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Qual è il piano?

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 26-03-2020 Roma Politica Senato - Informativa del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte sull'emergenza coronavirus Nella foto Giuseppe Conte Photo Roberto Monaldo / LaPresse 26-03-2020 Rome (Italy) Senate - Report by Prime Minister Giuseppe Conte on the coronavirus emergency In the pic Giuseppe Conte

Qualche osservazione, per aprire una discussione e per non rimanere tutti incollati tutto il giorno ad aspettare solo i dati dei nuovi contagi e dei tanti, enormemente troppi, deceduti. Una riflessione che dovrebbe coinvolgere la politica e che rimane invece solo incastrata negli editoriali e nelle domande che rimangono senza risposta appese ai social. Qual è il piano?

Meglio: cosa vuole fare la politica? In questi giorni stiamo assistendo alla disgregazione: Regioni che vanno per conto loro, sindaci e presidenti di Regione che si ritagliano il loro secondo di notorietà sfoderando un po’ di sceriffismo e serrate consultazioni sul peso e sulla circonferenza dei bambini che possono passeggiare. Bene. Ci dicono, giustamente, che ora è emergenza e quindi tocca ascoltare gli esperti. Benissimo. Ma esattamente qual è il piano?

Se si aspetta che il contagio arrivi a zero significa non riuscire a guardare più in là dei numeri (e questo dovrebbe fare la politica): la possibilità di ricontagio e la mancanza di un vaccino e di una cura (sarà lunga) ci dice che dovremo convivere con il virus, tenerlo sotto controllo, portarlo a limiti accettabili ma accettare di essere schiavi di una possibile ondata di ritorno. La strategia del “tutti a casa” illudendo che il Covid-19 magicamente scompaia è una favoletta che non ha niente a che vedere con la responsabilità della politica. Il contenimento e la quarantena sono misure emergenziali, questo è chiaro, ma la convivenza con la presenza di un virus che non ha né vaccino né cura è una strategia politica che dovrebbe essere pensata. Se ne sta pensando? Dico sul serio, lasciamo perdere quelli dell’apriamo tutto domani mattina che vengono smentiti dai dati della scienza ma se la politica ci chiede lo sforzo di guardare lontano con fiducia non avrebbe l’obbligo di costruirla, la fiducia? Il tracciamento personale è una soluzione? Se ne vuole parlare? Vogliamo parlare dei metodi possibili e delle questione di diritti e privacy? Si vuole scaglionare? Benissimo, come?

Il dibattito sul dopo è qualcosa che va fatto adesso e forse diminuirebbe la sensazione di sospensione. No? Così, per capirsi.

Buon giovedì.

Coronavirus, nei primi 20 giorni di marzo la mortalità al Nord è aumentata del 60%

Nelle prime tre settimane di marzo, in 21 capoluoghi del centro nord Italia c’è stato un aumento complessivo della mortalità del 60,57% rispetto alle prime tre settimane di marzo del 2019 (da 2217 a 3560 morti).
È quanto emerge da un Report sui Dati di mortalità nel 2020 pubblicato mercoledì 1 aprile dall’Istat che ha elaborato i dati provenienti da 21 comuni capoluogo dei 110 totali in Italia. Picchi più o meno marcati si registrano nelle città particolarmente colpite dalla pandemia di coronavirus: Bergamo +294,1% (da 101 a 398 morti), Piacenza +272% (da 75 a 279 morti), Pesaro +184,8% (da 66 a 188 morti). Nel comune di Milano la mortalità è aumentata del 17,4% (da 885 a 1039 morti), di poco più alta quella rilevata nel comune di Lodi +18,8% (da 32 a 38 morti), mentre spicca il dato di Verbania: +70%. Di seguito gli altri dati: Alessandria +15,2%, Aosta +25,9%, Imperia +45,2%, Savona +41,3%, Milano +17,4%, Bergamo +294,1%, Brescia +109,7%, Pavia +41,8%, Cremona +151,9%, Mantova +22%, Piacenza +272%, Parma +103,9%, Modena +2,6%, Pesaro +184,8%, Carrara +96,9%, Pistoia +24,2%, Grosseto +21,1%, Biella +74,2%, Lodi +18,8%, Rimini +14,6%.

È giusto dire che siamo in guerra?

Foto Claudio Furlan - LaPresse 25 Marzo 2020 Bergamo (Italia) News Coronavirus, in turno con le Unità Speciali che curano i malati più gravi a domicilio. A Bergamo sei unità speciali di continuità assistenziale visitano i malati o sospetti Covid19 che non hanno trovato posto negli ospedali cittadini ormai saturi da giorni. Photo Claudio Furlan/Lapresse 25 March 2020 Bergamo (Italy) Coronavirus, in turn with the Special Units that treat the most seriously ill patients at home. In Bergamo, six special continuity care units visit Covid19 patients or suspects who have not found a place in city hospitals that have been saturated for days.

C’è chi è stato sequestrato dall’Isis mentre faceva informazione, chi ha documentato il dramma in Yemen aggirando i paletti imposti ai cronisti embedded, chi è stato una vita sulla frontline dei più sanguinosi conflitti del pianeta, schivando proiettili e analizzando fatti. Loro sono Amedeo Ricucci, Laura Silvia Battaglia e Gian Micalessin, raccontano la guerra per mestiere e oggi si trovano a coprire un disastro di portata epocale, quello del Covid-19.

Il gergo militaresco imperversa nella comunicazione mediatica: il fronte, gli eroi, la prima linea, la trincea, la retrovia sono la grammatica della pandemia. E chi meglio di loro, reporter specializzati in aree di crisi, può dirci come leggere il controverso paradigma bellico.

«È facile dire che il virus è un nemico da combattere. Tutto l’apparato lessicale che riconduciamo al conflitto rischia di semplificare di molto il racconto di quello che sta succedendo. Il problema è che questa non è una guerra ma un’emergenza sanitaria complessa», dice Amedeo Ricucci, inviato speciale del Tg1. «Utilizzare la scorciatoia della metafora bellica – precisa – può essere pericoloso perché non mostra quello che invece dovremmo vedere: dietro il bollettino quotidiano della Protezione Civile che ci dà il conto dei morti e dei caduti, ci sono storie e persone. Ogni storia è indicativa di un pezzo di realtà su cui sarebbe il caso di puntare i riflettori».

Si fatica a restituire quanto sta accadendo, il distanziamento sociale è un limite, il virus è un pericolo in agguato anche per i giornalisti, e sta imponendo un nuovo modo di informare. Così, appesi – momentaneamente – il giubbotto antiproiettile e l’elmetto al chiodo, armati di mascherina e guanti medicali, i reporter delle zone di frontiera narrano il morbo. C’è chi entra nei reparti Covid o sale a bordo di un’ambulanza, chi fa interviste via Skype dalla quarantena forzata o commenta filmati forniti direttamente dagli operatori sanitari.

«Ci stiamo attrezzando per lavorare a distanza – prosegue l’inviato Ricucci – e chi come me ha frequentato i teatri di guerra, quelli veri, ci è abituato. È successo ad esempio in Siria, quando dopo la metà del 2013 era impossibile entrare nel Paese perché c’era il rischio di essere sequestrati e ci siamo attivati lavorando dai confini».

Per Laura Silvia Battaglia, nomen omen, giornalista in aree di crisi, «la retorica della guerra è giustificabile quando a parlarne è un medico o un soccorritore. Questo è il motivo per cui è nata questa metafora». Quando un dottore si trova nella condizione di dover ammettere un paziente a discapito, suo malgrado, di un altro, perché anziano o con patologie pregresse, «è un tipo di azione che si fa in guerra», afferma. Al netto di questo aspetto, «la pandemia va chiamata pandemia, così come il terremoto è il terremoto».

Anche Battaglia registra un cambiamento radicale nel modo di fare informazione, «chi lavora sul campo vive di contatti fisici, ma in questa situazione, non soltanto per la nostra personale sicurezza ma soprattutto per i nostri familiari, bisogna riuscire a trovare anche un modo nuovo di comunicare. È una sfida che la crisi ci impone».

Gian Micalessin, una vita in prima linea, pensa invece che il Covid sia peggio di una guerra, «un disastro epocale che, oltre a seminare morte, cambierà il volto del nostro Paese». Boots on the ground, durante questa emergenza sanitaria, i suoi reportage dalla terapia intensiva di Cremona al fianco di medici e infermieri che si sacrificano per salvare i pazienti, sono devastanti. «Il numero di caduti in Italia per il Covid-19 è peggiore di quello di molti altri conflitti. Tutto questo segnerà per sempre i sopravvissuti», afferma. Lui, che copre le zone calde da 35 anni e ha girato il globo in lungo e in largo, adesso scende sotto casa e trova l’inferno. Camminando nel Bergamasco, a Nembro, paesino falcidiato dal virus, Micalessin ha pensato a Sarajevo, a Grozny o ad Aleppo.

«Quando le bombe, i razzi e i cecchini regalavano un po’ di tregua, la gente usciva per strada, qui non si vede nessuno, la morte e la precarietà dell’esistenza sono sensazioni incancellabili». Una minaccia invisibile e terrificante quella virale, nella quale il reporter si è già imbattuto tempo fa, quando «la paura m’è entrata dentro e non m’ha lasciato. È successo a Kikwit, epicentro del contagio di Ebola che nel 1995 colpì lo Zaire, l’attuale Congo. Bombe e proiettili si vedono oppure si sentono. Il virus no, è una paura intangibile».

Che ci piaccia o no la metafora della «guerra», di fatto uno scontro mondiale è in corso, e si sta giocando sul piano biologico, dove le forze armate dei globuli bianchi, preposte alla difesa della salute, ingaggiano una battaglia senza quartiere contro l’esercito del Covid-19.

L’irrinunciabile centralità del Parlamento

Da circa tre decenni in Italia è percettibile un’offensiva continua al sistema parlamentare su cui si fonda la nostra democrazia secondo la Carta costituzionale. Il vessillo sempre più spesso issato, da sinistra a destra, è la parola “governabilità”. Vocabolo, quasi magico, che – da Berlusconi a Renzi, fino ai nostri giorni –-esprime la falsa necessità di depotenziamento del Parlamento. La crisi dei partiti e l’onnipotenza della mala politica hanno fatto soccombere le istanze della società civile.

Il Parlamento è stato indebolito e in non pochi casi soccombe al potere dei mercati e della globalizzazione. Ciò nonostante, un evento imprevedibile e inimmaginabile riporta il Parlamento al centro di un dibattito non più evitabile: il suo ruolo nella nostra democrazia. Un tema fondamentale che diventa ancor più rilevante nelle situazioni di emergenza come quella della pandemia da coronavirus che stiamo vivendo. Non ho mai creduto ai sistemi maggioritari e alle riforme delle leggi elettorali che si sono succedute negli ultimi decenni.

La nostra Costituzione è facilmente accordabile con un sistema elettorale proporzionale, in grado di rappresentare l’intero arco delle posizioni politiche, di garantire l’uguaglianza del voto, di riflettere pienamente il pluralismo politico e, soprattutto, di garantire costantemente la presenza e il ruolo di controllo delle forze di minoranza. Questo significa garantire in concreto la “centralità del Parlamento“. La massima rappresentatività ed efficienza decisionale delle Camere, la loro composizione pluralista e la forza delle minoranze, sono la vera espressione di una democrazia parlamentare com’è la nostra.

Tutto questo, però, non basta. L’esistenza di Camera e Senato in un sistema parlamentare non connotano di per sé un regime democratico. Nel regime fascista, difatti, il Parlamento fu mantenuto, ma ridotto a strumento di acclamazione ed espropriato integralmente dal Governo. Occorre, dunque, un quid pluris e cioè un Parlamento che esprima e riassuma il sistema delle libertà in stretto contatto con i diritti e i doveri dei cittadini, attraverso la garanzia della ”riserva di legge”. Quest’ultima serve nel regolare i principi in base ai quali i pubblici poteri possono incidere sulle sfere giuridiche dei privati, sia in rapporto ai partiti politici, che rappresentano la proiezione dei cittadini in Parlamento, sia nei rapporti e meccanismi di reciproca garanzia dei diritti fondamentali della persona umana.

In una democrazia parlamentare come la nostra non si può delegare all’autorità amministrativa l’adozione di misure che intacchino le nostre libertà fondamentali (ad esempio la libertà di circolazione ex art. 16 Cost). Siamo di fronte ad una riserva di legge assoluta. Nei momenti di crisi sanitaria ed economica come l’attuale, sarebbe bene che, invece di ripetere retoricamente “siamo in guerra”, si garantisse più semplicemente la convocazione delle Camere in seduta permanente, in modo tale che tutti gli aspetti connessi all’attuale pandemia fossero discussi in Parlamento e non solo dal Governo. Altrimenti non ha senso parlare di centralità del Parlamento.

Qualcuno potrebbe anche sentirsi spinto a guardare più vicino a sé analizzando queste nostre istituzioni parlamentari e come sono state sfibrate nella recente storia della Repubblica. Non solo oggi ma anche per il futuro bisognerebbe trarre spunto dalla dolorosa esperienza del ventennio fascista qualche prezioso insegnamento che serva a difendere il Parlamento e a farlo sempre più completo e rispettato nell’avvenire. Questa pandemia deve servire anche a evitare di ricader negli stessi errori che già sono stati commessi.

Questa catastrofe potrebbe essere, alla fine, fonte di una “riflessione” libera da preconcetti. Riprendiamo i temi della centralità del Parlamento, ripercorriamo la storia con onestà intellettuale perché sono certo, ci aiuterebbe a capire come e perché i partiti potranno ancora avere una funzione decisiva nel Parlamento della Repubblica Italiana non solo per la formazione delle opinioni politiche e per il ruolo della proposta programmatica e la scelta dei candidati alle elezioni, ma anche per i valori di cui possono ancora essere portatori nei confronti di forze politiche sostanzialmente antidemocratiche ed espressione d’interessi di parte, spregiudicate negli atteggiamenti fascistoidi.

* Vincenzo Musacchio, giurista e docente di diritto penale, dal 2018 associato della School of Public Affairs and Administration (Spaa) presso la Reuters University di Newark (Usa), presidente dell’ Osservatorio Antimafia del Molise e direttore Scientifico della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise.

Renforcer l’Europe ou la condamner à l’échec

14 March 2020, Bavaria, Munich: Art student Gregory Borlein prepares his graffito with the inscription "The Corona Virus is a Wake up Call an our Chance to built a new and loving Society" on a wall in the slaughterhouse district. Photo by: Peter Kneffel/picture-alliance/dpa/AP Images

Rien ne sera plus comme avant. Mais jamais la direction du changement n’a été aussi incertaine. La crise économique provoquée par le coronavirus permettra un bond en avant dans la construction européenne, vers une meilleure intégration ; ou alors on ira dans la direction opposée, vers une désintégration de la monnaie unique, en passant par une nouvelle crise dévastatrice des dettes souveraines. Il semble qu’il ne pourra pas y avoir d’autres issues possibles. Pour le moment, il n’est pas possible de prévoir précisément ce qu’il se passera. Ce qui est sûr et certain c’est que la crise sera très grave, bien plus grave que celle de 2008 qui a déjà beaucoup pesé sur l’économie mondiale, et sur l’Italie en particulier. En Europe, il ne sera bien sûr pas possible d’affronter cette crise en mettant simplement en place des mesures exceptionnelles, tout en pensant qu’on pourra ensuite repartir en reprenant le même rythme qu’avant, les mêmes règles et les mêmes dispositifs institutionnels.

Après un premier moment d’égarement de la Présidente Christine Lagarde qui a gravement désorienté les marchés, la Banque Centrale Européenne (BCE) a rapidement déployé toute la puissance de feu dont elle dispose. Le quantitative easing, un programme d’achats de titres publics et privés sur le marché secondaire en place depuis 2015, a été renforcé : augmentation du montant total des achats, extension ultérieure de l’éligibilité à l’achat à une plus grande gamme de titres et réintégration de la Grèce qui avait été exclue du programme. En outre, d’importantes liquidités ont été accordées aux systèmes bancaires nationaux, et à des conditions très avantageuses, et les exigences en matière de fonds propres auxquelles les banques doivent se conformer pour l’octroi de prêts ont été assouplies. L’objectif est d’ouvrir le plus possible le robinet du crédit aux entreprises et aux ménages en difficulté. Dans le cadre actuel des Traités européens, la politique monétaire ne peut pas faire plus.

Contrairement à la politique monétaire, on le sait, la politique fiscale ne relève pas de la compétence de l’Union mais des États nationaux. Quelle est la part de ressources fiscales dont la Commission européenne a la gestion directe ? Seulement des miettes, 1 % du PIB européen, qu’elle gère à travers le budget de l’Union. L’essentiel de ces ressources est administré par les États nationaux, qui, lorsqu’ils définissent leurs propres politiques budgétaires, doivent cependant se conformer à un système de règles très rigide et compliqué, porté par une orthodoxie financière d’inspiration libérale : le système créé avec le Traité de Maastricht, renforcé par le Pacte de Stabilité et de Croissance (PSC) et ses prolongements.

En matière de politique fiscale aussi, face à l’urgence du coronavirus, l’Union ne peut pas faire plus. La Commission européenne a annoncé son intention, d’une part, de proposer la suspension des procédures de contrôle du respect des règles budgétaires et, d’autre part, de faciliter l’utilisation de fonds structurels et de simplifier leur réorientation vers les nouvelles exigences créées par la crise.
Au niveau européen, en terme de politique monétaire et fiscale, tous les dispositifs existant ont été mis en place. Mais cela ne suffira pas. Des problèmes de nature diverse sont imbriqués : le court et le long terme, le maintien du niveau de production actuel et les grandes questions concernant l’emploi des ressources – choisir entre une gestion à l’échelle locale, nationale ou supranationale ; entre secteur privé et public. Et le tout révèle le problème situé aux fondations de l’édifice : le caractère inadéquat du dispositif institutionnel de l’Union Européenne et de la conception politique, économique et sociale qui le soutient.

Court terme. L’abondance de liquidités et le facile octroi de crédits ne suffiront pas à préserver les niveaux de production et d’emploi. Les entreprises de nombreux secteurs subiront d’importantes pertes liées au manque de production, mais aussi aux inévitables coûts auxquels elles devront faire face. Leur accorder un crédit pour survivre, cela revient seulement à remettre l’échéance à plus tard. Le problème ne doit pas être reporté mais éliminé ; il ne s’agit pas de « manque de liquidités » mais de déséquilibre économique. Ce qui est nécessaire, c’est de donner de l’argent pas du crédit. De l’argent qui tombe du ciel. C’est comme cela qu’on a recommencé à parler d’helicopter money (voir l’interview de l’économiste Nouriel Roubini dans La Repubblica du 18 mars et l’éditorial du New York Times du 19 mars, « Give Every American $2,000 Immediately »). Mais lancer de l’argent depuis un hélicoptère, seule une banque centrale peut le faire, sinon l’argent ne viendrait pas d’un hélicoptère mais de la poche de quelqu’un. Il sera possible de le faire aux États-Unis avec la FED, mais pas en Europe avec la BCE (dans le cadre institutionnel actuel). Encore plus compliqué : le problème de l’emploi. Un problème que nous avions déjà et qui, après le coronavirus, sera encore plus sérieux. Mais pour l’emploi, même l’helicopter money pourrait ne pas être suffisant. Une puissante politique active serait nécessaire.

Court et long terme. Les traités et le statut de la BCE ne lui permettent pas de faire tomber l’argent du ciel. Elle ne peut pas non plus être prêteur en dernier ressort. Maintenant, on recommence à parler des eurobonds, une dette publique partagée au niveau européen. Mais une dette publique européenne ne pourrait exister qu’à deux conditions : la première, qu’elle soit garantie par une capacité fiscale européenne suffisante (capacité d’instituer des redevances), la deuxième, qu’elle soit défendue par une banque centrale qui puisse acheter des titres dès leur émission, seul moyen efficace pour désarmer les marchés. Ni l’une ni l’autre n’existent en Europe pour le moment. Les eurobonds en question ne seraient donc pas une dette de l’Union, mais une dette intergouvernementale. Et, dans les hypothèses considérées comme les plus facilement réalisables, ces eurobonds ne seraient même pas une dette intergouvernementale au sens propre d’un partage réel des risques entre pays concernés : ils constitueraient une dette en commun mais composée de compartiments hermétiquement séparés. En apparence une seule dette, mais à chacun la sienne.

Contingence économique et choix structurels. Le coronavirus a reposé de manière dramatique la question des biens (ou des « maux ») publics supranationaux. Les problèmes de la santé et de l’environnement qui n’ont pas de frontières. Avec des implications énormes pour tout un ensemble de politiques publiques : recherche scientifique, transports et mobilité, énergie, utilisation des sols, etc. Un bien public européen implique une dépense publique européenne. Une dépense publique européenne requiert des fonds de financement : des contributions européennes et une dette européenne (la dette serait plus que justifiée, vu qu’il s’agirait, dans une large mesure, d’une dépense d’investissement). On revient donc à la case départ.

Et encore. Le moratoire annoncé par la Commission en matière d’application des règles budgétaires est insuffisant. On nous permet de nous endetter. Mais après ? Pourrons-nous recommencer à avancer dans le même système de règles avec une dette qui pourra avoir atteint 140-145% du PIB ? Cela fait déjà longtemps que le poids des excédents primaires est loin d’être négligeable sans que l’on réussisse, toutefois, à inverser la tendance de la croissance du rapport dette/PIB. Il est impensable que l’on puisse repartir sur les mêmes bases qu’avant et en devant fournir l’effort gigantesque qu’une dette plus élevée impliquerait. Si de telles mesures nous étaient imposées, ce serait le début d’une faillite. Et une crise de la dette italienne signifierait la fin de l’euro. Le problème devrait être affronté à la racine, en supprimant, une fois pour toute, l’encours de la dette des pays les plus endettés. À l’origine des propositions (par exemple, celle de Prodi et de Quadrio Curzio de 2011-2012), l’idée était que les eurobonds puissent, au moins en partie, être aussi utilisés pour un projet de résorption de l’encours de la dette nationale. Ensuite, nombreux sont ceux qui se sont efforcés d’inventer des architectures financières complexes capables de réduire le poids de la dette héritée du passé en respectant le sacro-saint principe à la base de l’actuelle constitution européenne : l’interdiction de transfert entre États. Mais il est désormais trop tard. La conclusion est encore la même : le salut de la construction européenne ne peut passer que par un mouvement décisif vers des formes de fiscalité partagée. Autrement, ce sera la fin.

Traduction de Juliette Penn et Catherine Penn

L’articolo originale di Ernesto Longobardi è stato pubblicato su Left del 27 marzo 2020

SOMMARIO

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Orbán siamo noi

Hungarian Prime Minister Viktor Orban, center, walks out into the main press room to brief journalists during an EU summit at the European Council building in Brussels, Friday, Feb. 21, 2020. In a second day of meetings EU leaders will continue to discuss the bloc's budget to work out Europe's spending plans for the next seven years. (AP Photo/Virginia Mayo)

Orbán siamo noi. Siamo noi quando pretendiamo di avere risposte semplici a temi complessi e decidiamo di affidarci a chi grida meglio, a chi grida più forte, a chi si propone come soluzione senza parlare di soluzioni e senza proporre piani di intervento.

L’Ungheria che concede pieni poteri senza limiti temporali al suo capo dell’esecutivo siamo noi, è la fotografia dell’Europa che si sgretola ogni volta che c’è da essere forti con i forti e invece è sempre così brava a essere forte con i deboli.

Orbán è lo stesso che già nel 2012 aveva falciato la Costituzione ungherese calpestando l’autonomia del potere giudiziario e noi abbiamo fatto finta di non accorgercene. Tornavano utili i suoi voti, tornava utile il suo consenso e così la notizia è passata come una di quelle colorite notizie di politica estera mentre era già qualcosa di gravissimo.

Chi parla di libere elezioni in Ungheria non ha minimamente idea di cosa significhi da quelle parti fare opposizione, anche solo scrivere contro il governo. Orbán siamo noi quando pensiamo che i diritti degli altri siano qualcosa che possiamo permetterci di non considerare perché non intaccano i nostri. E invece noi siamo l’Europa, Orbán è l’Europa e quindi Orbán siamo un po’ anche noi.

Come scrive Nadia Urbinati: «Dalla sconfitta dei fascismi, le costituzioni servono non a incoronare il potere costituito ma a limitarlo, per garantire i diritti civili, che sono in primo luogo diritti di parola, di associazione e di movimento. Orbán con i pieni poteri ha la discrezione di limitare questi diritti – di fare obbedire in silenzio. Può, come richiede la pandemia, limitare il diritto di spostamento; ma può anche (come la pandemia non richiede) limitare il diritto di giudicare e criticare chi decide».

Orbán siamo noi quando decidiamo di disinteressarci dell’Europa e di trattare la politica estera come figurine: a gennaio di quest’anno già si era discusso dell’articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea (che tratta proprio dei diritti minimi dei Paesi membri) e dell’incapacità del Consiglio di applicare le dovute sanzioni a Polonia e Ungheria.

E alla fine siamo arrivati qui. A dover tirare fuori tutta la voce che abbiamo, in un momento come questo, per dire che no, noi non siamo Orbán.

Buon mercoledì.

I soldi per affrontare la crisi ci sono, ma nelle mani di pochi

Aggrappati ad un grafico, alla linea che segna il picco, alla curva. La nostra vita quotidiana legata ad un grafico.
Questa volta si tratta del grafico dei contagiati da coronavirus, dei deceduti.
Stavolta non si tratta del grafico del PIL, della curva dell’andamento della Borsa, dei Titoli, che si vogliono sempre in crescita, sempre in alto, alla ricerca di un costante picco. Ci si accorge ora che ci sono cose più importanti, basilari: la vita.
Ci accorgiamo ora come l’andamento il grafico dei contagiati non è demandato alle sole Autorità, al Governo, ai medici, agli infermieri, ma dipende anche da noi, anzi, principalmente da noi, dai nostri comportamenti, dalle nostre scelte. Ci accorgiamo che i nostri comportamenti hanno riflesso sulla collettività, sull’umanità intera, sul suo modo di vivere.
Viceversa si pensa che gli altri grafici dipendano solo dagli agenti di Borsa, dai colossi industriali e finanziari, e non anche dalle nostre scelte.
Invece anche in quel caso siamo noi che in qualche misura ne determiniamo l’andamento e l’importanza, scegliendo di vivere in questo mondo, accettando questo sistema, questo modello di sviluppo e di società basato sullo sfruttamento continuo dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura.
Continuiamo a pensare che le nostre scelte non influiscano. Eppure, come per il grafico dei contagiati, anche per il grafico del PIL dovremmo imparare che noi abbiamo una parte importante nel gioco.
Perché questi grafici indicano l’andamento della ricchezza prodotta (non completamente, ma per semplificare), ma niente dicono sulla distribuzione di tale ricchezza.
Perché se è direttamente vero che una curva declinante dei contagi, significa direttamente che tutti ci avviciniamo a tirare un sospiro di sollievo, che tutti ne beneficeremo, una curva sempre in salita del PIL non ci dice affatto che stiamo meglio, che siamo più ricchi, ma solo che è aumentata la ricchezza prodotta, che però rimane sempre più nelle mani di pochi.

Quello che paradossalmente c’è in abbondanza è il danaro. La ricchezza che il pianeta produce non è mai stata così alta. Questa ricchezza però non è a disposizione dell’umanità, dell’uomo che la produce, ma concentrata in poche mani: 26 persone, solo 26 persone, posseggono la ricchezza pari a quella di 3.8 miliardi di esseri umani. 26 persone eguagliano la metà del pianeta.
Siamo al paradosso, apparente, di un pianeta che produce ricchezze enormi, le più grandi mai viste, e al contempo che soffre per mancanza di acqua, salute, cibo, lavoro, in cui sono sempre maggiori le diseguaglianze, l’assenza di tutele, lo sfruttamento.
Diciamo ora, nell’emergenza drammatica dettata dal virus, che nulla sarà come prima, che avremo imparato la lezione. Ma non è così, non è affatto scontato che sia così. E non solo in ambito nazionale.
Vediamo, anche in questa emergenza, come i paesi ricchi europei (di una comunità cioè di cui facciamo parte a pieno titolo) continuano ad anteporre i propri egoistici interessi al bene collettivo, a rifiutare politiche e azioni comuni che non siano penalizzanti per i Paesi in difficoltà. È lo stesso che si fece con la Grecia: anziché aiutare un membro della famiglia europea, si posero condizioni capestro. Ora si vuole continuare. Ci si accorge ora, in certi ambienti a suo tempo ignavi, di quanto fu sbagliato accettare a suo tempo quelle scelte, che provocarono ulteriore povertà alla Grecia. Ci si accorge che la connivenza o, nel migliore dei casi, il silenzio, era ugualmente colpevole. Prima o poi siamo tutti Grecia. Ma se una comunità non è solidale, come può definirsi comunità?
Allora, nel dopo crisi, pensiamoci, perché ora siamo tutti in preda all’ansia da chiusura forzata, soffrendo davanti a televisori, con i cellulari in mano, con la play station, con il lavoro agile, lo smart working, con le lezioni telematiche, e chiediamo aiuto. Ma ricordiamolo però come abbiamo aiutato quei paesi che continuano a non avere la play station, o lo smart working, anzi che non hanno proprio gli ospedali: sempre imponendo condizioni di ricatto o sottomissione, le stesse che oggi per noi rifiutiamo.
Perché allora ci commuoviamo per le donazioni generosamente elargite (doverosamente direi) da questo o quel colosso, beandoci di queste forme di elemosina, di altruismo caritatevole, quando è, nel migliore dei casi, solo una parziale restituzione (appunto solitaria, volontaria, compassionevole) della ricchezza così mal distribuita e nella norma sottratta alla comunità.
Appare invece sempre più necessario e vitale che chi detiene queste enormi ricchezze partecipi organicamente al bene collettivo, e non questi sia lasciato alla benevolenza di “singole sensibilità”.
Bisognerà quindi, già ora e nel dopo crisi più fortemente, porre con maggior insistenza il tema dell’introduzione di una patrimoniale sui grandi capitali e di una riforma fiscale con caratteri più marcatamente progressivi (altro che flat tax). Idee non nuove ma sempre spacciate dai detrattori come dettate da invidia sociale di vetero-comunisti.
Intendiamoci, non si tratta di volontà “punitiva”, ma la sottolineatura della necessità di una distribuzione più equa delle risorse, in termini di denaro, di occupazione, di condizioni di lavoro, e di restituzione di spazi di vita, quelli che oggi ci accorgiamo siano fondamentali nel vivere quotidiano, nell’esistenza dell’uomo.
Da più parti, ad esempio, si grida alle scarse risorse messe in campo per affrontare la crisi economica e sociale dovute al virus. E certamente bisognerà fare di più e di meglio (pur considerando che l’Italia sta affrontando per prima al mondo, senza alcuna esperienza pregressa, una crisi imprevista, e che fa la parte da un lato di cavia e dell’altro di apripista, dovendosi inventare, da sola, strumenti e misure, non avendo alcun modello di riferimento, ma dovendolo in qualche modo inventarselo).
Ma la distribuzione diseguale della ricchezza (e con essa l’evasione e l’elusione fiscale), non è la causa prima della scarsità di risorse per gli Stati? Tassare chi ha di più per tassare chi ha di meno, non sarebbe una conseguenza logica?
E allora, sarà importante capire, quando si ripartirà, come si vorrà affrontare l’inevitabile crisi economica, con quali visioni, quali progetti? Mungendo i soliti noti o finalmente prendendo il denaro dove c’è? Come si finanzierà la Sanità Pubblica, che ora si scopre Cenerentola? E l’Istruzione, e i servizi, ecc? Mettere mano, quindi, alla fiscalità, introdurre una Patrimoniale, e farlo immaginando un nuovo e diverso modello di sviluppo, da centrare non più sullo sfruttamento dell’uomo e della terra.
Ecco quindi che non basta guardare ai grafici, ma in qualche modo si deve provare a cambiarli e soprattutto ad inventarne di nuovi.

Fittante Lionello
Cofondatore associazione politico-culturale #perimolti.
Aderente Movimento Politico èViva

Facciamo il punto sulla strategia sanitaria contro il coronavirus

Foto Marco Alpozzi/LaPresse 29 Marzo 2020 Verduno, Italia Cronaca Emergenza COVID-19 (Coronavirus) in Piemonte - L'ospedale di Verduno diventa operativo come Covid hospital, Con 50 posti letto e 7 di terapia intensiva Nella foto: due infermieri si preparano con i DPI Photo Marco Alpozzi/LaPresse March 29, 2020 Verduno, Italy News COVID-19 (Coronavirus) emergency in Piedmont - Verduno hospital becomes operational as Covid hospital, whit intensive care bed and 50 beds In the pic: two nurses prepare with PPE

La querelle dei tamponi, strettamente collegata ad altre complesse dinamiche, sta creando grande confusione e si moltiplicano interpretazioni e proposte a volte fantasiose. Per trovare il bandolo di questa intricata matassa servono alcune precisazioni.
I tamponi misurano la presenza/assenza del virus e quindi se è in corso un’infezione oppure no; a guarigione stabilizzata il virus scompare ed il test è negativo. I test rapidi di cui ora molto si parla non sono equivalenti e danno altre informazioni perché misurano la presenza eventuale di anticorpi ovvero se la persona è stata, anche inconsapevolmente, infettata ed è poi guarita. Ce ne sono circa 200 ma nessuno, come informa l’Iss, è validato ufficialmente per la diagnosi di infezione in corso; per la quale l’unico validato resta il tampone. Un problema interpretativo è che non sappiamo ancora quanto dura la presenza degli anticorpi nell’organismo, e quindi se l’immunità è permanente o temporanea.
Sull’uso dei tamponi l’Italia si è adeguata alle varie direttive dell’Oms, col senno di poi forse all’inizio un po’ troppo restrittive.

In realtà non sono i tamponi a mancare (i bastoncini per prelevare il muco su cui c’è il virus) ma gli indispensabili reagenti; il test ha un tempo tecnico di esecuzione, per ora non comprimibile, di 4-5 ore e questo è un serio limite al numero giornaliero di esami che è possibile eseguire. Si possono fare solo in pochi laboratori con altissimi livelli di sicurezza (per questo sono esclusi i comuni laboratori privati). Il risultato di tutti i tamponi effettuati serve anche ad avere un quadro più preciso dell’andamento e dell’estensione dell’epidemia. L’attendibilità di queste informazioni ed in particolare il numero dei positivi dipende però moltissimo dal numero di tamponi effettuati e dalla tipologia di persone cui vengono fatti (se mirati o, come a volte accade, un po’ a casaccio).

Dall’inizio della pandemia ne sono stati fatti circa 500mila per cui è impensabile chiedere di farli a tappeto a tutti i 60 milioni di italiani. La tanto nominata Corea del sud li ha fatti solo ad una popolazione molto selezionata di persone e finalizzati a rintracciare le persone infettate dai casi positivi. A peggiorare la situazione italiana c’è il fatto che, pur in presenza di precise indicazioni nazionali (ministero della Salute e Istituto superiore di sanità), ogni regione, di fatto e come al solito, fa come gli pare (vedi il diverso approccio e i diversi risultati di Veneto e Lombardia). Conseguenza di questa grave stortura è che la qualità di alcuni dati potrebbe non essere uniforme e portare alla sottostima di alcuni elementi e alla mappatura meno precisa del progredire dell’epidemia. Conseguenze concrete di un modo aberrante e opportunista di concepire le autonomie regionali.

Da un punto di vista generale la lotta al virus è strutturata su due livelli; uno ospedaliero con tre gradi di intensità di cure (intensivo, sub intensivo e normale) ed uno territoriale con pazienti di minore gravità suddivisi in asintomatici e sintomatici isolati a casa loro e monitorati 1-2 volte al giorno dal medico di base e dai servizi territoriali. Meglio e più opportuno sarebbe, per ridurre il rischio di contagio ai conviventi e perpetuare la diffusione, raggruppare i positivi in idonee strutture alberghiere facilitando in tal modo anche il controllo sanitario. Gli ospedalizzati hanno tutti il tampone positivo; la stessa cosa non si può dire per una parte forse considerevole di pazienti che stanno a casa e che, pur avendo sintomi, non sono riusciti a fare il tampone. Sembrerebbe accertato che questi pazienti, soprattutto nella bergamasca, non siano affatto pochi, difficilmente riescano a ricoverarsi ed abbiano una mortalità elevata; per di più, non avendo fatto il tampone, non compaiono nei numeri ufficiali. Volendo sono però in parte tracciabili attraverso il registro di morte delle anagrafi comunali; una questione necessariamente da risolvere. Perché non abbiano fatto i tamponi bisogna chiederlo alla regione. Molti pazienti sono potenzialmente instabili e potrebbero avere improvvisa necessità di un rapido ricovero in ospedale. Al fine di ridurre l’insorgenza delle complicanze e quindi il ricorso alle TI è fondamentale, ai primi segni di instabilità, un trattamento precoce e aggressivo a domicilio eventualmente anche con farmaci ospedalieri.

L’ospedale è il terminale ultimo di tutto quello che di positivo e negativo accade nel territorio; focalizzarsi e rincorrere solo posti letto e respiratori abbandonando a se stesso il territorio è una strategia non vincente. Indispensabile invece associare all’immenso lavoro degli ospedali una forte, coordinata e capillare attività di filtro e di contenimento del territorio. Un territorio, delicato e nevralgico punto di incontro tra bisogni di salute e sociali, che è da sempre la Cenerentola abbandonata di quasi tutte le sanità regionali e caratterizzato, anche organizzativamente, da una grandissima variabilità tra le regioni in termini di qualità, sicurezza ed efficacia delle sue attività.

I tamponi sono fondamentali anche per gestire una delle armi più efficaci per frenare la diffusione del virus: la Sorveglianza epidemica attiva. Trattasi della ricerca a ritroso, partendo da ogni paziente sintomatico, di tutte le persone con cui questo ha avuto contatti per sottoporle a tampone e, se positive, isolarle; è questo un uso corretto, estensivo e mirato dei tamponi. In Cina per la sorveglianza attiva sono state utilizzate da subito 1800 squadre appositamente formate e supportate dal tracciamento della popolazione con i cellulari; lo stesso in Corea. In Italia le regioni stanno muovendosi in ordine sparso e si spera con sufficiente determinazione e celerità.

Un discorso a parte sono i tamponi al personale sanitario ed a quello professionalmente esposto (forse dell’ordine e tutti coloro a contatto con la popolazione). I sanitari stanno pagando un prezzo esorbitante non solo in termini di infezioni (più di 6000) ma anche di morti (oltre 50 medici). Errore madornale, oltre che eticamente vergognoso, la scelta di lesinare e negare tamponi e materiali di protezione a chi deve curare i pazienti riducendo loro anche la possibilità di farlo. Più protezioni, di questi tempi, significa il miglior ringraziamento e meno ipocrisie.

Tampone a tutti? No. Tampone solo quando serve. Una cosa certa è che questa particolare guerra si vincerà solo con un corretto e estensivo utilizzo delle attività sanitarie sul territorio e con i comportamenti responsabili di tutti. I mille eroismi quotidiani degli ospedali da soli è ormai evidente che non possono farcela senza una forte riduzione dell’afflusso di pazienti gravi. Evitare in ogni modo situazioni di contagio e tracciare capillarmente tutti i contatti dei positivi per isolarli; è questa la strategia vincente in una epidemia; curare bene tutti è una necessaria attività parallela che non può sostituire le altre. La situazione è evoluta ed è giunto il momento di ricalibrare alcune attività perché la battaglia che sta già cambiando le nostre vite sarà dura e lunga.

Con la scusa del virus, Orbán si prende i pieni poteri per sempre

Ermächtigungsgesetz, “legge abilitante”, è il nome del decreto che il 24 marzo 1933 il Partito Nazionalsocialista dei lavoratori fece approvare dal Parlamento tedesco, il Reichstag, per dichiarare lo stato di emergenza nel Paese e accentrare così ogni potere nelle mani del governo, del cancelliere in particolare, che dal 30 gennaio di quello stesso anno, meno di due mesi prima, si chiamava Adolf Hitler.

Ecco, Viktor Orbán, dal 2010 primo ministro ungherese, poteva decisamente scegliere un nome più felice per la legge eccezionale che si appresta a far approvare al Parlamento, per poi esautorarlo. “Legge abilitante” dunque, giustificata dall’uomo forte di Budapest dalla necessità di rispondere prontamente all’emergenza coronavirus. Pieni poteri di governance mediante decreto senza un limite di tempo specificato.

Il premier, che ha molti ammiratori alle nostre latitudini fra i leader sovranisti che fino ad agosto scorso facevano parte della maggioranza parlamentare, potrà sospendere l’applicazione delle leggi esistenti, discostarsi dalle norme in corso e attuare misure straordinarie aggiuntive. Nessuna altra specifica: in sostanza qualsiasi legge può essere sospesa o annullata finché l’emergenza prosegue. Il governo è chiamato a fornire informazioni sul proprio operato ai capigruppo, ma il Parlamento non può agire per contrastare le misure prese dall’esecutivo.

Del resto Orbán è nato a Székesfehérvár, nota come “la città dei re” perché vi avevano luogo le incoronazioni dei sovrani ungheresi. E come un monarca potrà ora governare, senza nemmeno la parvenza democratica offerta fino ad oggi da un Parlamento per due terzi nelle mani di Fidesz. Un rantolo di opposizione resisteva, e ora viene spazzata via dallo stato di urgenza. È dunque un assegno in bianco quello che l’Assemblea nazionale ha votato ieri 30 marzo. E all’incasso passerà Orbán.

Proprio l’assenza di una data di termine dell’emergenza è uno dei punti che allarma maggiormente molti osservatori internazionali, e quattro Ong che operano nella nazione magiara (fra queste Amnesty e l’Hungarian Helsinki committee) e che hanno prodotto un lungo e articolato documento di profonda critica al testo. «Gli ultimi 10 anni hanno fornito molte prove del fatto che il governo ungherese sfrutta e abusa delle opportunità per indebolire le istituzioni che fungono da controllo del suo potere (crisi migratoria docet), ogni volta che ha la possibilità di farlo», ha affermato il think tank politico con sede a Budapest. «Situazioni legali straordinarie sono molto facili da introdurre, ma è molto più difficile tornare alla situazione pregressa».

La nuova legge crea inoltre due nuove tipologie di crimini. Chiunque pubblicizzi fatti falsi o distorti che interferiscono con la protezione dell’opinione pubblica può essere punito con la reclusione fino a cinque anni. L’assenza di specifiche chiare lascia ampio margine di intendimento della norma e induce le organizzazioni non governative a evidenziare la volontà di applicare un ulteriore bavaglio a una stampa già assoggettata in larga parte. E chiunque violi le misure di coprifuoco in atto può esser punito con il carcere da cinque o otto anni.

Intanto dai primi di marzo nessuno entra nel Paese. Il provvedimento è motivato con la necessità di bloccare l’ingresso del virus; le frontiere già blindate sono state definitivamente sigillate. Nessuna parola è stata spesa sul fronte degli incentivi fiscali per sostenere un’economia che avrà bisogno di grandi aiuti una volta terminata l’emergenza, mentre si ha avuto invece notizia di un ampio ricorso al richiamo di militari riservisti per pattugliare le strade in questo periodo. La disastrata sanità è attesa a una prova cui non è in grado di far fronte. Da qui le critiche già ricevute per il numero di contagi ufficiali, che pare eccezionalmente bassa. Ma se il virus non lo si cerca…

In Italia la legge n. 225 del 1992 e le sue successive modifiche hanno introdotto un orizzonte temporale di 90 giorni per lo stato di emergenza, rinnovabile una sola volta. Sei mesi in totale dunque, da qui la data del 31 luglio quale scadenza prevista indicata dal premier Giuseppe Conte, a sei mesi dal 31 gennaio, data della proclamazione, all’emergere dei primi casi di Covid-19 fra i nostri confini. Abbiamo una Costituzione che ci tutela. Ma ce l’hanno anche gli ungheresi. Eppure.

Nella favola di Esopo le rane, che vivevano libere nelle paludi, chiesero a Zeus di frenare i loro costumi inviando un re che facesse un po’ d’ordine. Il padre degli Dei gettò un pezzo di legno nella palude: Le rane spaventate per il rumore si nascosero a lungo, ma capito nel tempo come il legno fosse immobile, uscirono e presero fin a insultarlo e molestarlo, tornando infine da Zeus per chiedere un sovrano meno inutile. Questi gettò dunque una biscia d’acqua che le morse e uccise a una a una. Se è vero che la favola insegna che è meglio un governo immobile a uno autoritario, in fondo mostra anche che bisogna prestare molta bene attenzione a cosa si chiede.

Il mostro in casa, in quarantena

Foto Alfredo Falcone/LaPresse 18 Marzo 2020 Roma, Italia cronaca Emergenza COVID-19 (Coronavirus) a Roma. Nella foto: una panchina con una scritta Photo Alfredo Falcone/LaPresse March 18, 2020 Rome, Italy News COVID-19 (Coronavirus) emergency a Rome. In the pic:a bench with an inscription

Dice Telefono Rosa che «nelle prime due settimane di marzo le telefonate, rispetto a quelle dello stesso periodo dell’anno scorso, sono diminuite del 55,1%: da 1.104 sono passate a 496, di queste le vittime di violenza che hanno chiamato il telefono dedicato sono state 101 con una diminuzione del 47,7%, e che sono praticamente crollate le telefonate di vittime di stalking».

«È altamente probabile che il livello della già diffusa violenza domestica aumenti, come già suggerito da indicazioni preliminari di polizia e operatori». L’ha detto la relatrice per la violenza contro le donne delle Nazioni Unite, Dubravka Simonovic. «Per fin troppe donne e bambini la casa può essere un luogo di paura e abuso. Una situazione che si aggrava considerabilmente in casi di isolamento come il lockdown imposto nell’emergenza Covid-19», aggiungendo che teme l’aumento di femminicidi potrebbe essere una delle conseguenze del coronavirus.

Ci sono donne che hanno un mostro in casa (del resto l’assassino in questi casi ha spesso le chiavi di casa nonostante la propaganda malata di qualche politico) e che ora sono costrette a conviverci tutto il giorno. Per loro uscire a buttare la spazzatura o andare a fare la spesa può essere l’occasione di denunciare senza subire il controllo e le ire del mostro: il numero 1522 è sempre attivo e sempre raggiungibile.

C’è anche un’app, YouPol, che può aiutare a denunciare senza essere ascoltate e controllate. Se ci pensate una malattia che vi costringe a convivere con un mostro è una pandemia che uccide senza bisogno di virus. Se ci pensate anche in questo caso sono i più fragili a rischiare di spezzarsi. E sarà una deformazione mia ma i fragili sono quelli che rischiano di non essere raccontati quando prende piede la retorica.

Buon martedì.