il viceministro della Salute a fine settembre, in occasione della presentazione del rapporto annuale sull’innovazione in campo sanitario e farmaceutico dell’Istituto per la Competitività.

Le diagnosi di tumore e le biopsie, inoltre, sempre a maggio erano calate del 52% e nei reparti di oncologia si era registrata una diminuzione del 57% delle visite: gli oncologi dichiaravano che in media prima dell’insorgenza del Covid-19 visitavano circa 80 pazienti alla settimana, ma che nell’ultima settimana presa in esame ne hanno visitati 34. Ancora: il 45% dei malati oncologici aveva rimandato la chemioterapia. E nulla fa pensare che questa emergenza si sia risolta.

Volendo poi c’è il cronico problema della mancata informatizzazione del nostro sistema sanitario: un sistema che non dialoga con gli altri ospedali e che spesso addirittura non riesce a dialogare tra reparti e che nel mondo invece è considerato determinante per migliorare le cure e per diminuire gli sprechi (le ripetizioni di esami già fatti è solo un esempio).

C’è anche altra salute, oltre al Covid.

Buon mercoledì.