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La responsabilità collettiva che serve. Più che mai

A woman walks in from of a mural painting of a nurse, in Milan, Italy, Wednesday, Oct. 14, 2020. Coronavirus infections are surging again in the Italian northern region where the pandemic first took hold in Europe, putting pressure again on hospitals and health care workers. (AP Photo/Luca Bruno)

Responsabilità collettiva, è la parola chiave. Ora più che mai. Dice bene il presidente Mattarella: «Non esiste la libertà di far ammalare gli altri». La libertà in questa fase di pandemia, con i numeri dei contagi che tornano a correre, si può realizzare solo insieme agli altri con comportamenti responsabili prestando attenzione all’interesse non solo individuale. È più che mai urgente mettere al centro la salute come bene collettivo. Non solo quella fisica ma anche psichica. È l’asse portante della ricerca da cui è nato Left. Ed è un valore divenuto essenziale e dirimente per tutti in questo inizio autunno in cui la diffusione del Covid si sovrappone all’influenza stagionale ma non solo. Non c’è tempo da perdere. Il governo e le Regioni invertano la rotta e tornino a investire e a sostenere la sanità pubblica, soprattutto quella territoriale, dopo anni di scellerate politiche neoliberiste che hanno trattato la salute come una merce e valutato le aziende ospedaliere in termini di profitto. Già nella primavera scorsa abbiamo visto bene che quel modello non funziona ed è fallimentare. Speravamo che tutti avessimo appreso questa dura lezione. Ma quel che emerge dalle inchieste della nostra di copertina è che purtroppo troppo poco è cambiato e siamo giunti a questa seconda ondata impreparati.

Il sistema di test e di tracciamento è quasi al collasso in molte Regioni, le Rsa sono di nuovo in una situazione critica, i medici di famiglia sono privi di scorte sufficienti di vaccino anti influenzale, rileva l’ampio servizio di Leonardo Filippi, che con Vittorio Agnoletto segnala in particolare la drammatica situazione di Milano e della Lombardia, dove non è stata messa in atto una strategia preventiva, come se ciò che è accaduto a marzo fosse stato del tutto dimenticato. Intervistato da Left, il presidente della Associazione medici anestesisti e rianimatori ospedalieri (Aaroi), Alessandro Vergallo, avverte che i livelli di saturazione delle terapie intensive si stanno avvicinando pericolosamente alla soglia d’allerta del 30%. Alla luce di quel che sta accadendo, tanto più sciagurate risuonano le esternazioni di quegli specialisti e politici di centrodestra che a maggio, in nome delle ragioni dell’economia, dicevano che il virus era morto e ad agosto che la seconda ondata non ci sarebbe mai stata. Come suonano assurde oggi le invettive di Salvini e Meloni contro quella che a loro dire sarebbe una dittatura sanitaria che priva il popolo di matrimoni e battesimi oceanici. Mentre, tra molti altri, il deputato Mollicone di Fratelli d’Italia, intervistato da Radio radicale, se la prende contro le chiusure selettive di alcune filiere economiche come bar e ristorazione e torna a parlare del Covid come di un «virus influenzale, molto serio, non la cirrosi epatica».

La realtà della letalità del Covid-19 è drammaticamente ben altra. Senza contare che dovremo convivere ancora a lungo con questo virus. Uno studio inglese della Columbia Mailman school avanza perfino l’ipotesi che Covid-19 possa diventare endemico e stagionale. E non abbiamo ancora un vaccino. Al di là dei tanti annunci spinti da interessi economici e geopolitici, la comunità scientifica avverte che dovremo ancora pazientare. «La vaccinazione per tutti credo non ci sarà prima dell’autunno del 2021» ha detto Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università degli Studi di Milano. Al di là del fatto che alcuni vaccini possano essere autorizzati alla vendita entro fine anno. «Poiché la copertura vaccinale sarà enorme e necessiterà di tempo». Ad oggi infatti, avverte Pregliasco, non sappiamo ancora quante dosi serviranno e se e con quale frequenza dovranno essere fatti i richiami. Più cauto ancora è Andrea Crisanti, direttore di microbiologia e virologia all’università di Padova, che ad Agorà su Rai 3 ha detto che perché tutti quanti possano avere accesso a un vaccino che funzioni contro il Covid bisognerà attendere fino al 2022. Questa è la realtà dei fatti secondo gli scienziati. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte parla, invece, della prossima primavera contando che le ultime fasi di preparazione del vaccino Oxford-Astrazeneca siano completate nelle prossime settimane. Va detto anche che quello di Oxford non è l’unico vaccino in fase avanzata di sperimentazione (seppur dopo molti stop and go). Ciò che è più auspicabile, sostiene l’immunologo Alberto Mantovani, è riuscire ad avere non un solo vaccino ma più vaccini. In quest’ottica Federico Tulli su questo numero fa il punto sullo stato dell’arte dei 46 vaccini in fase avanzata di test, accendendo i riflettori sul cinese CanSino-Bio che è in pre-approvazione da parte dell’Agenzia europea del farmaco, e sul BioNTech-Pfizer che sarà approvato negli Usa subito dopo le elezioni presidenziali. Resta poi il problema aperto di come far sì che il vaccino sia un bene comune (vedi Left del 4 settembre 2020), che tutti vi possano accedere. E in Italia resta il problema dei no vax (ma non solo). Secondo una ricerca Ispi presentata da Matteo Villa circa il 30-40% degli italiani non vorrebbero vaccinarsi.

L’editoriale è tratto da Left del 23-29 ottobre 2020

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Seconda ondata di impreparazione

Foto Claudio Furlan - LaPresse 25 Marzo 2020 Bergamo (Italia) News Coronavirus, in turno con le Unità Speciali che curano i malati più gravi a domicilio. A Bergamo sei unità speciali di continuità assistenziale visitano i malati o sospetti Covid19 che non hanno trovato posto negli ospedali cittadini ormai saturi da giorni. Photo Claudio Furlan/Lapresse 25 March 2020 Bergamo (Italy) Coronavirus, in turn with the Special Units that treat the most seriously ill patients at home. In Bergamo, six special continuity care units visit Covid19 patients or suspects who have not found a place in city hospitals that have been saturated for days.

La curva dei nuovi contagi giornalieri che torna ad impennarsi, assieme a quella dei ricoveri in rianimazione. Il tempo di raddoppio di questi indicatori sempre più veloce: 5 giorni per i primi e 9 giorni per i secondi (mentre andiamo in stampa, ndr). Il rapporto tra positivi e tamponi effettuati che l’8 ottobre sfonda l’argine del 3%, limite oltre cui secondo la comunità scientifica cominciano a sfuggire troppi casi dal controllo della autorità sanitaria. Percentuale che una decina di giorni dopo tocca l’8%.
È il quadro che ha portato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ad inasprire con il nuovo Dpcm del 18 ottobre le misure di contenimento della pandemia, e che rende sempre più verosimile l’incubo di un nuovo lockdown. Già, perché a nove mesi dal primo contagio accertato in Italia, a sette mesi e mezzo dall’istituzione della zona rossa in tutto il Paese e ad oltre cinque mesi dall’inizio del progressivo ritorno alla “normalità”, la seconda ondata del Covid ci ha colti parzialmente impreparati. Tra sistema di test e tracciamento al collasso in varie zone d’Italia; medici di medicina generale privi di un numero sufficiente di vaccini antinfluenzali; le squadre speciali Usca (create per assistere a domicilio i pazienti) che funzionano a metà; persone stipate su bus, metro e pulmini; controlli sui luoghi di lavoro pressoché inesistenti.
«A questo punto, nessuno può accampare scuse, né a Roma né nei palazzi delle Regioni» dice Vittorio Agnoletto, medico del lavoro, docente di Globalizzazione e politiche della salute alla Statale di Milano e conduttore della trasmissione sulla salute “37e2” di Radio popolare. «Non saprei – aggiunge – quanto non si sia compreso ciò che si doveva fare, ossia una riorganizzazione complessiva della sanità, quanto i decisori politici non siano al livello di questa sfida o quanto si sia scelto di non agire per non toccare interessi di cui si ha timore o si è collusi».
Innanzitutto, non si è potenziata a sufficienza la medicina territoriale, senza la quale è impossibile individuare i focolai. «Ad esempio a settembre il direttore dell’Ats di Milano – racconta Agnoletto – dichiarava di essere pronto a effettuare il contact tracing per cento casi al giorno, a ottobre ha detto che il servizio è stato potenziato ma è comunque saturo. È inaccettabile». Ad oggi i tracciatori sul territorio…

L’articolo prosegue su Left del 23-29 ottobre 2020

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Le sta sbagliando tutte

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 14–10-2020 Roma , Italia Cronaca Manifestazione sindacati forze dell'ordine - Basta aggressioni agli uomini in divisa Nella foto: momenti della manifestazione che ha raccolto i rappresentani delle sigle sindacali rappresentanti tutti i corpi delle forze dell' ordine, il leader della Lega ed ex Ministro dell’Interni Matteo Salvini interviene alla manifestazione Photo Mauro Scrobogna /LaPresse October 14, 2020  Rome, Italy News Law enforcement unions demonstration - Enough attacks on men in uniform In the photo: moments of the demonstration that gathered the representatives of the trade unions representing all the bodies of the police,the leader of the Lega and former Minister of the Interior Matteo Salvini speaks at the demonstration

Ieri nel Consiglio regionale lombardo, settima commissione ore 10/10.30 volano stracci in casa Lega: Massimiliano Bastoni insulta Salvini ma non si accorge di avere il microfono accesso. Il presidente di commissione Terzani lo rimprovera insieme a Paola Romeo (Forza Italia). Una scena meravigliosa ma indicativa. Eccolo qui:

Il piccolo incidente però è indicativo. Matteo Salvini le sta sbagliando tutte e sono in molti ormai nella Lega che glielo stanno facendo notare. Una premessa: governare un Paese in tempi di pandemia, con tutte le decisioni difficili da prendere, costa moltissimo in termini di consensi. Accade negli Usa con Trump, accade in Francia con Macron, accade in Brasile. Indici di gradimento che sono in continua discesa e le opposizioni che risalgono prepotentemente. È il gioco della politica da sempre: governare costa in termini di consenso e farlo in un periodo di incertezza e di crisi sanitaria ancora molto di più.

Lui no. Lui, Matteo Salvini, è riuscito a passare dal 37% dell’agosto 2019 al 24,3% dell’ultimo sondaggio e continua a inanellare una serie incredibile di figuracce. Ieri mattina è corso dal suo presidente della Lombardia Fontana perché diceva non condivideva il lockdown notturno pensato dal presidente della Lombardia. Ha anche sparato la solita tiritera sulla libertà: «le limitazioni delle libertà personali mi piacciono poco e devono essere l’ultima spiaggia», ha detto prima di entrare nel palazzo della Regione. Ne è uscito scornato. Fontana è rimasto sulla sua posizione e pace per il leader leghista.

Badate bene: Salvini è lo stesso che 15 giorni fa diceva che non ci fosse nessun bisogno di prolungare lo stato di emergenza. Anche in quel caso aveva parlato di scelta politica non suffragata da dati sanitari: in 15 giorni è stato seppellito dalla realtà.

Del resto è lo stesso  che questa estate ha rilanciato più volte l’ipotesi del professore Zangrillo che dichiarava il virus “clinicamente morto”. Com’è andata a finire lo sappiamo bene: perfino Zangrillo ha dovuto tornare sui suoi passi. Salvini ovviamente ha fatto finta di niente, come al solito. A fine luglio Salvini aveva partecipato al convegno dei negazionisti, proprio con Zangrillo e Sgarbi. Riascoltare oggi quello che dicevano in quei giorni fa venire la pelle d’oca.

E ve lo ricordate a febbraio, quando fece quel video in cui disse “riaprire, riaprire tutto, tornare alla libertà”, pochi giorni dopo il paziente uno di Codogno? Ecco, poi ci sono stati i morti e le bare di Bergamo. Ha fatto sparire il video dai suoi social ma poi ci era ricascato ancora. Senza contare tutte le volte che si è esibito fiero senza mascherina, fino a che perfino i suoi supporter lo hanno duramente criticato ed è stato costretto a cambiare rotta.

Due giorni fa si è lamentato perché il presidente del consiglio Conte aveva telefonato alla coppia Fedez e Ferragni per chiedere di sensibilizzare i giovani sull’uso della mascherina e lui, pensando di fare una bella figura, ha detto ai giornali «a me ha fatto solo una chiamata di 40 secondi negli ultimi mesi». Ora, pensateci un secondo: quale sarebbe la strategia di Salvini? Non c’è. Proposte concrete non ce ne sono.

Certo perdere consensi di questi tempi è un capolavoro di inettitudine e tra i suoi (Zaia in testa) sono in molti a dirlo sottovoce. Almeno c’è di buono che non ce lo siamo ritrovati come ministro. Almeno questo.

Buon giovedì.

Quando gli operai sfidarono le bombe neofasciste contro i treni per Reggio Calabria

L’autunno dei rinnovi contrattuali del 1972 si svolgeva in un anno assai complicato, con un Msi che alle elezioni politiche aveva sfiorato la doppia cifra, anche grazie a una rinverdita politica della forza ripresentata dai cuori neri con la strage di piazza Fontana, proseguita con quella di Peteano, con l’inframmezzo della rivolta dei Boia chi molla a Reggio Calabria. Quell’anno vide i metalmeccanici impegnati in iniziative anche a favore di un Sud dai molti problemi. Iniziative coagulatesi in una manifestazione da svolgersi a Reggio Calabria il 22 ottobre. I neofascisti cercarono di impedirla sabotando i treni con 8 attentati dinamitardi, ma 50mila operai riuscirono comunque a raggiungere Reggio Calabria con pullman, auto private, e perfino una imbarcazione.

Durante uno dei comizi, Pierre Carniti (Cisl) disse: «Quel treno che portava via gli emigranti, non volevano consentire che tornasse per farli partecipare a questa grande manifestazione. Siamo in presenza di una criminalità organizzata, che è anche indicativa, però, del suo isolamento. Si tratta di gente disperata, perché ha capito che l’iniziativa di lotta dei lavoratori, di questa stessa manifestazione sindacale, rappresenta un colpo durissimo. Ecco perché reagiscono con rabbia, reagiscono con disperazione. E oggi, come cinquant’anni fa, questa reazione conferma che il fascismo con il manganello e il tritolo è al servizio dei padroni e degli agrari contro i lavoratori e contro il proletariato. Ma dunque, compagni, debbono sapere che non siamo nel ’22 e che la classe operaia, le masse popolari, le forze politiche democratiche hanno la forza ed i mezzi per difendere le istituzioni democratiche dall’attacco e dall’aggressione fascista. E ciascuno farà la sua parte in questa direzione».

Quei disperati, insomma, non ce la facevano proprio ad accettare la crescita esponenziale di una coscienza di classe che si manifestava nelle fabbriche, nelle piazze, e l’ottobre di quel 1972 a essere messa al centro del cuore operaio fu Reggio Calabria, diventata dunque punto focale di un antifascismo militante che respingeva con la forza della democrazia il tentativo di tornare a un passato pre-sessantanove. La reazione alla crescita del movimento operaio che nel ’69 aveva vinto su tutti i fronti, era stata scomposta, fino all’inaugurazione della crudele stagione delle stragi con quella di piazza Fontana e, pochi mesi dopo, con la cosiddetta rivolta dei Boia chi molla di Ciccio Franco a Reggio Calabria. La neonata Italia delle Regioni aveva fatto sì che come capoluogo per la Calabria fosse designata la città di Catanzaro a dispetto di Reggio Calabria, dove i neofascisti montarono una protesta che degenerò in una vera e propria rivolta rabbiosa durata mesi e che provocò morti e feriti. Una rivolta che soffiò sul fuoco dell’antisindacalismo e di tutto quello che poteva essere ostativo nei confronti delle conquiste operaie. Stretto nella morsa fra un padronato agrario di stampo feudale e una classe politica asservita alle logiche mafiose da intreccio politico, il Sud doveva restare nella condizione di subalternità sociale ed economica funzionale a quello status quo.

La Calabria rimase per due anni, fino appunto a quella grande manifestazione dell’ottobre del 1972, in una sorta di perenne stadio d’assedio, considerando che i moti scoppiati nel luglio del 1970 proseguirono fino al febbraio successivo, quando sul lungomare di Reggio apparvero i carri armati mandati da Franco Restivo, ministro di lungo corso al ministero dell’Interno dal ’68 al ’72. Quel lungomare su cui, nel 2006, Giuseppe Scopelliti di Alleanza nazionale, sindaco di Reggio Calabria col sostegno di Forza Italia, farà erigere una stele in “onore” di Ciccio Franco, nonché accoppiare quel’uomo d’onore all’ex Arena dello Stretto, che da allora si chiama Anfiteatro Senatore Ciccio Franco. («I fatti di Reggio furono un’esperienza di popolo sintomatica, riferita a un periodo storico scandito da un particolare fermento e brillantemente guidato da Ciccio Franco», così un frammento dallo “storico” panegirico di Scopelliti in favore del senatore del Msi). Sì, perché alle elezioni del maggio del ’72, il capopolo dei Boia chi molla era stato premiato dai padri nobili della Meloni (ricordiamo a favore dei più giovani, la fascisteria di Almirante&C.) con un seggio al Senato nelle file del Msi (sempre a favore delle creature, progenitore degli attuali fratellini italici). Sospettato di essere fra i promotori delle azioni dinamitarde in sodalizio con la ‘ndrangheta che in Calabria – più che mai all’epoca – non faceva muovere foglia senza sua volontà, Ciccio Franco fu indagato senza arrivare a processo. Giovanna Marini scrisse una canzone a ricordo dei treni che nell’ottobre del ’72 dovettero dribblare le bombe neofasciste.
E alla sera Reggio era trasformata pareva una giornata di mercato quanti abbracci e quanta commozione gli operai hanno dato una dimostrazione.

Dopo la prova generale del 12 dicembre 1969, la fascisteria aveva deciso di utilizzare le bombe come sistema di lotta politica. Non a caso tutto il decennio dei Settanta sarà segnato da una serie di stragi comunque molto meno numerose di quelle evitate per impedimenti logistici, cattivi funzionamenti, delazioni. Per dire, fra maggio e settembre erano previste tre stragi: due (piazza Loggia a Brescia e l’Italicus a San Benedetto Val di Sambro) andarono a compimento, la terza no per una delazione, appunto. E la terza sarebbe stata quella di maggiore eco: una ribalta planetaria , come planetaria è la fama dell’Arena di Verona, tempio della lirica con La Scala di Milano.

E ancora sparisce la politica

Torna il virus e sparisce la politica. I dati continuano a non essere buoni e il dibattito rimane sempre bassissimo come si conviene a un Paese che ha scambiato la propaganda come unico lievito della discussione pubblica. Fateci caso.

Da una parte c’è un governo preoccupato dal consenso. Giuseppe Conte sa benissimo che gli italiani, dopo l’esperienza di mesi fa, non crederanno più di essere i colpevoli di un nuovo eventuale disastro. Ci sarebbe da discutere di modifiche strutturali del sistema sanitario, ci sarebbe da discutere di dove prendere i soldi che mancano per rimettere in piedi un Paese che deve convivere con il virus e ancora siamo alle prediche in cui si consigliano le buone maniere contro il Covid. L’abbiamo capito che indossare la mascherina è utile ma abbiamo anche capito che non basta. Abbiamo capito che il distanziamento è utile ma abbiamo anche capito che non basta. Abbiamo capito che lavarsi le mani è utile ma non basta. E onestamente abbiamo anche capito che il Covid non lo spargevano i runners e i passeggiatori con cani prima e non sta solo nei bicchieri dell’aperitivo di oggi. Inseguire il virus e i sondaggi con l’occhio sempre fisso sul consenso non funziona, lo dimostrano gli indici di gradimento a picco dei governatori sceriffi che ora brancolano nel buio.

Dall’opposizione poi arrivano segnali ancora più sconfortanti: sono contro le chiusure ma chiedono “severità contro il virus” e poiché l’unico modo per fermare la curva è ridurre le frequentazioni sociali sarebbe curioso sapere esattamente da Salvini, Meloni e compagnia cantante cosa farebbero loro. Essere contro a qualsiasi decisione è una posizione comoda e facile, non è politica. Salvini è talmente contro a tutto che ieri probabilmente si è incagliato ed è riuscito a sbraitare anche contro la Lombardia, poi qualcuno deve avergli dato un colpo di gomito e l’ha fatto rinsavire. Parlare di “libertà” senza prendersi la responsabilità di spiegare anche come avere la libertà di non ammalarci è retorica, non è politica.

A febbraio giustamente ci dicevano di essere impreparati e tutti sono stati presi alla sprovvista. Oggi la politica (tutta) dovrebbe dirci: ecco come abbiamo intenzione di abbassare la curva dei contagi, ecco quanti sono i posti letto disponibili e quanti saranno disponibili a breve, ecco in che tempi agiremo per assumere anestesisti e infermieri, ecco come scaglioneremo per alleggerire i trasporti (visto che ormai il loro potenziamento è andato in fumo), ecco come proveremo a ripristinare un tracciamento decente, ecco dove troveremo i soldi per farlo. Il paternalismo non funziona più e non funziona più l’opposizione facile.

Programmi fattibili per tenere in piedi questo Paese in questo delicato momento: questa è politica. E sembra che la stiano facendo più i virologi dei politici.

Buon mercoledì.

I numeri parlano

Biochemical researcher Tiziana Alberio works on sample of saliva at the Insubria university department of biomedical science and research in Busto Arsizio, Italy, Friday, Oct. 9, 2020. Researchers at Insubria University come up with rapid salivary test methodology with 93% sensitivity rate to Coronavirus. The non invasive action could help screen large group of population before entering closed area such as cinemas, theaters or shopping centers. (AP Photo/Luca Bruno)

“Aumentano i positivi perché aumentano i tamponi”, dicono. Semplice così. Dopo mesi di pandemia ancora esistono quelli che contano il totale dei contagi e ci vorrebbero convincere che la situazione vada letta sul bollettino quotidiano. Se i contagi crescono ci si preoccupa, se i contagi calano ci si calma. Nemmeno il coronavirus ha insegnato l’arte della complessità, nemmeno tutti questi mesi, nemmeno tutti questi morti.

Però i numeri parlano, nella loro sostanziale inamovibilità e leggere i numeri è un esercizio utile. Sia chiaro: non si tratta di creare allarme ma si tratta almeno di rendersi conto del punto in cui siamo.

E il punto in cui siamo è sostanzialmente questo: il tasso di positività sulle persone testate (quindi quelle sottoposte a tampone per verificare la presenza del virus) 4 settimane fa era del 3,4%, 3 settimane fa era del 4,6%, 2 settimane fa era del 6,2%, settimana scorsa era del 7,7% e ieri del 14,2%. Qualcuno potrebbe dire: “mirano meglio”. Sul numero di tamponi processati totali ieri l’Italia ha superato la Francia con un tasso del 9,4%. Il giorno precedente era del 7,9%, prima ancora del 6,6%. Il tasso di positività è in crescita marcata da 10 giorni.

Sempre rimanendo sui numeri: la crescita dei posti occupati in terapia intensiva (a proposito di chi dice “sono tutti asintomatici”) negli ultimi giorni è stata esponenziale. Negli ultimi 12 giorni segue la formula x=(1,075^t)*358. In sostanza secondo la curva ci dice che le terapie intensive raddoppiano ogni 9,6 giorni.

Poi ci sono i fatti: i tracciamenti ormai sono sostanzialmente persi. Ieri l’Ats di Milano, solo per fare un esempio, per bocca del suo direttore sanitario Vittorio De Micheli ha dichiarato: «Non riusciamo a tracciare tutti i contagi, a mettere noi attivamente in isolamento le persone. Chi sospetta di aver avuto un contatto a rischio o sintomi stia a casa». Siamo a questo punto, ancora. Ieri Walter Ricciardi, ordinario di Igiene all’Università Cattolica del sacro Cuore di Roma e consulente del ministro della Salute ha detto «un’epidemia si combatte con i comportamenti delle persone e con il tracciamento, ma quando vai oltre 10.000-11.000 casi e non riesci più a tracciare». Crisanti lo spiega bene: «È saltato completamente il sistema di tracciamento. Le misure di contenimento sono inutili senza un piano organico per dotare l’Italia di un sistema che mantenga basso il numero dei contagi. È la vera sfida. Se invece di buttare soldi per acquistare i banchi a rotelle avessimo investito sul tracciamento e sulla capacità di eseguire i tamponi, oggi saremmo in una situazione differente. Non possiamo andare avanti altri sei mesi solo con le chiusure. Quest’estate – ricorda – eravamo arrivati a 300 contagi al giorno, avremmo dovuto porci il problema e organizzarci per evitare che quel dato tornasse a salire mettendo in campo un reale ed efficace sistema di tracciamento e tamponi. Invece non abbiamo fatto nulla.»

Stiamo discutendo dell’ultimo Dpcm quando è già superato dai fatti. E la sensazione, ascoltando anche dalle parti del governo dove con questa situazione ancora si discute di “movida”, è che la situazione attuale abbia bruciato tutti i mesi di vantaggio accumulati. E che non ci sia nemmeno il coraggio di dirlo chiaramente.

Buon martedì.

 

Dimenticare Assange

FILE - In this Wednesday May 1, 2019 file photo buildings are reflected in the window as WikiLeaks founder Julian Assange is taken from court, where he appeared on charges of jumping British bail seven years ago, in London. Assange relayed how he “binge-watched” the suicide of the former Bosnian Croat general in a U.N. courtroom three years ago, a doctor who visited the WikiLeaks founder on several occasions while he was in the Ecuadorian Embassy in London told an extradition hearing Thursday, Sept. 24, 2020. (AP Photo/Matt Dunham, File)

In fondo è una delle nostre più discutibili e disturbanti debolezze, un atteggiamento che ci trasciniamo da anni e che applichiamo anche alle questione dei diritti come se i diritti potessero seguire le mode, essere qualcosa da stampare su una maglietta e poi dimenticarsene senza che la situazione si sia risolta. Julian Assange, discusso fondatore di WikiLeaks, è sotto processo a Londra, si decide se estradarlo o no negli Usa che gli hanno già promesso una condanna che potrebbe arrivare a 175 anni di carcere e quel processo, che è un processo che discute anche del ruolo, delle libertà e dei doveri dell’informazione è finito per essere raccontato solo da qualche tweet o da qualche ostinato osservatore che insiste nell’informarci.

In questo processo che non sta raccontando quasi nessuno intanto è emerso che non ci fu nessun furto di password di enti governativi americani ma il soldato Chelsea Manning, che aveva accesso a quei documenti, aveva già scaricato tutto il materiale. Non è una cosa da poco: c’è in discussione il ruolo delle fonti, il ruolo del giornalismo investigativo, c’è in gioco il diritto della stampa di presidiare le azioni dei governi. C’è in gioco moltissimo.

Era quello che aveva pensato il governo Obama nel 2013 quando si rese conto che criminalizzare Assange significava in fondo mettere sotto accusa il giornalismo investigativo. Ed è la strada opposta rispetto a quella che ha inforcato Trump quando nel 2018 lo ha accusato di crimine informatico e altri 17 capi di accusa nel maggio del 2019.

Sia chiaro: Assange ha dimostrato prove di crimini di guerra statunitensi in Iraq e Afghanistan, violazioni di diritti che tutto il mondo ha il diritto e il dovere di conoscere. E poi c’è un altro punto sostanziale: se Assange è colpevole quindi sono colpevoli anche tutti i giornali (NY Times incluso) che hanno pubblicato le sue scoperte, no? Come ci si comporta? Perché la sensazione dieci anni dopo è sempre la stessa: che il governo malsopporti di avere curiosi troppo curiosi che rovistano dove non dovrebbero rovistare. Accade sempre così, con tutti i governi ed è proprio l’atteggiamento che certo giornalismo combatte.

Eppure di Assange si parla poco, pochissimo. Quella che prima era una figura iconica oggi è diventata una notizia laterale. Perché noi siamo fatti così: ci innamoriamo di simboli e poi non ci prendiamo nemmeno la briga di controllare almeno che non vengano buttati via e che non vengano calpestati. Qui una volta era tutto foto e magliette di Assange e ora sembra che il suo processo non ci interessi più. Così si logorano i diritti, così si consumano le persone. Accade così.

Buon lunedì.

Per essere davvero liberi abbiamo il dovere di restare umani

Non ho alcun parente o amico iscritto ad associazioni di memoria, sindacati o partiti; semplicemente, tre anni fa, a quattordici anni, incuriosito dai discorsi di mia nonna, cercai il sito dell’Anpi scoprendo che in quei giorni ci sarebbe stata, a Roma, la celebrazione dei cento anni di un partigiano. Decisi di andarci.

Nacque così il mio interessamento all’Associazione nazionale partigiani d’Italia. Ascoltai, all’inizio con curiosità poi sempre con maggiore ammirazione fino a scoprirmi realmente interessato a due aspetti di ciò che raccontavano; i due aspetti che, ho scoperto dopo, essere alla base dell’associazione: quello storico e quello sociale. L’Anpi è l’incarnazione di una grande idea di giustizia, costituita da tante battaglie che sono il terreno su cui, nel 1946, è nata la Repubblica italiana.

Gramsci diceva: «La storia è maestra, ma non ha scolari», ed è una frase di schiacciante attualità. Saper guardare a ieri e imparare da quanto è successo per costruire il presente sarebbe la soluzione a tanti mali di oggi; il primo motivo per cui mi sono iscritto è dunque, come accennato, storico.

La storia, ad esempio, ci insegna che…

L’articolo prosegue su Left del 16-22 ottobre 2020

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Rodari dalla parte dei minatori

Calare Gianni Rodari nel proprio tempo, nella storia della Ricostruzione e della battaglia per i diritti civili e sociali del nostro Paese, è operazione insolita. La sua figura storica infatti rimane per lo più trasfigurata da quella letteraria: il gran cerimoniere della fantasia, il decano delle storie per bambini, l’operatore culturale che promosse quotidianamente un’azione lucida e ostinata per l’immaginazione al potere. Prima di cristallizzarsi dietro queste immagini ed essere tramandato di generazione in generazione attraverso le sue opere, fu uomo del suo tempo pieno di curiosità e passione civile, un giornalista con il gusto della narrazione.

«Gianni era uno dei primi inviati speciali del giornale: bravo, sensibile, schietto con quel tratto che non lo ha mai abbandonato: di limpidezza di racconto, di serenità, di malinconia, come le sponde del lago su cui era nato. Era già quel gran giornalista che rimase, un giornalista comunista», questo il ricordo di Paolo Spriano. Tuttavia, come sostiene Carmine De Luca, «Rodari giornalista è un illustre sconosciuto»; uno sconosciuto che tuttavia ha contribuito a fondare il giornalismo popolare italiano e «uno straordinario esempio di intelligenza sempre accesa, di informazione sempre precisa, di linguaggio sempre chiaro e trasparente».

La stessa intelligenza e limpidezza di racconto la ritroviamo nella storia dei Sepolti vivi, che Rodari narrò nelle vesti di inviato speciale nel 1952 sulle colonne del settimanale Vie Nuove. Nel maggio di quell’anno, più di trecento operai restarono chiusi per oltre un mese nelle viscere della miniera di zolfo più grande d’Europa, a Cabernardi e Percozzone, in provincia di Ancona. Non fu un incidente, ma una scelta umana e politica: i minatori non risalirono da sottoterra in segno di protesta contro le lettere di licenziamento inviate a ottocentosessanta di loro. Si trattava di una delle occupazioni più significative del dopoguerra, anche in virtù della strategicità del settore minerario e dell’importanza dello zolfo nella industria chimica e militare internazionale. La cronaca dell’inviato trascende i limiti del genere per farsi narrazione, riuscendo mirabilmente a…

L’autore: lo storico Ciro Saltarelli ha ideato il libro I sepolti vivi (Einaudi ragazzi), uscito in occasione del centenario della nascita di Rodari (23 ottobre 1920), riproponendo il reportage che lo scrittore aveva pubblicato nel 1952 su Vie nuove. I disegni sono di Silvia Rocchi.

 

L’articolo prosegue su Left del 16-22 ottobre 2020

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Generation Z, l’incubo di Trump

Supporters listen to Democratic presidential candidate Sen. Kamala Harris speak at the Polk County Democrats Steak Fry, Saturday, Sept. 21, 2019, in Des Moines, Iowa. (AP Photo/Charlie Neibergall)

Quando Walt Whitman scrisse Il canto di me stesso e la celebre frase: «Io sono vasto, contengo moltitudini» di certo non pensava all’elettorato statunitense. Eppure, in vista delle elezioni presidenziali del 3 novembre, sembra una citazione perfetta per descrivere cosa sta accadendo in vista di un voto che raramente è stato così importante. La diversificazione etnica e politica degli Stati Uniti appare in tutta la sua complessità durante il processo elettorale. Con la pandemia di Covid-19 ancora in corso e la malattia del presidente in carica Donald Trump sono aumentate le preoccupazioni di alcuni elettori e le convinzioni di altri. La noncuranza prestata da Trump nei confronti della propria malattia ha rassicurato i negazionisti, molto spesso suoi elettori, ma ha fatto infuriare le famiglie delle vittime o i positivi al coronavirus: attualmente, gli Stati Uniti hanno quasi raggiunto gli 8 milioni di casi.

Con lo scoppio della pandemia, le elezioni presidenziali del 2020 hanno preso una connotazione inaspettata, sia per i candidati che per l’elettorato. Tradizionalmente, gli statunitensi sono un popolo che partecipa poco al processo elettorale. Questa tendenza si era già invertita nelle elezioni di metà mandato del 2018, quando si era registrata l’affluenza maggiore dal 1914. A marzo il timore era che il pericolo di essere contagiati al seggio elettorale avrebbe scoraggiato gli elettori a esprimere la propria preferenza: i dati mostrano che non ci troviamo di fronte a questa eventualità, anzi probabilmente saranno delle presidenziali da record.

Per poter votare non solo per il presidente, ma anche per la Camera dei rappresentanti e per un terzo del Senato (oltre che per le questioni statali), negli Usa è necessario registrarsi alle liste elettorali. Non basta, cioè, avere la propria tessera elettorale, esibire un documento ed essere maggiorenni, come in Italia. L’elettore deve esprimere con largo anticipo la propria intenzione a votare, con una scadenza che solitamente corrisponde a un mese prima delle elezioni. Un movimento che sembrerebbe già complesso, se non fosse accompagnato da altre problematiche: in alcuni Stati, ad esempio, è necessario esibire un documento con foto, qualcosa che non tutti hanno, particolarmente tra gli appartenenti alle minoranze. Attualmente, in tutti gli Stati tranne il Nord Dakota è necessario registrarsi in anticipo per…

L’articolo prosegue su Left del 16-22 ottobre 2020

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