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Questo virus non è “democratico” per niente

A homeless walks in the Milan's "Greco" train station, Tuesday, March 23, 2020. For most people, the new coronavirus causes only mild or moderate symptoms. For some it can cause more severe illness. (AP Photo/Antonio Calanni)

La gravissima crisi sanitaria legata alla diffusione del Covid-19 (o Sars-CoV-2) che ci tiene, giustamente, tutti a casa è l’occasione per iniziare alcune riflessioni.
In questo momento siamo tutti chiamati alla massima solidarietà e al massimo impegno collettivo per il bene comune. Impegno che si può concretizzare “semplicemente” nel ridurre al minimo il possibile contributo individuale alla diffusione dell’epidemia. Semplicemente restando a casa e adottando tutti gli accorgimenti necessari a eliminare le possibilità di contagio. Per questo, e per altri motivi, non ultimo la possibilità di ammalarsi per chiunque a prescindere dal suo ceto sociale, si è detto che il Covid-19 è un “virus democratico”. Ma alcune domande sorgono spontanee: Quali sono state le cause scatenanti? E le conseguenze quali saranno? Chi pagherà le conseguenze sociali ed economiche? E, superata questa crisi, potremo stare tranquilli o ne avremo una prossima da affrontare? Possiamo considerare la malattia veramente neutrale e “democratica”?

La risposta a queste domande richiede una breve analisi dei seguenti punti: cause del contagio iniziale, conseguenze sull’economia e capacità di aumentare la resilienza del nostro modello di vita.
Senza la pretesa di essere esaustivi proviamo a vedere alcuni aspetti chiave dei diversi punti.
Secondo moltissimi esperti la distruzione della biodiversità, la promiscuità, l’avanzare dell’urbanizzazione e la globalizzazione potenziano a livelli fin qui inediti un meccanismo ben noto, ovvero quello del salto di specie (“spillover”) da specie selvatiche a uomo di nuovi virus. Come ci ricorda Greenpeace è anche probabile che l’inquinamento dell’aria possa agire tanto come vettore dell’infezione (in particolare il particolato fine) quanto come fattore peggiorativo (per l’indebolimento delle difese immunitarie) dell’impatto sanitario della pandemia in corso. Uno studio sulla correlazione tra indicatore d’inquinamento dell’aria e mortalità da Sars-CoV-1 in Cina (2002-2003) mostrava come il rischio di mortalità era amplificato – circa doppio – nelle aree a più alto inquinamento rispetto a quelle con qualità dell’aria migliore.

Certamente queste tesi andranno consolidate da ulteriori studi e indagini ma è certo che disturbi al sistema respiratorio e cardiocircolatorio sono associati all’esposizione cronica ad elevati livelli di inquinamento dell’aria. Dunque, pur in attesa di “prove” che confermino la correlazione dell’impatto della pandemia con la (pessima) qualità dell’aria, cosa comunque rilevata nel caso cinese sopra citato, è però possibile affermare con certezza che la popolazione in pianura padana è più di altre cronicamente esposta a elevati livelli d’inquinamento dell’aria e dunque alle conseguenze che ne derivano. E che, quindi, questo può essere uno dei co-fattori che plausibilmente aggravano la severità dell’impatto di una pandemia da nuovi virus che attaccano in profondità l’apparato respiratorio come quella odierna.

Quindi in prima battuta possiamo pensare che le cause dell’insorgere di nuovi virus che periodicamente (ricordiamo Ebola, Sars-CoV-1 e Zika, ma pure influenza A-H1N1 cosiddetta suina e Mers-CoV) “infettano” il mondo e soprattutto la gravità delle conseguenze sanitarie e sociali sulla popolazione sono di origine antropica. E sappiamo bene che è il sistema economico capitalistico che ha definito il modello sociale che sta portando alla distruzione delle biodiversità. Da questo punto di vista la lotta contro i cambiamenti climatici del movimento dei FridaysForFuture di Greta Thunberg è essenziale anche per prevenire le future, molto probabili, crisi sanitarie legate all’insorgere di sempre più numerosi nuovi virus. Senza dimenticare che la crisi ambientale che ci aspetta avrà conseguenze anche peggiori di quella sanitaria, solo che la percezione del pericolo è meno immediata e meno personale: quando un problema è di tutti tendiamo a non considerarlo nostro ma di qualcun altro. Finché le conseguenze non andranno a coinvolgerci personalmente, nei nostri affetti o beni.

Le conseguenze di questa crisi (ma anche di quelle future) sono di fronte agli occhi di tutti: in poche parole siamo di fronte a uno stravolgimento completo delle nostre abitudini di vita, delle consuetudini relazionali e del modello economico cui siamo abituati. Senza entrare nel dettaglio degli aspetti psicologici e dell’indiscutibile riduzione degli stessi diritti costituzionali risulta evidente che anche in questa crisi la diseguaglianza è forte: basta pensare alle conseguenze per i lavoratori precari che o perdono il lavoro, come i camerieri di alberghi/ristoranti, o sono costretti a turni di lavoro massacranti senza sicurezza come i rider, rispetto ai più tutelati lavoratori dipendenti. Forti sono i rischi che corrono alcuni lavoratori e non solo nella sanità ma anche tutti i lavoratori che sono costretti a interagire con molte persone come i cassieri. E le vittime sono per la maggior parte i soggetti più fragili. Senza arrivare al caso limite del calciatore Higuain che affitta un aereo privato per fuggire dall’Italia, è evidente che il “tutti a casa” è ben diverso per chi vive in un appartamento di 50mq in un grande condominio e chi vive in una villa con un grande parco privato.

Ancora una volta è chiaro che le diseguaglianze vanno ridotte (o meglio eliminate) e che il concetto di bene comune va esteso. Ad esempio l’auspicabilissimo vaccino per il Covid-19 sarà un bene comune, cioè pubblico, o sarà un brevetto di qualche causa farmaceutica fonte di enormi guadagni per pochi privati? E in Italia si invertirà la privatizzazione del sistema sanitario pubblico a cui sono stati tagliati 37 miliardi di euro dal 2010 al 2019? E si è finalmente capito che l’autonomia differenziata (o meglio la “secessione dei ricchi”) oltre a generare confusione istituzionale con provvedimenti diversi tra stato e regioni crea solo ulteriori diseguaglianze e cittadini con più diritti di altri? In Usa ci si renderà finalmente conto che la salute è un bene primario e fondamentale della persona che non può essere gestito con assicurazioni private che escludono la parte più povera della popolazione? E non parliamo delle condizioni sanitarie delle popolazioni africane e dei Paesi più poveri del mondo. In poche parole: la politica saprà invertire la tendenza e cominciare a trasferire risorse dai pochi che detengono la maggior parte delle ricchezze del mondo alla maggioranza della popolazione?

Ci chiedevamo chi pagherà le conseguenze sociali ed economiche della crisi sanitaria. Pare evidente che, allo stato attuale, saranno sempre gli stessi di sempre: la parte più povera. Ed è chiaro che anche questa volta la crisi verrà superata e ci sarà la “ripresa economica” come è sempre capitato nelle crisi precedenti. Ed è fortissimo il rischio che anche questa volta si verificherà un’ulteriore concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e un aumento delle diseguaglianze.
Fino al prossimo virus e alla prossima crisi. Inevitabile perché l’attuale modello sociale ed economico ne è quantomeno corresponsabile.

Quindi il Covid-19 non è democratico e tantomeno neutrale. Bensì mette in evidenza le ingiustizie e le diseguaglianze e rischia di aggravarle. Come ha detto Naomi Klein rappresenta una crisi su larga scala che probabilmente permetterà di far passare politiche che sistematicamente aumentano le disuguaglianze, arricchiscono le élite e tagliano fuori chiunque altro. Ma ci offre anche un’occasione: ribaltare questo assunto e iniziare un processo di modifica del modello sociale ed economico che risolva i problemi ambientali, elimini le diseguaglianze e i privilegi e favorisca invece il bene pubblico, la salute collettiva, il benessere sociale e non il profitto.

Su questo i vari partiti del centrosinistra, Pd, LeU etc. etc., sono chiamati a una forte autocritica rispetto alle politiche perseguite in passato e a un cambio radicale delle loro proposte, sia a livello italiano che europeo, lottando per un Green New Deal che porti ad una vera giustizia ambientale congiunta con la giustizia sociale e non solo ad una “riverniciatura di verde” (greenwashing) del capitalismo. Altrimenti ci troveremo ad affrontare tra poco altre crisi sanitarie e climatiche e altre diseguaglianze.

Guido Marinelli, comitato nazionale èViva, cofondatore associazione PerIMolti

Che fine faranno quei migranti rinchiusi nei Cpr e a rischio contagio?

© Marco Merlini / LaPresse 07-04-2008 Roma Politica Gianfranco Fini visita a Roma il Centro di permanenza temporaneo di Ponte Galeria Nella foto gli immigrati irregolari all'interno del cpt

Circa 450 persone in Italia, alcune migliaia in Europa. Cosa conta la loro vita in tempi di Covid-19, quando, se parliamo in termini numerici, si fronteggia una delle peggiori catastrofi del secolo? Si tratta dei rinchiusi, pardon degli “ospiti” nei Cpr o degli altri acronimi con cui vengono indicati i centri di detenzione per migranti destinati al rimpatrio in Unione europea, quelli e quelle per cui non si prospetta altro futuro che il rimpatrio o l’eterna condizione di irregolarità, una condizione di limbo giuridico poco contemplata dal diritto. Raccontare di una punta di iceberg può essere utile, quando tutto questo sarà passato, per imparare a non dimenticare nessuno, a non dividere più il mondo fra persone da salvare e altri da lasciare andare.

Alle prefetture competenti degli 8 Centri permanenti per il rimpatrio è giunta con data 26 marzo una circolare del ministero dell’Interno, recante come oggetto “Interventi di prevenzione della diffusione del virus Covid-19 nell’ambito dei centri di permanenza per il rimpatrio”. Questo in sintesi il testo: «Al riguardo, nel richiamare le linee d’intervento già indicate nelle precedenti circolari, anche riferite ai centri di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, si sottolinea il particolare rilievo delle seguenti misure. Innanzitutto, si evidenzia l’importanza di effettuare nei confronti delle persone trattenute un costante monitoraggio delle condizioni di salute di ciascuno, al fine di individuare tempestivamente eventuali sintomatologie da Covid-19 e, nei casi sospetti, interessare le competenti autorità sanitarie per gli accertamenti del caso. È altresì necessario assicurare ai trattenuti una idonea dotazione di materiale per la cura dell’igiene ed impartita un’attenta informazione sugli accorgimenti da adottare per prevenire il contagio del virus, garantendo la massima cura dei servizi di pulizia di tutti gli ambienti, sia di alloggio che di servizio. Nell’eventualità di nuovi ingressi, si rileva l’importanza di verificare se, come previsto dal vigente regolamento unico recante criteri per l’organizzazione dei Cpr, è stata effettuata la visita medica preliminare e se è stata esclusa la sussistenza di sintomatologie da Covid-19. In ogni caso, compatibilmente con le attuali disponibilità di posti, è opportuno collocare i soggetti in alloggi separati per un periodo di almeno 14 giorni; Come già segnalato alle SS. LL. con nota del 10 marzo u.s. n. 5897, tutti i colloqui con soggetti esterni dovranno avvenire mantenendo una distanza di almeno 2 metri e, ove possibile, prima dell’ingresso i visitatori dovranno essere sottoposti al rilevamento della temperatura corporea. […] affinché, fermo restando il divieto di detenere negli alloggi i telefoni cellulari, le persone trattenute possano mantenere contatti telefonici con i congiunti che, in relazione ai vigenti divieti di circolazione, non possono raggiungere la struttura di trattenimento. Si rammenta altresì, come già evidenziato con la circolare del 18 marzo u.s., che ai maggiori oneri dovuti all’incremento dell’erogazione dei servizi di accoglienza si potrà provvedere con la stipula di appositi atti aggiuntivi alle convenzioni attualmente in corso».

In sintesi tutto continua e per molto tempo sarà anche impossibile effettuare rimpatri. Si fermano persone in strada e li si porta nei centri, incrementando il rischio di contagio e si risponde o con misure di isolamento dei “nuovi arrivati” o con la garanzia di migliori controlli sanitari che di fatto nei centri (di accoglienza o per i rimpatri) non sono mai avvenuti. Si consente il contatto con esterni – e questo evita certamente l’aumento delle tensioni – ma si conferma il divieto di utilizzare telefoni cellulari verso persone considerate “ospiti”. La sindaca di Gradisca D’Isonzo, in provincia di Gorizia dove a dicembre ha riaperto un Cpr con accanto un Cara (Centro accoglienza richiedenti asilo)  il 29 marzo ha denunciato il fatto che nelle due strutture ci siano attualmente 180 persone, molte giunte in questi giorni, e dove è materialmente impossibile adottare le misure richieste dal Viminale. La sindaca, Linda Tomasinsig, da tempo ha chiesto la chiusura del Cpr. E non si tratta di una posizione ideologica. Da Bruxelles, la Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatović, con una raccomandazione ha chiesto espressamente ai governi europei di svuotare i centri di detenzione e di predisporre soluzioni alloggiative alternative, per rispettare la dignità e la sicurezza sanitaria degli stranieri coinvolti.

«Liberate i migranti dai Centri di detenzione o il Covid si diffonderà come un incendio», ha detto John Sandweg, ex direttore di un Centro statunitense di detenzione amministrativa per migranti, come ha ricordato Mauro Palma, Garante nazionale per i diritti delle persone detenute, intervenendo sullo stesso argomento per sollecitare l’Italia a seguire l’esempio di altri Paesi dell’Ue che stanno già procedendo in questa direzione. «Di fronte alla pandemia globale di Covid-19, molti Stati membri hanno dovuto sospendere i rimpatri forzati di persone non più autorizzate a rimanere nei loro territori, compresi i cosiddetti ritorni di Dublino, e non è chiaro quando questi possano essere ripresi. – recita la raccomandazione – In base alla legge sui diritti umani, la detenzione per immigrazione ai fini di tali rimpatri può essere lecita solo se è fattibile che il rimpatrio possa effettivamente aver luogo. Questa prospettiva non è chiaramente in vista in molti casi al momento. Inoltre, le strutture di detenzione per immigrati offrono generalmente scarse opportunità di allontanamento sociale e altre misure di protezione contro l’infezione da Covid-19 per i migranti e il personale. Sono stati segnalati rilasci in diversi Stati membri, tra cui Belgio, Spagna, Paesi Bassi e Regno Unito, con quest’ultimo che ha appena annunciato un riesame della situazione di tutti coloro che si trovano in detenzione per immigrazione. È ora importante che questo processo continui e che altri Stati membri seguano l’esempio. Il rilascio dei più vulnerabili dovrebbe essere prioritario. Dal momento che la detenzione per immigrazione di minori, non accompagnati o con le loro famiglie, non è mai nel loro interesse, dovrebbero essere rilasciati immediatamente. Le autorità degli Stati membri dovrebbero inoltre astenersi dal dare nuovi ordini di trattenimento a persone che è improbabile che vengano rimosse nel prossimo futuro».

E se a Barcellona si decide immediatamente di chiudere i centri di detenzione, l’Italia sembra ignorare questa raccomandazione. Primi contagi si sono registrati a Gradisca d’Isonzo, testimonianze molto dure sono giunte attraverso i contatti della “Rete No CPR, No Frontiere FVG” che stanno seguendo le forme di protesta in atto nel centro, dove in molti hanno praticato lo sciopero della fame. In contemporanea si è smesso di accettare il cibo nel Cpr di Palazzo San Gervasio in provincia di Potenza. I detenuti hanno mantenuto il contatto con gli attivisti della Campagna LasciateCIEntrare. Il 23 marzo i 40 trattenuti comunicavano di essere entrati in sciopero della fame dicendo di essere in ansia per la propria salute e timorosi di contrarre il virus e di non riuscire a contattare le famiglie.  «Non ci sono assistenti sociali. Non sappiamo quanto tempo resteremo e cosa ci succederà. Loro, staff e polizia, entrano tre, quattro volte al giorno nelle nostre aree. E se ci portano dentro il virus?», chiedono le persone che denunciano come sia assente qualsiasi dispositivo di garanzia. «Non ci sono precauzioni per noi. Stiamo qui. Alcuni anche da più di sei mesi». E dichiarano che alcuni non dovrebbero poter essere reclusi, perché malati anche con problemi psichiatrici. Nessuno dei dispositivi annunciati dal Viminale sembra neanche essere stato attuato per evitare contagi.

Notizie simili giungono da Ponte Galeria a Roma: «Sono chiusi in stanze da otto persone. A nessuno di loro è stata data una mascherina o i guanti protettivi. Impossibile anche solo pensare di mantenere la distanza di sicurezza negli spazi comuni o nella mensa. E gli operatori sociali e le forze dell’ordine attorno a loro sono nelle stesse identiche condizioni”. Così si sfoga Carla Livia Trifan, 22 anni, romana, operatrice sociosanitaria in attesa di occupazione, che ha contattato LasciateCIEntrare in seguito all’appello per una sanatoria dei migranti irregolari di cui abbiamo già scritto. «Tenerli in queste condizioni non ha nessun senso e rischia solo di far espandere ancora di più il contagio. O li liberano tutti o li sistemano in un posto sicuro». Carla racconta che a Ponte Galeria ci sono attualmente 40 donne e 75 uomini, compreso il suo fidanzato. «Lo hanno fermato il 3 marzo – racconta -. Appena l’ho saputo ho chiamato la polizia per chiedere spiegazioni. Lui è nato in Tunisia ma vive in Italia sin da quanto aveva 14 anni. Ora ne ha 26 ma non è ancora riuscito ad ottenere la cittadinanza italiana. La polizia mi ha detto di stare tranquilla, che era solo un controllo, ma intanto lo avevano già portato al centro». Ma per queste 450 persone complessivamente trattenute negli 8 Cpr in funzione, la frase “ce lo chiede l’Europa” non vale?

Il diritto di piangere

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 28 marzo 2020 Roma (Italia) Cronaca Emergenza Covid 19, la solitudine è una delle conseguenze del coronavirus Nella Foto: un uomo alla finestra con una mascherina Photo Cecilia Fabiano/LaPresse March 27, 2020 Rome (Italy) News Covid 19 Emergency , loneliness is one one the collateral effect of coronavirus epidemic In the pic : a men at the window with a sanitary mask

A me devo dire che mette sempre paura il contegno. Mi spaventa soprattutto il contegno quando diventa la barriera per inscenare forza e equilibrio e ogni tanto mi capita di guardarmi intorno e vederli tutti lì, tutti compiti, che penso sempre di essere sbagliato io, di avere probabilmente qualche pezzo che mi manca o che non mi funziona e poi quasi sempre mi rassereno pensando che alla fine se li osservi bene, quelli lì, hanno qualche buco da cui si intravede che stanno male anche loro.

Sono gli stessi che in questi giorni si svegliano con la sensazione di non essersi mica svegliati perché ieri in fondo è come oggi ed è come domani. Sono giorni che sono perline infilate in un filo di cui non si vede la fine e vorrebbero dirci e farci dire guarda com’è bella questa collanina e invece appena cedi un po’ diventa un cappio. Sono quelli si programmano la giornata imparando da quelli che di lavoro ci insegnano a come programmare le giornate e invece si incagliano nella prima piastrella come se la solitudine diventasse un mastice impossibile da levare.

Sono quelli che pranzano e cenano soli, che si sentono in colpa per non sollevarsi guardando le cose che invece dovrebbero sollevare (c’è scritto dappertutto, “sollevatevi!”, “fate così!”) e chissà forse pensano di essere sbagliati loro. Oppure sono quelli che non dormono, dormono male, si strascicano dal divano alla cucina.

L’ansia, la paura e la disperanza invece avrebbero il diritto di essere raccontate. E forse anche raccontarle in questi tempi di virus potrebbe fare bene, piuttosto che essere tacciati di spargimento di pessimismo. Perché accade, sì: accade che in questi giorni siamo presi da una morsa che si arrotola come edera dalla punta dei piedi fino alla punta del naso e ci rende tutti ferocemente fragili. Ed è un’impresa anche questa: restare potabili in una situazione che non ha nemmeno gli ingredienti base per impastare un po’ di speranza.

E allora rivendichiamo il diritto di piangere. Sarebbe da piangere sui balconi, per riconoscersi uguali. E io ci trovo tanto ottimismo, invece, e umanità, in una cosa così.

Buon lunedì.

Reddito di resistenza fino a settembre

A newspaper seller stands by his kiosk at Piazza Bainsizza on March 23, 2020 in Rome, during the COVID-19 new coronavirus pandemic. (Photo by Tiziana FABI / AFP) (Photo by TIZIANA FABI/AFP via Getty Images)

Gli effetti devastanti della più grave epidemia dal secondo dopoguerra riguardano sia la salute pubblica, sia l’economia. Degli aspetti sanitari si parla, comprensibilmente, da quasi due mesi, mentre solo di recente sono state sviluppate riflessioni sulle ripercussioni economiche e occupazionali della diffusione della crisi.
Gli oltre 5mila deceduti per complicazioni connesse alla malattia Covid-19 costituiscono una tragedia, anche tenendo conto del numero contenuto rispetto ad altre morti (quali quelle da inquinamento atmosferico, circa 50mila all’anno secondo varie fonti attendibili, oppure quelle da fumo, circa 70mila all’anno secondo il ministero della Salute). In questo momento è impossibile prevedere il bilancio finale delle vittime, ma il rischio di mortalità – soprattutto tra le persone anziane – è molto elevato.

Anche l’economia italiana ne risentirà in modo molto significativo: le stime sono molto diverse tra loro (anche perché nessuno è in grado di prevedere quanto durerà l’emergenza), ma è prevista dai più una contrazione del Pil di diversi punti percentuali per almeno un paio di trimestri. Ciò che fino a questo momento è stato in parte trascurato è l’impatto della crisi connessa al nuovo coronavirus sul lavoro – in particolare sulle lavoratrici e sui lavoratori precari e sugli autonomi – e sulle categorie ancora più deboli: gli immigrati irregolari (o con permesso di soggiorno ma che non trovano un lavoro, e quindi spesso facevano l’elemosina ai lati delle strade, ormai deserte) e i senzatetto.

Il decreto legge Cura Italia del 17 marzo cerca di affrontare parzialmente il problema ma è di tutta evidenza che l’approccio emergenziale che lo contraddistingue lo rende già da rivedere a pochi giorni dalla sua approvazione. E non solo perché, come evidenziato da più parti (incluso il governo), sono sottostimate le coperture necessarie per dare un po’ di respiro a diversi milioni di lavoratori – secondo il ministro del Lavoro Catalfo, 14 milioni -, ma soprattutto perché non si considerano gli effetti di medio periodo dell’emergenza sanitaria.
Pare ormai assodato che l’emergenza durerà ancora diversi mesi, con ogni probabilità si tornerà…

Marco Almagisti e Paolo Graziano sono docenti presso l’Università di Padova

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 27 marzo 

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Fora Bolsonaro! Se la protesta diventa virale

Brazilian graffiti artist Aira Ocrespo finishes an art piece featuring Brazil's President Jair Bolsonaro reading "Bolsonaro's mask against the Coronavirus" at his studio in Rio de Janeiro, Brazil, on March 18, 2020. - Bolsonaro gave a press conference today wearing a facemask as he spoke about the COVID-19 coronavirus pandemic. (Photo by CARL DE SOUZA / AFP) (Photo by CARL DE SOUZA/AFP via Getty Images)

«In Brasile l’emergenza coronavirus arriva in un momento in cui il Paese sta attraversando una grave crisi politico-istituzionale ed economica», spiega Nadia, abitante di São Paulo, ma che per tanti anni ha vissuto a Torino. Una crisi dovuta a scelte del governo che non stanno pagando, ma che anzi si stanno dimostrando irresponsabili. Con Jair Bolsonaro come presidente, molti brasiliani e analisti ritengono che la democrazia si trovi in serio pericolo, una libertà riconquistata in Brasile nel 1985 con molti sforzi dopo 21 anni di lotte e sofferenze.

Bolsonaro in più di una circostanza ha ricordato con nostalgia gli anni della dittatura militare, arrivando ad affermare che l’unico errore del regime era stato quello di «torturare solamente» i prigionieri politici. E questa sua saudade verso quegli anni bui della storia brasiliana si riflette nella composizione del suo governo, essendoci una prevalenza di militari rispetto ai civili nei ministeri. Un evento che non si verificava proprio dal periodo della dittatura.

Il 14 marzo, nonostante i divieti di manifestazioni e assembramenti imposti del ministero della Salute per prevenire la diffusione in Brasile del Covid-19, il presidente Bolsonaro ha partecipato nella capitale Brasilia ad una marcia contro il Parlamento e la Corte suprema organizzata da suoi sostenitori, espressione dei gruppi dell’estrema destra brasiliana. In quell’occasione il presidente si è fatto strada tra la folla dispensando baci, abbracci e strette di mano. Un comportamento incosciente e potenzialmente molto dannoso: solo pochi giorni prima diversi…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 27 marzo 

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Bob Geldof: I confini si abbattono anche con la musica

07 February 2020, Berlin: Irish rock musician Bob Geldof at a press event. Photo by: Jens Kalaene/picture-alliance/dpa/AP Images

Il 13 marzo, dopo trentasei anni di inattività, è uscito un nuovo album dei Boomtown Rats, storica band irlandese capitanata dal leggendario Bob Geldof, divenuto famoso oltre che per essere cantante della band anche e soprattutto per essere stato il protagonista del film The wall dei Pink Floyd e aver organizzato gli ormai mitici concerti di beneficenza Live aid e Live 8.

L’album Citizens of Boomtown è accompagnato dall’uscita di una biografia Tales of Boomtown Glory e da un bellissimo documentario di Billy McGrath che traccia la storia della band e di Bob Geldof con testimonianze speciali, tra le altre, di Bono, Sting, Sinead O’Connor e Dave Stewart.

Il documentario si concentra molto sulla critica svolta dai Boomtown Rats alla società irlandese negli anni 70 e 80 e in particolare sul ruolo importante svolto dall’attivismo del suo frontman nel mettere a nudo la chiusura delle classi dirigenti e soprattutto della Chiesa cattolica irlandesi. Proprio dall’Irlanda siamo partiti nella chiacchierata con Bob Geldof.

Dopo trentasei anni di silenzio decidete di tornare con un album in un momento in cui la situazione politica irlandese è in profonda evoluzione: questo ha avuto a che fare con la vostra decisione di tornare in studio?
In realtà no, da quarant’anni mi sento a casa in Inghilterra, non vivo più in Irlanda anche se la visito spesso perché ho lì una parte della famiglia. In verità fino a pochissimo tempo fa la politica irlandese è cambiata molto poco. Certo recentemente si è registrato l’exploit del Sinn féin, il braccio politico dell’Ira. Personalmente penso che il Sinn féin sia battezzato nel sangue, ma le giovani generazioni non ricordano questo aspetto e riconosco che al momento sia un legittimo partito democratico. E capisco anche perché i più giovani vogliano votare per un partito che sia al di fuori dell’establishment politico degli ultimi decenni: vogliono cambiamenti profondi nella società.

I Boomtown Rats nascono anche, e forse soprattutto, per cambiare la società non è così?
Certo! Negli anni…

L’intervista prosegue su Left in edicola dal 27 marzo 

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Per Agamben il virus sarebbe un’invenzione

VENICE, CALIFORNIA - MARCH 21: Artist Pony Wave paints a scene depicting two people kissing while wearing face masks on Venice Beach on March 21, 2020 in Venice, California. California Governor Gavin Newsom issued a ‘stay at home’ order for California’s 40 million residents in order to slow the spread of COVID-19. Californians may still go to the beach without violating Newsom’s order as long as they maintain social distancing and adhere to other public health measures related to the coronavirus. (Photo by Mario Tama/Getty Images)

Il 26 febbraio Il Manifesto ha pubblicato un controverso articolo del filosofo Giorgio Agamben dal titolo “Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata”. A questo hanno fatto seguito due ulteriori scritti (“Contagio” e “Chiarimenti”) con i quali il pensatore è intervenuto nel dibattito culturale che è scaturito dalle sue posizioni iniziali. Definendo, in modo provocatorio, inventata l’attuale epidemia di Covid-19, Agamben ha proposto una riflessione che si sviluppa in questi termini: le misure restrittive del governo sono la manifestazione di un uso ormai consolidato dello «stato di eccezione come paradigma normale di governo», teso a restringere le libertà individuali. Ciò è accettato dalla popolazione perché sembra dare una risposta efficace allo «stato di paura» in cui vivono le coscienze individuali, stato di paura che sarebbe indotto dal potere stesso, nel suo sempiterno tentativo di ridurre la ricchezza della vita umana, fatta di affetti e rapporti, alla nuda vita, la semplice esistenza biologica.

Alcuni (Paolo Flores D’Arcais su MicroMega o Davide Grasso su minima & moralia, per citarne solo due) hanno controbattuto punto per punto alle osservazioni del filosofo in modo estremamente efficace, sottolineando la siderale distanza dalla realtà delle parole di Agamben. Ma appuntare l’attenzione su questo abnorme errore di astrazione può essere utile per ripensare in senso più complessivo i movimenti della cultura, che anche quando restano invisibili al grande pubblico, hanno in realtà ricadute pesanti su cosa pensano e su come riflettono una società e una comunità.

Agamben appartiene, come Toni Negri, ad una lunga tradizione di studiosi che…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 27 marzo 

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Distanti ma uniti dall’amore per la lettura

La resistenza di chi non si arrende e legge, è un fermento virtuale nato in base alle circostanze nell’ultimo mese. Una resistenza fatta con barricate di libri, una trincea di lettura. Sono tante le iniziative e nuove possibilità messe in rete per diffondere cultura e aiutarci a reagire alla situazione “forzata” determinata dalla pandemia, attraverso la conoscenza. Tra queste c’è anche l’uscita del nuovo Catalogo Scelte di Classe-Leggere in Circolo 2020 che sarebbe dovuto esser presentato a Bologna Children’s Book Fair.
Il volume è sfogliabile qui  raggiungibile tramite link dai siti Bibliotu (www.bibliotechediroma.it)

A parlarcene è Paolo Fallai, presidente delle Biblioteche di Roma.

Scelte di classe esce quest’anno per l’undicesima volta. Cosa raccoglie il volume e a chi è rivolto?

Il catalogo presenta i 25 titoli scelti dal Comitato di selezione del premio: 5 per ogni fascia d’età (3-5 anni; 6-7 anni; 8-10 anni; 11-13 anni e 14-16 anni). Di ogni libro viene raccontato il contenuto, sono offerte alcune illustrazioni e il comitato sottolinea perché lo ha ritenuto importante. Rappresenta una linea di ricerca capace di valorizzare le opere migliori dell’anno, dedicate all’eccellenza dell’editoria per bambini e ragazzi fra i 3 e i 16 anni pubblicate in Italia. Ma poi sono i giovani lettori a votare, sono loro ad appassionarsi, discutere, scegliere. Questo catalogo, non deve soddisfare alcuna vanità, ma è molto più ambizioso. Vuole proporsi come una guida fondamentale distribuita gratuitamente a bibliotecari, insegnanti, librai, editori, a tutti coloro che si occupano di promozione alla lettura.

Da chi è promosso il catalogo e come nasce?
Sono gli stessi protagonisti del premio: chi lo promuove, chi lo ha inventato, l’associazione culturale Playtown, chi lo ha sempre sostenuto, il Centro per il libro e la lettura, chi lo ha voluto condividere unendolo a quello che già organizzava, noi delle Biblioteche civiche di Roma. Lo affianca no le biblioteche italiane grazie all’AIB e le librerie con il sostegno della Siae. Ognuna di queste sigle, se avesse voluto solo avere il proprio premiuccio per farsi bella, avrebbe potuto farlo. E invece hanno voluto mettere insieme passione e impegno per raggiungere più ragazzi, per aumentare la nostra forza.

C’è grande attenzione alla grafica e alle bellissime illustrazioni. Chi cura le scelte e fa ricerca per una bibliografia sempre aggiornata?
Per fortuna è passato il tempo in cui l’illustrazione veniva considerata un corredo della letteratura per ragazzi. Noi la considerazione essenziale per raggiungere la curiosità dei bambini e stimolare il loro interesse. Nessuno di noi dice ai bambini e ai ragazzi che devono leggere. Noi proponiamo loro delle occasioni, li accompagniamo, li assecondiamo se vogliono parlarne, li ascoltiamo. E questo non succede spesso.
Per svolgere questa difficile ricerca dei titoli che consideriamo più importanti c’è un comitato scientifico rappresentativo dell’intera filiera e che ogni anno viene arricchito. Voglio citare un passaggio dell’introduzione scritta dall’associazione Hamelin, e che spiega il nostro lavoro: “L’incrocio tra diversità. richiede naturalmente, e sempre, la creazione di un’identità più complessa, ma indubitabilmente nuova. Con un punto di contatto: oltre alla convinzione che la produzione per ragazzi non sia un settore minore, e alla grande attenzione per il visivo e i suoi linguaggi, sempre più il timbro vero del progetto è uno sguardo divergente, un po’ strambo, che mette da parte la funzionalità pedagogica, il didascalismo, che sembrano oggi l’unico punto di vista consentito e ritenuto nobile sulla letteratura per l’infanzia, per cercare invece libri che siano in sé proprio belli e se si può pazzi – non è un caso se quasi tutti in questa selezione sono libri che ribaltano le prospettive! – capaci di far scattare stupori, domande, nuove visioni sul mondo. L’obiettivo insomma della letteratura, e dell’arte tutta”.

Ci sarà un’appendice allegata al catalogo che dovrà uscire on line e dedicata a Gianni Rodari, tra i più grandi autori di letteratura per l’infanzia, di cui sappiamo quest’anno ricorre il centenario della nascita. Le Biblioteche di Roma hanno da mesi dedicato attenzione con letture, incontri, future mostre e tanto altro a questo importante intellettuale del Novecento. Quali saranno gli avvenimenti futuri dedicati allo scrittore quando saremo di nuovo insieme nei festival, nelle piazze e nei quartieri?

L’appendice è l’omaggio che il premio Scelte di classe – Leggere in circolo ha voluto riconoscere a Gianni Rodari, uno degli scrittori più importanti del Novecento. E lo ha fatto chiedendo contributi a molti protagonisti del Comitato di promozione dell’anno per il centenario rodiano, creato dalle Biblioteche di Roma. Avevamo già cominciato con gli incontri alla Fiera Più Libri Più Liberi, la straordinaria mostra delle illustrazioni di Bruno Munari per i libri di Rodari, che dopo la Fiera presenteremo al Palazzo delle Esposizioni e nelle nostre biblioteche. Appena possibile ripartiremo con i nostri incontri con Pino Boero che ci accompagna per fortuna dall’inizio, i laboratori coi bambini, le grandi voci come Bernard Friot, che abbiamo invitato in Italia. E un grande convegno sulle traduzioni e la fortuna di Rodari in Italia e nel mondo, che stiamo organizzando con la Biblioteca Nazionale per il prossimo ottobre.

Le Biblioteche di Roma abbracciano tutta la città rendendo possibile studio e lettura. Come si sono organizzate in questo momento per continuare a darci aggiornate proposte che ci incuriosiscono e animano facendo trovare sempre opportunità ai lettori di ogni età?

Le nostre sedi sono chiuse ma il cuore dei nostri straordinari bibliotecari è sempre generoso. Abbiamo aperto a tutti il nostro catalogo digitale: basta attivare l’iscrizione online, anche quella gratuita, dal portale BiblioTu e si potrà fruire da remoto di uno straordinario patrimonio culturale, senza confini fisici e materiali. Grazie all’attivazione della piattaforma MLOL l’offerta sarà senza precedenti: 7.079 ebook; oltre 7100 periodici di 90 paesi, in 40 lingue diverse; 77.233 registrazioni musicali; 127 audiolibri; 93 banche dati e collezioni digitali, tra cui quotidiani e riviste di larga diffusione garantiranno un’offerta di risorse documentarie senza precedenti a tutti gli iscritti delle Biblioteche di Roma, indipendentemente dal tipo di tessera d’iscrizione. Il numero degli ebook che un utente potrà prendere in prestito passa da 2 a 4.
E poi condividiamo video, poesie, le fiabe delle Mamme narranti, insieme ad Andrea Satta, un nostro compagno di strada e un artista generoso e straordinario.
Per rispondere alla tua ultima domanda: non tutto quello che facciamo è perfetto, abbiamo le nostre difficoltà, ma i lettori di ogni età sanno che su di noi possono contare: le Biblioteche di Roma ci sono: distanti ma uniti dall’amore per la lettura. Lontani, ma connessi, per condividere pagine (virtuali), sapere, informazioni, intrattenimento di qualità per grandi e piccoli.

 

«Ieri studiavo, oggi affronto una pandemia»

Foto Claudio Furlan - LaPresse 19 Marzo 2020 Brescia (Italia) NewsCoronavirus, dentro il reparto di terapia intensivaNella foto: il reparto di Terapia Intensiva dell’Ospedale Poliambulanza di Brescia Photo Claudio Furlan/Lapresse 19 March 2020 Brescia (Italy) Intensive care unit of the Poliambulanza hospital in Brescia

Per tutti i neolaureati in medicina l’avventura professionale inizia con il giuramento di Ippocrate. Un giuramento che ogni medico ancora recita alla proclamazione della sua laurea, che più di un impegno è una responsabilità che si assume nei confronti di tutti gli altri esseri umani che si troverà di fronte nella sua carriera, e in qualche modo anche nella sua vita privata.

In questi giorni difficili sentiamo ancora nelle orecchie lo scrosciare degli applausi in tutta Italia per il commovente lavoro che medici e infermieri stanno svolgendo, con l’intensificazione dei turni, dello stress, ma soprattutto dei rischi che corrono sul luogo di lavoro.

Il ministro dell’Università e della ricerca Manfredi ha annunciato che con il decreto Cura Italia del governo Conte saranno a breve disponibili 10mila nuovi medici per fronteggiare l’emergenza coronavirus, questo in virtù dell’abolizione dell’esame di Stato per l’esercizio della professione medica. Subito sono montate le polemiche e il ministro ha dovuto precisare che i neolaureati principalmente saranno assunti nei servizi territoriali e non andranno solo in corsia, saranno utilizzati quindi come pedine per liberare altri medici più esperti. Ad uno sguardo superficiale tutto ciò potrebbe sembrare un’ottima notizia, ma è necessario allargare il campo per non perdere alcuni dettagli della questione.

Dopo sei anni di studio si indossa la…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 27 marzo 

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La medicina irrazionale

Il medico è l’unica professione che autorizza la persona che la svolge a determinare una lesione in un altro essere umano. La lesione è autorizzata nella misura in cui questa serve per un fine di cura e guarigione.
Il chirurgo che interviene rimuovendo un tumore, il cardiologo che sostituisce una valvola cardiaca, il medico che prescrive un farmaco che in condizioni normali sarebbe un veleno per curare devono provocare lesioni che sono ammesse per il fine di cura.
Il medico ha il dovere di intervenire per tentare di sconfiggere la malattia che aggredisce l’essere umano. Per farlo è anche autorizzato a “rischiare”. Deve farlo. Sa bene che la cura a volte non funziona. E può non funzionare per mille motivi diversi.

Ma in tanti altri casi la cura funziona e si ottiene la guarigione. Possiamo dire, da profani, che lo scopo del medico è quello di ristabilire un equilibrio precedente. Il medico aggredisce la malattia e l’agente patogeno che la causa, per permettere al nostro organismo di ristabilire l’equilibrio perduto con la malattia.
Nel tempo della malattia il paziente non è libero. È soggetto alla volontà del medico a cui si deve affidare. È il medico che sa cosa fare. È lui che decide quale farmaco o quale intervento fare sul paziente e quando. È lui che sa valutare se il quadro clinico permette di sperare in una soluzione oppure non dà spazio a speranza di uscita dalla malattia.

In questo senso il medico è un dittatore che non ammette obiezioni.
Il medico prende decisioni che possono determinare la vita o la morte dei suoi pazienti.
Lo fa in “scienza e coscienza” avendo sempre come scopo quello di restituire la libertà della vita al suo paziente. Una volta che il medico ha finito il suo lavoro e ha sconfitto la malattia perde il suo ruolo di “dittatore”.
Torna ad essere una persona uguale a noi che siamo stati suoi pazienti. Questo “non essere uguali” nel tempo della malattia è una distinzione fondamentale per far si che il medico possa svolgere il suo lavoro che di fatto è quello di fare in modo che il paziente non sia più tale nella misura in cui la malattia scompare.
Queste considerazioni, che credo siano di assoluta evidenza per chiunque, valgono anche e soprattutto in questo drammatico periodo che stiamo vivendo.

Il medico, in questo caso i virologi e gli epidemiologi che ci dicono come affrontare l’epidemia, sono le persone da ascoltare.
È completamente assurdo pensare che l’atto medico, che in questo caso si realizza nell’indicare al governo quali azioni di contenimento sono necessarie e che coinvolge tutta la popolazione, sia in realtà una limitazione intollerabile della nostra libertà o un attentato all’economia.
Alcuni esponenti di “sinistra” si sono azzardati a dire che queste limitazioni sono da Stato di polizia. La domanda da fargli è sapere quale sarebbe la libertà che vorrebbero esercitare? Quella di essere liberamente infettati e infettare sconosciuti? La limitazione della libertà per limitare il contagio, in qualunque forma essa si configuri, non è una lesione nella misura in cui è un atto medico che ha come scopo liberarci da questa epidemia.
Allo stesso modo è insopportabile l’atteggiamento fatalista e catastrofista che si può leggere in alcune affermazioni o azioni di persone di Chiesa, a partire dal Papa.

L’atto medico non è un atto di compassione, di pietà. È il fare di un medico che in “scienza e coscienza”, ossia sapendo quello che fa e perché, decide che per curare e guarire un paziente deve operare in un determinato modo. La pietà, l’appestato da assistere per cui non c’è più niente da fare, non c’entra proprio nulla.
Il medico opera perché vuole liberare il paziente dalla malattia di cui il medico sa, più o meno precisamente, quale è la causa e quindi come eliminarla. Non esiste il male per il medico.
Esiste la malattia che è un fenomeno temporaneo e che può esitare nella guarigione o nella morte.

Per il religioso invece non esiste la malattia determinata da una causa ma esiste il male. E il male non avrebbe una causa perché sarebbe una realtà da accettare così com’è. Allora non esiste atto medico per la cura con il fine della guarigione. La cura diventa “prendersi cura”, ovvero assistere il malato aspettando l’esito che sarebbe stabilito dalla provvidenza. La guarigione è per grazia divina, così come la morte è qualcosa di ineluttabile e stabilito da Dio. La malattia non esiste e quindi non può esistere la cura.
Inutile dire un granché del politico di sinistra più o meno sessantottino che invece pensa che l’epidemia sia usata per una “politica” di oppressione. Secondo questi raffinati pensatori qualunque atto medico che limita la libertà di movimento è in realtà un’oppressione mascherata e in quanto tale da contestare e negare.

Il problema è che questo pensiero nasconde l’idea che nega la malattia.
Ed è quindi in sostanza un pensiero religioso.
La realtà è che il virus responsabile del Covid-19 esiste e può determinare una malattia molto grave. È un virus di cui avere paura.
La paura è un sentimento da non ignorare ed assolutamente valido nella misura in cui si riferisce ad un pericolo reale.
Il pericolo reale di cui aver paura è che questo virus può determinare una polmonite grave che determina una insufficienza respiratoria che può portare alla morte.
Morte a cui il medico in molti casi riesce ad opporsi con l’ausilio di macchine complesse e che necessitano di personale specializzato.

Il problema è che queste macchine e il personale specializzato non sono sufficienti per curare tutti quelli di cui ne avrebbero bisogno se il virus venisse lasciato libero di correre, perché sarebbero troppi tutti insieme.
Ecco perché l’atto medico in questo particolare caso si realizza nella limitazione della libertà di movimento di tutti. La “lesione” causata dalla limitazione della libertà serve, ha lo scopo di curare perché elimina l’agente patogeno della malattia.
Il non avere contatti con gli altri fa si che il virus non possa replicarsi e scompaia. Perché è il nostro movimento e il nostro incontrare gli altri che lo diffonde. Il virus non ha gambe. Da solo non si muove. In effetti il virus, come tutti i virus, non è nemmeno vivo. È un oggetto, un guscio proteico in cui è nascosto un filamento di Rna che riprogramma le cellule con cui viene in contatto.
Una realtà inanimata che ha necessità di una realtà viva (la cellula) per riprodurre copie di se stesso. Senza una cellula che lo riproduca il virus si distrugge e scompare.

La distanza sociale e la limitazione della nostra libertà è la medicina che dobbiamo prendere per poterci liberare di questo terribile virus. Il virus non ha scampo se non trova l’ospite in cui replicare sé stesso. Dobbiamo solo aspettare il tempo necessario senza che il virus abbia modo di trovare nuovi ospiti. E dare il tempo ai medici del Ssn di assistere tutti quelli che avranno bisogno di aiuto per rimanere in vita.
La medicina è un’invenzione umana. Ed è una attività del tutto irrazionale, legata evidentemente al sapere che l’altro è uguale a noi. All’idea che ci possiamo opporre alla malattia e alla morte.

Gli animali non conoscono la cura. Non esiste in natura un animale che curi con il fine di guarigione, il suo simile. Gli animali si comportano sempre secondo un calcolo razionale. Non c’è il riconoscere se stessi nell’altro animale. Lo scopo dell’animale è sempre e solo quello della sopravvivenza. È noto il comportamento “razionale” del leone che uccide i cuccioli del suo rivale quando diventa il nuovo capobranco. Il fine è favorire la propria progenie.

Il curare l’altro come fa l’essere umano è invece un atto irrazionale.
Curare l’altro a prescindere dall’interesse economico o dal sapere chi sia l’altro. Qual è lo scopo?
È il rifiutare la natura, opporsi ad essa. Annullarla nella misura in cui una malattia scompare, come il vaiolo che è stato debellato per sempre. L’attività umana chiamata medicina lo ha fatto scomparire.
Allo stesso modo di come sarà anche per il Covid19. Scomparirà per sempre. Lo scopo del medico è quello di colui che vuole liberare il malato dalla malattia per far si che ritorni uguale a colui che lo ha curato. E questo ha la sua origine nel fatto che gli esseri umani nascono irrazionali e hanno come primo pensiero quello dell’esistenza di un altro essere umano simile a sé stessi con cui avere rapporto (cfr. Massimo Fagioli, Istinto di morte e conoscenza).

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 27 marzo 

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