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Disperanza

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 24 Agosto 2020 Amatrice (Italia) Cronaca : Viaggiatori alla stazione Termini Nella Foto: viaggiatori con bagagli Photo Cecilia Fabiano/LaPresse August 24 , 2020 Amatrice (Italy) News: Travelers in Termini Station In the pic : travelers with baggage

È il primo treno della mattina, sul binario più lontano con il marciapiede più dentro la notte che dentro la stazione. Non è nemmeno la mattina come viene comunemente pensata, vissuta, raccontata, è la coda della notte, manca intorno qualsiasi segnale di risveglio, ci sono solo luci del sonno, i rumori consueti del buio, dell’alba nemmeno parlarne, i passeggeri di quel treno sembrano provare senso di colpa nell’attraversare la città in quell’ora innaturale, camminano certi di non incrociare nessuno, si grattano e si stropicciano come se fossero soli perché sono soli, una fila indiana di soli che hanno stretto un patto: qualcuno deve avere notato che a quell’ora non ci siano ancora le energie per le cortesie e insieme hanno deciso di limitarsi all’igiene minima, a un buongiorno solo se scappa e di evitare di incespicare uno sull’altro. Nel primo treno della mattina, quello che porta nello stomaco del centro produttivo, i passeggeri sprofondano nei sedili lasciandosi prendere da uno svenimento vigile e morsicano ogni minuto di inedia per risputarlo come riposo, ci provano tutti i giorni ma non riescono mai.

Non ho potuto frequentare molto i treni della mattina, anzi nemmeno quelli del pomeriggio, vivere sotto scorta mi ha disinfettato dalla quotidianità rinchiuso in un bolla di vetro e mentre mi proteggevo non mi accorgevo di prosciugarmi. Quando ho deciso di riannodare il filo con la normalità salire sui vagoni che portano nel ventre della chioccia del fatturato italiano mi ha fatto sentire ignorante e stupido, tagliato fuori dal mondo che mi illudevo di raccontare. Non mi colpisce l’odore di guarnizione e nemmeno il caldo da falò di pneumatici, mi colpiscono le mani. Le mani dei pendolari primi stringono gli zaini come per strozzarli, passano tra i capelli come spazzole senza denti, sfogliano telefoni, si addormentano schiacciate tra le teste e i finestrini, penzolano mentre decidono dove sedersi e poi finalmente  svengono in grembo. Aleggia su quel treno un sentimento che non esiste nel vocabolario, un andare da qualche parte a fare qualcosa senza nessun intento, una schiera di gente che non si sposta ma si fa spostare, un’insoddisfazione generale nell’avere avuto poco tempo, troppo poco tempo, tra il viaggio di ritorno che è stato ieri sera tardi e questa ripartenza che è partita troppo presto, un’umanità compressa a vivere nelle pause del lavoro straziata dalla stanchezza che intorbidisce il tempo, quello che sarebbe libero e invece non è libero dalla stanchezza distrutta. Se il sonno sveglio avesse una forma, se il sonno sveglio fosse un quadro, sarebbe quella gente slogata sui sedili come gli orologi molli di Dalì. La colonna sonora è l’impiastricciamento dei movimenti e delle parole, è il silenzio greve che diventa cappa. 

(da Disperanza, il mio ultimo libro, in libreria da ieri)

Svetlana Aleksievic: «Lukashenko ha dichiarato guerra alla sua gente»

Da oltre un mese in Bielorussia – dopo delle elezioni-farsa che hanno confermato alla presidenza Alexander Lukashenko per la sesta volta consecutiva – è in corso una dura battaglia di tutto un popolo per conquistare la democrazia. Una battaglia che ha avuto già tante vittime, cinque persone uccise mentre manifestavano pacificamente e altre centinaia arrestate e torturate nelle caserme. Una straordinaria mobilitazione che ha visto in prima fila le donne di diverse generazioni. Donne come Svetlana Tikhanovskaya, la candidata di bandiera dell’opposizione ora costretta all’esilio in Lituania. O come Marya Kolesnikova, la portavoce di Victor Babariko, uno dei candidati arrestati prima del voto, sequestrata dai servizi segreti e ora accusata di aver inteso organizzare un golpe, ma soprattutto le migliaia di donne che nei giorni duri di ferragosto, quando la violenza dei reparti speciali sembrava inghiottire tutto, con le loro “catene della solidarietà” hanno dimostrato quanto questo popolo mite sia anche forte e dignitoso proprio soprattutto in quella sua parte che qualcuno osa ancora chiamare “sesso debole”. Tra tutte queste donne bielorusse che sono in prima fila nella lotta contro il regime c’è anche Svetlana Aleksievic (Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo, La guerra non ha un volto di donna), una signora di 72 anni, premio Nobel per la letteratura, che ha accettato di rispondere alle nostre domande.

Con gli arresti di Maxim Znak e Marya Kolesnikova lei è rimasta l’unico membro del Consiglio di coordinamento dell’opposizione in libertà. Le pesa? Ha paura?
Paura no, c’è un po’ di solitudine. Non c’è più nessuno dei miei amici, sono tutti in prigione o espulsi all’estero. E io sono una donna anziana e malata. Si tratta di una situazione paradossale: il Paese è stato rapito, i suoi migliori figli vengono rapiti o arrestati. Ma non fa nulla, ne verranno centinaia di altri. Non è stato il Comitato di coordinamento a ribellarsi al regime di Lukashenko. È tutto il nostro Paese che si è ribellato.

Qual è il programma del Consiglio di coordinamento?
Il nostro programma è molto semplice e di transizione. Il Consiglio di coordinamento dell’opposizione è favorevole allo svolgimento di nuove elezioni presidenziali in Bielorussia, al rilascio di prigionieri politici e all’indagine sui crimini dell’attuale governo. Il presidente Alexander Lukashenko ha paragonato il consiglio ai “centoneri” (formazione di estrema destra russa dell’inizi del XX secolo, nda), e recentemente ha definito le nostre proposte «un disastro per la nazione» e ha sottolineato che non avrebbe aperto un confronto con i suoi membri. E così è stato…

Quindi non stavate ordendo alcun colpo di Stato…
Voglio ripetere qui quello che dico continuamente. Non stavamo preparando nessuno colpo di Stato. Volevamo solo evitare una pericolosa scissione nel nostro Paese. Volevamo che iniziasse un dialogo nella società. Lukashenko dice che non parlerà con “la piazza”, ma “la piazza” è composta da centinaia di migliaia di persone. Non si tratta di nessuna “piazza” è semplicemente gente che si mobilita ogni domenica e tutti i giorni. Gente che non ha paura di manifestare portando con sé i bambini, perché crede nella vittoria. E voglio ripetere ancora questa cosa che ho già detto tante volte in questi giorni: bielorussi, sono orgogliosa di voi, di quello che state facendo.

Perché secondo lei Lukashenko procede in una repressione così spietata?
Secondo me, le autorità hanno dichiarato guerra alla loro gente. Vedo la società radicalizzarsi davanti ai miei occhi. Perché il modo in cui si comporta la polizia antisommossa non lo potevo nemmeno immaginare … Avevamo visto che succedeva in altri Paesi, cosa è successo quando la popolazione nera d’America si è ribellata. Ma da noi ancora non si era vista una cosa del genere.

Lei è sicura che Lukashenko abbia perso le elezioni contro Svetlana Tikhanovskaya? C’è qualcuno che ancora ne dubita.
Assolutamente sicura. E so da dove viene questa sicurezza non solo mia. Nessuno vede intorno a sé qualcuno che ama Lukashenko. E dopo tutto quello che sta succedendo nelle nostre strade, come puoi credere in questa persona? Inoltre come bielorussi sottolineiamo sempre una cosa: siamo gente mite, non vogliamo uccidere nessuno. E quando vedo la rabbia quasi disumana e satanica con cui i reparti antisommossa stanno agendo nel nostro Paese, trovo difficile credere che siano dei bielorussi. Mi sembra che dei ragazzi bielorussi non possano picchiare le loro madri e le loro sorelle in questo modo.

Come valuta la partenza di Svetlana Tikhanovskaya dalla Bielorussia alla Lituania?
Sono

L’intervista alla Nobel per la letteratura prosegue su Left del 18-24 settembre

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Indebolire il Parlamento significa togliere voce ai cittadini

Foto Cecilia Fabiano/LaPresse 13 Settembre 2020 Roma (Italia) Cronaca Manifestazione per il No al referendum sul taglio dei parlamentari. Nella Foto: la manifestazione in piazza santi apostoli Photo Cecilia Fabiano/LaPresse September 13 , 2020 Rome (Italy) News Demonstration for support the No at the referendum for choose if cut the parliamentarians seats. In the pic : the demonstration in Santi Apostoli squeare

Quello del 20 settembre 2020, l’anno della pandemia e del centocinquantesimo anniversario della Breccia di Porta Pia, è il quarto referendum che, in venti anni (2001-2006-2016-2020), chiama i cittadini a votare per modificare la giovane Costituzione della altrettanto giovane Repubblica italiana. Poco più di 70 anni fa c’era ancora la Monarchia e vigeva lo Statuto Albertino.

È notorio che anche la semplice modifica di una virgola ad una legge potrebbe comportare conseguenze di varia natura. Cambiare la Costituzione, che è la Legge delle leggi scritta in particolari momenti della Storia di una Nazione, è una cosa seria. I cittadini, in occasione del referendum, non dovrebbero lavarsene le mani come Ponzio Pilato. E non dovrebbero decidere sbrigativamente assecondando le proprie o le altrui passioni, emozioni, simpatie e antipatie del momento.

In proposito, viene subito in mente il metodo suggerito da Luigi Einaudi: “Conoscere, discutere e deliberare”. La citazione appare opportuna anche perché Einaudi è stato uno dei Padri costituenti, è stato eletto a svolgere il compito di Presidente della Repubblica ed è stato definito “esemplare custode” della Costituzione. Ecco perché, anche alla luce delle esperienze e dei risultati caratterizzanti i tre referendum che hanno preceduto quello del 20 settembre, prima di votare bisognerebbe tenere presente:

1) l’esistenza, nel contenuto della proposta di riforma costituzionale, di un ampliamento o di un restringimento dei diritti e delle libertà del singolo cittadino chiamato a votare Sì o No;

2) i motivi e le finalità visibili e sottostanti che abbiano indotto l’attuale Parlamento a formulare le proposte di modifiche costituzionali;

3) quali e quanti siano gli interessi a modificare la Costituzione da parte dei governanti di turno che, per come ci ha insegnato Calamandrei, dovrebbero essere impegnati a governare rimanendo lontani dai processi di formazione della volontà del Parlamento in materia costituzionale;

4) le conseguenze delle modifiche relativamente alla possibilità che la riforma oggetto di referendum possa essere destinata (o preordinata) a dare la stura ad altre successive modifiche costituzionali con esiti del tutto incerti al momento in cui il cittadino viene chiamato a rispondere con un semplice Sì o con un semplice No;

5) il filo rosso (o multicolore) del “potere” che congiunge i 4 referendum, “potere” inteso come “concentrazione del potere” in contrasto col diritto del cittadino alla “partecipazione”;

6) l’esistenza della libertà di coscienza, ai sensi dell’art. 67 della Costituzione, nella determinazione della volontà dei singoli parlamentari che hanno posto in essere le modifiche costituzionali atteso che in Italia, specialmente dal Porcellum in poi, molti parlamentari non sono stati scelti dai cittadini, ma dai loro capi partito e atteso che in Italia non è stato attuato l’art. 49 della Costituzione che prevede il “metodo democratico” nella formazione della volontà dei partiti.

In piena libertà di coscienza, come cittadino teso a rispettare entrambe le opinioni, quella a favore e quella contraria alle modifiche, ho provato a dare le risposte alle sei questioni che ho appena accennato. Mi rendo conto che ho posto alcune “domande retoriche” perché le relative risposte, se non completamente evidenti nella stessa domanda, mettono a nudo una vicenda da considerare in un contesto rivolto a cambiare, pezzo per pezzo, i connotati dell’architettura costituzionale disegnata dai Padri costituenti. Pertanto posso omettere di dilungarmi punto per punto sulle singole questioni e mi limiterò a sintetizzare gli aspetti più significativi della vicenda referendaria.

Il taglio di parlamentari, previsto nella proposta di riforma, non allarga né i diritti e né le libertà dei cittadini, come ha ben spiegato Massimo Villone, Presidente del Coordinamento per la Democrazia costituzionale e del Comitato del “no”. Villone parla di un «danno» alla rappresentatività dei cittadini nel Parlamento: «In Senato, con la riforma, solo due o tre forze politiche riuscirebbero ad avere propri eletti, lasciando senza voce percentuali molto significative del corpo elettorale. Tra l’altro diversificando la composizione tra Camera e Senato, perché alcune forze politiche riuscirebbero ad avere deputati, ma non senatori».

C’è da aggiungere che la riduzione del numero dei parlamentari pone il rapporto elettori-eletto molto lontano dai numeri indicati dai Padri costituenti. Domenico Gallo, dell’esecutivo dello stesso Coordinamento per la Democrazia costituzionale, ha spiegato con scrupolosa puntualità la questione dei numeri in riferimento al rapporto eletto-elettori ed ha concluso il suo studio affermando che: «Attualmente il rapporto fra abitanti e Parlamentari è di un seggio di deputato ogni 96.000 abitanti ed un seggio di senatore ogni 192.000 abitanti. Con la riforma avremo un deputato ogni 151.000 abitanti ed un senatore ogni 303.000 abitanti. Se si fa il raffronto fra il numero dei deputati e la popolazione negli Stati membri dell’Unione Europea, l’Italia, con un rapporto di 0,7 ogni centomila abitanti finisce all’ultimo posto, superando la Spagna, che prevede un seggio ogni 133.000 abitanti (0,8)».

Gallo, numeri alla mano, ha anche messo in evidenza il fatto che il voto dei cittadini non sarebbe di eguale peso nelle differenti regioni. Per esempio c’è la Calabria che, con popolazione doppia di quella del Trentino avrebbe lo stesso numero di parlamentari. Peraltro la riduzione crea una vera sproporzione tra peso politico del Parlamento, con numeri ridotti, e rappresentanti delle regioni in occasione della elezione del Presidente della Repubblica. La riforma favorirebbe l’allargamento e la “concentrazione” di potere in capo alle Regioni, che non sono il massimo della credibilità politico-istituzionale specialmente dopo la “errata” e improvvida riforma del Titolo V del 2001. Fu, quella riforma, oggetto del primo dei quattro referendum dell’ultimo ventennio. Prevalse il Sì e molti cittadini, me compreso, siamo pentiti di quel Sì ad una riforma che ha favorito le rivendicazioni di “accentramento” di poteri a livello delle Regioni. Le recenti vicende concernenti le rivendicazioni di più potere da parte delle Regioni attraverso la così detta “autonomia regionale differenziata”, corrispondono sostanzialmente agli obiettivi della “secessione” compresa nel progetto politico di un partito nato e nutrito con lo scopo di frantumare l’unità d’Italia realizzata 150 anni fa. L’unità dell’Italia è molto recente rispetto alle grandi nazioni europee.

Mi preme sottolineare che c’è un filo non rosso, ma multicolore, che collega la “tendenza” ad affievolire (se non indebolire) il potere di tutte le assemblee elettive (Parlamento, Consiglio regionale, Consiglio comunale) titolari del potere-funzione di indirizzo e di controllo nei confronti del governo, del governatore e del sindaco. Questa “tendenza” risulta chiara e dichiarata da molti “riformatori” che pretendono di realizzare un’architettura costituzionale sotto la guida del “Sindaco d’Italia”. Si tenga presente, al riguardo, che ai sindaci dei nostri tempi sono stati conferiti più poteri di quanto non ne avessero i podestà di epoca fascista. Il filo multicolore che congiunge i quattro referendum dell’ultimo ventennio non ha mai avuto il connotato dell’allargamento dei diritti e delle libertà dei cittadini. Ha una caratteristica precisa che si può definire con una locuzione: “Rivendicazione della concentrazione del potere”. È stata la rivendicazione della concentrazione del potere in capo alle Regioni la errata riforma del Titolo V (anno 2001). La medesima “rivendicazione” di una specie di “premierato assoluto” (più potere al governo) è stato il tentativo di riforma del 2006 ad opera del governo Berlusconi. Similmente il governo Renzi ha provato, tra l’altro, a sopprimere il Senato per sostituirlo con un Senato eletto dai consiglieri regionali e non direttamente dai cittadini. Per ragioni di sintesi non mi dilungo sui tentativi di riforma dei governi Berlusconi e Renzi che gli italiani hanno respinto con un No chiaro e forte.

Osservo, infine, che le attuali proposte di modifiche costituzionali sono state oggetto di un accordo di governo. Addirittura con un accordo che ha costretto (o indotto) a votare Sì alla riforma alcune forze politiche che, prima di entrare nell’attuale governo, avevano votato più volte No alla medesima riforma. La questione è gravissima perché si allinea ad una prassi contraria a diversi principi e a diverse caratteristiche della Costituzione, che è una Costituzione rigida, quindi non flessibile e non oggetto di cambiamenti con l’avvicendamento dei governi.

Oltre agli insegnamenti di Calamandrei, ci sono da ricordare le parole scritte in molte lingue, anche in lingua italiana, sulle vetrate dell’edificio dove è custodita la famosa e secolare Campana di Philadelphia che spiega come: «Un governo giusto si basa su una Costituzione scritta e non dipende dai capricci dei singoli governanti». Queste parole scritte nel luogo dove è nata la prima democrazia moderna e dove è stata concepita la Costituzione con quasi tre secoli di vita, dovrebbero fare arrossire di vergogna i governanti italiani che, da un ventennio, sottraggono al tempo del loro compito governativo tantissimo tempo in attività finalizzate al cambiamento della Costituzione.

Da quanto affermato da alcuni sostenitori del Sì, sembra emergere l’idea secondo cui ogni riforma dovrebbe essere valutata per quello che è e che appare al momento del voto referendario, senza eccessivi timori per le modifiche ulteriori che fossero necessarie a dare senso compiuto alla riforma oggetto del quesito referendario. Sta di fatto che gli stessi sostenitori del Sì, che sono forze di governo, preannunciano altre riforme costituzionali. Con ciò confermano di avere l’intenzione di aprire un infinito processo di cambiamenti il cui esito è del tutto incerto al momento in cui il cittadino si vede costretto a decidere con un semplice Sì o con un semplice No. Infatti, se l’attuale maggioranza governativa dovesse cadere, le preannunciate ulteriori modifiche finirebbero per avere caratteristiche imprevedibili. Al riguardo, mi pare doveroso citare la recente opinione espressa da un attento e raffinato analista politico, Rino Formica, secondo cui «Se passa il Sì passa l’avventura di modifiche costituzionali al vento di tutte le possibili maggioranze politiche. Chi ha la maggioranza politica cambia le leggi elettorali e la Costituzione a suo uso e consumo».

Concludo queste mie riflessioni ricordando la lunga notte della democrazia causata da leggi elettorali riconosciute incostituzionali dalla Corte costituzionale. Le sentenze della Corte sono intervenute grazie ai ricorsi presentati, in via giurisdizionale, da semplici cittadini impegnati a contrastare le ineffabili scelte di decisori politici che, in spregio all’etica della responsabilità, continuano ad imperversare sulla scena politica italiana.

Per i motivi sinteticamente esposti, considerato il mio errore del Sì alla “errata” riforma del Titolo V del 2001 e tenuto presente il mio coerente No ad entrambi i tentativi di riforma costituzionale dei governi Berlusconi e Renzi, rispettivamente nel 2006 e nel 2016, ritengo giusto votare No al referendum del 20 settembre 2020.


* Antonio Pileggi, avvocato, fa parte del Comitato per il No al taglio del Parlamento

Per approfondire, leggi Left del 18-24 settembre

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Giù le mani dalla democrazia

ROME, ITALY - SEPTEMBER 13: People hold signs as they participate in the Così No! (So NO ) demonstration on September 13, 2020 in Rome, Italy. The protest supports voting ‘NO’ on the constitutional referendum on 20 and 21 September which if voted ‘Yes’ would reduce the number of members of parliament. (Photo by Simona Granati - Corbis/Getty Images,)

La posta in gioco nel referendum costituzionale del 20-21 settembre prossimo, in sé, è poca cosa. Ed anche opinabile. Ma il referendum sarebbe potuto essere l’occasione per accendere finalmente i riflettori sul tema vero che sta all’origine del piccolo passo costituito dalla riduzione dei parlamentari. Ed è il tema del lunghissimo processo di consunzione della nostra democrazia. Invece il dibattito si è concentrato sul – tutto sommato – modesto sintomo, il taglio numerico prodotto dalla riforma costituzionale, sorvolando sulla malattia ingravescente che da decenni nessuno cura. Esiste un parallelismo non casuale con il processo, anch’esso in atto da decenni, di deperimento dei sistemi di welfare state. È stata definita “strategia dell’anoressia” e consiste nel condurre il welfare alla consunzione mantenendolo però in vita (cfr. Paolo Borioni, “La lezione del coronavirus: più welfare e più pubblico” su strisciarossa.it).

Da molto tempo le forze egemoniche neo-liberiste hanno capito che conveniva loro evitare di proporre frontalmente lo smantellamento dello Stato sociale, perché una posizione così netta non avrebbe mai ottenuto consensi maggioritari nei popoli europei. Così hanno agito molto più astutamente, affamando il welfare, riducendone i caratteri universalistici, orientandolo verso i “meritevoli” in un’ottica di precarizzazione complessiva della società.

Inoltre, la strategia dell’anoressia ha prodotto necessariamente lo scadimento della qualità dei servizi pubblici, dalla sanità, alla scuola, ai trasporti, inducendo l’opinione pubblica ad…

 *-*

L’autore: Luciano Belli Paci è avvocato civilista del Foro di Milano e fa parte del Circolo Rosselli

L’articolo prosegue su Left del 18-24 settembre

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La più bella del mondo

Contro la controriforma della Costituzione che prevede il taglio lineare del numero dei parlamentari ci battiamo da oltre un anno. Coerentemente con quella che è sempre stata la nostra storia di ferma opposizione ad ogni tentativo di manomettere la Carta invece di attuarla; avendo strenuamente lottato contro i tentativi messi in atto da Berlusconi nel 2006 e da Renzi nel 2016, entrambi respinti dalla volontà popolare attraverso il voto.

«Dagli anni Ottanta del secolo scorso si è andata coagulando una sorta di nuova ideologia italiana – nuova ma con radici antiche – che è antipartitica, antiparlamentare, anticostituzionale, tecnocratica, che tende alla demolizione del primato della politica, alla sua personalizzazione, alla disintermediazione e che esalta la mitologia del maggioritario per coltivare in realtà un progetto non dichiarato: quello di introdurre una rudimentale repubblica di tipo presidenziale, attraverso l’elezione diretta dell’esecutivo ma senza i pesi e contrappesi dei sistemi presidenziali classici», scrive l’avvocato Luciano Belli Paci in questo sfoglio. La Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza come è noto era nel mirino del piano eversivo “di rinascita” dell’Italia ordito dalla P2 di Licio Gelli, e più di recente era stata giudicata un ostacolo alle “riforme” dalla Banca d’affari J. P. Morgan perché giudicata troppo democratica e socialista. Ora l’ennesima spallata arriva, con la complicità del Pd, dal Movimento cinque stelle che della riduzione del numero dei parlamentari ha fatto una battaglia identitaria. L’obiettivo? Abbattere la democrazia rappresentativa e sostituirla con una sedicente democrazia diretta, nei fatti eterodiretta da una piattaforma privata denominata Rousseau. Questa è la brutale sintesi di quel che sta avvenendo proprio mentre siamo alle prese con una pandemia che ha acuito le disuguaglianze, mentre si annuncia un autunno durissimo di crisi economica e di licenziamenti.

Ridurre la rappresentanza in un momento simile è un’operazione politica irresponsabile e criminale. Tanto più perché compiuta per futili motivi, per un risparmio irrisorio, come ci ricorda l’incisivo e puntuale vademecum delle ragioni del No stilato da Leonardo Filippi, che conclude uno sfoglio di autorevoli interventi che, oltre a quello di Belli Paci, comprende quelli della costituzionalista Anna Falcone e della sindacalista ex segretaria generale della Cgil Susanna Camusso ma anche l’appassionato intervento del diciassettenne Gabriele Bartolini, responsabile del movimento Giovani per la Costituzione. Ammesso e non concesso che risparmiare sulla democrazia sia un obiettivo da perseguire, lo si potrebbe ottenere riducendo lo stipendio dei parlamentari. Infinitamente di più si otterrebbe tagliando le miliardarie (in euro) spese militari, tagliando i miliardari privilegi della casta sacerdotale e della Chiesa, recuperando miliardi di evasione fiscale. Ma con tutta evidenza non c’è la volontà politica di farlo. Il Pd che per tre volte ha votato No a questa riforma in quarta lettura ha votato Sì, «per fedeltà al patto di governo», è stato esplicitamente detto, non per difesa di valori e ideali. Ma forse le cose non stanno proprio così. Un pericoloso obiettivo c’è anche se non dichiarato esplicitamente. Anche il maggior partito del centrosinistra, nato con una vocazione maggioritaria, intende aprire le porte al presidenzialismo, al governo dell’uomo solo al comando? Domanda provocatoria, ma non troppo. Sappiamo bene che – la riduzione della rappresentanza con l’esclusione di interi territori, la riduzione del pluralismo e la sparizione dei piccoli partiti (che non potrebbero più far sentire la loro voce nelle Commissioni), il mantenimento delle liste bloccate che promuovono solo i fedelissimi delle segreterie – portano in quella direzione, consegnando il Parlamento a un potere rigidamente oligarchico.

Le destre ci stanno lavorando da tempo e le proposte depositate da parlamentari di Fratelli d’Italia e della Lega, fra le quali quella per l’elezione diretta del Capo dello Stato, sono esplicite da questo punto di vista. Subalterni alla demagogia dell’antipolitica, a chi voleva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno (salvo poi puntare ad accaparrarsi i più alti scranni) il Pd si è fatto tappetino per questa riforma eversiva che rischia di essere il cavallo di Troia di altre nefande riforme a cominciare dal progetto di attuazione dell’autonomia differenziata (ribattezzata da Viesti «secessione dei ricchi») che cancellerebbe l’universalità dei diritti, producendo un’Italia a due velocità proprio mentre al contrario, come ha reso evidente l’emergenza sanitaria, il sistema sanitario pubblico nazionale andrebbe centralizzato e reso più forte, proprio quando andrebbero uniformemente potenziate la medicina territoriale e la prevenzione. Di fronte a questa prospettiva noi torniamo ad esprimere un fermo No su queste pagine e, soprattutto, attraverso il voto al Referendum del 20 e 21 settembre.

L’editoriale è tratto da Left del 18-24 settembre

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“Il Parlamento è inutile”

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 11-09-2020 Roma Politica Agenzia delle Dogane e dei Monopoli - Presentazione del Libro Blu 2019 Nella foto Beppe Grillo, Luigi Di Maio Photo Roberto Monaldo / LaPresse 11-09-2020 Rome (Italy) Customs and Monopoly Agency - Presentation of the 2019 Blue Book In the pic Beppe Grillo, Luigi Di Maio

7 giugno 2013. Beppe Grillo scriveva sul suo blog: “Il Parlamento ha ancora un senso? Va riformato, abolito? Una cosa è certa, oggi non serve praticamente a nulla. Il Parlamento, luogo centrale della nostra democrazia, è stato spossessato dal suo ruolo di voce dei cittadini. Emette sussurri, rantoli, gemiti come un corpo in agonia che sono raccolti da volenterosi giornalisti per il gossip quotidiano. Chi rappresenta ormai questo luogo? Deputati e senatori sono nominati dai dirigenti della “ditta” del pdmenoelle (così si dice la chiami Gargamella Bersani in privato) e di un condannato in secondo grado per evasione fiscale che altrove sarebbe in fuga in lidi lontani. I parlamentari nominati dai partiti non rappresentano nessun elettore, neppure sé stessi. Sono solo impiegati con un ottimo stipendio adibiti a pigiare bottoni a comando. Qualcuno, scelto tra i più fedeli, viene utilizzato alla bisogna per raccontare frottole in televisione su canali lottizzati”.

E poi: “Fare leggi è il suo compito, ma le leggi, al suo posto, le fa il Governo sotto forma di decreti a pioggia, quasi sempre approvati in aula. Il Governo, in teoria, ha il compito di governare, non di sostituirsi al Parlamento”.

“Il Parlamento potrebbe chiudere domani, nessuno se accorgerebbe. È un simulacro, un monumento ai caduti, la tomba maleodorante della Seconda Repubblica. O lo seppelliamo o lo rifondiamo. La scatola di tonno è vuota. Ripeto: la scatola di tonno è vuota”.

Poi, luglio 2018. Dice Grillo nel corso di una intervista rilasciata alla trasmissione americana Gzero Word: “Io penso –  ha proseguito – che potremmo scegliere una delle due camere del Parlamento casualmente, in maniera proporzionata per età, sesso, reddito, provenienza geografica sud/nord. Solo così l’assemblea potrebbe essere veramente rappresentativa del Paese”.

Sempre in quei giorni Davide Casaleggio in un’intervista a La Verità diceva: “Il Parlamento continuerebbe ad esistere con il suo primitivo e più alto compito: garantire che il volere dei cittadini venga tradotto in atti concreti e coerenti. Ma tra qualche lustro è possibile che la sua esistenza non sia più necessaria nemmeno in questa sua forma. Anche perché c’è una democrazia diretta che è già una realtà grazie a Rousseau che per il momento è adottato solo dal M5s ma che potrebbe essere adottato in molti altri ambiti”. Per inciso: Rosseau è quella piattaforma che proprio ieri Casaleggio ha minacciato di chiudere, essendo una sua proprietà privata.

Ieri Grillo ha detto: “In Parlamento ci occupiamo di cose inutili, paradosso che le dittature funzionino meglio delle democrazie”.

Ora, ognuno la pensi come vuole, per carità, ma vi rassicurano queste parole che sono un certo impianto culturale che sta dietro al taglio dei parlamentari? Così, per sapere.

Buon giovedì.

Il processo sulla strage di Charlie Hebdo riapre il dibattito sul diritto alla blasfemia

A favore di numerose telecamere, usate dalle autorità francesi per raccogliere materiale che andrà a comporre archivi storici, è iniziato quello che gran parte dei giornali transalpini definiscono come un processo storico. Il 2 settembre si sono aperti i dibattimenti a Parigi per gli attentati contro la sede della rivista satirica Charlie Hebdo e il supermercato kosher Hyper Cacher del 7 gennaio 2015 nella capitale francese. Novanta media si sono accreditati per poter seguire il processo, tra cui ventinove stranieri, che garantiranno all’iter giuridico una risonanza internazionale. A cinque anni dai fatti, l’apertura del processo ha riaperto il dibattito sulla libertà di espressione.

La mattina del 7 gennaio 2015, i fratelli Chérif e Said Kouachi, armati di kalashnikov, si introdussero nella redazione del periodico francese. I due terroristi francesi uccisero dodici persone quella mattina, di cui otto redattori del giornale. La pubblicazione di alcune caricature del profeta Maometto aveva reso il settimanale un bersaglio dei jihadisti. L’8 gennaio, poi, un altro terrorista, Amedy Coulibaly – che era in precedenza entrato in contatto coi fratelli Kouachi – aprì il fuoco contro la polizia francese in strada, e il giorno successivo prese in ostaggio i clienti di un supermercato ebraico, l’Hyper Cacher, a Porte de Vincennes, in una zona ad est di Parigi, uccidendone cinque.

I tre autori delle stragi furono poi uccisi dalle forze speciali di polizia e gendarmeria. Sono loro, dunque, i grandi assenti di questo processo in cui quattordici persone saranno giudicate per diversi motivi: associazione a delinquere terrorista, appoggio logistico e complicità in omicidio terroristico. Un processo difficile. Le immagini e i video della sparatoria sono stati nuovamente proiettati. Sono state poi ascoltate in aula le testimonianze dei sopravvissuti alla strage, che hanno ripercorso quei momenti terribili.

In occasione dell’apertura del processo, Charlie Hebdo ha scelto di ripubblicare i disegni blasfemi, scatenando una forte reazione del mondo musulmano: in Pakistan sono scoppiate alcune manifestazioni di protesta, la Repubblica islamica dell’Iran ha condannato la nuova diffusione delle caricature bollandola come una “provocazione”, il Regno del Marocco ha deciso di vietare la pubblicazione del settimanale. Ma queste contromosse non hanno fermato il giornale. «Perché non ci inginocchieremo mai» ha affermato nel suo editoriale del 2 settembre scorso Laurent Sourisseau detto “Riss”, sopravvissuto della sparatoria e divenuto poi direttore del settimanale satirico.

Il diritto alla blasfemia in Francia esiste sin dalle leggi sulla libertà della stampa del 1881. Zineb El Rhazoui, scrittrice e giornalista di Charlie Hebdo tra il 2011 e il 2017, in un dialogo del 2015 con la direttrice di Left Simona Maggiorelli, chiarì: «Una cosa è criticare un dogma o decostruire una credenza, altra cosa è attaccare la persona. Quando critico anche aspramente l’Islam non voglio colpire le persone che si definiscono musulmane». In questo modo spiegando che il diritto alla blasfemia è la libertà di criticare la religione, e non le persone, i credenti. Al pari di quanto facciamo rispetto alle ideologie politiche, dobbiamo poter criticare e deridere la religione. Si tratta di un diritto indispensabile per permettere a ciascun cittadino di godere di una piena libertà di pensiero. Numerosi Paesi nel mondo, però, non riconoscono il diritto di blasfemia. Come l’Italia, in cui la bestemmia è considerata dall’articolo 724 del Codice penale come un illecito amministrativo: pur essendo stato depenalizzato il reato resta la possibilità di incorrere in una sanzione. A riprova di come l’Italia debba ancora lavorare molto per arrivare a garantire il pieno godimento della libertà di espressione ai propri cittadini.

Il presidente francese Emmanuel Macron ha recentemente riaffermato l’importanza di questa libertà. Durante una conferenza stampa a Beirut, il primo settembre, ha dichiarato che «in Francia si possono criticare i governanti, un presidente, e si può essere blasfemi». Una libertà che, ha ribadito, è «collegata alla libertà di coscienza». Tuttavia, la società francese negli ultimi anni non sempre l’ha difesa fino in fondo. Ad inizio 2020, un’adolescente francese, Mila, ha dichiarato in una diretta Instagram: «Odio la religione, il Corano è una religione di odio. (…) La vostra religione è della merda». Le sue parole, diventate virali in rete, avevano fatto scoppiare un caso. La ministra della Giustizia francese è intervenuta sulla vicenda, affermando che: «L’offesa alla religione è ovviamente una violazione alla libertà di coscienza». Nonostante la blasfemia sia un diritto in Francia, dunque, la sua effettiva applicazione pare controversa e fragile. Un sondaggio dell’Ifop (Istituto francese dell’opinione pubblica) realizzato quest’anno dimostra che il 50% dei francesi non sono favorevoli al diritto di blasfemia.

In questo contesto, secondo il direttore “Riss” le riedizione delle vignette blasfeme di Charlie Hebdo è un modo per lottare contro «un’ideologia fascista che nutre le viscere della religione». Sul quotidiano francese Le Monde sessantanove personalità, tra cui Elisabeth Badinter, hanno detto “grazie” a Charlie Hebdo per la sua «bellissima lezione di coraggio» nella battaglia per la difesa della libertà di espressione.

Castra la Casta

Foto Valerio Portelli/LaPresse 08-10-2019 Roma, Italia Flash Mob M5s per taglio Parlamentari Politica Nella Foto: Flash Mob M5s per taglio Parlamentari con Luigi Di Maio Photo Valerio Portelli/LaPresse 08 October 2019 Rome,Italy Flash Mob M5s Party Politics In the pic: Flash Mob M5s Party on cutting the number of representatives in the country's upper and lower houses

Il governo del fare ha risolto tutti i nostri problemi. Finalmente. C’è voluto tempo ma hanno trovato finalmente la soluzione a tutti i nostri mali. Per risollevare il Paese bastava tagliare i parlamentari. E in effetti il risparmio è notevole e ora davvero le casse dello Stato possono stare tranquille: parliamo dello 0,0000258% del Pil nazionale. Su uno stipendio di mille euro da domani tutti avranno in tasca 2 euro e 58 centesimi in più. Si prevedono ingenti investimenti e un appuntito rilancio dei consumi e delle assunzioni. Era ora.

Certo ora rimane semplicemente da studiare una riforma elettorale che garantisca la rappresentatività di tutti i cittadini, di tutte le zone d’Italia. Bisogna semplicemente ridisegnare l’architettura parlamentare perché tutte le opinioni possano avere la possibilità di avere voce. Ma è una cosa da poco: questi hanno dimostrato di essere dei geni di leggi elettorali e di contrappesi democratici. Niente di cui preoccuparsi, quindi.

Poi ci sarebbe da capire come assicurare le pensioni a una generazione che le vede come una chimera, senza mandare in fallimento lo Stato. Ma ci penseremo con calma.

C’è da ristrutturare il mondo della scuola che chiede la carta igienica da casa. Ma con due euro in tasca in più per ognuno di noi vedrete che in giro si troverà qualche buona offerta.

Ci sarebbe da rimpinguare una sanità pubblica ormai allo sbando e senza abbastanza medici per coprire il fabbisogno futuro. Ma vuoi mettere la soddisfazione di ammalarti con il Parlamento dimezzato?

Ci sarebbe anche da discutere del fatto che di questo passo nel pianeta Terra non ci sarà più il clima per avere un Parlamento. Ma non ha senso inseguire gli allarmi della scienza. Dai, su.

Ci sarebbe anche un mondo del lavoro che diventa sempre più stretto, sempre più povero e sempre assassino. Ma non è elegante parlare di soldi, no.

Comunque abbiamo risparmiato 2 euro a testa. Per chi dice che l’importante è iniziare da qualche parte: vero, tipo dimezzare gli stipendi dei parlamentari, ad esempio solo per non citare corruzione, mafie, malaffare e evasione fiscale delle multinazionali, che diventa troppo complicato.

Solo che di questi argomenti non è il caso di parlarne ora che c’è in ballo il referendum. La soddisfazione di colpire la casta è un’occasione imperdibile, e chi ce lo dice? Loro, loro stessi. Come se ammettessero di essere in troppi troppo incapaci e chiedessero a noi di intervenire riducendo il coefficiente di probabilità che vengano eletti degli idioti. Qualcuno potrebbe sommessamente fare notare che dovrebbero essere loro, quelli che ci dicono sì, a occuparsi di selezione della classe dirigente. Ma è un discorso troppo lungo, troppo difficile, troppo da professoroni.

E allora via: un bel referendum per tagliare il Parlamento e al resto ci penseremo dopo. Un po’ come quelli che tolgono l’ascensore prima di avere pensato di costruire le scale. Ma vuoi mettere che risparmio, non avere l’ascensore.

Noi qui a Left abbiamo provato a fare un po’ di chiarezza con un ebook che trovate qui.

Buon mercoledì.

La classe dirigente sommersa

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 14 Settembre 2020 Roma (Italia) Cronaca : Primo giorno di scuola Nella Foto: il liceo Newton Photo Cecilia Fabiano/LaPresse September 14 , 2020 Roma (Italy) News: First day school In the pic : the Newton high school

Primo giorno di scuola in buona parte d’Italia. Fioccano i commenti, le interviste a volte un po’ leziose a genitori e ai ragazzi, si moltiplicano i racconti e accade che moltissime scuole in Italia, ancora una volta, si siano arrangiate e abbiano fatto i salti mortali per applicare regole incerte (e piuttosto contestabili) e protocolli che spesso rimangono lettera morta perché si scontrano con una realtà che è spesso molto diversa da quella discussa in certi ambienti ministeriali.

Però è stato il primo giorno di scuola e ieri, nell’aria, si respirava la speranza che la scuola riparta davvero, che un po’ di normalità possano godersela anche i nostri figli, quei giovani che per mesi sono scomparsi dal radar dell’informazione per tornarci solo qualche settimana nella veste degli untori.

Però il primo giorno di scuola ci racconta ancora una volta qualcosa che sembra difficile raccontare: gli insegnanti, gli operatori della scuola, chi si occupa degli spostamenti dei nostri ragazzi, chi si occupa della loro sicurezza (mica solo in tempi di pandemia) e chi si occupa della loro istruzione e della loro formazione culturale (non solo in tempo di pandemia) sono classe dirigente di questo Paese, nel seno pieno del termine, sono quelli che hanno la responsabilità di dettare la crescita sociale (e politica e economica) del Paese che verrà. E ieri, complice il coronavirus, ci si è accorti che un pezzo importante delle famiglie sta negli istituti scolastici, quei palazzotti spesso decadenti a cui si fa sempre troppo poco caso.

Ricordo quando uno dei miei figli andò al suo primo giorno di scuola, lo ricordo perfettamente. Ricordo l’arrivo all’istituto, era il periodo delle minacce, della paura e della scorta e ricordo quei minuti all’ingresso mentre lo tenevo per mano, Ricordo perfettamente che un collaboratore scolastico venne fuori, da me e lui e i carabinieri e prese per mano mio figlio per portare all’interno dell’istituto e mi ricordo di avere pensato che quell’uomo in quel momento era il più importante rappresentante dello Stato che interveniva nella mia vita, una responsabilità enorme. E avrei voluto dirglielo.

Il punto è questo e non vale solo per la scuola: ci ritroviamo nelle nostre funzioni e nelle nostre professioni a avere responsabilità da classe dirigente e non ce ne rendiamo conto, abbiamo un importante ruolo pubblico, ognuno nel suo mestiere e se ce ne assumessimo l’orgoglio e le responsabilità questo sarebbe un Paese sicuramente più solidale e più unito. E la smetteremmo di delegare, e vedremmo anche quanta orgogliosa responsabilità c’è intorno. Nonostante certa classe dirigente.

Buon martedì.

Tutte le insidie nascoste nella riforma costituzionale

Foto Cecilia Fabiano/LaPresse 13 Settembre 2020 Roma (Italia) Cronaca Manifestazione per il No al referendum sul taglio dei parlamentari. Nella Foto: la manifestazione in piazza santi apostoli Photo Cecilia Fabiano/LaPresse September 13 , 2020 Rome (Italy) News Demonstration for support the No at the referendum for choose if cut the parliamentarians seats. In the pic : the demonstration in Santi Apostoli squeare

L’avversione degli italiani per il Parlamento non è un fatto nuovo.
Già al tempo del dibattito per l’elaborazione della Costituzione il Costituente Giovanni Conti si rivolgeva ai colleghi evidenziando come: «Il popolo italiano disgraziatamente ha una sola abitudine circa il Parlamento: parlarne male».
Con queste parole, il tentativo era quello di convincere l’Assemblea Costituente a diminuire il numero dei componenti rispetto a quello del passato per «elevare il prestigio del Parlamento».
Le Assemblee numerose, si sosteneva, sono «dannose» al Paese giacché meno capaci ad attendere all’opera legislativa che le è demandata. Ma soprattutto, a differenza di una «Assemblea più snella», impongono un «alto costo».

Alla fine della seconda guerra mondiale con un Paese stremato e alla fame, da ricostruire, quest’ultimo argomento poteva risultare decisivo. Eppure non fu così.
Con dignità si criticò una simile argomentazione e, con questa, la volontà di considerare come un problema la diminuzione del numero dei componenti, problema che «non si sarebbe nemmeno dovuto porre» a fronte dell’esigenza di adeguare il numero dei suoi rappresentanti alla aumentata massa della popolazione.

Con umiltà e amarezza il presidente della Commissione per la Costituzione, il deputato Meuccio Ruini, riconoscendo che il loro lavoro, la loro Costituzione era «tutt’altro che perfetta», mostrandosi «piena di difetti», affermava anche risoluto che «sarebbe ora di smettere l’abitudine italiana di dir male di noi stessi» e tra applausi e condivisione dell’Assemblea costituente, osservando che molti studiosi stranieri guardavano con grande attenzione al loro lavoro, finiva con l’evidenziare come la loro Costituzione «malgrado le sue pecche» – e, direi, lo spirito fortemente critico che caratterizza il nostro popolo – si riveli alla fine «una cosa seria, non indegna del popolo italiano».

L’idea che il numero dei componenti un’assemblea dovesse essere «in certo senso proporzionato all’importanza che ha una nazione, sia dal punto di vista demografico, che da un punto di vista internazionale» riuscì così in ultimo a prevalere, trovandosi poco convincente l’idea che la diminuzione del numero dei componenti potesse portare maggiori vantaggi. La rappresentanza in adeguata proporzione alla popolazione fu ritenuto interesse “preminente” anche rispetto a un quadro economico tutt’altro che roseo. La riduzione del numero dei componenti parlamentare e con essa della rappresentanza di quel popolo che pure si voleva e si volle, all’art. 1 della Costituzione, «sovrano» fu inteso come un «atteggiamento antidemocratico»: venendo fuori da sistemi autoritari, si era ben consapevoli che «quando si vuole diminuire l’importanza di un organo rappresentativo s’incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti, oltre che le funzioni» (Umberto Terracini).

Negli ultimi anni si è andato tuttavia riproponendo lo stesso dibattuto problema, rimettendosi in discussione la “grandezza” dell’organo parlamentare.
È tornata così con vigore quell’argomentazione del costo pure vista con sospetto dai nostri Padri Costituenti e con sorprendente celerità, nel giro di pochi mesi, si è approvata la legge costituzionale di modifica degli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari con il conseguente passaggio da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori elettivi. La finalità tuttavia non appare qui quella di aumentarne il prestigio, né di snellirne il lavoro, quanto piuttosto, a leggere le motivazioni espresse nella relazione illustrativa della proposta di legge, di risparmiare i costi della politica.
La votazione conseguita non già con una forte maggioranza (dei due terzi dei suoi componenti) ha consentito, per fortuna aggiungerei, di attivare il secondo step: la chiamata al popolo mediante referendum.

Non trattandosi di adottare una legge qualsiasi per la quale è sufficiente una maggioranza semplice, ma di “mettere mano” al patto costituzionale del popolo italiano, i nostri costituenti vollero “rafforzare” le garanzie a tutela del nostro sistema costituzionale democratico, faticosamente ideato (per ben due anni!), grazie alla previsione di tempi lunghi e vari passaggi che si è tradotta in una procedura aggravata, vale a dire: doppia votazione delle due Camere, a distanza non inferiore ai tre mesi, così da voler chiaramente “rallentare” il processo di revisione e agevolare un confronto più attento. Ma soprattutto si prevede una maggioranza “rafforzata”, a conferma di una volontà che deve essere forte dei rappresentanti del popolo, volontà che se non raggiunta può vedere, se attivato, l’intervento del popolo da sentire direttamente. Una procedura “voluta” più complessa dai nostri Costituenti giacché, secondo le parole pronunciate con commozione dal Costituente Umberto Terracini, a Costituzione appena approvata il 22 dicembre 1947, si tratta di apportare modifiche, in questo caso direi molto importante per una democrazia, al «solenne patto di amicizia e fraternità di tutto il popolo italiano, cui essa lo affida perché se ne faccia custode severo e disciplinato realizzatore».

Così, come si diceva, in assenza di una forte volontà dei nostri rappresentanti, siamo noi chiamati il 20 e 21 settembre a decidere sulla riforma della costituzione nella parte in cui si vuole il “dimagrimento” dell’organo parlamentare. Dobbiamo tuttavia farlo, quali “custodi” con “severità” – ci chiedono i nostri Padri costituenti – e quindi con cognizione di causa.
Si tratta allora di valutare le ragioni che possano legittimare una modifica così rilevante oltre quelle di economia di spesa, ragioni certamente perseguibili anche in altro modo come ad esempio eliminando la diaria giornaliera per i deputati e i rimborsi spese per i senatori.
In un mondo dove il confronto con gli altri è sempre più stimolato, anche quando si guarda alla gestione emergenziale sanitaria da Covid, si può partire innanzitutto, quanto al dato numerico, dalla comparazione con altri Paesi.

In Europa l’Italia si presentava come il Paese, dopo il Regno Unito (con i suoi circa 1.432 parlamentari di cui solo 650 eletti democraticamente), con il maggior numero di parlamentari (ben 945 e senza contare i senatori a vita!) seguiti subito dopo dalla Francia (925) e dalla Germania (778, numero comprensivo anche dei componenti del Bundesrat, non proprio seconda Camera, difficilmente paragonabile al nostro Senato). Un numero particolarmente elevato considerato che l’Italia rispetto a Francia e Germania è il Paese meno popoloso.
Il taglio dei parlamentari sotto il profilo meramente numerico, può apparire allora corretto.
Sembra tuttavia forse eccessiva la riduzione di ben un terzo, soprattutto se si ponga attenzione al profilo del rapporto parlamentare/abitante.

Un primo punto da considerare è proprio allora la questione della proporzione fra abitanti ed eletti.
Se il numero dei rappresentanti prima della riforma si mostrava particolarmente alto, oggi è drasticamente peggiorato e con esso anche la proporzionale rappresentativa della popolazione: su una popolazione di circa 60 milioni di persone, al rapporto presente sino all’attuale riforma di un parlamentare ogni 63mila abitanti si sostituisce quello di ben un parlamentare ogni 100mila abitanti circa.
Eppure, prima della modifica avvenuta nel 1963, i nostri costituenti, preoccupati di garantire la rappresentanza e le minoranze, optarono per «un Deputato per ottantamila abitanti o per frazione superiore a quarantamila» e «un senatore ogni 200mila abitanti», ritenendosi poco opportuno, «in un regime democratico», la diminuzione del numero dei rappresentanti «perché a tutti deve esser dato il modo di far sentire la loro voce» laddove la restrizione di tale numero avrebbe potuto «far sorgere il sospetto di essere animati dal proposito di soffocare la volontà delle minoranze» (Vincenzo La Rocca).

Appare evidente quindi come sotto il profilo della proporzione e della rappresentanza avremmo una deminutio.
Altro aspetto che si può allora tenere in conto è quello legato all’efficienza legislativa che ne potrebbe uscire migliorata.
L’assemblea, dovendo fare i conti con un numero decisamente inferiore di componenti, potrebbe riuscire a svolgere più agevolmente la funzione legislativa che pure le spetta, non dovendosi così più ricorrere alla decretazione di urgenza – anche quando non strettamente “necessario” – e a discutibili questioni di fiducia, prassi consolidata in Italia ma in qualche modo in contraddizione con il dettato costituzionale (di cui all’art. 94, Cost. comma 4).
Tuttavia questo profilo della tecnica legislativa non sembra direttamente considerato e disciplinato dalla riforma che si limita invece a preoccuparsi della composizione e non già delle funzioni. L’efficienza legislativa non può essere considerata nemmeno conseguenza naturale della riduzione. Rendere più “snello” il Parlamento non vuol dire affatto “automatica” rinuncia a strumenti o metodi distorsivi. 
La riduzione del numero dei parlamentari può invece riguardare direttamente il rapporto tra organi costituzionali e il loro funzionamento.

La riforma costituzionale avrà infatti conseguenze inevitabili importanti soprattutto quanto alla nostra forma di governo parlamentare che vuole il presidente della Repubblica un organo super partes, chiamato a garantire la Costituzione e capace di mantenere gli equilibri in quanto non già espressione di alcuna forza politica.
Camera e Senato sono chiamati a riunirsi in seduta comune in molte occasioni importanti per il nostro ordinamento. Tra queste appunto la nomina del presidente della Repubblica ma soprattutto la sua eventuale messa in stato di accusa, pure disciplinato all’art. 90 della nostra Costituzione. In quest’ultimo caso, essendo sufficiente la maggioranza assoluta dei membri delle due Camere, basterà oggi, a riforma approvata, avere il parere favorevole di solo 301 parlamentari (in luogo dei precedenti 476), per farne affermare la responsabilità giuridica con successiva fase giurisdizionale innanzi alla Corte costituzionale. Non sembra così difficile che si possa consolidare una maggioranza che finisca con il porre il presidente della Repubblica in gravi condizioni di inferiorità, rispetto al presidente del Consiglio, gettandolo in uno stato di “perenne ricatto”.

Tutto questo e lo stravolgimento che ne deriva sarà peraltro matematicamente certo nel caso di adozione di una legge elettorale di tipo maggioritario che, per sua stessa logica, tende a favorire la formazione di una forte maggioranza certamente a vantaggio della “governabilità” ma a discapito della minoranza e quindi della pluralità.
Con un presidente espressione di una precisa maggioranza e non proprio del pluralismo politico, prigioniero di quella stessa maggioranza che finisce con il porlo sotto eterno scacco, ne risulterebbe vulnerata la stessa idea del presidente quale rappresentante “dell’unità nazionale” (art. 87 Cost.) nonché lesa la rappresentanza, quanto ai parlamentari, della “intera nazione” (art. 67 Cost.). È d’altronde proprio quest’ultimo aspetto – e non già la “governabilità” (termine mai utilizzato nella carta costituzionale e che tende a mortificare la qualità del confronto democratico) – chiaramente reclamato dai Costituenti, volendosi, per dirla con parole di Costantino Mortati, «sottrarre il deputato alla rappresentanza di interessi particolari», con la conseguenza che esso «non rappresenta il suo partito o la sua categoria, ma la Nazione nel suo insieme».

In questo quadro modificato si mostrerà perciò, per altro verso, più che auspicabile una legge elettorale proporzionale integrale se si vuole mantenere l’importanza dell’organo rappresentativo e la centralità del presidente della Repubblica, guardiano e garante della Costituzione, evitandosi, al contempo, di stravolgere la nostra forma di governo.
La vera insidia, in questo mutato assetto, sarà data quindi dalla combinazione della legge elettorale di tipo maggioritario ed eventuale stato di “condizionamento” del presidente della Repubblica.

Si dirà allora che i tempi sono cambiati, che la velocità nell’assunzione delle decisioni impone organi e procedure più efficaci e snelle. Questo può essere pure un altro argomento.
Ma se si rinuncia alla “rappresentanza” o comunque a una maggiore rappresentanza, per cui pure tante lotte sono state fatte in passato, allora perché non sostituire anche i pochi con uno?
C’è poi anche da chiedersi: se siamo al punto di oggi, con un sistema economico (per la verità non solo italiano) che vede sempre meno tutele e garanzie per i lavoratori, ponendoli in ginocchio, è proprio colpa di quei “tanti” presenti nel Parlamento, del pluralismo politico, o forse è vero proprio il contrario?

Svuotato di effettivi poteri decisionali, attraverso vari meccanismi che non hanno consentito una vera opposizione – quali questioni di fiducia, leggi elettorali che alterano la rappresentanza favorendo la “nomina” da parte dei partiti piuttosto che la “elezione” dei parlamentari – mi sembra che il Parlamento sia stato già sinora nelle mani di “pochi” che hanno assunto le decisioni che scontiamo oggi.
 Forse allora piuttosto che ai “numeri”, o almeno oltre a questi, sarebbe opportuno porre particolare attenzione proprio a questi meccanismi così che insieme a una rappresentanza “giusta” – intesa come equilibrata numericamente – e “buona” – considerata come qualità della preparazione della classe politica – si possa finalmente consentire anche un effettivo ed efficace funzionamento dell’organo rappresentativo.
 Forse i tempi sono finalmente maturi per avanzare verso una democrazia di “qualità” e, con questa, verso una vita di qualità della stessa comunità italiana.

Professoressa associata di Diritto pubblico, Università degli studi di Napoli, l’Orientale

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