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Se perfino Draghi vuole più debito pubblico

‘CasinoRoyale’ mural at the building site of the new ECB headquarters in Frankfurt/Main. The critique of the European crisis regime is also often projected on political figures involved, in this case Mario Draghi and Angela Merkel

È utile illustrare la continuità tra la crisi del 2008 e la condizione attuale dell’economia globale. Il 2008 ha visto l’esplosione di una crisi finanziaria senza precedenti, che è stata affrontata riproponendo, con poche correzioni, le stesse dinamiche speculative che avevano condotto al disastro. Allora il collasso completo della finanza fu fermato grazie alle politiche ultraespansive delle banche centrali, che fecero affluire denaro a bassissimo costo al sistema finanziario. Queste politiche, soprattutto in Europa, furono accompagnate da restrizioni fiscali che causarono una riduzione dei redditi per le classi meno abbienti e un indebolimento dei servizi pubblici. Il denaro emesso dalle banche centrali, dunque, più che sostenere l’economia, restava nel circuito della finanza, arricchendo i già ricchi, alimentando la speculazione e sostenendo artificialmente i corsi delle azioni. Ma fornire moneta a basso costo a una finanza già in crisi è come fornire eroina ad un tossicodipendente. Il meccanismo è relativamente semplice: quando la liquidità è abbondante, i tassi di interesse sono generalmente bassi e gli investitori cercano rendimenti più elevati investendo in attività ad alto rischio; il sistema finanziario allora diviene via via più fragile e chiede maggiore liquidità per sostenersi. In breve, l’emissione di moneta, in assenza della crescita, serve solo a rinviare la resa dei conti.

In queste settimane, ad una situazione già precaria, si sono aggiunte le conseguenze della pandemia. Scricchiolii nella finanza americana, infatti, erano già avvertibili nel settembre scorso, quando per motivi non del tutto chiari la Federal reserve fu costretta ad emettere liquidità per 260 miliardi di dollari. Tra febbraio e marzo, con l’avanzare della pandemia, sui mercati azionari di tutto il mondo si è diffuso il panico e gli indici di borsa sono crollati. L’indice americano, in particolare, è sceso di un terzo dal massimo storico raggiunto il 19 febbraio. Il 12 marzo la Federal reserve annunciava interventi per altri i 1.500 miliardi (circa l’equivalente delle operazioni effettuate dal 2008 ai primi mesi del 2010), consumati interamente in due settimane. Dieci giorni dopo la Fed dichiarava di essere disposta ad intervenire ancora, senza alcun limite. Sempre negli Stati Uniti…

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«Difendere se stessi significa difendere tutti»

31 March 2020, North Rhine-Westphalia, Cologne: A member of the Cologne Fire Brigade is given a swab at the third Infection Protection Centre of the City of Cologne to test for the corona virus. In the newly opened facility in the Rautenstrauch-Joest Museum, COVID-19 tests are only performed for employees of critical infrastructures. Photo by: Henning Kaiser/picture-alliance/dpa/AP Images

«Dobbiamo imparare a rintracciare le persone che sono state potenzialmente contagiate da ogni nuovo paziente positivo al coronavirus. Il contact tracing è la via per passare dalla prima fase, quella di lockdown più o meno totale, alla fase due della progressiva normalizzazione dei problemi legati al Covid-19, senza sovraccaricare ulteriormente il sistema sanitario nazionale». Siamo con il professor Enzo Marinari, ordinario di Fisica teorica alla Sapienza di Roma, per fare il punto sull’efficacia delle strategie fin qui adottate in Italia per rallentare l’avanzata della pandemia, e per ragionare su cosa è necessario fare in un prossimo futuro sulla base dei dati resi noti dalla Protezione civile.
Da qualche giorno infatti la curva dei contagi mostra un rallentamento su scala nazionale ed è probabile che ci si stia avvicinando al famoso picco oltre il quale si può iniziare a pensare a nuove misure di “difesa” dal rischio contagio. Non siamo fuori dall’emergenza ma si comincia a pensare come uscirne.

Giusto un mese fa lei, insieme al fisico Giorgio Parisi, il biologo Enrico Bucci e altri, osservando la curva dei contagi avevate lanciato un allarme forte e chiaro: «Al ritmo attuale il rischio è che non tutti i pazienti possano essere curati in modo adeguato». Dopo son venuti i lockdown e le zone rosse ma a un certo punto il sistema sanitario lombardo è davvero arrivato a un passo della catastrofe.
All’inizio osservammo che c’era un tempo di raddoppio dei decessi piuttosto breve: due giorni e mezzo. Senza far nulla, in dieci giorni si sarebbe determinata una conta dei morti insostenibile anche solo da pensare. Non che quanto accaduto a Lodi, Brescia, nel Bergamasco sia meno drammatico, anzi, ma senza le misure di mitigazione, a quei ritmi, oggi staremmo parlando di 25mila morti al giorno. Siamo intervenuti perché abbiamo avuto paura. Vedevamo quei dati e pensavamo che fosse una follia che ci fosse ancora tutta quella gente a spasso per i Navigli a prendere l’aperitivo, ad affollare bar etc.. Dal punto di vista scientifico la nostra è stata una considerazione elementare, nulla di sofisticato, però appena abbiamo capito quale fosse la situazione abbiamo voluto dare un segnale forte e ci siamo sentiti in dovere di renderla pubblica.

 

 

 

 

 

 

 

Come si possono leggere i segnali di rallentamento dei contagi?
La mia impressione è che il flusso dei dati inizi a essere “influenzato” dal distanziamento sociale che stiamo subendo. Ora ci troviamo fuori da una crescita esponenziale ma tutto dipende da come ci comportiamo. Se al Sud accadesse qualcosa di simile alla Lombardia sarebbe un grande problema. È tutto molto delicato, non è chiaro fino a quando la tenuta sociale sarà al sicuro. La gente deve mangiare. Dopo un mese non tutti possono permettersi di restare in casa e non si….

L’intervista prosegue su Left in edicola dal 3 aprile 

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L’arte di uscire dalla crisi: Ilaria Bonacossa

Cosa succederà al mondo dell’arte nel momento in cui sara passata l’emergenza Covid-19 e riapriranno gli studi degli Artisti, i Musei, le Fondazioni, gli spazi no-profit, le gallerie private, le fiere d’arte?

Ci sarà stato un cambiamento della fruizione dell’arte, soprattutto di quella contemporanea? Si riuscirà a sostenere anche gli Artisti visivi e performativi che creano la bellezza, ma che nonostante questo sono senza Albo professionale e senza Associazioni di categoria e con difficoltà troveranno accesso alle misure governative di sostentamento?

Gli artisti si ritroveranno ad affrontare senza strumenti un’economia globale malmessa che difficilmente li considererà degni di tutela, questione con cui anche le gallerie private, curatori e direttori di Musei dovranno fare i conti. Si può sperare, come è successo in passato, che dopo una mostruosa crisi segua una grande ripresa economica, ma le riprese economiche non avvengono da sole. Gli addetti ai lavori dell’arte stanno cercando una “cura” che oltre alla guarigione possa strutturare anticorpi?

Ilaria Bonacossa, la direttrice di Artissima, fiera internazionale d’arte contemporanea di Torino, risponde ai quesiti di Alessio Ancillai

Ilaria Bonacossa – director, Artissima Fair – Photo credits: Giorgio Perottino / Artissima

La fragilità della classe creativa italiana è indiscutibile e difficilmente gli artisti, come i curatori o i critici, potranno avere sostegni economici strutturati, anche se occorre riconoscere che la situazione è migliorata marginalmente, rispetto a dieci anni fa, grazie a nuove opportunità professionali legate alla didattica o al rapporto con le aziende e al digitale.

Gli artisti soffriranno la crisi economica, che in realtà stavano già soffrendo, e sarà pesante anche per le gallerie d’arte che ne sostengono il mercato. Ma, se il bisogno di azione e l’ottimismo avranno la meglio sulla recessione in cui siamo entrati, credo che si troverà una via in avanti.

Come sottolineate su Left, il bisogno di arte e cultura della società contemporanea in clausura è stata una piacevole sorpresa, come anche il desiderio di collaborare espresso da istituzioni e realtà diverse tra loro e la voglia di fruire l’arte da casa: un’abitudine, questa, che non perderemo neanche quando torneremo a stare insieme. Hai scritto che l’arte ha la capacità di distrarci dall’ansia, ma in realtà non fa solo quello: ci aiuta a esprimerla, a elaborarla e a superarla.

Credo che in futuro le aziende private potranno fare tesoro dell’arte contemporanea, rinnovandosi, reinventandosi, anche grazie al potere creativo degli artisti, per ripartire e raccontarsi nel post-covid. Queste collaborazioni tra imprenditori e pensatori possono portare a trasformazioni positive di un sistema che deve farsi più dinamico e saper coinvolgere diversi tipi di pubblico. Come Artissima siamo sempre molto attivi nel farlo con i nostri partner; penso a Jaguar e al Road-Show per scoprire nuovi talenti, a Juventus con il progetto educational Artissima Junior, a Lauretana con il progetto di walkie-talkie che coinvolge i collezionisti, per citarne solo alcuni. Il Piemonte ha fatto storia in questo senso con un personaggio come Adriano Olivetti, che assunse nella sua azienda intellettuali e artisti, portando nella fabbrica oltre all’innovazione tecnica quella creativa.

Mi auguro che nella società post covid-19 gli artisti e gli intellettuali potranno trovare il loro spazio e avere un ruolo importante nel dare vita a un modo di guardare il mondo più generoso e aperto, a una consapevolezza sociale più inclusiva.

Come Artissima abbiamo lanciato in questi giorni una nuova iniziativa social sul canale Instagram della fiera:/ge·ne·a·lo·gì·a/. Questo progetto, è un po’ un gioco e un po’ un’indagine, nasce per tenere vivo e visibile il mondo dell’arte italiana, aprendolo anche a chi lo conosce meno.
In un momento in cui per la quarantena le gallerie sono chiuse e le mostre degli artisti non visitabili, abbiamo voluto far vedere che il mondo dell’arte è una grande famiglia appassionata e contraddittoria, fatta di affinità elettive e omaggi.

Ogni giorno, dal 18 marzo scorso, un artista scelto tra quanti avevano partecipato alla mostra Deposito d’Arte Italiana Presente (progetto curato insieme a Vittoria Martini ad Artissima 2017), è stato invitato a indicare due artisti italiani a cui si sente legato, eleggendone uno come proprio antenato e uno come ideale discendente, ovviamente non in maniera letterale ma metaforica.
Oltre a valorizzare l’arte contemporanea italiana in questo momento di lock-down, il progetto mette in luce quel senso di “famiglia” così radicato nella nostra cultura, svelando una comunità artistica fatta di eclettismo, originalità ma anche senso di appartenenza e amicizie, di incroci di sguardi e pratiche artistiche inaspettate.
Seguendo i post non solo scopriamo le visioni degli artisti, ma abbiamo l’impressione di entrare in intimità con loro ascoltandone le confidenze.

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L’arte di uscire dalla crisi – Leggi le altre interviste

«Un anno fa non ne sarei uscita viva»

FILE - In this Oct. 23 2019, file photo, a woman paints some signs before pasting them on buildings in the streets of Paris. As families across the country and the globe hunker down at home, there's another danger, also insidious if less immediately obvious, that worries advocates and officials: A potential spike in domestic violence. (AP Photo/Kamil Zihnioglu, File)

Una donna ospitata lo scorso anno in un centro antiviolenza, in questi giorni di emergenza sanitaria mi ha scritto «sono proprio fortunata, mi sento una privilegiata ad essere uscita dalla situazione di violenza che subivo da parte di mio marito. Se la pandemia ci fosse stata lo scorso anno non so se ne sarei uscita viva. Ho avuto la fortuna di aver ricevuto aiuto e sostegno da tutte voi. Grazie avvocata per il suo impegno. Penso alle tante donne costrette a stare in casa con il marito violento, penso ai tanti bambini costretti a vedere la propria madre denigrata maltrattata e impotente, perché controllata a vista, costretta al silenzio. Come potersi ribellare nell’attuale situazione?».

Questa lettera mette in luce la gravità delle problematiche che si trovano a vivere le donne maltrattate nell’attuale situazione di emergenza, un’emergenza nell’emergenza che richiede la massima attenzione da parte delle istituzioni e della società civile, perché il rischio di vita per le donne e per i bambini è molto alto: la condivisione obbligatoria dello spazio abitativo con il partner violento innalza il pericolo dell’escalation di violenza sempre presente nelle situazioni di violenza domestica e la limitazione della circolazione e di contatti esterni rende difficile l’emersione di queste situazioni. Ancora più sommersa rimane in questo periodo l’esperienza delle donne straniere, in particolare coloro senza permesso di soggiorno, che temono non solo di subire ulteriori e più gravi violenze, ma anche l’avvio nei loro confronti delle procedure di espulsione e trattenimento nei centri per il rimpatrio.

Nelle ultime settimane a partire dal 9 marzo si è registrata una diminuzione pari all’85% degli accessi delle donne ai centri antiviolenza e agli sportelli gestiti dall’associazione Differenza donna che non hanno mai smesso di operare 24 ore su 24, adottando tutte le misure coerenti con le disposizioni entrate in vigore. Con una contestuale riduzione degli…

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A che punto è la cura per la polmonite da Covid-19

dpatop - 26 March 2020, Saxony, Zwickau: Denise Simon, a nurse, holds a swab in a test tube in a treatment room of the Corona Outpatient Clinic at the Paracelsus Clinic. The swab can be tested for the novel coronavirus. Photo by: Sebastian Kahnert/picture-alliance/dpa/AP Images

Sono passati circa tre mesi da quando è comparso in Cina un nuovo coronavirus, il Sars-CoV-2, che provoca gravi infezioni respiratorie (Covid-19, Coronavirus disease-19). Anche se molti lo avevano inizialmente sottovalutato, il virus si è diffuso rapidamente in tutto il mondo e l’11 marzo è stata dichiarata la pandemia, dimostrando quanto fossimo impreparati ad affrontare un patogeno emergente letale che colpisce le vie respiratorie. Il virus sembra essersi adattato bene agli esseri umani di ogni latitudine e classe sociale e, di fatto, ha il potenziale di rimodellare i dati demografici del mondo.

Dalla data di pubblicazione della sequenza del genoma a Rna di Sars-CoV-2 (12 gennaio), la quantità di informazioni acquisite è sconcertante. Oggi sappiamo che si è evoluto in modo naturale, confutando l’idea che si tratti di un agente biologico prodotto in laboratorio. Sappiamo che il tasso di mortalità non è elevato ma che (purtroppo) i tassi di mortalità variano in base alla località. Sappiamo che questo virus non colpisce solo le popolazioni più anziane ed è particolarmente abile nella sua diffusione perché si trasmette anche da persone asintomatiche rimanendo “vitale” fino a 3 ore negli aerosol e 3 giorni su plastica ed acciaio. Sappiamo, comunque, che un virus aggressivo può essere almeno rallentato, come dimostrato non solo dalla Cina e da Paesi come Hong Kong, Singapore e Taiwan che, facendo virtù dell’esperienza con la Sars del 2003, sono riusciti ad impedire che la trasmissione procedesse verso la crescita esponenziale ma anche da Vo’ Euganeo, Padova. Molte domande cruciali restano ancora senza risposta, anche nel caso delle cure e vaccini contro Covid-19, e allo tsunami di notizie utili e veritiere si associa il contagio informativo alimentato da una comunicazione scorretta che deforma la realtà, genera panico e comportamenti controproducenti, complicando la gestione dell’emergenza, creando falsi problemi e false aspettative. Proviamo a fare il punto della situazione e soprattutto chiarezza.

Iniziativa no profit e collaborativa per capire l’evoluzione della pandemia Covid-19 (Miquel Oliver e Xisco Jimenez Forteza)

Con circa il 15% dei pazienti Covid-19 in condizioni gravi e con gli ospedali sopraffatti si cerca in primis di riutilizzare farmaci, o combinazioni di questi, già approvati per altre malattie. Oppure si sperimentano quelle molecole che hanno funzionato bene in studi su animali contro la Sars o la Mers. La Cina ha operato da apripista, generando dati su varie decine di trattamenti diversi. Il resto del mondo ha tratto ispirazione dai risultati che sembravano più promettenti. Le molecole utilizzate, appartengono principalmente alle classi degli anti-virali ad ampio spettro (“piccole molecole”) che inibiscono la proteasi o la replicasi virale oppure sono molecole (organiche o biologiche come gli anticorpi) ad attività anti-infiammatoria.
Tra i molti trattamenti usati in Cina “al di fuori degli schemi” c’è anche un farmaco biotecnologico cubano, l’Interferone Alpha 2B (v. Left del 28 febbraio 2020, ndr). Gli interferoni sono proteine anti-virali (famiglia delle citochine) prodotte da vari tipi di cellule come risposta fisiologica dell’organismo alle infezioni virali. Dal primo utilizzo a Cuba nel 1981 contro un’epidemia di dengue emorragico, per il suo ruolo sulla immunità innata, l’interferone Alpha 2B ricombinante è stato usato…

Rosella Franconi è una ricercatrice senior dell’Enea (Centro ricerche Casaccia Roma) presso il Laboratorio tecnologie biomediche della Divisione tecnologie per la salute del Dipartimento sostenibilità

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Carmelo Musumeci: «Io e Chico Forti, due facce della stessa medaglia»

Carmelo Musumeci è uno scrittore, esponente della letteratura sociale carceraria. Iniziò prestissimo la sua carriera criminale e nel 1991 venne arrestato con l’accusa di omicidio. Condannato all’ergastolo – fu il primo in Italia a dover scontare un ergastolo ostativo (cioè fine pena mai, senza godere di permessi o altri benefici ndr) – è stato scarcerato nel 2018 con la liberazione condizionale nonostante appunto il carattere ostativo della condanna.
Enrico (Chico) Forti è un ex velista e produttore televisivo italiano, condannato all’ergastolo nel 2000 per l’omicidio di Dale Pike a Miami, ma si è sempre dichiarato vittima di un errore giudiziario. È attualmente detenuto al Dade Correctional Institution di Florida City. Musumeci e Forti, due facce della stessa medaglia. Un ergastolano come vede un ergastolano? Ne parliamo con Carmelo Musumeci.

Enrico “Chico” Forti

«Meglio lasciare impunito un colpevole che condannare un innocente». Cosa ne pensa di questa frase di Voltaire?
La condivido. Sembra incredibile che la maggioranza dei detenuti si dichiari innocente e qualcuno storca il naso. Eppure, i dati e i numeri ci confermano che molte delle persone che vengono arrestate, in seguito sono ritenute innocenti. Si può essere condannati e mandati in carcere per tanti motivi: per scelte di vita sbagliate, per difetti caratteriali, per cattiveria, per sopravvivenza, per amore, per ignoranza, per solidarietà, per ingiustizia sociale, per depressione, e per tante altre cose che abitano l’animo umano, ma si può andare in carcere anche per essere colpevoli di essere innocenti.

Si è fatto una sua idea a proposito della situazione di Enrico Forti?
Documentandomi mi sto convincendo sempre di più che Enrico sia innocente. Succede, e non tanto raramente, che delle persone siano tenute ingiustamente per anni dietro le sbarre, e poi, se usciranno, ci si limiterà a chiedere scusa, e a dire: ci siamo sbagliati. Ricordo il caso di Omar nell’omicidio di Ilaria Alpi, il caso Gullotta e tantissimi altri innocenti che scontano una pena ingiusta. Una condanna all’ergastolo da colpevole è una pena terribile, ma se la si sconta da innocente è un orrore.

 

Lei è in carcere da “colpevole” (parola questa che nei suoi libri viene spesso analizzata). Se lei fosse stato innocente in che modo avrebbe vissuto la situazione nella quale è stato ed è adesso?
Né più né meno di come ho fatto da colpevole.

Oltre alla condanna e ovviamente all’esperienza carceraria lei e Chico siete accomunati anche dal fatto che le vostre vicende sono state trattate da una nota trasmissione televisiva. Quanto è funzionale alla riuscita delle vostre battaglie la diffusione attraverso i media ed il conseguente sostegno della gente?
Per me è stato importantissimo rivolgermi all’opinione pubblica, ma non è stato per nulla facile. Per esempio, in tanti anni di carcere ci hanno provato in molti ad intervistarmi, ma i vari direttori hanno detto sempre di no, sia perché ero un ribelle sociale, sia perché ero un anarchico, sia perché ero un mafioso, spesso perché ero tutte queste tre cose insieme.

Cosa ha da dire a chi dice che il suo ergastolo e quello di Chico non sono paragonabili in quanto lei è palesemente carnefice e per questo condannato e lui palesemente vittima?
Direi che si può essere carnefice e vittima nello stesso tempo. E direi anche si può essere innocenti anche se sei colpevole perché purtroppo spesso chi fa del male lo giustifica, in caso contrario non lo farebbe. Per esempio, credo che il regime di tortura del 41-bis insieme alle pene che non finiscono mai, applicati in modo spropositato, non diano risposte costruttive né tanto meno rieducative. Non si può educare una persona tenendola all’inferno per decenni, senza dirle quando finirà la sua pena. Lasciandola in quella situazione di sospensione e di inerzia la si distrugge e, dopo un simile trattamento, anche il peggiore assassino si sentirà “innocente”, mentre le persone “perbene” rischieranno di essere “colpevoli”.

La scrittura le ha permesso di riscattarsi e di avere l’appoggio di personaggi importanti del panorama intellettuale italiano, come, tra gli altri, Margherita Hack ed Erri De Luca. Quale funzione ha avuto per lei lo scrivere?
In carcere per non affogare devi lottare, devi lottare per qualsiasi cosa … e scrivere per far sentire la tua voce perché la società non è cattiva, semplicemente non sa, dato che i mass media danno spesso notizie ma non fanno informazione. Scrivere mi ha aiutato a sopportare la durezza del carcere e della vita perché ogni persona che mi ha letto mi ha trasmesso un po’ di forza per continuare ad esistere e a resistere. Scrivevo molto anche perché quello era l’unico modo per continuare ad esserci oltre il muro di cinta.

Se in questo momento lei avesse la possibilità di parlare con Chico Forti cosa gli direbbe?
Chico, non ti arrendere, continua a lottare per dimostrare la tua innocenza perché è la migliore delle lotte. Lo so! Siamo morti senza saperlo. I dispensatori di giudizi non vogliono che moriamo subito. Vogliono che crepiamo lentamente. A poco a poco. Piano piano. Vogliono che soffriamo più a lungo possibile, così impariamo la prossima volta a non fare del male. Il problema è che non arriverà mai una prossima volta. Sinceramente in tutti questi anni non ho mai sperato di farcela. Eppure ho continuato a lottare con tutte le mie forze più per debolezza che per coraggio. E sono sopravvissuto. Ho sconfitto il mio destino. Forza anche tu. Non ti arrendere.

Figli che chiedono “come stai?”

Pensateci un secondo. Hanno dovuto inventarsi un modo tutto nuovo per andare a scuola (grazie anche l’encomiabile lavoro degli insegnanti, altri bistrattati che si sono riabilitati solo grazie alla pandemia, ricordiamocene). Fanno l’appello con duecento problemi tecnici, di microfoni, di telecamere, rispondendo uno sopra l’altro. Fanno l’appello senza nemmeno potersi scambiare i sorrisi da banco a banco, senza correre e raccontarsi delle ultime novità sul loro gioco, senza guardare negli occhi l’amico del cuore, senza gustarsi quel momento in cui salutano noi genitori e se ne vanno fieri in un spazio che è tutto loro, che è solo loro. Ora quello spazio è un angolo del tavolo della cucina.

Non hanno il dopo i compiti esco. Non hanno pomeriggi da organizzare, non hanno l’aria che gli pesta in faccia e i vestiti da sporcare immancabilmente. Ora hanno pomeriggi che rimbalzano tra le mura di casa e provano a fare gruppo provando a trasformare l’entusiasmo in bit, da scambiarsi al telefono. Qualcuno dirà che è così anche per gli adulti ma i bambini, a differenza degli adulti, non si fanno convincere dalle motivazione dei drastici cambiamenti: provano a digerirli, elaborandoli con gli strumenti a disposizione.

Si annoiano da professionisti. Mentre gli adulti strepitano sui social e cercano sempre un nemico planetario loro si annoiano con compostezza. Certo, si lamentano, ma con lamenti estremamente più eleganti, sicuramente meno virali e perfino meno pericolosi.

Hanno perso i nonni. Qualcuno li ha persi per sempre per altri sono nonni dentro una bolla che non sanno quando scoppierà e non sanno dove se li porterà il vento. Eppure mentre i nonni si commuovono su un balcone o dietro un vetro loro rispondono con un sorriso e un ciao ciao. Ma ce l’hanno dentro anche loro questa esplosione di malinconia, forse credono che non sia il caso, forse sono più maturi di noi quando si tratta di non ferire se si mettono in testa di farlo.

Gli è cambiato il mondo e il mondo non hanno ancora finito di impararlo nemmeno a grandi linee. I bambini resistono con una perseveranza che sarebbe da imparare. Ieri uno dei miei figli, dopo una giornata trascinata a fatica, prima di spegnere la luce mi ha detto buonanotte e poi mi ha chiesto come stavo. Lui, a me. Fino alla fine.

Buon venerdì?

Quaranta giorni

Quaranta giorni: questo è il periodo che la città di Venezia manteneva le navi in laguna per evitare il diffondersi della peste nera nel XIV secolo. Da questa pratica nasce la parola “quarantena” che è divenuta sinonimo di un qualunque isolamento e di separazione per un periodo di tempo a cui viene sottoposto un gruppo di persone, animali o beni, che possono essere stati esposti agli agenti di una malattia trasmissibile. Ai giorni nostri, in piena emergenza Covid-19, il termine, oltre ad indicare lo strumento estremo della medicina preventiva per far fronte a malattie infettive dovute ad agenti sconosciuti, evoca un insieme di significati che derivano dalla sua lunga storia.

I primi soggetti storicamente sottoposti a segregazione, anche se non temporanea ma permanente, sono stati gli affetti dalla lebbra, malattia contagiosa conosciuta fin dall’antico Egitto: quest’ultima, diventata endemica nell’Europa del XII secolo, comportava l’obbligo, per chi ne soffriva, di reclusione nei numerosissimi lebbrosari fuori dalla città. Le epidemie di peste bubbonica nel XIV secolo dettero vita a risposte istituzionali organizzate: la quarantena fu introdotta nel 1377 in Croazia e il primo ospedale permanente (lazzaretto) fu aperto in una piccola isola della laguna subito seguito da analoghe iniziative a Genova e Marsiglia.

La durata dell’isolamento, nel caso della peste, era stata scelta in base a concezioni pseudo mediche, esoteriche e religiose: a parte il riferimento alle teorie ippocratiche sulla durata delle malattie acute il numero 4 era considerato un numero pitagorico e 40 furono i giorni che Gesù passò nel deserto. Nel XVIII secolo la quarantena fu utilizzata per cercare di bloccare, con esiti discutibili, la febbre gialla e nel XIX secolo l’epidemia di colera che colpì l’Europa nel 1831 e gli Usa nel 1832. Nel corso del XX secolo si sono susseguite varie pandemie di diversa gravità fra cui quella influenzale “spagnola” che a partire dal 1918 ha ucciso circa 50 milioni di persone: essa fu combattuta anche con il ricorso alla chiusura di chiese, teatri, scuole e la sospensione di tutti i gli eventi pubblici. Nel XXI secolo i coronavirus hanno compiuto il salto di specie diffondendosi tra gli umani in tre occasioni, ogni volta causando…

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«Ci chiamano eroi. Ma, fra un anno, si ricorderanno dei colleghi morti in questi mesi?»

La situazione è veramente drammatica, il personale è allo stremo, e di qualche giorno fa la denuncia di un gruppo di medici dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII in cui si denunciava la grave situazione all’interno dell’ospedale e l’alto rischio di contaminazione. Premetto che tutti, personale sanitario, gli operatori socio sanitari e tutti gli altri stiamo facendo il possibile per curare e assistere i pazienti.

Spiace però vedere che il personale sanitario non viene difeso nel modo appropriato, da una parte si elogia chiamandoci eroi, dall’altro i provvedimenti di Governo e Regione sono contrastanti. C’è il governo che stabilisce che il personale sanitario debba essere premiato 100 (ridicoli) euro per il mese di marzo, e in tv si racconta che al personale va fatto il tampone. Poi ti scontri con una realtà che ti chiude la porta in faccia: per il tampone devi essere sintomatico, con febbre, tosse e difficoltà respiratoria. Intanto tra il personale sanitario aumentano i casi di contagio, molti sono in malattia da giorni e settimane, e solo dopo molte richieste ad alcuni viene fatto il tampone. Il servizio sanitario aziendale dice che per il personale ne hanno a disposizione pochi. Ma come funziona in Italia? Ai politici, calciatori e altri volti noti, i tamponi si fanno eccome….

Sul territorio le persone, le famiglie soprattutto quelle anziane vengono lasciate allo sbaraglio, molti muoiono in casa senza una adeguata assistenza, dove sta questa Sanità Lombarda definita “Eccellenza”? Questo sistema sanitario sta rivelando tutte le crepe accumulate negli anni in cui si è finanziato il privato. I partiti della destra, da Formigoni con Comunione e liberazione fino alla Lega Nord, hanno enormi responsabilità. La polemica sulla chiusura delle fabbriche è il culmine di questa storia in cui ha prevalso l’interesse degli industriali contro l’interesse della salute pubblica. Perché non si è chiusa subito la zona della Valseriana con Alzano e Nembro e che oggi segnalano la più alta incidenza di defunti? Perché si è fatta giocare la partita di calcio Atalanta – Valencia, facendo scoppiare una bomba di contagio ad alto rischio? Ci sono tanti perché di cui dovremo un giorno chiedere conto a chi è stato responsabile di tutto questo. Non siamo assolutamente degli eroi, ma facciamo il nostro dovere, ma vogliamo anche essere tutelati.

Giuseppe Saragnese, infermiere Asst-PG23 Bergamo

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Quando tutto sarà finito saremo sostituiti nuovamente dalla statuina della madonna di Lourdes?

Causa Coronavirus, e complice l’assenza di sport in Tv, le persone e le famiglie scoprono la figura dell’infermiere. Immagini dove questi strani individui, tutti bardati come alieni o astronauti, appaiono al Tg, negli special dedicati e udite udite vengono persino intervistati.
Ma chi è veramente l’Infermiere? Cosa fa, in tempi di normalità, questo essere?
A oggi per diventare infermiere è necessario superare, con esito positivo, il corso di laurea breve in infermieristica, dopodiché si può scegliere se cercare un posto di lavoro, come Infermiere, o se continuare a studiare seguendo un corso di studi biennale che da la possibilità di diventare Dottore Magistrale in Scienze Infermieristiche; il che non garantisce alcuna posizione lavorativa. In alternativa alla rincorsa al posto di lavoro, si può sempre pensare di spendere qualche migliaio di euro per un qualsivoglia Master che, anche qui, garantisce il nulla. Naturalmente, per poter tentare di svolgere la Professione che ami, devi essere iscritto all’Albo degli Infermieri. Non è molto noto che Noi apparteniamo a un Ordine professionale al pari di Medici, Avvocati, Ingegneri….

Ma se un infermiere decide di lanciarsi in ambito lavorativo quali strade può percorrere? Svariate. Può lavorare in una RSA dove ha, quasi sempre, la totale e solitaria responsabilità dell’Assistito e dei percorsi di cura assegnati. Può tentare di lavorare in un Ospedale pubblico, magari mediante un impiego interinale, quindi non come dipendente dell’Ospedale, dove sta prestando servizio, ma come Professionista in appalto. Risultato uno stipendio notevolmente ridotto. Volendo può sempre tentare la via del concorso per entrare nel solito Ospedale pubblico, quei bei concorsi di cui, ogni tanto, i giornali pubblicano alcune fotografie e i cui titoli rispecchiano la situazione: maxi concorso per 12 posti di Infermiere 10.000 partecipanti da tutta Italia. Ma se uno o una desidera, può sempre tentare la strada della partita IVA. Cioè la possibilità di offrire le proprie prestazioni a pochi euro l’ora, garantito però dall’ENPAPI, Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza della Professione Infermieristica, che però ti chiede un minimo fisso di contributi a prescindere dai guadagni, che non sono certo milionari. Salvo scoprire che alcuni ex Dirigenti offrivano favori in cambio di mazzette ed escort.
Come estrema ratio, puoi gettare al vento fatica e soldi spesi nei tre anni di Università e farti assumere come Commessa in un qualsiasi negozio di abbigliamento. Naturalmente e comunque a tempo determinato.
Ma una volta che ‘sto povero Infermiere è riuscito a stabilizzare la propria posizione, come Infermiere naturalmente, cosa fa durante le sue ore di lavoro? Oltre a essere picchiato da qualche Paziente o parente arrabbiato?
Questa domanda non può trovare soddisfazione attraverso un’unica soluzione. Le risposte variano da posto a posto di lavoro. Per esempio in una RSA è possibile che passi gran parte del proprio tempo lavorativo a somministrare terapie e a cambiare pannoloni. Certo se un Infermiere ama il rapporto con le Persone anziane tutto il disagio professionale viene fortunatamente stemperato. Se, invece, lavora in una terapia intensiva il proprio lavoro assume una prevalenza tecnica dove le competenze non tecniche rischiano di trovare poco spazio.

Personalmente vi posso raccontare, solamente, ciò che fa un Infermiere in Sala Operatoria. L’Infermiere di Sala è adibito a compiti specifici differenti. Vi è l’Infermiere strumentista, colui o colei che è parte integrante e fondante l’equipe operatoria nell’atto chirurgico, poi c’è l’Infermiere “fuori tavolo” detto anche “circolante”, cioè l’Infermiere che durante lo svolgimento della procedura chirurgica si occupa e pre-occupa che tutto attorno al tavolo operatorio sia perfettamente funzionante. Abbiamo anche l’Infermiere aiuto anestesista, cioè quella figura professionale che lavorando gomito a gomito con il Medico anestesista è in grado di garantire sicurezza e qualità durante il percorso anestesiologico, decollo, volo e atterraggio. Ogni sala ha poi l’Infermiere dedicato al ricondizionamento del materiale utilizzato. L’Infermiere di sterilizzazione. Figura nascosta ma imprescindibile. Ma non finisce mica qui. Noi ci occupiamo, pure, del corretto approvvigionamento del materiale atto a garantire il regolare svolgimento delle sedute operatorie. Quindi sterilizziamo tutto il materiale chirurgico ri-condizionabile e ci pre-occupiamo che tutto il materiale monouso sia presente in sala.

Noi siamo quelli che al mattino arriviamo un’ora prima del Chirurgo perché dobbiamo preparare la sala, ma siamo pure quelli che vanno via per ultimi, almeno un’ora dopo che l’ultimo Paziente operato è stato dimesso dal Blocco Operatorio. Noi siamo quelli che non guardano mai l’orologio, condizione questa presente anche nei momenti non sospetti, timbriamo quando tutto è stato rimesso a posto ed è pronto per la seduta del giorno dopo. Noi siamo quelli che per pochi, ma veramente pochi, euro al mese garantiamo, in regime di reperibilità, tutte le urgenze di questo mondo. Magari operando di notte e non smontando al mattino perché, altrimenti, non sarebbe garantito lo svolgimento della seduta operatoria del giorno dopo.
Ma siamo, anche, quelli che forniscono un contributo indispensabile alla sicurezza del Paziente. Come? Basta dire che noi siamo i redattori della Check-List per la sicurezza in sala operatoria. Spesso siamo anche gli unici che ne comprendono la valenza.

Potrei continuare, ma non voglio tediare nessuno oltre.
Appare, però, evidente che una Sala operatoria senza Infermieri non può funzionare. Come non può funzionare, senza di Noi Infermieri, una Terapia Intensiva, un reparto di cardiologia, di ortopedia, di pneumologia, di malattie infettive, una RSA e chi più ne ha più ne metta. Condizione, questa, preesistente al. Coronavirus. Allora viene, quasi, il sospetto che l’Infermiere risulti una figura centrale nella nostra sanità. E l’altro sospetto che mi viene in mente è che, forse, il rispetto che oggi tutti invocano per Noi, dovrebbe risultare una costante sempre e da sempre. E se due indizi fanno un sospetto e tre una prova si pone il caso di parlare dei nostri stipendi. Ridicoli. Se si comparano le responsabilità al guadagno, ebbene cari Signori la nostra sanità meriterebbe di restare senza di noi.
Certo adesso siamo assurti agli onori della ribalta mediatica. Ci chiamano Eroi. Ma fra un anno, si ricorderanno di quei Colleghi che sono morti in questi mesi? Si ricorderanno di tutti quelli che hanno rischiato di morire? Di tutti quelli che hanno rischiato di decimare le loro Famiglie?

Personalmente non credo. Al massimo verranno intervistati alcuni Dirigenti, alcuni Presidenti OPI, ma nessuno di quelli che oggi è in frontiera. Si faranno delle premiazioni, si distribuirà qualche medaglia e poi, anche qui, il nulla.
Si farà, ancora della retorica e gli “Eroi” di oggi saranno sostituiti dalle statuette della Madonna di Lourdes. Perché l’espressione: Infermiere lei è un Santo la dice lunga su ciò che si opina di noi.

Fabio Albano, infermiere dal 1980,  coordinatore e responsabile del percorso chirurgico presso una struttura convenzionata genovese

La salute della democrazia

Mentre giungeva la notizia, attesa e prevista, dell’inevitabile lockdown in Italia almeno fino a metà aprile per contenere il contagio da Covid-19 ci è venuto in mente un quadro amatissimo di Henri Matisse, in cui un violinista suona a finestre aperte, rivolto ad ascoltatori sconosciuti, con la speranza-certezza che il suo “canto” raggiunga altri esseri umani. Un’immagine evocativa, dipinta nel 1918 anno in cui si diffuse l’epidemia di spagnola e che oggi si arricchisce di significati alla luce di quel che stiamo vivendo. Un’immagine che ci parla del potere dell’arte e dell’immaginazione capace di portare il cielo in una stanza, di aprire orizzonti imprevisti. Un’immagine quella del suonatore di violino, tante volte evocata su queste pagine dallo psichiatra Massimo Fagioli nel parlare di cura della malattia mentale, di valori umani universali, di vitalità, di resistenza, di capacità di reagire.

Sapienza, interesse per l’altro e resistenza, in questi lunghi e drammatici giorni di lotta alla pandemia, si sono viste nello straordinario lavoro di medici, infermieri e operatori sanitari in prima linea, che troppo spesso hanno rischiato e patito il contagio in prima persona. Ma qualcosa di profondamente umano abbiamo visto anche in piccoli gesti quotidiani di solidarietà e nei tanti concerti improvvisati sui balconi che hanno creato una corrente di canti, di note e di energia che è passata, come un contagio positivo, di casa in casa. In questi giorni segnati dalla preoccupazione e dal dolore per i morti, abbiamo visto dignità, rispetto, senso del vivere collettivo, consapevolezza dell’importanza dei legami sociali, dell’importanza della tutela della salute, fisica e psichica, intesa non solo come bene individuale, ma come bene pubblico e collettivo, come diritto universale di accesso alle cure, così come è scritto nella nostra Costituzione.

Certo si prova una sensazione strana, diciamolo, nel sentir decantare il nostro sistema sanitario nazionale da politici che hanno contribuito prodigiosamente ad affossarlo, definanziandolo. Ma tant’è. Speriamo almeno che la durissima realtà che stiamo vivendo faccia aprire gli occhi a quante più persone possibili riguardo ai danni prodotti dai tagli alla sanità pubblica e alla ricerca scientifica. Per battere questa e le altre pandemie che potrebbero arrivare occorrono studio, grande preparazione, assunzioni straordinarie di medici e personale sanitario, intervento pubblico non solo a livello nazionale. Massicci investimenti in ricerca non sono più rinviabili.

Se la pandemia ha messo in ginocchio la sanità nelle regioni del Nord cosa sarebbe accaduto se avesse colpito in primis il Meridione? Parliamo di regioni che già soffrono di una annosa carenza di strutture, di personale, di obsolescenza di macchinari sanitari, tanto che da tempo i cittadini del Sud sono costretti a spostarsi in altre Regioni per avere accesso a adeguate cure mediche e specialistiche. Quanto fosse scellerato il progetto dell’autonomia differenziata, questa pandemia l’ha reso plasticamente evidente a tutti. Finita l’emergenza ci auguriamo che almeno il centrosinistra abbia imparato la lezione, e riponga nel cassetto l’infausto provvedimento. Ancor più la demagogia sovranista sta dimostrando tutta la sua criminale miopia: cosa sarebbe accaduto se la pandemia fosse scoppiata in uno scenario di piccole patrie come monadi non comunicanti?

L’Europa ha fallito nel contenimento del contagio non per eccesso di poteri ma perché non ha strumenti di governo sanitario, che sono demandati ai singoli Stati. Fallisce perché non ha un’unità politica, inclusiva e democratica ed è una mera unione di mercati. Niente eurobond (o “coronabond”) che avrebbero il senso di un’azione corale e solidale, ma ricorso al Mes dicono i tedeschi che graziosamente ci concedono di indebitarci in cambio di garanzie pesanti come un cappio al collo. Di fronte a questa debacle la soluzione è un’Europa più unita e democratica, che superi i singoli egoismi. Tanto più perniciosa è la pazza chiusura delle frontiere modello Orbán, che con la scusa dell’emergenza sanitaria ha chiesto e ottenuto pieni poteri imponendo di fatto una dittatura. Violenta, repressiva quanto inconcludente se osservata dal punto di vista della salute dei cittadini, dacché con tutta evidenza il coronavirus non ha bisogno di passaporto e non conosce confini.

Il sovranista che al Papete chiedeva a sua volta pieni poteri sostiene Orbán, affermando che il Parlamento ungherese ha «deciso democraticamente». Dire che è stato un voto di maggioranza non è certo una garanzia. La storia insegna. Anche le leggi fascistissime furono votate dal Parlamento eletto nel 1924. Cosa aspetta l’Unione europea a varare provvedimenti solidali con i Paesi messi in ginocchio dalla pandemia e ad espellere chi fa prove tecniche e pratiche di fascismo?

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 3 aprile 

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