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Il Cile vuole spazzare via l’eredità del regime di Pinochet

Cinquant’anni fa, il 4 settembre del 1970, Salvador Allende veniva eletto presidente del Cile. Aveva l’ambizione di realizzare una transizione pacifica alla democrazia. Proponeva una “via cilena al socialismo”. Da capo dello Stato, operò un’ampia nazionalizzazione di diversi settori economici e numerose politiche sociali. Ma l’11 settembre 1973, precisamente quarantasette anni fa, Allende si suicidò mentre l’esercito cileno bombardava il palazzo presidenziale della Moneda dando il la al colpo di Stato del generale Pinochet. E divenne così un mito. Il golpe del ’73 gettò il Cile in una dittatura militare fino al 1990. Alla caduta del regime, però, la transizione democratica non fu mai stata portata a termine fino in fondo.

Èd è proprio questa la richiesta che oggi avanzano numerosi cittadini cileni: liberarsi una volta per tutte dall’eredità di Pinochet incarnata dalla Costituzione ereditata dalla dittatura, modificandola attraverso un referendum.

Le proteste in Cile sono iniziate il 18 ottobre 2019, quando la popolazione si era sollevata contro l’aumento del prezzo dei mezzi pubblici a Santiago. Successivamente la mobilitazione ha puntato più in alto, arrivando a chiedere una definitiva trasformazione democratica del Paese.

Il referendum per rivedere la Costituzione, inizialmente previsto per il 26 aprile, è stato posticipato al 25 ottobre a causa dell’emergenza sanitaria. Tra poco più di un mese, se il referendum sarà confermato, i cileni saranno quindi chiamati ad esprimersi alle urne. I quesiti saranno due. Il primo riguarda la volontà di modificare la Carta costituzionale. Il secondo riguarda il metodo con cui eventualmente si dovrà operare questo cambiamento, tramite una assemblea costituente composta da cittadini eletti dal popolo o un’assemblea “mista” composta per la metà da cittadini eletti e per l’altra da parlamentari. Secondo i sondaggi, una netta maggioranza dei cittadini sarebbe favorevole al rinnovamento della Legge fondamentale cilena.

Dalla fine di agosto, la campagna referendaria è ricominciata. I diversi partiti della sinistra si sono mobilitati e hanno formato il Comando Chile digno, che ha chiesto al governo in una lettera che la campagna in vista del “plebiscito” sia dichiarata “attività fondamentale” in modo che non possa essere bloccata dalle normative anti-Covid.

La decisione del governo di fare un referendum per rispondere alle richieste della popolazione lascia un barlume di speranza in un possibile cambiamento, mentre purtroppo l’esecutivo guidato da Sebastian Pinera non si allontana dal solco tracciato dalla dittatura militare. Un chiaro esempio è la nomina di Victor Pérez a ministro dell’Interno lo scorso luglio. Pérez è un uomo politico dell’era di Pinochet. È stato sindaco, incaricato dal regime, della città di Los Angeles, capoluogo della regione del Biobio, tra 1981 e 1987, luogo in cui la Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione cilena (come traspare nel Rapporto Rettig) ha documentato numerosissime e gravi violazioni dei diritti umani durante la dittatura.

Pérez è anche accusato dall’associazione delle famiglie delle vittime e dei desaparecidos della regione del Maule di aver intrattenuto legami con la Colonia Dignidad, luogo di detenzione, di tortura e di eliminazione degli opponenti politici durante la dittatura fondato dall’ex soldato nazista delle Ss Paul Schafer.

Inoltre, il governo continua ad essere indifferente alle richieste del popolo indigeno Mapuche. Durante l’estate, alcuni prigionieri politici mapuche hanno messo in atto uno sciopero della fame per protestare contro la scelta di escluderli dalle misure che hanno parzialmente diminuito la popolazione carceraria, permettendo di scontare la pena fuori dai penitenziari.

In questo contesto, il referendum di ottobre potrebbe rappresentare una reale svolta per il Paese. Ma, secondo il Comando Chile digno, il suo svolgimento ancora non è scontato e il governo potrebbe ancora fare dietrofront.

Liliana Segre è una farfalla appoggiata sul filo spinato

Foto Claudio Furlan/LaPresse 30-01-2018 Milano, Italia Cronaca Per Giornata Memoria, comunità Sant’Egidio e comunità ebraica ricordano gli ebrei deportati da Milano presso il Memoriale Della Shoah Nella foto: Liliana Segre

(Ho avuto l’onore di scrivere la prefazione di un libro di Liliana Segre, “Scegliete sempre la vita – La mia storia raccontata ai ragazzi”, Edizioni Casagrande, e oggi ho pensato che forse fosse il caso di appoggiarne l’inizio qui, perché Liliana Segre è una persona che dobbiamo coltivare con cura, perché ieri ha festeggiato il suo compleanno sotto scorta e perché la memoria è un muscolo che va allenato con cura)

Liliana Segre è una farfalla appoggiata sul filo spinato e per questo è preziosa, è un fiore da preservare con cura e dovrebbe essere un gioiello non solo per i contenuti ma anche per i modi, per la visione d’insieme e per l’insegnamento di “cura del nostro tempo” che da anni impartisce in mezzo ai ragazzi. È anche un personaggio pubblico profondamente normale che ci costringe a riflettere sul ruolo dei testimoni in un tempo in cui tutto si fa spettacolo, tutto diventa tifo organizzato e tutto viene smisuratamente impugnato come clava per diventare arma bianca contro l’avversario politico di turno. Leggendo queste sue parole ai ragazzi, parole talmente lucide e misurate da sembrare un testo scritto recitato a memoria e non il contrario, ci si accorge di un’ecologia lessicale oltre che intellettuale a cui siamo completamente disabituati e che è il modus da cui ripartire per fronteggiare lo sbiadimento di un periodo storico che non ha a che vedere solo con il passato ma è l’antidoto a un presente che si ripresenta con altre facce, con un’alta capacità di simulazione e con punte ammorbidite degli stessi becchi che hanno portato una bambina, che era Liliana ma erano milioni di persone allo stesso modo, ad essere colpevole di essere nata.

Ciò che colpisce, innanzitutto, di Liliana Segre è la delicatezza che non si è fatta inquinare da ciò che ha vissuto: è la sua lezione più grande, quella che sarebbe da smontare per osservarne i meccanismi e i bulloni e capire come sia possibile rimanere ferocemente umani in questo tempo in cui riflettere sulla sentimentalità della vita (ovvero di come la vita sia spesso una questione di pressioni che la Storia sembra volere mettere nel cassetto delle cose passate e concluse) viene considerato un segno di debolezza. Liliana Segre è la prova vivente che ci sono purezze di sguardo e saldezza di valori (che ultimamente vengono chiamati in senso dispregiativo “buonismo”) che riescono ancora a essere le fondamenta su cui costruire uno sguardo diverso del presente e del futuro. Lei bambina, lei separata dal padre, la sua speranza di fuga che si infrange contro i calcoli sbagliati di chi sperava di salvarsi sono la metafora di un mondo in cui il “diritto a salvarsi” sembra ormai essere solo una concessione da dare a determinate categorie umane come se non esistesse un’unica razza umana.

Buon venerdì.

*-*

Per approfondire:

Liliana Segre, il futuro della memoria, Left dell’11 settembre 2020

La forza di Liliana Segre, Left del 15 novembre 2019

Liliana for President, Left del 7 giugno 2019

 

L’impresa del “maratoneta scalzo” Bikila ai Giochi di Roma 1960

Ethiopia's Bikila Abebe, centre, leads in the final stages of the Olympic Marathon, in Rome, Italy, Sept. 10, 1960. He is closely followed by Morocco's Abdesian Rhadi, right. (AP Photo)

Sgomberiamo il campo da ogni visione nostalgica e romantica. Le Olimpiadi di Roma, di 60 anni fa, furono già una grande occasione di business. Cemento a pioggia per realizzare gli impianti, fra cui lo stadio olimpico, gli atleti non propriamente legati allo spirito di De Coubertin, (molti erano professionisti come oggi). Certo le cifre che giravano erano minori e Roma forniva uno scenario perfetto per i Giochi. Lo Stadio era stato realizzato già nel periodo fascista ma durante la guerra venne utilizzato come autoparco, ristrutturato per la XVII edizione delle Olimpiadi, doveva essere e fu il fiore all’occhiello dell’operazione sportiva quanto commerciale. Si era nella Roma del boom economico e della “Dolce vita”, quando le star di Hollywood la visitavano in continuazione senza le limitazioni imposte dal puritanesimo statunitense. E contemporaneamente c’era lo scenario ultramillenario della città eterna, il mito che si riproponeva ammantato di modernità e rivolto al futuro. E i miti, in quei giochi, assumevano forma umana in cui l’impresa atletica proponeva, o lasciava presupporre l’immortalità. La guerra era finita da 15 anni e quale miglior modo per esorcizzarla che trovare figure in grado di incarnare una nuova epoca.

Il primo ad emergere fu un ragazzo americano dal carattere difficile, all’epoca si chiamava Cassius Marcellus Clay, nato a Louisville, nel Kentucky, un fisico agile ma imponente e un nome di battesimo da antico romano, vinse con facilità la medaglia d’oro categoria mediomassimi. Raccontò l’anno dopo di aver gettato la medaglia nel fiume Ohio per protestare contro la segregazione razziale del governo statunitense (secondo altri l’aveva persa in un ristorante) fatto sta che diventato poi pugile professionista – nel 1964 divenne campione del mondo dei pesi massimi – cambiò il proprio nome in Mohammed Alì e nel 1967 venne arrestato perché si rifiutò di andare a combattere in Vietnam.

La seconda fantastica figura dei giochi fu Wilma Rudolph, in Italia immediatamente ribattezzata “La gazzella nera”, con un classico retroterra coloniale. Ventesima di ventidue figli di una famiglia povera del Tennessee, nonostante un principio di poliomelite che la costrinse a crescere con un apparecchio correttivo, si impose alle Olimpiadi romane come vera e propria regina, vincendo 100 mt, 200 mt e staffetta 4X100 femminile. In tutte e tre le gare ottenne anche il record del mondo (quello sui 200 mt non venne omologato per il vento favorevole) ma la sua immagine conquistò la prima pagina non solo dei quotidiani sportivi.

Ma colui che per l’impresa raggiunse l’apogeo fu Abebe Bikila, maratoneta etiope, prima medaglia d’oro di un atleta africano alle olimpiadi. Era nato nel 1932, in un villaggio e visse la crudele occupazione italiana del proprio Paese. Agente di polizia era entrato a far parte della guardia del corpo personale dell’imperatore Hailè Selassiè, il Ras Tafari (Re dei re) che si era reinsediato al trono il 5 maggio del 1941, giorno della liberazione dal dominio italiano. Abebe Bikila corse, per scelta tecnica dell’allenatore scandinavo che conosceva il tracciato, a piedi nudi. Il percorso voleva celebrare, partendo dal Campidoglio, il 10 settembre di un caldo pomeriggio, la grandezza di Roma per terminare all’Arco di Costantino. Fu una incoronazione vera e propria, Bikila non era dato come favorito, il suo record personale era di circa 2 ore e 21 minuti, rispettabile ma non stratosferico. Eppure in quella corsa, che chi c’era racconta ancora come magica, l’atleta sembrava non faticare ma sfiorare i sampietrini. Vinse con il record mondiale, 2 ore e 15 minuti circa, vinse come se fosse stata la cosa più semplice di questo mondo.

Anche il “maratoneta scalzo” purtroppo, contribuì a costruire l’iconografia di un Africa ferma nel tempo, dove “neanche avevano le scarpe”, poco conta che da quel momento in poi il predominio africano sulla media e lunga distanza divenne una costante nello sport mondiale. Sessanta anni dopo fa ancora notizia vedere un’atleta proveniente dal continente europeo, competere con chi si allena negli altipiani dell’Africa Orientale (Eritrea, Etiopia, Somalia) o del Kenia.

Ma c’è un aspetto che la stampa italiana si guardò bene allora di ricordare e per cui ancora prevale disagio. All’epoca era pressoché impossibile parlare pubblicamente dei crimini commessi dal colonialismo italiano in Libia come in Etiopia, prevaleva ancora la narrazione degli “italiani brava gente” che erano andati in quelle terre non per depredarle ma per costruire strade, scuole, ospedali, per portare la “civiltà”. Eppure le sensibilità per decostruire il falso mito, come titola l’ottimo libro pubblicato il mese scorso da Left, poteva già entrare in campo. L’anno prima c’era stato in Italia il secondo congresso degli scrittori africani ed erano presenti le anime più forti della lotta al colonialismo. Nei mesi precedenti in numerosi Paesi, soprattutto di area francofona, si era conquistata l’indipendenza. Non era chiaro quanto ci fosse in questo di formale e quanto di sostanziale (la moneta in circolazione era ed è ancora, forse per poco, il Cfa, il Franco delle Colonie d’Africa) ma un passo avanti sostanziale era stato fatto. E i movimenti di liberazione sorti in molti paesi sembravano poter dare una spallata a domini che duravano da secoli.

Ma nulla di tutto questo fu tema di discussione pubblica a Roma durante le Olimpiadi. Ancora non erano divenuti storia ufficiale i bombardamenti col gas, gli eccidi di civili, proprio contro la resistenza etiope, come quello di Debra Libanos. Solo dal 19 febbraio al 21 maggio del 1937 furono migliaia gli etiopi, magari colpevoli di avere con se un coltello, massacrati dalle milizie fasciste e dagli occupanti. Quando, il 5 maggio del 1941, l’Etiopia venne liberata, per smacco venne impedita qualsiasi rappresaglia nei confronti degli italiani rimasti. Ma all’epoca Abebe Bikila era solo un bambino che mai e poi mai avrebbe potuto pensare, in una perfetta nemesi, di conquistare Roma a piedi nudi e da solo, senza armi né violenza ma fra gli applausi di chi ammirato lo guardava correre.

Nel 1959, un’allora giovane storico aveva pubblicato un libro dal titolo L’Africa aspetta il 1960, nel 1965, lo stesso pubblicò 1935-1941, la Guerra d’Abissinia, scatenando polemiche tremende perché ledeva l’onore dell’esercito italiano. Nel 1976 uscì il primo di quattro volumi su Gli italiani e l’Africa Orientale e a seguire due sull’occupazione in Libia, Tripoli bel suol d’amore. L’autore è oggi uno dei massimi storici italiani, si chiama Angelo Del Boca e continua a rovistare nell’immenso armadio della vergogna rappresentato dal passato coloniale italiano.

Abebe Bikila non c’è più, se ne è andato giovane. Dopo aver rivinto la maratona a Tokio, alle olimpiadi successive, subì un grave incidente stradale che lo costrinse sulla sedia a rotelle. Partecipò alle paraolimpiadi di Heidelberg nel 1972, nel tiro con l’arco. È morto il 25 ottobre 1974, a seguito di una emorragia, aveva 41 anni ma le sue braccia alzate nel tramonto romano, nonostante le patetiche omissioni, sono rimaste nella storia.

Per approfondire, leggi anche l’intervento di Paolo Pica su Left dell’11-17 settembre

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Un futuro senza dittatori

ANKARA, TURKEY - OCTOBER 23: President of Turkey Recep Tayyip Erdogan attends ''Vision 2023 Turkeys National Education Ministry'' meeting at Bestepe National Congress and Culture Center on October 23, 2018. (Photo by Murat Kula/Anadolu Agency/Getty Images)

Centinaia di docenti universitari in Turchia sono finiti sotto processo, sono stati espulsi o licenziati per aver firmato una semplice dichiarazione a favore della pace. Praticamente tutte le testate giornalistiche di opposizione sono state chiuse nel Paese. Dopo il finto golpe del 2016 inscenato da Erdoğan per poter legittimare ulteriori restrizioni alle libertà civili sono state messe in atto una serie di purghe nella magistratura. Da allora è stata osteggiata ogni forma di libera espressione, a cominciare da quella artistica, considerata pericolosa perché portatrice di idee nuove e spesso bollata come attività sovversiva di fiancheggiamento a partiti filo-curdi di sinistra, inopinatamente accusati di terrorismo. Lo abbiamo denunciato nel corso degli anni su Left, anche manifestando contro l’ingiusta incarcerazione della scrittrice e giornalista Asly Erdoğan, accusata di terrorismo per aver espresso le proprie opinioni in difesa dei diritti dei curdi, massacrati dal regime turco. Siamo stati al fianco di Ahmet Altan, anche lui ingiustamente finito in un carcere dove – come ha denunciato più volte Amnesty international – sono violati i diritti umani; e lo stesso abbiamo fatto per molti altri attivisti per i diritti umani e intellettuali perseguitati dal Sultano.

A lungo protetto in Occidente e in Italia da partiti neo liberisti che chiedevano l’ingresso della Turchia in Europa, Erdoğan ha messo la mordacchia ai media e ai social network. Dopo aver imposto una feroce islamizzazione, rinnegando i principi laici della Costituzione (varata ai tempi di Kemal Atatürk) ha ricusato la Convenzione internazionale contro la violenza sulle donne che era stata siglata proprio a Istanbul. Ed arriviamo a oggi, alla tragica vicenda della giovane avvocata del popolo, Ebru Timtik che lottava al fianco degli artisti di Grup Yorum, come lei morti in carcere. Della sua battaglia per i diritti umani ci parla l’avvocata Barbara Spinelli invitando l’Europa e il governo italiano a sostenere il collega di Ebru, Aytac Unsal, ridotto al lumicino dallo sciopero della fame e temporaneamente scarcerato, dopo una laurea honoris causa conferita da un’università turca al presidente della Corte europea dei diritti dell’Uomo, Robert Spano (ne scrive Giulio Cavalli).

In questo orizzonte di attacco allo Stato di diritto (in Turchia al momento sono 130 gli avvocati incarcerati) la società civile turca continua a resistere. Nonostante l’oppressione del regime a Istanbul e non soltanto hanno preso vita nuove forme di resistenza e di solidarietà, come racconta il giornalista Murat Cinar in questo sfoglio di copertina: reti di cittadini e organizzazioni politiche dal basso provano a contrastare il tentativo di Erdoğan di espellere le minoranze curde, rom, armene, cancellandone anche la cultura.
A questi movimenti vogliamo dare voce, così come ai tanti giovanissimi volontari che stanno cercando di rispondere per come possono all’emergenza che sta vivendo Beirut, in un vuoto totale della politica e di iniziative di governo, come ci racconta Roberto Prinzi nel suo reportage. Il grande scrittore libanese Amin Maalouf, intervistato da Juliette Penn, ci parla del naufragio del suo Paese ma anche di una possibile rinascita se, dice lui, l’Europa non abdica ai propri valori e cerca un modo diverso di rapportarsi con i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Quel che sta accadendo nel Mediterraneo orientale e in Medio Oriente è una questione che ci riguarda da vicino, non solo perché vi si gioca una partita geopolitica del futuro – con l’ingerenza delle grande potenze internazionali, con Macron che gioca a fare il piccolo neo-colonialista in Libano e l’Europa che volta lo sguardo dall’altra parte – ma anche perché è una questione che riguarda la salvaguardia di diritti umani insopprimibili. E qui torniamo al nocciolo di questa storia di copertina: come è possibile che Erdoğan venga supportato e foraggiato da Paesi che si dicono democratici? Come è possibile che l’Unione europea per tenere alla larga migranti, profughi e richiedenti asilo, lo abbia lautamente pagato?

Business is business. Così l’Italia ha continuato a fare affari con la Turchia, irresponsabilmente. Allo stesso modo ha continuato a vendere fregate militari all’Egitto nonostante non sia stata ancora ottenuta verità e giustizia per il ricercatore Giulio Regeni torturato e ucciso al Cairo; nonostante uno studente dell’Università di Bologna come Patrick Zaky sia ancora in carcere senza aver commesso alcun crimine. Capitolo se possibile ancor più doloroso e inaccettabile è quello che riguarda la Libia, uno Stato fallito, con il quale fin dai tempi del governo Gentiloni e di Minniti abbiamo fatto accordi finanziando la sedicente guardia costiera libica perché intercetti e mandi in veri e propri lager i migranti che osano imbarcarsi su mezzi di fortuna per cercare un futuro migliore fuori dai loro Paesi. Barbaro è il Paese che rifiuta hospitium, dice un profugo troiano respinto dopo un naufragio vicino alla Sicilia nel primo libro dell’Eneide. Ce ne parla il classicista Maurizio Bettini invitandoci a interrogarci più profondamente sulle politiche disumane dei porti chiusi che viviamo ancora oggi.

L’editoriale è tratto da Left dell’11-17 settembre

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L’intoccabile

Migliaia di prigionieri politici, restrizione delle libertà fondamentali, media e magistratura asserviti al governo, l’invasione illegale della Siria del Nord, l’intervento armato in Libia in violazione dell’embargo di armi e ora le esplorazioni energetiche al largo di Cipro, in zone contese con la Grecia. La lista delle malefatte del presidente turco Erdoğan – a cui si aggiungono gli sgarbi agli alleati di sempre, gli Stati Uniti, con l’acquisto di sistemi di difesa anti-missile russi – è lunga e potrebbe continuare. Il “sultano” dai sogni neo-ottomani è da anni impegnato in un tira e molla internazionale, con cambi di alleanze repentini, e nella trasformazione dei tratti somatici della Turchia: un Paese tradizionalmente laico che cammina inesorabile verso una deriva sempre più nazional-religiosa, clientelare e familistica, dove gli interessi di un clan ristretto si intrecciano con politiche neoliberiste che hanno trascinato la società dentro una povertà nuova e una repressione senza precedenti.

Eppure Recep Tayyip Erdoğan sembra intoccabile. Non viene sanzionato, non subisce l’isolamento politico, commerciale e diplomatico che ad altri Paesi non è stato risparmiato, quegli “Stati-canaglia” nella definizione occidentale che sono stati devastati da embarghi prolungati o guerre distruttive. L’ultimo esempio lo ha fornito la Corte europea dei diritti dell’uomo che ha bocciato, a inizio settembre, il ricorso del team di avvocati internazionali per il rilascio di Aytac Unsal, avvocato turco in sciopero della fame da febbraio (oltre 215 giorni), dopo la morte per digiuno della collega Ebru Timtik. Ricorso bocciato proprio mentre il presidente della Corte europea, Robert Spano, volava a Istanbul (lo stesso ateneo che dopo il tentato golpe del 2016 ha subito l’epurazione di 192 accademici, tutti licenziati) per ritirare la laurea honoris causa in giurisprudenza. Il 4 settembre la scarcerazione temporanea è stata concessa dalla Corte suprema turca per le condizioni di salute di Unsal. Ma appena si sarà rimesso in forze, dice la sentenza, le porte del carcere si riapriranno.


Perché il regime dell’Akp rimane partner ineludibile dell’Europa? Perché gli interessi che li legano sono maggiori dei motivi di rottura, una realtà che sta garantendo ad Ankara non solo immunità ma anche la possibilità di tirare la corda senza spezzarla mai.
Controllo dei flussi migratori, vendita di armi, energia, partnership nella Nato, questi alcuni pezzi del mosaico dell’immunità. A partire dalla disperazione di migliaia di esseri umani in fuga da guerre, fame, persecuzione. La Turchia ha il controllo di due delle rotte migratorie più pressanti, quella diretta verso la Grecia e i Balcani e ora, grazie all’intervento in Libia, quella che preme dal Sahara orientale. Per la prima gli accordi sono stati fatti presto e pagati lautamente: con il Eu-Turkey Statement and action plan, Bruxelles ha imbastito una forma di cooperazione…

L’articolo prosegue su Left dell’11-17 settembre

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Liliana Segre, il futuro della memoria

Lo scioccante omicidio di Colleferro, la brutalità dell’esecuzione a pugni e calci di Willy Monteiro Duarte. La vigliaccheria dei presunti assassini, in quattro contro uno, che stando alle ricostruzioni non si sono fermati nemmeno quando lui era a terra inerme. La fuga dei picchiatori, l’inutile soccorso dell’ambulanza. La morte di un ragazzo di 21 anni. E il giorno dopo fiumi d’inchiostro sui giornali, cascate di vuota retorica sul disagio giovanile e poi, immancabili, fiumi di parole sui social. Parole di disprezzo per i quattro, ma anche di odio nei confronti della vittima. “Non esistono neri italiani”, c’è chi lo pensa e lo dice veramente. E anche questa è stata la “colpa” di Willy, oltre ad aver avuto l’ardire di difendere, lui di origini capoverdiane, un amico dalla furia di quattro bianchi “italianissimi”. «Come godo che avete tolto di mezzo quello scimpanzé. Siete degli eroi» ha scritto sulla sua bacheca Facebook M. G. da Latina, che ostenta sul suo avatar il logo di Fratelli d’Italia. Contro tutto questo, contro persone come M. G., si batte pubblicamente la senatrice a vita Liliana Segre sin dalla sua prima seduta a Palazzo Madama, dopo la nomina avvenuta il 19 gennaio 2018 da parte del presidente Mattarella «per avere illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale». Una battaglia e un impegno che si sono materializzati nella Commissione straordinaria contro odio, razzismo e antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza, da lei proposta e approvata in Senato il 30 ottobre 2019.

Composta da 25 membri, la commissione speciale dovrebbe «osservare, vigilare, studiare e proporre iniziative atte a contrastare eventi e manifestazioni di razzismo, antisemitismo, intolleranza, istigazione all’odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali sulla base dell’etnia, la religione, la provenienza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o di altre particolari condizioni fisiche o psichiche».
Usiamo il condizionale perché purtroppo, pur essendo stata istituita, dopo quasi un anno ancora non è entrata in funzione. Tra i nodi da sciogliere c’è anche quello della presidenza della commissione che è stata ovviamente proposta alla senatrice Segre. Tuttavia, sebbene ancora non si sia espressamente pronunciata, sembrerebbe che il suo orientamento sia quello di non assumerne la guida. Più volte Liliana Segre nelle sue interviste (anche su Left) ha sottolineato l’assenza di una normativa ad hoc contro l’hate speech a fronte di una capillare diffusione attraverso vari mezzi di comunicazione e in particolare sul web di «fenomeni di odio, intolleranza, razzismo, antisemitismo e neofascismo, che pervadono la scena pubblica accompagnandosi con atti e manifestazioni di esplicito odio e persecuzione contro singoli e intere comunità» (come si legge nella mozione approvata in Senato).

Sopravvissuta, come è noto, all’orrore di Auschwitz, Segre ha vissuto sulla propria pelle anche tutte queste cose in tempi recenti, essendo stata oggetto di ripetute minacce, intimidazioni e offese a causa del suo impegno civile, al punto che dal 7 novembre 2019 vive sotto scorta. E sotto scorta il 10 settembre ha festeggiato i suoi 90 anni. Anche questo accade oggi in Italia ma non tutta l’Italia è così. Il 20 agosto scorso, per esempio, le è stato conferito il Premio Giffoni 50 nell’ambito del festival del cinema per ragazzi. E non è un caso. Innumerevoli sono stati in quasi tre anni gli incontri a cui ha partecipato per portare nelle scuole e non solo la sua testimonianza sulla Shoah e riannodare insieme agli studenti i fili della storia e della memoria. Abbiamo assistito di persona al Senato a quello organizzato da Liliana Segre ed Elena Cattaneo, anch’essa senatrice a vita, con gli studenti dell’Istituto Vittorio Emanuele III di Palermo accompagnati dall’insegnante Rosa Maria Dall’Aria. Ricordate? Era la primavera del 2019 e Dall’Aria fu sospesa dal ministero per – a dire di zelanti ispettori – non aver vigilato su un video dei suoi ragazzi, in cui un fotogramma accostava le leggi razziali fasciste ai decreti sicurezza e immigrazione di Salvini. Le due senatrici a vita fecero riferimento alla Costituzione parlando di «ferita democratica inferta da una articolazione dello Stato deputata all’ordine pubblico che entra in una scuola per interessarsi di un lavoro didattico frutto della libera elaborazione di alcuni studenti nell’ambito delle attività per il Giorno della memoria». La Costituzione, è bene ricordarlo anche in vista dell’appuntamento referendario, «non può essere aggirata o superata facilmente»: Liliana Segre lo ha sempre ribadito con fermezza e coraggio.
Un coraggio, e un’umanità, che evidentemente conquistano facilmente il “cuore” dei ragazzi che la tempestano di domande non appena ne hanno l’occasione e che, di contro, provoca reazioni scomposte, violente e d’odio nei suoi confronti da parte di chi questo coraggio non l’ha mai avuto e l’umanità (e quella curiosità tipica dei giovani) l’ha persa da tempo.
«La scorta a Liliana Segre…

*-*

Post scriptum: il signor M.G. di Latina è stato segnalato da migliaia di utenti all’account Facebook della Polizia postale e al momento di andare in stampa il suo account risulta disattivato

L’articolo prosegue su Left dell’11-17 settembre

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Bellezza: che figuraccia di festival

È in programma a Verona dall’11 al 19 settembre il Festival della Bellezza  di cui stanno parlando un po’ tutti in queste ore. L’organizzazione è riuscita a compiere un piccolo capolavoro: per parlare di eros e bellezza ha pensato giustamente di invitare solo maschi, tutti maschi. Evidentemente, come troppo spesso accade da noi, si ritiene che non ci sia una donna in grado di parlare dell’argomento. Riuscire a infilare 24 oratori per parlare di bellezza e eros tutti di sesso maschile richiede un certo sforzo, effettivamente (l’unica donna, Gloria Campaner, accompagna al pianoforte l’intervento di Alessandro Baricco).

Giustamente ieri Michela Murgia si chiedeva se gli invitati non avessero nulla da eccepire, se non sia il caso di cominciare a prendersi la responsabilità di dare uno sguardo al programma prima di accettare un invito (lo fece qualche tempo fa il ministro Provenzano, che infatti declinò). Del resto i dati ufficiali dicono che nei festival italiani la presenza femminile si attesta intorno al 15%. E non è roba di cui andare fieri.

Ma non è tutto. L’organizzazione del festival ha cercato di difendersi dicendo che le “molte figure femminili” che erano state invitate “non se la sono sentita di intervenire in un periodo difficile, in un contesto particolare come l’arena di Verona”. Capito? Le donne si sono impaurite, evidentemente.

Ma non è tutto. Guardando i programmi degli ultimi anni si scopre che dal 2014 solo otto donne sono salite sul palco dell’Arena e del teatro romano di Verona per partecipare alla rassegna.

Ma non è tutto. L’anno scorso in un’intervista Alcide Marchioro, direttore artistico del Festival della Bellezza, rispondeva alle critiche sulla poca presenza femminile (già l’anno scorso, eh) diceva: “è più complesso con le figure di donne intellettuali. Trovare le persone adatte a sostenere un palcoscenico davanti a quasi duemila persone non è facile: il pubblico deve sentirsi coinvolto e il protagonista deve essere a suo agio”. Alla grande.

Ma non è tutto. L’immagine usata per pubblicizzare il festival è una donna (per la precisione una bambina) e l’artista autrice dell’opera, Maggie Taylor, ha espresso tutta la sua indignazione per quell’immagine che è stata usata senza il suo consenso aggiungendo di esser stata sconvolta dalla scelta di utilizzare una bambina, dato che quest’anno il tema della rassegna sarà l’eros.

Beh, alla grande direi, no? La misoginia ha radici profonde, in giro un po’ dappertutto, difficili da sradicare.

Buon giovedì.

Quale futuro per la Bielorussia, con o senza Lukashenko

Ëóêàøåíêî çàÿâëÿåò î íåîáõîäèìîñòè ïðîäîëæåíèÿ äèàëîãà Áåëàðóñè ñ åâðîñòðóêòóðàìè Ïðåçèäåíò Áåëàðóñè Àëåêñàíäð Ëóêàøåíêî 23 ìàðòà íà âñòðå÷å ñ äîêëàä÷èêîì ïî Áåëàðóñè êîìèññèè ïî ïîëèòè÷åñêèì âîïðîñàì è äåìîêðàòèè Ïàðëàìåíòñêîé àññàìáëåè Ñîâåòà Åâðîïû (ÏÀÑÅ) Àíäðåà Ðèãîíè çàÿâèë î íåîáõîäèìîñòè ïðîäîëæåíèÿ äèàëîãà ñòðàíû ñ åâðîñòðóêòóðàìè. Íà ñíèìêå: 1, 2. Àëåêñàíäð Ëóêàøåíêî è Àíäðåà Ðèãîíè. 3. âî âðåìÿ âñòðå÷è. 4. Àíäðåà Ðèãîíè. Ôîòî Íèêîëàÿ Ïåòðîâà, ÁÅËÒÀ.

«Torna a lavare i piatti», era stato il commento di Alexander Lukashenko alla candidatura di Tikhanovskaya alle ultime elezioni presidenziali in Bielorussia. I risultati comunicati il 9 agosto dalla Commissione elettorale centrale (Cec) hanno decretato il proseguimento di un regime che dura ininterrottamente da 26 anni. Il “Papà”, come ama farsi chiamare, avrebbe raccolto l’80% dei voti. Una cifra inverosimile. La piattaforma Voice, creata da organizzazioni indipendenti in Bielorussia, ha calcolato in autonomia i risultati in 1.310 seggi elettorali, circa il 22%: ebbene, solamente in questi seggi, Tikhanovskaya ha ottenuto 471.709 voti su 588.619 totali. Il che vuol dire che la candidata, costretta poi a scappare in Estonia, avrebbe raccolto 116.910 nei rimanenti 4.457 seggi. «Una discrepanza altamente improbabile» che ha scatenato le proteste che vanno avanti ormai dal 16 agosto quando sono scese in piazza circa 200.000 persone per la più grande manifestazione di sempre in Bielorussia. Con il tempo la tensione è cresciuta, complici anche gli arresti di massa e le espulsioni arbitrarie dal Paese dei leader dell’opposizione. Non ultimo quella tentata l’8 settembre nei confronti di Maria Kolesnikova. Per cercare di delineare gli scenari che si possono aprire anche alla luce dei rapporti con l’Unione europea e la Russia, abbiamo incontrato Andrea Rigoni, già deputato Pd ed ex relatore dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa: contestualizzare la Bielorussia dal punto di vista storico e geopolitico è il primo passo per avere uno sguardo lucido sulla vicenda.

Per definire le relazioni tra Bielorussia e istituzioni europee Rigoni utilizza la fortunata metafora di un pendolo «che oscilla tra dialogo e chiusura in se stessi». In un rapporto del Parlamento europeo è d’altronde questa l’immagine che fuoriesce: interruzione della partnership nel 1997, la «speranza che la Bielorussia diventi parte della grande democrazia europea» espressa dal Consiglio europeo nel 2002. Nel 2006 imposizione di sanzioni nei confronti di alcuni ufficiali, tra cui lo stesso Lukashenko, per la scomparsa di oppositori politici. Riapertura nel 2008 e congelamento dei fondi nel 2012 in seguito alle elezioni contestate del 2010. Fino al rilascio delle misure restrittive nel 2016 e lo sviluppo di un “Human rights national plan” nel medesimo anno. Nel 2017, in un incontro con il presidente Lukashenko, quest’ultimo aveva detto a Rigoni di voler perseguire un dialogo con le istituzioni europee. Le stesse che oggi invece accusa di voler destabilizzare il Paese.

«Lukashenko è una persona astuta e determinata, un temporeggiatore che però non si rende conto dell’avanzare della storia», afferma l’ex relatore. Un esempio, oltre che nella sua parvenza di «reperto di archeologia sovietica» (come l’ha raccontato M. Palma a Left) lo possiamo forse trovare nella gestione della pandemia Covid-19, definita più volte dal presidente una «psicosi collettiva». Quando un uomo che pesava 137 chili venne a mancare causa Covid, affermò che «in ogni caso non puoi vivere in quel modo».

In un Paese che si regge sulla nazionalizzazione economica, in cui lo stato garantisce un salario minimo a qualsiasi cittadino – «tra i 120 e 150 dollari al mese a quanto mi risultava» ci spiega Rigoni -, la crisi sanitaria ha avuto ripercussioni devastanti.

Dunque, crisi economica e brogli elettorali sono stati la goccia che ha fatto traboccare un vaso vecchio più di vent’anni, ricolmo di soprusi, inganni e soppressione dei diritti. Dalle prime testimonianze di cittadini arrestati emerge un quadro surreale per quanto cupo, tale da infiammare ulteriormente le proteste, guidate per lo più dalla componente femminile del paese. A migliaia, vestite di bianco, distribuendo fiori e inneggiando il simbolo della vittoria, continuano a manifestare per le strade di Minsk. Per Rigoni, la caratterizzazione femminile non è una sorpresa: «nelle mie visite alle università per diffondere i valori del Consiglio la stragrande maggioranza degli studenti era composta da donne, che studiano con profitto e ottengono risultati concreti. C’è una classe giovanile molto istruita, ed è su di loro che dobbiamo puntare per diffondere certi valori». In che modo? «Alcuni progetti Ue e del Consiglio, hanno puntato, forse non abbastanza, su una sensibilizzazione dei giovani: abbiamo aperto collaborazioni con le università, fornito sostegno diretto alle istituzioni culturali e soprattutto semplificato l’ottenimento dei visti, favorendo una mobilità fondamentale per aprire gli orizzonti dei giovani bielorussi». Dunque, se da una parte i valori europei hanno raggiunto la componente giovanile e liberale della popolazione bielorussa, dall’altra persiste una mentalità conservatrice che pare inscalfibile da qualsivoglia tentativo di rinnovamento. Come due generi letterari che non trovano una formula di sintesi; l’Europa, che ha teorizzato i diritti, non riesce a trovare una formula, un romanzo in grado di raccontare la tradizione sovietica bielorussa. «Da una parte abbiamo fatto passi avanti, per quanto riguarda lo spoglio elettorale, che prima veniva fatto di spalle agli osservatori, e l’inclusione di due membri dell’opposizione e delle Ong nelle Commissioni politiche dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa; dall’altra, ciò non esclude il controllo sulle elezioni delle autorità, che si esercita principalmente nell early voting (la settimana di elezioni, che va dal lunedì al sabato), o la possibilità dell’opposizione di esprimersi liberamente». In un Paese in cui vige ancora la pena di morte, l’ipotesi di sottostare alle decisioni della Corte europea dei diritti umani in quanto membro del Consiglio d’Europa, è forse inconcepibile. Ma, dice Rigoni, «se fosse sospesa con una moratoria de iure, e non de facto, permetterebbe un’ammissione temporanea alle assemblee che aprirebbe uno spiraglio di dialogo».

E poi c’è la Russia di Putin, o meglio del «fratello maggiore», come l’ha additato Lukashenko. Il rapporto tra i due paesi è strettissimo: l’import energetico bielorusso è per il 99% di provenienza russa, quello di armi del 96%, secondo i dati elaborati da Ispi (Istituto di politica internazionale). Ancora, secondo il Financial Times, gli scambi commerciali con il Cremlino contribuiscono al 3% del Pil bielorusso, e tra i due Paesi non esiste sostanzialmente frontiera. «A Minsk c’è un diffuso sentimento filorusso-aggiunge Rigoni-il bielorusso come lingua è meno parlato del russo». Tuttavia i rapporti sono piuttosto ondivaghi, e la pressione di un paese di più di 220 milioni abitanti su uno che ne conta meno della sola Mosca non può che essere asfissiante.

Nel corso degli anni si sono succeduti poi vari screzi tra i due presidenti: il mancato riconoscimento da parte di Lukshenko dell’annessione alla Crimea, visioni differenti all’interno dell’Unione economica eurasiatica. E patti traditi. «Mentre nel 2019 Putin stava spingendo per il referendum su una riforma costituzionale che gli avrebbe permesso di allungare i termini del suo mandato, il presidente russo chiese a Lukashenko di procedere all’unificazione sotto il pretesto di un accordo siglato nel 1999». Quest’ultimo in un primo momento sembrò accettare, ma poi la tirò per le lunghe e al contrario riallacciò i rapporti con gli Stati uniti, aprendo le ambasciate nelle rispettive capitali.

Arriviamo dunque alle settimane precedenti alle elezioni, caratterizzate dall’ormai collaudata prassi dell’arresto di oppositori politici. Tra questi, uno in particolare ha fatto scalpore: Viktor Barbarika, direttore per venti anni della Belgazprombank, principale banca bielorussa e le cui azioni appartengono per il 99% alla Gazprom, gigante energetico russo. «A quanto mi risulta aveva ottenuto circa 900.000 firme, ben più delle 100.000 necessarie a candidarsi» specifica Rigoni. L’accusa ufficiale, rigettata dalle autorità russe e dall’Europa, è di corruzione e finanziamenti esterni. Andando più avanti, il 31 luglio la Bbc dà la notizia dell’arresto da parte dei servizi del Kgb bielorusso di 33 membri dell’associazione russa Wagner, con l’accusa di essere mercenari e di voler interferire nelle elezioni. «La frizione tra i due paesi è evidente», commenta l’ex relatore, «come è evidente che c’è stato un condizionamento nelle elezioni da parte di Putin, che adesso invece assicura appoggio a Lukashenko. Come in una qualsiasi “partita” geopolitica, si mandano segnali, avvertimenti, per poi rassicurare e professare amicizia e sostegno».

In conclusione, una soluzione al conflitto in Bielorussia, Paese, vale la pena ricordare, con il più basso standard di democrazia in Europa, è ancora lontana. «Quel che è certo è che né il Consiglio d’Europa né l’Unione europea stanno facendo abbastanza – rileva Rigoni – e che una risposta che non tenga conto della Russia e della sua volontà, sempre difficile da intuire al netto della generica volontà di annessione, non è fattibile». Un percorso comune dunque, con tatto e sensibilità. «Altrimenti, il pendolo si ferma irrimediabilmente».

Salutavano sempre

Gabriele Bianchi, uno dei fratelli arrestati per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, scriveva sul suo profilo Facebook (lo riporto letterale), è qualcosa di anni fa (9) perché purtroppo i profili sono stati immediatamente cancellati e non abbiamo materiale a disposizione. Scrive Gabriele Bianchi:

«lurido egizziano de merda te possa da na paradise secca pozzi rimane senza respiro, pozzi crepa lentamente, spero che qualcuno ti venga a cercare e che ti affoghi nella merda schifosissimo essere figlio di puttana se c’è ancora la guerra nel tuo paese di merda spero che ti uccidono adesso bastardoooooooo»

Risponde il fratello Alessandro, il fratello maggiore, estraneo alla vicenda della morte, quello che ieri in un’intervista ci ha detto che ha insegnato ai suoi fratelli “le regole, il rispetto per l’avversario, la disciplina” e che “il fascismo e il razzismo sono cose che non esistono. Politica non ne hanno mai fatta e in palestra si allenano con ragazzi romeni, albanesi, nordafricani”:

«egiziano de merdaa che tu possa bruciare all’inferno mi piacerebbe averti 10 minuti tra le mani il pezzo più grande rimarrebbe un tuo occhio negraccio de merda»

Gli risponde Gabriele Bianchi:

«aahahahahahaha che negro de merda… magari ora sta sotto fosso morto!!!».

I genitori dei fratelli Bianchi in caserma avrebbero dichiarato: «Cosa avranno mai fatto?! In fondo era solo un extracomunitario…».

Forse sarebbe il caso di dircelo chiaramente che la violenza (scritta, simulata, proposta, mimata, recitata) poi alla fine diventa azione. Forse sarebbe il caso di dirci, al di là delle risultanze delle indagini e del processo, che l’ambiente da cui escono i picchiatori di Willy è veramente tanto diverso da come ce lo vorrebbero raccontare, tutto tranquillo e sereno.

Basta farli parlare, si dipingono da soli. Di razzismo qui se ne sente l’odore, dappertutto.

Buon mercoledì.

Scambiare un omicidio per una rissa

Insuperabile il Corriere della Sera che descrivendo uno degli arrestati per la morte di Willy Monteiro Duarte scrive: «Ma Gabriele Bianchi, uno dei quattro fermati (insieme al fratello Marco e altri due) per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte a Colleferro, nei mesi di lockdown si era posto anche un problema più concreto: come tirare avanti, mettere insieme pranzo e cena. Da giovanotto sveglio e concreto lo sapeva: non potevano essere gli sport da combattimento a dargli una sicurezza economica. Così s’era inventato una vita meno bellicosa, quella del fruttivendolo».

Giovanotto sveglio e concreto: l’agiografia dei violenti ultimamente va per la maggiore e ogni dettaglio utile per sminuire l’accaduto sembra ricercatissimo da certi giornalismi per farci un bell’articolo. Eppure si sta parlando di pregiudicati, conosciuti da tutti come violenti, simpatizzanti dell’estrema destra e che si dedicavano volentieri alle risse. Questo piccolo dettaglio viene omesso.

Del resto i fatti raccontano che Willy Monteiro Duarte sia stato ammazzato di calci e di pugni, ovviamente in molti contro uno, come si conviene ai vigliacchi e sia rimasto lì, morto per terra. “Rissa”, scrivono certi giornali: come se fosse una “rissa” massacrare di botte un ragazzetto che pesa la metà di te insieme ai tuoi amici e contro cui usi le tue tecniche di combattimento imparate per diventare ancora più efficace nella tua violenza.

Poi c’è il racconto che ci dice che Willy Monteiro Duarte e la sua famiglia fossero “ben integrati”. Di grazia, qualcuno vorrebbe dirci che informazione è? Se non fossero stati “bene integrati” sarebbe stato più immaginabile un omicidio del genere?

Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti, e aveva proprio ragione.

Infine c’è la narrazione di chi vorrebbe farci credere che Willy si sia trovato “nel posto sbagliato nel momento sbagliato”. Anche questo è un falso: Willy ha ritenuto opportuno difendere un amico dalla foga e dalla violenza di questi picchiatori professionisti. Willy ha deciso di essere altruista e solidale in un territorio in cui evidentemente è un lusso che non ci si può permettere. Willy ha incocciato uno di quei quartieri presidiati dalla violenza di qualche gruppetto di pestatori professionisti che vorrebbero comandare il territorio. Willy ha fatto la cosa giusta. Siamo noi che gli abbiamo fatto trovare il Paese sbagliato.

Buon martedì.