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Liberi professionisti senza professione: così il Covid ostacola i giovani laureati

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 04 Giugno 2020 Civitavecchia (Italia) Cronaca Protesta dei laureati in psicologia farmacia e biologia per richiedere il tirocinio abilitante Nella Foto : gli studenti universitari in piazza Montecitorio Photo Cecilia Fabiano/LaPresse June 04, 2020 Civitavecchia , Rome (Italy) News Demonstration of graduates in pharmacy biology end psychology for ask the professional habilitation In the Pic: the students in front of government building

Ormai lo sappiamo: le categorie che hanno subito i maggiori contraccolpi socioeconomici dovuti alla pandemia sono le donne e i giovani. Riguardo alla nuove generazioni, gli ultimi dati diffusi dall’Istat parlano chiaro: la disoccupazione giovanile (fascia d’età 15-24) è cresciuta ad agosto dello 0,3% rispetto a luglio, arrivando a toccare quota 32,1% (ben 2,5 % in più rispetto al dato pre-Covid di febbraio: 29,6 %). Oggi, praticamente, un giovane su tre né studia né lavora. La pandemia non ha solo provocato perdite di lavoro, ma ha anche complicato la ricerca di un’occupazione. C’è infatti una generazione di giovani obbligata a sospendere i propri piani di vita perché vede sbarrata la propria strada d’accesso all’impiego desiderato. Parliamo di alcuni lavori autonomi che hanno la partita Iva: psicologi, avvocati e giornalisti. E che incontrano diverse difficoltà: tirocini sospesi, prove d’esame che si sovrappongono, estrema precarietà.
 Gli aspiranti psicologi sono una delle categorie che vivono questi disagi. Per essere abilitati a esercitare la professione, bisogna seguire un tirocinio professionalizzante di un anno dopo la laurea magistrale; dopodiché, c’è da sostenere un esame di Stato. Coloro che facevano il tirocinio prima che scattasse il lockdown hanno dovuto fare i conti con i problemi organizzativi della loro università: «Alcune università hanno riconosciuto il diritto a svolgere il tirocinio da casa; altre invece no. Quindi se anche l’ente ospitante del tirocinio ti proponeva di fare il tirocinio in smart working, l’università non riconosceva il tirocinio» spiega Davide Pirrone, coordinatore nazionale del Movimento professione psicologo Italia. Di conseguenza, chi si è visto sospeso il tirocinio ora non potrà accedere all’esame di Stato che si terrà il 16 novembre; un esame modificato a causa della pandemia: non più 4 prove suddivise nell’arco di 3 mesi, ma una prova onnicomprensiva effettuata per via telematica.

Con il timore, per i circa 10.000 iscritti all’esame, che se la connessione a internet dovesse saltare, tutto potrebbe andare in fumo. Per chiedere chiarezza sulle modalità dell’esame, gli psicologi si sono ritrovati davanti al Miur a inizio ottobre. Secondo Pirrone il ministero non ha mantenuto le promesse: «Il ministro Manfredi aveva assicurato l’istituzione di un tavolo tecnico per riformare l’esame di Stato, rendendolo più semplice e più trasparente. Allo stesso tempo, già da metà agosto, il ministro si era impegnato a presentare un ddl per rendere la laurea in psicologia già abilitante. Ma finora sono state solo belle parole a cui non è seguita nessuna azione concreta». 
Le conseguenze del Covid si avvertono anche nell’ambito dell’avvocatura, sia per quelli che devono sostenere l’orale dell’esame di Stato che per quelli già abilitati. Infatti, i primi vivono la paradossale situazione per cui l’orale dell’esame 2019 potrebbe sovrapporsi alle date degli scritti dell’esame di quest’anno: a causa dei ritardi nella correzione delle prove scritte dell’esame dell’anno scorso, gli orali inizieranno il 12 ottobre e si estenderanno fino alla fine dell’anno, accavallandosi con i giorni degli scritti dell’esame 2020 (15, 16 e 17 dicembre). Questo obbligherà una buona parte delle 1.340 persone che sosterranno l’orale a iscriversi al nuovo esame di Stato entro l’11 novembre. Ciò comporterà un surplus di studio (dovranno studiare per due esami per non perdere la possibilità di rifare lo scritto, qualora l’orale andasse male) e il pagamento di altri 100 euro per iscriversi all’esame 2020.

Non se la passano tanto meglio i neo-avvocati, stando a quanto dice Nunzio, avvocato del lavoro da pochi mesi: «I neo-avvocati vivono una situazione di estrema precarietà. Molti lavorano in un regime di monocomittenza». A causa del forzato lockdown, si è innescato un effetto domino: il blocco delle udienze ha causato una contrazione del fatturato degli studi, che a sua volta si è riverberata sui neo-avvocati (soprattutto quelli che lavorano negli studi più piccoli), mandati a casa dall’oggi al domani. Infatti, gli avvocati che lavorano a libro paga di uno studio – nonostante di fatto abbiano un lavoro di tipo subordinato – non hanno un contratto di lavoro dipendente ma sono considerati liberi professionisti. Quindi non hanno tutele di nessun tipo.
 Per quanto riguarda invece la professione del giornalista, non tutte le redazioni hanno riaperto i battenti agli stagisti; così diversi ragazzi sono in attesa di capire dove faranno il tirocinio dopo aver terminato i corsi di formazione.

Ad esempio, Caterina (nome di fantasia) – che ha seguito il corso di giornalismo della scuola Basso terminato a luglio – è in attesa che la Rai o Fanpage sblocchino i tirocini e sottolinea con amarezza: «Non se ne parla prima di aprile». La maggior parte dei ragazzi del Master di giornalismo della Luiss sta invece facendo il tirocinio da casa; una modalità che sembra un po’ un pretesto per le redazioni per non sobbarcarsi la formazione degli stagisti in presenza. Invece, ragazzi che intraprendono una strada così impervia – e le loro storie lo dimostrano – al giorno d’oggi meriterebbero più rispetto e attenzione. E maggiori garanzie da parte delle istituzioni italiane, che dovrebbero semplificare questi percorsi formativi così come quelli degli psicologi e degli avvocati. È giusto che per ottenere un’abilitazione a una professione, ci si impieghi 6/7 anni, nel migliore dei casi?

La riforma dei decreti Sicurezza è solo maquillage

Men from Morocco and Bangladesh react on an overcrowded wooden boat, as aid workers of the Spanish NGO Open Arms approach them in the Mediterranean Sea, international waters, off the Libyan coast, Friday, Jan. 10, 2020. (AP Photo/Santi Palacios)

A oltre un anno dalla loro efficacia, il governo, presieduto dallo stesso presidente del Consiglio dell’epoca, modifica i decreti Sicurezza voluti da Matteo Salvini, annunciando una svolta che in realtà non è né carne né pesce. Un insieme di rattoppi qua e là senza alcuna visione chiara ed autonoma, anzi, succube dei provvedimenti originari voluti dal primo governo Conte.

Ritorna il permesso umanitario, ma non si sciolgono i nodi che riguardano gli accordi con la Libia e con gli altri Paesi del Mediterraneo. L’impronta di sinistra che tanto si attendeva è impercettibile. Si è cambiato colore all’edificio che però è rimasto lo stesso nella sua sostanza perimetrale. La tanto annunciata cancellazione dei decreti Salvini alla fine equivale a un falso ben imitato e spacciato per autentico. Un ritocco parziale e mal scritto che, sia chiaro, non cancella per nulla i decreti sicurezza di Salvini, ma li cambia solo in parte.

Si condivide, ovviamente, l’annullamento delle maxi multe alle Ong che potranno essere inflitte solo all’esito di un processo e non a discrezione del Prefetto, il ripristino del permesso umanitario, il ritorno del sistema degli Sprar e i cambiamenti del sistema dell’accoglienza. Non accettabile, invece, il periodo necessario a ottenere la cittadinanza, ridotto a tre anni.

Resta in toto la politica dell’emergenza sintetizzata con l’assurdo slogan: “Né porti chiusi, né aperti”. Questo tipo d’indecisione alla fine è sempre sintomo del fallimento della politica. Il nuovo decreto sicurezza, in effetti, enuncia che non sarà più possibile vietare l’intervento delle navi umanitarie, ma si dice anche che ciò è possibile a condizione che le «operazioni di soccorso siano immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo e allo Stato di bandiera, ed eseguite nel rispetto dell’indicazione della competente autorità per la ricerca e il soccorso in mare». Che cosa significa? In parole povere che la Libia è ritenuta un porto sicuro e quindi le Ong dovranno agire di conseguenza considerandola tale.

Ancora peggio si fa in tema di respingimenti. Le modifiche dispongono: «Non sono ammessi respingimenti qualora esistano fondati motivi di ritenere che la persona rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti». La Libia abbiamo appena detto che sia da ritenere un porto sicuro, quindi cosa cambierà rispetto ai tempi di Salvini?

I giallorossi cambiano le regole dei gialloverdi capitanati entrambi dallo stesso arbitro. Sembra un fachiro che deve camminare sulle uova stando attendo a non romperne nessuna per non urtare gli umori politici delle forze governative. Evidenzio inoltre che resta invariato l’impianto sulla repressione e la criminalizzazione per il picchetto sindacale o il blocco stradale (reclusione fino a sei anni). Non condivisibile come scelta di politica criminale, neanche il Daspo introdotto per la “movida violenta” dopo l’omicidio di Willy a Colleferro e gli aumenti di pena per il delitto di rissa.

Alle politiche sociali si preferisce ancora una volta la strada della criminalizzazione e del diritto penale. La verità è che sarebbe stato molto più onesto e corretto pretendere chiaramente l’abrogazione di entrambi i decreti sicurezza. Chi è realmente di sinistra su alcune questioni essenziali non può transigere mai. In una materia così delicata e fondamentale non possono essere sufficienti piccole modifiche ma occorre un cambio di rotta netta e precisa che sia al tempo stesso culturale e ideologico.

* Vincenzo Musacchio, giurista e docente di diritto penale, è associato al Rutgers institute on Anti-corruption studies (Riacs) di Newark (Usa). È ricercatore dell’Alta scuola di Studi strategici sulla criminalità organizzata del Royal united services institute di Londra. È stato allievo di Giuliano Vassalli e amico e collaboratore di Antonino Caponnetto.

I numeri e De Luca

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 29-09-2020 Roma Politica Trasmissione tv "Porta a Porta" Nella foto: Vincenzo De Luca Photo Roberto Monaldo / LaPresse 29-09-2020 Rome (Italy) PoliticsTv program "Porta a Porta" In the pic: Vincenzo De Luca

Ha funzionato tantissimo il personaggio di De Luca sceriffo durante il Covid. Non solo lui, gli sceriffi ultimamente piacciono a tanti, soprattutto se si atteggiano ma poi invece lasciano fare, ma De Luca che dava al governo lezioni di muscolare arroganza e racimolava consensi con battute divertenti contro Salvini e la sua banda è diventato un trend anche sui social, anche tra i giovani: ogni conferenza stampa aveva una drammaturgia perfetta per diventare un filmato da fare girare fino allo sfinimento. I lanciafiamme da usare per sgomberare gli assembramenti, paternalismo à gogo e quell’immagine da inscalfibile sceriffo di ferro che si porta dietro fin dai tempi in cui era sindaco di Salerno.

Ieri i nuovi contagi in Campania (quelli intercettati dal tampone) erano 757, il giorno precedente 544 e se davvero dobbiamo scavare a fondo nelle responsabilità che stanno dietro i numeri (perché questo dovremmo fare, mica solo quando c’è da impallinare giustamente Fontana e Gallera) allora si potrebbe dire anche che in Campania i tamponi continuano a essere pochi, pochissimi: una media di 7.000 tamponi al giorno con un rapporto tra testati e positivi che è in continuo aumento. Con un rapporto così alto tra persone testate e positivi evidentemente qualcosa non sta funzionando e molto probabilmente qualcosa sta pericolosamente sfuggendo.

Code chilometriche di cittadini preoccupati che aspettano fino a otto ore sotto la pioggia, gente che si presenta di prima mattina per riuscire a ottenerlo, gente che infine rinuncia. La coda di fronte al Frullone, struttura dell’Asl Napoli 1, addirittura intralcia l’ingresso dei dipendenti. Eppure la Campania dall’inizio dell’emergenza ha speso in appalti qualcosa come 204 milioni tra il primo gennaio e il 30 aprile (lo dice l’Anac in una relazione depositata in Parlamento) spendendo più del Veneto, quarta regione dopo Lombardia, Toscana e Piemonte.

Dei 3 ospedali Covid solo quello di Napoli è perfettamente operativo mentre a Salerno e a Caserta tutto per ora tace mentre la Procura indaga per turbativa d’asta e frode in pubbliche forniture, in relazione alle procedure di aggiudicazione e di esecuzione dei lavori.

Insomma il Coronavirus non si sconfigge con le parole e nemmeno con i siparietti (e tantomeno negandolo) ma organizzando seriamente la solita vecchia storia delle 3 “t” che qualcuno sembra avere già dimenticato: testare, tracciare, trattare.

La campagna elettorale è finita, come direbbe De Luca “le parole stanno a zero” e forse sarebbe il caso di spiegare e di rispondere. A proposito di rispondere: il presidente della Campania qualche giorno fa ha vietato agli operatori sanitari di parlare con i giornalisti. Un po’ meno tifo, per favore, e un po’ più di governo. Perché il populismo è ammaliante per tutti, a destra e a sinistra.

Buon venerdì.

Lo smemorato del Sussidistan

Eccolo qui, ancora, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi che come un falco rotto si lancia sul sistema Italia impartendo la sua lezione di politica dall’alto della sua (modesta) esperienza imprenditoriale e con i suoi soliti toni di guerriglia contro il Paese sociale. La sua ultima impresa, il suo ultimo bullismo lessicale è tutto nella parola «Sussidistan» con cui ha bollato l’Italia colpevole, a suo dire, di occuparsi troppo dei poveri e troppo poco delle imprese. «Aderire allo spirito dell’Ue significa una visione diversa dai sussidi per sostenere i settori in difficoltà. Nel lockdown il governo ha assunto misure di sostegno alla liquidità delle imprese e di rifinanziamento al fondo Pmi, ma i sussidi non sono per sempre, né vogliamo diventare un Sussidistan», ha detto Bonomi all’assemblea annuale degli industriali, riprendendo tra l’altro il termine già usato dall’economista del partito di Italia viva e trasformando un discorso serissimo e fondamentale per il futuro del Paese in uno slogan da macchiette.

Però ci vuole davvero un bel coraggio e tanta miopia per sostenere che il denaro a pioggia sia distribuito solo nella «logica del dividendo elettorale» nell’Italia in cui gli industriali hanno dimostrato di sapere battere cassa come forse da nessun’altra parte, tanto che al ministero dello Sviluppo economico c’è addirittura un’intera task force (un’altra, l’ennesima) dedicata esclusivamente agli incentivi alle imprese.

Forse bisognerebbe ricordare a Bonomi che già nel Dopoguerra fu lo Stato, attraverso le banche pubbliche, la Mediobanca di Enrico Cuccia e l’Iri a iniettare denaro nell’industria nazionale. Qualcuno potrebbe ricordare cosa accadde negli anni Novanta quando tutti i cittadini pagavano mutui con interessi a doppia cifra e lo Stato firmava il famoso “tasso Fiat” al 7% per aiutare l’azienda automobilistica italiana, quella che non ha avuto molti scrupoli poi a chiudere i suoi impianti italiani e delocalizzare con tanta agilità spostando tutto l’asse verso gli Stati Uniti.

Oppure si potrebbe tornare sul cronico tasto dolente di Alitalia che è stata privatizzata ma non è mai stata realmente privata nella distribuzione delle sue perdite che sono ricadute e continuano a ricadere nelle tasche dei contribuenti. Oppure si potrebbe ricordare i miliardi di euro che ogni anno arrivano come contributi indiretti o come sgravi fiscali all’industria del cemento che formalmente vanno a favore dei cittadini sotto i fantasiosi nomi di sismabonus, ristrutturazioni, rifacimento terrazze e soprattutto come bonus facciate ma che di fatto servono ad alimentare un settore in crisi profonda anche di idee che senza aiuti di Stato sarebbe fermo al palo. Dice il segretario Cgil Maurizio Landini in un’intervista a La Stampa che «il Sussidistan è quello delle aziende che vivono di contributi pubblici. Tra il 2015 e il 2020 alle imprese sono andati sussidi per più di 50 miliardi. E più di un terzo dei 100 della manovra del 2020. Una cifra consistente, una parte è prevista anche nella manovra più recente. Sono sussidi per incentivare assunzioni, sgravi fiscali, aiuti di ogni genere. Noi chiediamo di uscire dalla logica degli aiuti a pioggia per una nuova politica industriale che incentivi a creare lavoro di qualità e non precario innanzitutto per giovani e donne».

Il tema vero di questa epoca politica è che è in corso un attacco sconsiderato ai poveri e alla povertà (non certo per sconfiggerla con redditi decenti), che si camuffa come critica politica al Reddito di cittadinanza e a Quota 100 ma che sostanzialmente punta a spostare i soldi del prossimo Recovery fund sulle imprese che non vogliono perdere la propria occasione di sedersi al tavolo e di dividersi una bella fetta della torta. L’avevamo già scritto qualche numero fa proprio su queste pagine (vedi Left del 26 giugno, La democrazia secondo Confindustria, ndr): Confindustria ha lanciato Bonomi nell’agone politico con l’evidente obiettivo di succhiare più soldi possibili dai (molti) soldi che arriveranno dall’Europa. Solo questo. Tutto qui. E il trucco di non distinguere i piani del rilancio industriale da quelli della lotta alle povertà è astutamente utilizzato per confondere le acque.

Infine il prode Bonomi si lancia anche nella sconclusionata proposta di fare pagare l’Irpef direttamente ai dipendenti in nome di una “semplificazione” che non si capisce esattamente cosa porterebbe: in un Paese dove l’evasione fiscale costa 107 miliardi all’anno (metà del Recovery fund) e con la scandalosa statistica che ci dice che il 93% dell’Irpef è pagato dai lavoratori dipendenti e dai pensionati la proposta suona come un sottilissimo invito a investire in quelle stesse modalità che da anni azzoppano le casse pubbliche con l’enorme “fantasia fiscale” di una certa parte dell’imprenditoria italiana.

Un fatto però suona chiaro e cristallino: nel Paese dei capitalisti senza capitali che fanno imprenditoria con i soldi degli altri (o con i soldi pubblici) Carlo Bonomi si presenta con tutti i ghingheri che servono per apparire il perfetto protettore di un certo padronato che ha nel vocabolario del futuro solo una parola: soldi, soldi, soldi.

L’editoriale è tratto da Left del 9-15 ottobre 2020

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SOMMARIO

Quanto ci costa Confindustria

Assemblea Pubblica di Confindustria 2020

«Non vogliamo diventare un Sussidistan» perché «i sussidi non sono per sempre». Non è la prima volta in queste settimane che il presidente di Confindustria Carlo Bonomi trova occasione per attaccare l’operato del governo. E quale migliore occasione di farlo nuovamente dall’assemblea nazionale degli industriali del 29 settembre? Oggetto della critica all’esecutivo Conte questa volta sono state le agevolazioni fiscali ed economiche pensate per il post-lockdown: «Nel decreto di aprile non c’è nulla sull’industria», ha detto il numero uno di Confindustria, ma solo «denaro a pioggia» nella «logica del dividendo elettorale».

È, però, quantomeno curioso che tale giudizio critico arrivi dal palco della confederazione delle industrie e aziende private che, in fatto di sussidi pubblici incassati, non sono seconde a nessuno.

Secondo il database della Commissione europea Ameco solo nel 2019 il nostro Paese ha destinato agli imprenditori circa 20 miliardi tra sussidi, agevolazioni e benefici vari, ma è certamente una cifra sottostimata considerando che in questo caso parliamo solo di grandi produzioni e che ovviamente non è facile calcolare il monte dei fondi tra finanziamenti diretti (soldi spesso dati anche a fondo perduto) e indiretti (dal credito d’imposta agli sgravi contributivi e fiscali). È la stessa Confindustria, d’altronde, ad alzare di molto l’asticella: nell’ultimo dato disponibile (2018) si sono stimati sussidi per…

L’articolo prosegue su Left del 9-15 ottobre 2020

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SOMMARIO

Braccia rubate. Donne, uomini e caporali

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 05-07-2020 Roma , Italia Cronaca Manifestazione Stati Popolari - rendere visibili gli invisibili Nella foto: Immigrati braccianti dell'agricoltura in Piazza San Giovanni Photo Mauro Scrobogna /LaPresse July 05, 2020  Rome, Italy News Popular States demonstration - making the invisible visible In the picture: Agricultural laborers immigrants in Piazza San Giovanni

«Stamattina appena ho visto uno che parlava, dopo un secondo l’ho mandato a casa, non è che gli ho dato la seconda possibilità. “Vai a casa!”. Ed appena vedo uno con il cellulare io lo mando a casa! È il terrore di rispettare le regole!». «Il concetto da dirgli è proprio questo, se troviamo una fragola fatta male se ne vanno a fare in culo, non è che c’è il perdono, non so se mi spiego». «Questo deve essere l’atteggiamento perché con loro devi lavorare in maniera tribale, come lavorano loro, tu devi fare il maschio dominante, è quello il concetto». L’autore di queste frasi, un distillato di machismo, xenofobia, classismo e atteggiamento paraschiavista, non è un caporale attivo nel Meridione, come si potrebbe dedurre seguendo un facile stereotipo sempre meno aderente alla realtà. Bensì il giovane rampollo di una famiglia nobiliare. Classe 1988, ex bocconiano. Fondatore di una “avveniristica” start-up lombarda che coltiva e vende frutti di bosco provenienti da agricoltura biologica a km zero, realizzata con energie rinnovabili.

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Nel 2013 la Coldiretti Lombardia ha premiato il progetto col riconoscimento Oscar Green, in quanto azienda agricola innovativa ed attenta alla sostenibilità ambientale. Nel 2014 il medesimo premio gli è stato assegnato dalla Coldiretti addirittura a livello nazionale. L’immagine che l’impresa lasciava trasparire all’esterno, stando alle intercettazioni, era evidentemente molto diversa rispetto alla realtà. Secondo la procura di Milano, che le ha disposte, la start-up stipulava contratti irregolari coi propri braccianti – circa un centinaio, perlopiù stranieri provenienti dall’Africa subsahariana -, li pagava meno rispetto al contratto di categoria e manteneva condizioni di lavoro disumane. Per questo lo scorso agosto ha disposto il sequestro dei beni dell’impresa, mentre sette persone tra amministratori e dipendenti risultano indagate.

Questo episodio emblematico illustra una verità nota a chi da anni indaga e racconta la vicenda dello sfruttamento lavorativo in agricoltura: vessazioni ai limiti dello schiavismo e intermediazione illecita di manodopera agricola sono fenomeni diffusi non solo al Sud ma sempre più anche al Centro e al Nord Italia, e si replicano pure in realtà all’apparenza insospettabili, magari lontane da un contesto mafioso, e magari imbellettate dalla retorica green e bio. Mentre il sistema di norme e controlli con cui lo Stato dovrebbe individuare e reprimere questo tipo di reati, pur essendosi parzialmente irrobustito negli ultimi anni, è ancora palesemente insufficiente.

Il caporalato e il lavoro irregolare nelle campagne del Belpaese costituiscono un giro d’affari pari a 4,8 miliardi di euro, che grava su 400/430mila lavoratori agricoli (come indica l’Osservatorio Placido Rizzotto della Cgil). Come abbiamo detto, si tratta di un fenomeno non ascrivibile tout court alla criminalità organizzata di stampo mafioso, ma rappresenta pur sempre una voce significativa dei bilanci delle cosche. A farne le spese sono i braccianti, che sempre più spesso sono originari di Paesi esteri. Se nel 2008 gli operai agricoli italiani erano 768.843 e gli stranieri 268.273, nel 2017 i primi erano 695.613 mentre i secondi 364.385 (elaborazione Crea su dati Inps). E nella conta, ovviamente, non sono considerati gli stranieri privi di documenti, che di conseguenza sono sprovvisti pure di un contratto regolare. I più vulnerabili ed esposti a forme di ricatto da parte dei datori di lavoro, assieme a coloro che posseggono un titolo di soggiorno temporaneo rinnovabile solo a patto che si percepisca un reddito. I teatri più celebri di questa tragedia sono i ghetti disseminati nella Penisola, e in particolare al Sud, dove i braccianti provano a sopravvivere in condizioni estreme.

Periodicamente bersagliati dalle telecamere dei tg in occasione dell’ennesima morte annunciata, di un incendio o di uno sgombero, il sipario mediatico su di essi si apre e chiude alla svelta. Il viaggio di Braccia rubate comincia proprio da qui, dal racconto in presa diretta di queste baraccopoli (nel primo capitolo, che introduce i temi caldi del libro, e nel secondo, una selezione di reportage). In questi luoghi le condizioni di vita sono ulteriormente peggiorate durante il confinamento disposto dal governo italiano nella scorsa primavera in piena emergenza coronavirus. In quel momento, i braccianti senza documenti temevano di allontanarsi dalle proprie dimore di fortuna a causa dei controlli intensificati da parte delle forze dell’ordine sulla circolazione delle persone mentre le aziende, per lo stesso motivo, evitavano di reclutarli tramite i caporali. Per questo motivo, e per permettere alle imprese agricole di sopperire alla forte diminuzione di manodopera stagionale a causa della difficoltà nel raggiungere l’Italia dei braccianti stranieri ed in particolare di quelli provenienti dall’Est Europa, la ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova ha predisposto una sanatoria per lavoratori agricoli (e badanti), varata lo scorso maggio col decreto Rilancio.

Un provvedimento assai discusso, che elargiva diritti assai limitati ai beneficiari e – a causa della ratio con cui è stato elaborato – si è rivelato un vero e proprio flop, che in alcuni casi ha persino esposto ad ulteriori ricatti i lavoratori che cercavano di mettersi in regola (ne parliamo nel terzo capitolo). Certo è che, per cogliere pienamente i motivi del fallimento dello Stato italiano nella lotta al caporalato, occorre andare ben più indietro nel tempo rispetto a questa primavera. Bisogna risalire almeno al 2016, quando veniva approvata una legge storica, la n.199 del 2016, conosciuta ai più come legge «anti-caporalato». La norma ha ridefinito il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro rendendone più facile l’individuazione, ha introdotto la responsabilità anche del datore di lavoro e non più solo del caporale, e ha previsto infine la possibilità di commissariamento della azienda. La 199, indubbiamente, ha segnato una svolta positiva nel contrasto al caporalato: il suo impianto repressivo funziona, e ha dato risultati. Nell’arco del 2019 le indagini su questo fronte hanno portato alla denuncia di 570 persone da parte del Comando Carabinieri per la tutela del lavoro, in netto incremento rispetto alle 299 denunce del 2018 (+190%).

A fronte di una cronica scarsità di risorse a disposizione dell’Ispettorato, sono dunque cresciuti gli indici di efficacia dell’attività di vigilanza. I magistrati, adesso, hanno in mano armi più efficaci per portare avanti la propria attività, sia nella fase inquirente che nell’ambito dei processi. Ma è la parte della legge 199 dedicata alla prevenzione a fare acqua da tutte le parti. Voluta dall’allora premier Matteo Renzi e dal ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, l’«anti-caporalato» è infatti dotata di una pars construens, che sarebbe dovuta intervenire sugli squilibri della filiera produttiva per promuovere l’agricoltura sana. Questa parte della norma è restata in gran parte lettera morta, senza considerare le numerose e paradossali contraddizioni che la rendono in sé piuttosto inefficace a priori e bisognosa di una radicale revisione. Un’esigenza che il successore di Martina, il leghista Gian Marco Centinaio, non ha minimamente avvertito. Per il governo giallonero, d’altronde i ghetti erano una questione di ordine pubblico, da risolvere non con la tutela dei diritti di chi è costretto a viverci ma con le ruspe, mentre la legge anti-caporalato era qualcosa da modificare, magari indietreggiando rispetto a norme viste come troppo stringenti per le imprese (ripercorriamo la storia recente della lotta al caporalato nel quarto capitolo).

Alla fine, per fortuna, il Conte I ha evitato di sfregiare la legge 199. Ma di certo non ha alzato l’asticella dei diritti nelle campagne italiane, e sul tavolo del governo attuale, oggi, restano aperti numerosi problemi. In sintesi, per riassumere le urgenze più grandi nella lotta allo sfruttamento del lavoro in agricoltura, possiamo citare alcuni temi specifici, e poi una questione strutturale ed inaggirabile. Il vero elefante nel corridoio. I punti sono: documenti, alloggi, trasporti, intermediazione legale, salari. Servono titoli di soggiorno e case per restituire dignità (ma anche potere contrattuale nei confronti delle imprese) a chi vive nei ghetti, un sistema di trasporto pubblico che permetta ai lavoratori di non doversi più affidare ai pulmini dei caporali, un sistema valido di incrocio tra domanda e offerta di lavoro che sopperisca allo sfacelo seguito all’abolizione del collocamento pubblico in agricoltura e, infine, la revisione del contratto agricolo nella parte che permette al datore di lavoro di conteggiare le giornate a fine mese, un meccanismo facilmente eludibile che genera lavoro “grigio”, per cui braccianti regolarmente assunti percepiscono in realtà un “salario di piazza” minore di quello ufficiale, o sono pagati “a cottimo”.

Ebbene, tutte questi accorgimenti rischiano comunque di rappresentare un semplice palliativo se non si interviene sulla struttura economica della filiera agroalimentare italiana, ed in particolare su chi la fa da padrone, i giganti della Grande distribuzione organizzata (Gdo). Si tratta dei supermercati dove ogni giorno andiamo a fare la spesa, che continuano a dare le carte agli altri giocatori: imprese agricole, fornitori, industria alimentare. Imponendo dall’alto i suoi prezzi e così (più o meno direttamente) finendo con l’incidere sul costo del lavoro dei braccianti nei campi. Con strategie in bilico tra il legale e l’illegale. Avete mai sentito parlare, ad esempio, di «Sconti logistici», «premi finanziari», «esposizione preferenziale», «contributo per nuove aperture»? Scoprirete di cosa si tratta proseguendo la lettura (ne parliamo nel quinto ed ultimo capitolo). È anche attraverso questi strumenti poco conosciuti che le insegne di ipermercati, supermercati e discount, cresciute fino a catalizzare in Italia il 72% degli acquisti alimentari, governano il settore, occupando una posizione di strapotere nei confronti dell’industria e dell’agricoltura, la cui frammentazione – specie in alcune zone del Paese più fragili – si traduce in un minor potere contrattuale. Così, i grossisti e l’industria della trasformazione alimentare e il mondo agricolo sono “obbligati” a ridurre all’osso ogni costo. In questa operazione, i soggetti più deboli sono i lavoratori. L’ultimo anello della filiera. Quelli che pagano il prezzo più alto. Quelli più facile da spremere.

Buona lettura

*-*

Link al sommario di BRACCIA RUBATE

Braccia rubate. Donne, uomini e caporali – sommario

Introduzione di Leonardo Filippi

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FABBRICHE DI SFRUTTATI

Una storia di ordinario schiavismo di Osservatorio Placido Rizzotto

Come (non) si vive con 15 euro al giorno di Eva de Prosperis e Lorenzo Giroffi

Persone oltre le braccia di Leonardo Filippi

Caporalato S.p.a. di Andrea Cagioni

 

COSA SIGNIFICA VIVERE IN UN GHETTO

Rocco e i suoi fratelli nello slum di San Ferdinando di Angelo Ferracuti

«Essere cacciato è il mio destino» di Stefano Galieni

 

UNA SANATORIA DAL FIATO CORTO

Ma gli stranieri non ci avevano rubato il lavoro? di Leonardo Filippi

Prima invisibili e sfruttati, ora visibili e ricattati di Stefano Galieni

Una sanatoria che non libera nessuno di Simone Schiavetti

 

ALLE RADICI DEL CAPORALATO

Una regione nella morsa dello sfruttamento di Leonardo Palmisano

Protesti? Prima ti meno poi ti licenzio di Marco Omizzolo

Caporalato, la rivoluzione mancata di Leonardo Filippi, Maurizio Franco, Maria Panariello

Diritti al macello nell’Emilia che fu rossa di Simone Fana

Campi di battaglia, cosa (non) si fa contro il caporalato di Leonardo Filippi

Voucher, semaforo verde al lavoro nero di Mauro Sentimenti

Quei lavoratori consegnati dal governo alle agromafie di Leonardo Filippi

Denunciare i caporali sarà ancora più difficile di Youssef Hassan Holgado

Lotta al caporalato, solo false promesse di Leonardo Filippi

Il pollice gialloverde per l’agricoltura insostenibile di Antonio Onorati

Caporalato, un anno di chiacchiere giallonere di Leonardo Filippi

 

IL RUOLO DELLA GRANDE DISTRIBUZIONE

Gli anelli deboli di Checchino Antonini

Quelli che pagano il prezzo più salato di Leonardo Filippi

Il lavoro rende poveri di Leonardo Filippi

Uscire dal neoliberismo non è una utopia di Checchino Antonini

Amazzonia, nel nome di Chico Mendes la lotta degli indigeni contro il Covid

08 May 2020, Brazil, Parque das Tribos: Indigenous children wearing face masks against the spread of the coronavirus smile at the "Park of the Tribes". The Manaus region is severely affected by the coronavirus, while more than 135,000 Covid-19 infected people have been confirmed nationwide. In view of the rampant pandemic, representatives of indigenous organisations from the Amazon region have asked the international community for financial support. Photo by: Lucas Silva/picture-alliance/dpa/AP Images

Si chiamava Empate il movimento creato negli anni Settanta del secolo scorso da Chico Mendes contro la deforestazione dell’Amazzonia. “Empate” è l’atto di contrapporsi per contenere un’azione e deviarne la forza, è l’ostacolo che impedisce a qualcosa o qualcuno di portare a termine il suo disegno e il suo scopo. Empate è stata e continua ad essere la resistenza non violenta di uomini e donne che usano i loro corpi come barriere viventi, mettendosi fra gli alberi e i taglialegna. Per difendere la loro casa e le loro vite, per denunciare a un mondo distratto l’ecocidio in atto nel cuore verde del pianeta.

“Empate 2020” è oggi il nome della campagna lanciata dall’Alleanza dei Popoli della Foresta per sostenere le comunità amazzoniche brasiliane nella loro lotta contro il Covid 19: le comunità indigene assieme a quelle quilombolas di discendenza africana, che nella grande foresta trovarono rifugio dalla schiavitù, quelle meticce dei seringueiros e dei riberenhos che si sono insediate nel corso dei secoli lungo i suoi fiumi, diventando parte integrante dell’eco-sistema con le loro economie leggere e rigeneratrici, con i loro stili di vita sostenibili. Comunità radicate in quella diversità bio-culturale che è la vera ricchezza dell’Amazzonia, e che oggi cercano nell’Alleanza dei Popoli della Foresta una piattaforma comune che le rappresenti e le sostenga.
«Empate 2020 è una campagna in linea con i principi dell’Alleanza dei Popoli della Foresta promossa da mio padre Chico per ’unificare l’agenda di lotta di queste diverse popolazioni», sottolinea Angela Mendes, che dell’Alleanza è oggi portavoce, nell’ appello che ci ha rivolto perché Cospe – come altre ong in Europa – si faccia ambasciatrice della campagna in Italia. «Empate è il nome che abbiamo voluto perché sta lì a ricordare la continuità con le lotte di Chico, e dei suoi compagni seringueiros e indigeni, come Wilson Pinheiro, Arton Krenak e Cipaxè Xavante».

Empate dunque, oggi come ieri. Perché la resistenza che oppongono le comunità amazzoniche alla pandemia è la stessa che li vede impegnati contro i nemici di sempre: i commercianti di legname, gli accaparratori di terra, gli allevatori, i coloni, i cercatori d’oro, le compagnie petrolifere. Predatori economici di ogni specie che hanno trovato nel Coronavirus un alleato insperato, per portare a compimento quella colonizzazione dell’Amazzonia che è oggi l’ obiettivo esplicito di Bolsonaro, e che – come tutte le colonizzazioni – non può fare a meno dell’eliminazione fisica e culturale dei popoli nativi che rappresentano un ostacolo al loro disegno. Il dilagare dell’epidemia nella regione amazzonica è destinato a favorire questo processo, nel Paese dove la curva di crescita del Covid 19 è arrivata a 5 milioni di contagi e ha provocato 140.000 morti, senza mai subire flessioni. Grazie anche alle politiche di un governo «che sta cercando di smantellare e svuotare programmi e istituzioni preposte a tutelare i diritti dei popoli nativi, e che ha rimosso dai suoi doveri quello di garantire politiche pubbliche volte a minimizzare l’impatto del coronavirus nelle comunità», come ci ricorda Angela.

Il rischio è altissimo, perché i popoli amazzonici sono particolarmente vulnerabili all’impatto del virus, per un complesso di fattori che dal primo apparire del Covid 19 sono stati ripetutamente denunciati dalle loro organizzazioni: una soglia mediamente più bassa di difese immunitarie, l’insufficiente dotazione di materiali e strumenti per la prevenzione nei presidi sanitari di comunità, la distanza dai centri ospedalieri per il trasferimento delle persone malate, la costante violazione dei loro territori da parte di soggetti esterni, anche in presenza di misure restrittive, che il governo non è in grado né è interessato a far rispettare. Una condizione di vulnerabilità confermata dai risultati della ricerca condotta nel giugno scorso dall’ Instituto de Pesquisa Ambiental da Amazonia (Ipaa), in collaborazione con la Coordenadora de Organizacoes Indigenas da Amazonia Brasileira (Coiab), che ha dimostrato come tra le popolazioni indigene il tasso di infezione da coronavirus è più alto dell’84% rispetto alla media brasiliana e quello di mortalità del 150%.

«Purtroppo – ci dice Angela – non è più possibile impedire l’arrivo del Covid 19, perché è già lì». Come dimostra l’osservatorio della Red Eclesial Panamazonica, che dal mese di marzo monitora ogni giorno l’avanzare dell’epidemia, e che all’inizio di ottobre riportava un milione di casi accertati di Covid 19 nella regione amazzonica brasiliana, e 21.500 decessi ad esso collegati. «Ma vogliamo impedire che ancora più leader, che ancora più anziani, depositari della nostra memoria e della nostra cultura, muoiano contaminati da questa malattia. Per questo abbiamo lanciato la Campagna Empate 2020, per aiutare a minimizzare l’impatto del Covid-19 nelle comunità amazzoniche, raccogliendo fondi destinati alla prevenzione e al miglioramento dell’assistenza sanitaria in loco, alla sicurezza alimentare e alla nutrizione, alla realizzazione di campagne di comunicazione».

Angela conclude l’appello che ci ha rivolto con un forte richiamo a schierarsi al loro fianco in questo momento così delicato e difficile, a diventare anche noi protagonisti di questo movimento di Empate che parte dal cuore della foresta amazzonica, dalle terre di Chico Mendes, per farlo più grande.
«I popoli della foresta hanno bisogno in questo momento di tutto l’appoggio possibile, per un piano di emergenza che consenta loro di continuare a (R) esistere».
È un appello cui Cospe si sente oggi di aderire con convinzione, non solo impegnandosi in prima persona nella raccolta dei fondi necessari a realizzare gli obiettivi della campagna, ma a rilanciarla in Italia rivolgendosi al vasto mondo della società civile e delle istituzioni che ne condividono le finalità. Ricercando l’appoggio attivo e il contributo di tutte quelle persone che si sono mobilitate con noi in questi mesi per una risposta all’emergenza Covid 19 rivolta alle fasce sociali più fragili, alle popolazioni più svantaggiate, e che si è concretizzata anche nella creazione di un’Antenna sui diritti violati dei popoli amazzonici. Nella consapevolezza che siamo ancora nel pieno di questa crisi globale che colpisce tutti, ma con un impatto più devastante su chi non dispone dei mezzi e delle risorse per affrontarla, e che i mesi che abbiamo davanti a noi saranno determinanti per vincere questa sfida.

Giorgio Menchini è presidente Cospe

L’appuntamento
Di Amazzonia si parla al Terra di Tutti Film Festival di Bologna (6-11 ottobre), nella giornata del 10 ottobre.
La mattina si comincia con un presidio alle 11.00 al mercato contadino Campiaperti al Pratello ( Via del Pratello,angelo via M.Calari): AMAzzonia – from heart to earth.
Si prosegue il pomeriggio con l’incontro / dibattito: “I popoli amazzonici tra covid e deforestazione” alle ore 18.00 al Labas (Vicolo Bolognetti,2 Bologna)
Con Simona Maggiorelli (direttrice di Left), Alberto Zoratti (Cospe) e Giorgio Menchini (Presidente Cospe), Detjon Begaj (Labas), Fabio Magnasciutti (illustratore, autore di disegni per la campagna AMAzzonia di Cospe), Flaviano Bianchini (Source international.org) e in collegamento dal Brasile Angela Mendes, ( Alleanza dei popoli della Foresta), un rappresentante campagna Empate e Martina Molinu (rappresentante Cospe in Brasile).
Per info: www.terradituttifilmfestival.org

La campagna Empate
Campagna Empate 2020 Alleanza dei Popoli della Foresta contro il Coronavirus
Promotori: Comitato Chico Mendes, il Consiglio Nazionale delle Popolazioni Estrattive, la Ong Sos Amazonia e la Commissione Pro-Indio dell’Acre con l’appoggio dell’Organizzazione dei Popoli Indigeni del Rio Juruá e dell’Articolazione delle Popolazioni Indigene del Brasile.
Obiettivo della raccolta fondi internazionale: 160.000 euro
Obiettivo della raccolta fondi in Italia: 5.000 euro
Azioni finanziate:
Distribuzione di mascherine e gel igienizzanti a base di alcol per le famiglie, e sostegno a Distretti Sanitari Indigeni (DSEIs) e le altre strutture del Sistema Unico di Salute (SUS).
Distribuzione di generi alimentari di prima necessità acquistati sui mercati locali
Campagne di sensibilizzazione su emergenza Covid nelle lingue indigene
Beneficiari: 3.638 famiglie indigene residenti nelle Riserve Alto Juruà, Riozinho da Liberdade, Alto Taruacà e Chico Mendes e in 15 Terre Indigene dello stato dell’Acre. www.cospe.org

Un reddito di base per uscire tutti dalla crisi

This photo taken on May 14, 2016 in Plainpalais place in Geneva shows a giant poster reading "What would you do if your income was taken care of?", setting the Guinness World Record for the largest poster ever printed. - A campaign group backing an unconditional minimum income in Switzerland set a Guinness Record for the world's largest poster on May 14, seeking to rally support for the controversial idea ahead of a referendum next month. The record breaking 8,115 square metre (87,350 square feet) poster was made with a series of massive black plastic sheets, with the words "What would you do if your income was taken of" written in gold lettering. (Photo by FABRICE COFFRINI / AFP) (Photo by FABRICE COFFRINI/AFP via Getty Images)

«L’introduzione del reddito di base incondizionato costituisce una misura cruciale per poter conseguire gli obiettivi della dignità umana, della libertà e dell’uguaglianza che figurano nei testi fondamentali dell’Ue». È un brano dell’Iniziativa dei cittadini europei – una sorta di proposta di legge popolare a livello continentale – lanciata nei giorni scorsi per introdurre in ogni Paese dell’Unione una misura economica che assicuri «a ciascuno la sussistenza e la possibilità di partecipare alla società». Per arrivare sul tavolo della Commissione europea, la proposta deve essere sottoscritta da un milione di persone (siamo già a 30mila adesioni) suddivise in almeno sette Stati membri. La raccolta firme durerà un anno ed è sostenuta nel nostro Paese dalla rete Bin Italia (bin-italia.org).

Nella proposta, il reddito di base incondizionato viene definito da quattro criteri. Deve essere «universale», cioè versato a tutti; «individuale», dunque non legato alla situazione economica di altri familiari; «incondizionato», ossia non soggetto all’obbligo di accettare impieghi, frequentare corsi di formazione o essere impegnato in lavori socialmente utili; e «sufficiente», affinché consenta un tenore di vita dignitoso.

Ebbene, mentre a livello europeo si ragiona sulla possibilità di garantire a tutti un reddito di base che liberi i cittadini dalla miseria e dal ricatto di salari da fame, in Italia il presidente di Confindustria Bonomi va all’attacco del reddito minimo voluto dai grillini: «Non vogliamo diventare un Sussidistan». Alcuni giorni prima, il governatore emiliano Bonaccini ribadiva che «è il lavoro che dà dignità, non quell’assegno», che invece fa stare la gente «sul divano». Proprio mentre i media conservatori screditavano la forma di reddito nata in Italia nel 2019 perché percepita anche dalla famiglia dei fratelli Bianchi, accusati di omicidio volontario per la morte di Willy Monteiro Duarte a Colleferro.

Il punto è che «la Confindustria vuole che le misure governative anti-Covid siano perlopiù “politiche…

L’editoriale è tratto da Left del 9-15 ottobre 2020

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SOMMARIO

Il fascismo non esiste. Miliardesima puntata

People holding a banner depicting Greek rap singer Pavlos Fyssas, who was stabbed and killed by a supporter of the extreme right Golden Dawn party in 2013, triggering a crackdown on the party, gather for a protest outside a court in Athens, Wednesday, Oct. 7, 2020. The court is to deliver a landmark verdict in the marathon, five-year-long trial against the country's extreme right-wing Golden Dawn party Wednesday, with security tight and anti-fascist rallies outside the court for the politically charged case. (AP Photo/Yorgos Karahalis)

Brutta fine gli amici neofascisti di Alba Dorata, il partito di estrema destra greco che è arrivato a essere addirittura la terza forza politica del Paese e che ieri, con una sentenza epocale e che dovrebbe essere un monito per tutti, è stato dichiarato a tutti gli effetti un’organizzazione criminale. Sono ben sette gli ex deputati, tra cui anche il leader Nikos Michaloliakos che sono stati giudicati boss dediti all’organizzazione e alla gestione di un’organizzazione criminale che si è travestita da forza politica e che è riuscita addirittura a prendere una caterva di voti. Anche per gli altri ex parlamentari non è finita bene visto che sono stati condannati comunque per avere “partecipato” alla banda. Giorgos Roupakias, membro del partito, è stato condannato per l’omicidio del rapper antifascista Pavlos Fyssas nel 2013, l’evento che ha di fatto aperto le indagini.

Forse conviene anche ricordare che durante il processo (68 le persone processate) si è anche valutata la serie di violenze che sono state perpetrate nel corso degli anni, centinaia di aggressioni ai danni di attivisti antifascisti, di immigrati, di esponenti di sinistra, di omosessuali. Membri di Alba Dorata erano già stati giudicati colpevoli per l’uccisione ad Atene di un fruttivendolo pakistano, Ssazad Lukman, nel gennaio 2013. L’organizzazione è accusata anche del tentato omicidio di Abouzid Embarak, un pescatore egiziano, nel giugno 2012.

«Giornata storica per la giustizia in Grecia e in Europa: il leader e altri sei alti funzionari di Alba Dorata (ex parlamentari) dichiarati colpevoli di far parte di un’organizzazione criminale. La violenza razzista e i crimini d’odio non possono e non devono più essere tollerati», ha scritto Amnesty International.

Forse conviene anche ricordare che durante il processo per difendersi Michaloliakos, 62 anni, negazionista dell’Olocausto e ardente ammiratore di Hitler, ha descritto Alba Dorata come un partito patriottico.

Forse vale anche la pena ricordare che il processo tenuto in Grecia è di fatto il più grande processo contro un partito di ispirazione fascista dai tempi del processo contro i nazisti a Norimberga dopo la Seconda guerra mondiale.

Questo per tutti quelli che dicono che “il fascismo non esiste”. Qui siamo alla miliardesima puntata, più o meno.

Buon giovedì.