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L’arte di uscire dalla crisi: Lorenzo Balbi

Cosa succederà al mondo dell’arte nel momento in cui sara passata l’emergenza Covid-19 e riapriranno gli studi degli Artisti, i Musei, le Fondazioni, gli spazi no-profit, le gallerie private, le fiere d’arte?

Ci sarà stato un cambiamento della fruizione dell’arte, soprattutto di quella contemporanea? Si riuscirà a sostenere anche gli Artisti visivi e performativi che creano la bellezza, ma che nonostante questo sono senza Albo professionale e senza Associazioni di categoria e con difficoltà troveranno accesso alle misure governative di sostentamento?

Gli artisti si ritroveranno ad affrontare senza strumenti un’economia globale malmessa che difficilmente li considererà degni di tutela, questione con cui anche le gallerie private, curatori e direttori di Musei dovranno fare i conti. Si può sperare, come è successo in passato, che dopo una mostruosa crisi segua una grande ripresa economica, ma le riprese economiche non avvengono da sole. Gli addetti ai lavori dell’arte stanno cercando una “cura” che oltre alla guarigione possa strutturare anticorpi?

Lorenzo Balbi, il direttore artistico del MAMbo (Museo d’Arte Moderna di Bologna Istituzione Bologna Musei) risponde ai quesiti di Alessio Ancillai

Non penso sia retorico dire che nulla sarà come prima e che cominceremo presto a etichettare avvenimenti e eventi con “prima” o “dopo” emergenza coronavirus. Chi, come noi, si occupa di iniziative e progetti pensati per un pubblico dovrà tenere conto di una realtà profondamente mutata da un evento che cambierà radicalmente il nostro modo di stare insieme, di condividere uno spazio, di vivere un luogo pubblico. La sfida dei musei alla riapertura sarà reagire con progettualità mirate e metodi di fruizione degli spazi pensati per questa nuova condizione anche alla luce di un contesto economico che sarà certamente differente da quello precedente la crisi.

Un buon “test”, una simulazione plausibile e significativa di quanto ci aspetta l’abbiamo avuto in alcune regioni con l’apertura provvisoria e contingentata di qualche settimana fa. Dopo una prima settimana di chiusura degli spazi museali, infatti, in alcune regioni -fra cui l’Emilia-Romagna- si è deciso di riaprire i musei con accesso calmierato e prodotti disinfettanti e protettivi a disposizione del pubblico e di operatori prima di procedere dalla settimana successiva, con tutto il resto d’Italia, alla serrata generale. In quella particolare settimana abbiamo registrato una sensibile diminuzione del numero dei visitatori, il quasi azzeramento dei visitatori stranieri, un’attenzione completamente diversa alla disponibilità dei sistemi di tutela individuale oltre a un comprensibile mutato comportamento dei visitatori e degli operatori nelle sale nei confronti delle altre persone. Penso che dovremo ripartire da questa consapevolezza: non basterà riaprire, dovremo capire che le persone cambieranno il loro modo di frequentare gli spazi pubblici e avranno un diverso atteggiamento nei confronti degli estranei e delle dotazioni e modalità di visita dei luoghi che visiteranno.

La programmazione espositiva precedente alla crisi non può essere considerata ancora valida: era stata pianificata seguendo presupposti tematici e progettuali, disponibilità economiche e sensibilità del pubblico completamente diverse. Dovremo quindi ripartire e riprogettare tutto da capo, cogliendo questa situazione come un’opportunità per ripartire in modo diverso e con un occhio a quanto si sta sperimentando in queste settimane sul web. Non credo che necessariamente l’offerta dei contenuti digitali sulle varie piattaforme on-line da parte dei musei aumenterà. Non dimentichiamoci che i musei sono prima di tutto dei luoghi fisici, custodi di opere e di mostre che sono pensate per essere visitate di persona. Dopo la riapertura si dovrà quindi ricominciare a focalizzare l’attenzione sul portare il pubblico a frequentare degli spazi, a mettersi in relazione anche fisica con le opere. Quello che potrebbe cambiare è l’atteggiamento rispetto certe metodologie di comunicazione dei contenuti all’esterno, soprattutto verso un pubblico più attento alla presenza e all’attività dei musei sul web.

Nel nostro caso il MAMbo ha reagito alla chiusura con due iniziative: dapprima lo streaming live dell’opera Bonjour di Ragnar Kjartansson attualmente allestita nella mostra AGAINandAGAINandAGAINand, poi con lo sviluppo del format 2minutidiMAMbo con interventi quotidiani di artisti, curatori, critici, musicisti ed altri appassionati che in brevi video -della durata di una canzone- ampliano i contenuti delle mostre e delle collezioni ora non visitabili dal vivo. Tutti questi contenuti sono visibili sul sito del museo e sul nostro canale YouTube.

Ho sempre pensato a queste iniziative come ideale proseguimento dell’attività del museo verso il pubblico esterno, come segno di presenza ma anche come messaggio di normalità verso l’interno. Un museo è principalmente costituito da persone che in questi giorni hanno bisogno di esprimersi, di avere nuove sfide e progetti da sviluppare. Mi auguro che questi format possano continuare anche una volta riaperto il museo ma non lo vedo come un obbligo: un museo deve anche dimostrare di essere capace di adattare la propria proposta al contesto in cui si trova.

La ripresa delle attività così come la pianificazione di un nuovo programma dipenderanno anche da un’analisi della situazione economica delle istituzioni culturali dopo una crisi che ha accentrato -giustamente- tutte le finanze pubbliche disponibili al contrasto del contagio e alle cure mediche. Da un lato si dovrà tenere conto di disponibilità economiche inferiori con le quali si dovrà garantire l’apertura delle strutture, la conservazione delle opere, le spese del personale… dall’altro si spera in un “rimbalzo”, nella voglia delle persone di ricominciare ad uscire, a vedere una mostra, a fruire di un contenuto culturale, al necessario rilancio del turismo. Spero che questo effetto possa essere accompagnato da una voglia di investimento da parte delle istituzioni statali, comuni, regioni e ministero, un aiuto non solo economico ma anche di agevolazioni amministrative, di facilitazioni nello stabilire collaborazioni fruttuose tra enti culturali in modo anche da attirare risorse private.

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L’arte di uscire dalla crisi – Leggi le altre interviste

L’arte di uscire dalla crisi

L’Arte è l’oggetto del desiderio che quando si sottrae non vediamo l’ora che ci rivolga lo sguardo.

L’Arte ci caratterizza come esseri umani, fa parte della nostra identità, è espressione di quel mondo delle esigenze che non vanno soddisfatte, come i bisogni, ma realizzate. La ricerca della realtà latente o meno attraverso l’Arte ci fa stare bene e mai come oggi, ci mancano non solo i concerti, gli spettacoli teatrali e le sale cinematografiche, ma anche le performances artistiche, i monumenti pubblici, i musei, gli studi d’artista, le gallerie d’arte pubbliche e private e tutte quelle realtà artistiche che inconsapevolmente ci fanno sentire vivi; e ci mancano così tanto che addirittura, non potendo fruirne dal vivo, c’è il bisogno di proporle in diverse modalità on line. L’Arte ci viene in soccorso, ma sempre dopo chi lavora in prima linea per salvare le nostre vite e garantirci il sostentamento. Avendo sempre chiara questa verità, è più che benvenuta la ricerca di un’evasione che ci distolga con il bello dall’ansia dell’ignoto che ci assale in questi giorni strani. Come si sono organizzati gli operatori del settore?

«I am so pleased that we are able to provide our exhibitors with an alternative platform to show the wonderful work that they had been working so hard to bring to Hong Kong this spring», queste le parole, su Art Forum, di Adeline Ooi, responsabile dell’area Asiatica di Art Basel e Direttrice di Art Basel Hong Kong, riguardo alla decisione di offrire la visione on line degli spazi espositivi che avrebbero dovuto essere presenti in fiera per l’edizione 2020, con apertura al pubblico prevista il venti marzo. Saranno dunque fruibili le Online Viewing Rooms, una piattaforma solo digitale aperta a chiunque si registri sul sito, offrendo ai visitatori l’opportunità di sfogliare le opere d’arte presentate ad Art Basel Hong Kong 2020, con l’opzione acquisto.

In Italia sono numerose le iniziative, pubbliche e private, che hanno prontamente offerto on line al pubblico i loro contenuti, tra cui la galleria degli Uffizi a Firenze, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, il MAMbo di Bologna, Fondazione Prada, il Castello di Rivoli, nonché la mostra dedicata a Raffaello presso le Scuderie del Quirinale di Roma da poco inaugurata e ora visibile on line e numerosi altri. Il Museo nazionale MAXXI di Roma propone ogni giorno la rassegna “Condominio del contemporaneo”, si parla di arte, architettura, design e attualità con personaggi di primo piano del mondo artistico e perfino alcune gallerie private, spazi no profit o curatori e storici dell’arte hanno proposto la loro offerta on-line o promosso iniziative sempre virtuali dove producono pillole didattiche, su canali Instagram o Facebook, nei tempi web social consentiti.

E’ evidente la necessità di raccontare e di raccontarci, attraverso le iniziative artistiche. Ed è altrettanto evidente la necessità di difendere una realtà, anche economica, un indotto che rappresenta circa il 16% del PIL italiano come ci racconta l’ultimo rapporto della Fondazione Symbola e di Unioncamere. Perché, nonostante quanto dicano alcuni facendo da eco a politici gretti e miopi, è evidente che con l’Arte ci si mangia e, viste le misure proposte dal c.d. Decreto “Cura Italia” anche in difesa dei lavoratori e degli operatori del settore contro i danni collaterali del Covid-19, si stanno tentando di proteggere non solo i polmoni fisici del corpo, ma anche quelli simbolici che ci permettono di respirare bellezza.

Quindi ora in Italia fare rete significa rispondere alle direttive governative di restare in casa, ma anche offrire la possibilità a chi di solito non è consueto seguire cosa succede nella cultura contemporanea visiva, di immergersi in questo mondo poco esplorato; possiamo considerarlo un atto di umiltà, di quel mondo che troppo spesso è riservato solo agli addetti ai lavori e che oggi si offre come un salvagente, accanto alle più conosciute e altrettanto importanti offerte di contenuti audiovisivi in streaming, per i naufraghi spaesati che devono riempire il tempo sospeso.

I Musei in Cina, Corea del Sud e Giappone – Power Station of Art, il China Art Museum e il Museo di Shanghai, tutti chiusi dalla fine di gennaio stanno piano piano riaprendo con le dovute cautele del caso dopo diversi mesi di chiusura, e questo ci fa ben sperare anche per il nostro sistema dell’Arte.

Come scrivevo all’inizio, dobbiamo inevitabilmente porci delle domande e abbiamo chiesto ad alcuni operatori del settore di aiutarci nella riflessione raccontandoci il loro punto di vista. Ecco alcuni dei quesiti a cui risponderanno nelle prossime settimane. Gli articoli saranno via via pubblicati sul sito di Left e linkati in calce a questo articolo introduttivo.

Nel momento in cui riapriranno gli studi degli Artisti, i Musei, le Fondazioni, gli spazi no-profit, le gallerie private, le fiere d’arte cosa succederà?

Ci sarà stato un cambiamento della fruizione dell’arte, soprattutto di quella contemporanea? Si riuscirà a sostenere anche gli Artisti visivi e performativi che creano la bellezza, ma che nonostante questo sono senza Albo professionale e senza Associazioni di categoria e con difficoltà troveranno accesso alle misure governative di sostentamento?

Gli artisti si ritroveranno ad affrontare senza strumenti un’economia globale malmessa che difficilmente li considererà degni di tutela, questione con cui anche le gallerie private, curatori e direttori di Musei dovranno fare i conti. Si può sperare, come è successo in passato, che dopo una mostruosa crisi segua una grande ripresa economica, ma le riprese economiche non avvengono da sole. Gli addetti ai lavori dell’arte stanno cercando una “cura” che oltre alla guarigione possa strutturare anticorpi?

1 – Intervista a Lorenzo Balbi, direttore artistico del MAMbo
2 – Intervista a Ilaria Bonacossa, direttrice di Artissima
3 – Intervista a Chiara Costa, resp. progetti culturali Fondazione Prada
4 – Intervista a Cristina Cobianchi, fondatrice e presidente di AlbumArte
5 – Intervista a Matteo Bergamini, direttore responsabile di exibart
6 – Intervista a Marcello Smarrelli, cons. art. Fondazione Pescheria – Centro Arti Visive di Pesaro
7 – Intervista a Pietro Gaglianò, critico d’arte e curatore indipendente
8 – Intervista al gruppo informale AWI – Art Workers Italia

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L’autore: Alessio Ancillai, artista

Nella foto: Marinella Senatore, “The school of narrative dance, piccolo caos“, 2013, courtesy l’artista

C’è una falla nel decreto, proprio nel punto critico

Foto Claudio Furlan - LaPresse 19 Marzo 2020 Brescia (Italia) NewsCoronavirus, dentro il reparto di terapia intensivaNella foto: il reparto di Terapia Intensiva dell’Ospedale Poliambulanza di Brescia Photo Claudio Furlan/Lapresse 19 March 2020 Brescia (Italy) Intensive care unit of the Poliambulanza hospital in Brescia

Si sono moltiplicati nei giorni scorsi gli appelli di confederazioni e categorie di lavoratori dei servizi pubblici e dei medici in riferimento alla scarsità e inadeguatezza qualitativa dei dispositivi di protezione individuale (maschere adeguate, guanti, visiere e sovracamici) ed alle preoccupanti difformità organizzative nelle diverse regioni per quanto riguarda le direttive e l’applicazione dei protocolli diretti al contrasto dell’emergenza sanitaria, conducendo a sforzi che rischiano di essere vanificati.

Tra i maggiori elementi di allarme vi è l’inserimento dell’art. 7 nel Dpcm n. 14 del 9 marzo. Con questo si è stabilito che gli operatori sanitari esposti a pazienti affetti da Covid-19 non siano più posti in quarantena, come precedentemente previsto con le misure del Dpcm n. 6 del 23 febbraio, ma continuino invece a lavorare anche se potenzialmente infetti. Infatti la stessa disposizione prevede che vengano sospesi dall’attività lavorativa solo quando manifestano sintomatologia respiratoria o siano risultati positivi al Covid-19, senza un effettivo obbligo di verifica con tampone.

Quindi se un giocatore di calcio viene trovato positivo, la squadra e tutto lo staff vengono (giustamente) messi in quarantena preventiva e testati, mentre i medici o gli infermieri che entrano in contatto con un paziente positivo devono continuare a lavorare pur con il rischio di infettare pazienti e colleghi.
In una lettera indirizzata al presidente Conte e al ministro della Salute, Roberto Speranza, l’Anaao Assomed, sindacato medico italiano, a fronte del notevole aumento del rischio clinico per i medici e per i pazienti, ha annunciato di voler presentare degli emendamenti in Parlamento. Tuttavia, in questo momento di emergenza nazionale, potrebbe essere più opportuno un ulteriore decreto che modifichi l’art. 7, perché il tempo già ristretto di sessanta giorni, previsto costituzionalmente per la conversione dei decreti in legge e periodo in cui vi è la possibilità di emendare, in questo caso può risultare inadeguato rispetto all’urgenza di contenere gli effetti irreversibili che la norma avrà prodotto nella realtà, attraverso l’esposizione di sanitari e pazienti a rischi di diffusione del contagio.
Lo stesso appello è stato sostanzialmente condiviso dalle principali organizzazioni sindacali degli operatori sanitari. Tutti concordano nel chiedere quanto meno una adeguata fornitura di dispositivi di protezione individuale e da più parti si chiede che il personale sanitario esposto al virus venga sottoposto obbligatoriamente a tampone e che il risultato sia prontamente disponibile. In caso contrario…

Gabriella Milea è avvocata, esperta di diritto costituzionale
Luca Giorgini è psichiatra e psicoterapeuta

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 27 marzo 

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Federico Ricci Tersenghi: Covid-19 e i cacciatori di tempo

BRISTOL, UNITED KINGDOM- MARCH 18: Internationally-renowned artist Luke Jerram with his coronavirus - COVID-19 - glass sculpture on March 18, 2020 in Bristol, United Kingdom. Made in glass, at 23cm in diameter, it is 1 million times larger than the actual virus. Luke says: "It is vital we attempt to slow the spread of coronavirus by working together globally, so our health services can manage this pandemic. This artwork is a tribute to the scientists and medical teams who are working collaboratively across the world to try to slow the spread of the virus. It's encouraging that governments are taking advice and guidance from scientists and are working together for the common good." (Photo by Finnbarr Webster/Getty Images)

Wuhan è stata la prima. Il 23 gennaio Pechino dispose la chiusura totale di tutte le attività produttive riducendo i servizi al minimo indispensabile, ma davvero minimo, imponendo il divieto alla cittadinanza di uscire di casa se non per mandare a fare la spesa ogni tre giorni una persona designata per nucleo familiare. Il prescelto, al supermercato, a distribuire il cibo, avrebbe trovato l’esercito. Con Wuhan fu chiusa l’intera regione dell’Hubei e posta in isolamento una popolazione di 58 milioni di persone. Poco meno di un mese dopo il Covid-19 è toccato alla Corea: in due settimane si passò da 200 contagi a oltre 7mila. Infine il coronavirus dopo essersi insediato a macchia di leopardo in diversi Paesi asiatici è arrivato in Occidente deflagrando, inarrestabile, nel nord Italia. Annichilendo due delle regioni più ricche e produttive d’Europa. L’Italia è stata la seconda a dichiarare il lockdown. Era la prima settimana di marzo. Sembra un’eternità. Alcuni giorni dopo l’Oms ha dichiarato la pandemia.

Mentre scriviamo le agenzie battono la notizia del rinvio dei giochi olimpici di Tokyo al 2021, i contagi nel mondo hanno superato quota 400mila, di cui 40mila in Spagna e 32mila in Germania. I morti nel nostro Paese sono quasi 7mila, se ne erano contati venti fino al primo marzo. Come è noto, non esiste ancora un vaccino e solo alcuni farmaci non specifici danno qualche risultato sui pazienti. Ma per molte delle persone che hanno gravi patologie pregresse il contagio causa crisi respiratorie spesso letali. Il virus in pratica prosegue la sua corsa senza trovare ostacoli.

Tuttavia a Wuhan ha rallentato, non si è ancora fermato ma ha rallentato. Tant’è che insieme alle tragiche notizie appena riportate c’è anche quella della “riapertura” dell’intera regione cinese epicentro della pandemia. Il lockdown ha funzionato ma il nemico invisibile è ancora vivo. Cosa possiamo fare? Come possiamo difenderci in attesa di una cura? Funziona il lockdown all’italiana? Per orientarci abbiamo posto alcune domande al professor Federico Ricci Tersenghi, ordinario di Fisica teorica alla Sapienza di Roma.

Qualcuno si chiederà sicuramente perché un fisico e non per esempio un biologo o un virologo? La risposta è semplice e complessa allo stesso tempo. E subito ci immergiamo in questo viaggio. «Perché allo stato delle cose, il tempo è la parola chiave» risponde Ricci Tersenghi che insieme ad altri fisici, tra cui Giorgio Parisi ed Enzo Marinari, e biologi come Enrico Bucci sin dai primi di marzo svolge una preziosa opera di informazione attraverso siti divulgativi e gruppi su Facebook appositamente creati dove interagiscono esperti da tutto il mondo. Inizialmente il loro lavoro si è concentrato sui modelli matematici di previsione e di espansione del coronavirus. In quei giorni come raccontammo su Left, osservando la curva di distribuzione dei contagi era evidente l’analogia con la situazione cinese di 36 giorni prima. Ma con i dati a disposizione era possibile prevedere anche il tempo di raddoppio dei decessi. Tutte informazioni utili che certamente hanno contribuito a spingere il nostro governo a prendere la scelta di seguire – seppur con dei distinguo notevoli – l’esempio cinese del lockdown.

A distanza di tre settimane ha senso utilizzare ancora il lockdown come unica misura di contenimento?
Uno strumento di mitigazione come il lockdown non blocca la pandemia, ma serve a guadagnare tempo per consentire di affrontare un nemico contro cui al momento non si è preparati: pochi sono immunizzati e non esiste vaccino. Tutto quello che stiamo facendo serve solo a rallentare il contagio, a posticiparlo.

Perché non lo si può fermare?
Perché per la caratteristica del virus esistono i contagiati asintomatici, persone che per 2-3 giorni non presentano sintomi. Sono questi il nostro tallone di Achille. Fino a quando non ci si concentrerà sull’intercettazione degli asintomatici costoro diffonderanno il virus ai loro contatti inconsapevoli e il Covid-19 continuerà a circolare. Anche per questo abbiamo abbandonato i modelli matematici di previsione. Cercare di calcolare quando all’incirca sarebbe arrivato il famoso picco dei contagi e iniziata la discesa verso la fine dell’emergenza poteva portare con sé un messaggio sbagliato. Dando l’idea che ci si sarebbe potuti rilassare, e invece purtroppo non ce lo possiamo permettere.

Ci sta dicendo che quanto fatto sin qui è stato inutile?
Non è questo il punto. Ci sono due elementi che vanno considerati. Da un lato c’è il distanziamento sociale, l’igiene accurata, l’uso doveroso della mascherina. Sono tutti nostri comportamenti individuali e sociali che ci fanno prendere tempo ponendo degli ostacoli tra noi e il virus. E poi c’è la velocità di intervento dello Stato attraverso il sistema sanitario. Oggi questa velocità in Italia è ancora carente.

Ci spieghi meglio.
Come dicevo, tutto ruota intorno agli asintomatici. Oggi in estrema sintesi, quando si ritiene di avere il contagio, la risposta che si ottiene è di restare a casa, stando lontano da altre persone e se la situazione peggiora allora si interviene. Il problema è che è troppo tardi. Quando i sintomi diventano manifesti quella persona ha già infettato qualcuno. Questo significa – e lo si vede anche dai dati che arrivano dalla Lombardia – che a livello istituzionale si pensa di risolvere il problema in ospedale quando il caso è grave. Ma noi il problema lo dobbiamo circoscrivere prima sul territorio, evitando quanto più possibile di doverlo affrontare in ospedale. Perché in questo modo il contagio non si fermerà mai.

Quando si dovrebbe intervenire?
Subito, il giorno stesso, non appena una persona manifesta sintomi che potrebbero essere riconducibili al contagio. Si fa il tampone per una verifica tenendo presente che se c’è la conferma il tampone non serve a combattere il virus. Il Covid-19 si vince se il tampone viene fatto immediatamente ai contatti che quella persona ha avuto nei 4-5 giorni precedenti. Perché in questo modo si avrà la possibilità di individuare un asintomatico prima che il virus di cui è portatore diventi sufficientemente aggressivo da potersi trasferire in un’altra persona e proseguire l’infezione.

Questo è il cosiddetto sistema alla coreana che ha permesso a Seoul di rallentare in breve tempo la diffusione dei contagi (e dei decessi) dopo un picco iniziale?
In linea di massima sì. Ma può essere implementato in diversi modi. La Corea è andata a cercare uno per uno tutti i contagiati e ha potuto farlo (e fare i tamponi alle persone con…

L’intervista prosegue su Left in edicola dal 27 marzo 

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Per evitare la catastrofe ospedaliera si deve subito intervenire sul territorio: facendo tamponi

Era evidente, poco dopo Codogno, che le cose nella bergamasca stavano mettendosi molto male. Perché non è stata subito decretata la zona rossa perdendo l’opportunità di spegnere il focolaio epidemico come a Codogno? Errori palesi che ora si pagano con migliaia di malati e centinaia di morti; una parte considerevole dei quali tecnicamente definibili come evitabili perché agendo diversamente non ci sarebbero stati. Al virus è stata anche regalata dalle autorità sportive una situazione ottimale di diffusione: la partita Atalanta-Valencia; solo per soldi. Ma soprattutto troppe le attività industriali rimaste attive con inevitabili grandi flussi di operai e impiegati. La bergamasca è una delle zone più ricche e industrializzate d’Italia ed è noto come una certa cultura e l’influenza dell’industria sulle istituzioni pubbliche territoriali sia fortissima e condizionante. Elementari le conclusioni. Sacrificabili sono i lavoratori e la stessa salute pubblica per chi non vede il reale ed è privo di sentimenti.

Vediamo qualche dettaglio. Il modello di sanità lombarda ha un baricentro tutto spostato sugli ospedali ed il privato a discapito di un fragile territorio. Drammatica la situazione negli ospedali di Bergamo e dintorni travolti da un enorme e costante flusso di pazienti gravissimi. Numerose, crescenti e convergenti da diversi giorni sui media locali e sui social le allarmanti notizie e pressanti richieste di aiuto da parte di medici di base e popolazione. Carenza di protezioni, farmaci e ossigeno ma soprattutto notizie di tantissime persone decedute a domicilio con problemi respiratori senza però essere riuscite a fare un tampone e ricoverarsi (e quindi ufficialmente non conteggiate come positive; invisibili). Il mondo sommerso ma reale di un iceberg. È così emersa una forte discrepanza tra i dati ufficiali di mortalità per il coronavirus e l’altissimo numero di decessi riferiti da social e media così come dal sindaco di Bergamo e di altri paesi che sanno della loro terra. L’unico modo per dirimere il dubbio è ricorrere ai dati di mortalità territoriale delle anagrafi cittadine; dati difficilmente disponibili in tempi rapidi.

Il 26 marzo è però uscito un articolo sul Corriere della sera i cui autori che, disponendo di questi dati, hanno chiarito alcuni aspetti della situazione del comune di Nembro estendendola, con risultati simili, anche ai comuni tra cui Bergamo. Pur necessitando qualche chiarimento sulle modalità di calcolo e pur non essendo una pubblicazione scientifica si riscontra un evidentissimo picco di mortalità territoriale (oltre il doppio degli anni precedenti) perfettamente sincrono a quello ufficiale ospedaliero e in buona parte molto verosimilmente attribuibile a polmoniti Covid non diagnosticate perché (vecchia storia ormai incancrenita) non è stato possibile fare il tampone.

La cosa costringe ad approfondire ed a rivalutare in peggio il reale impatto dell’epidemia e conferma il concetto, evidentemente non ovvio per tutti, che gli ospedali da soli, senza la protezione del territorio, non reggono l’urto pandemico. Tutti pensano ad aumentare i letti di TI ma contemporaneamente si dovrebbe fare in modo che meno persone ne abbiano bisogno e lo si può fare solo intercettandoli (facendo tamponi) e curandoli prima che il danno polmonare si estenda e costringa ad intubare; quando è più facile; sul territorio. Cade rovinosamente e pubblicamente il mito del modello lombardo della sanità. È il momento di cambiare strategia e pensare diversamente al territorio. Una informazione vitale, si spera colta, per il resto del paese; in Emilia-Romagna, in un recente focolaio a Medicina, stanno già iniziando.

Era nota la serissima situazione dell’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo ma la lettera di alcuni suoi medici, pubblicata dalla prestigiosa rivista scientifica New England Journal of medicine, è stato un altissimo grido di allarme e una drammatica denuncia di una situazione molto più grave di quanto supposto. «Il nostro ospedale è altamente contaminato e siamo molto oltre il punto di non ritorno» … «I pazienti più anziani non vengono rianimati»; una affermazione che lascia basiti detta nel 2020, in Lombardia anche se nel pieno di una pandemia. Una situazione da tempi di guerra che costringe alla terribile scelta di ricoverare in TI solo i pazienti con più probabilità di sopravvivenza. Come oggi in Spagna. Drammatico per i sanitari non poter garantire sempre standard adeguati di qualità e la devastante constatazione che l’ospedale stesso è diventato un formidabile strumento di diffusione del virus. Pesanti come montagne e vere le parole finali della lettera: «La catastrofe che sta travolgendo la ricca Lombardia potrebbe verificarsi ovunque». Un invito e un monito, drammatico, accorato e perentorio, alle altre regioni a tener conto della loro esperienza. Per evitare altre Bergamo.

Maria Edgarda Marcucci, «socialmente pericolosa per aver combattuto l’Isis»

Sarebbe interessante capire dove sta la linea di demarcazione che separa un’opinione semplicemente contraria da un’opinione ritenuta invece pericolosa. Allo stesso modo, sarebbe interessante capire rispetto a chi e a che cosa un’opinione considerata pericolosa possa rappresentare un rischio o addirittura una minaccia. In tempi in cui ci si appella alla libertà solo per garantire il corretto funzionamento del mercato, chiedersi fino a che punto si è liberi di esprimere il proprio dissenso non è un esercizio di retorica ma un’urgenza che diventa tanto più necessaria quanto più forte è il tentativo di reprimere ogni aspirazione a vivere in una società diversa.

Maria Edgarda Marcucci, la studentessa romana che tra il 2017 e il 2018 aveva combattuto in Siria a fianco delle Unità di difesa delle donne – l’Ypj – in sostegno della causa curda, per il Tribunale di Torino è «socialmente pericolosa». Per questo il decreto, emesso lo scorso 17 marzo, applica alla giovane attivista la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per i prossimi due anni, una misura di prevenzione che le impone di non allontanarsi da casa dalle 21 alle 7, di non accedere agli esercizi pubblici tra le 18 e le 21 e di non partecipare alle riunioni pubbliche. Infine, di «vivere onestamente, rispettare le leggi».

Come spiegato nel documento, a pesare sulla bilancia non sono stati tanto i singoli episodi quanto «un percorso di vita costantemente orientato in tal senso, incline a violare senza remore i precetti dell’Autorità». In particolare, sarebbe stata le recidività di Eddi durante l’intero periodo in cui si è svolto il procedimento giudiziario (cominciato nel gennaio del 2019) a gravare sulla decisione finale del tribunale, che ha invece assolto gli altri quattro combattenti che erano stati con lei in Siria. La partecipazione a due presidi pacifici e una manifestazione del 1° maggio dimostrano dunque la sua incapacità di modificare la propria condotta.

È evidente che un provvedimento di questo tipo non mira a punire Eddi per qualche reato commesso nello specifico, ma piuttosto per la sua adesione convinta a principi e valori che mettono radicalmente in discussione l’ordinamento esistente, espressa attraverso un atteggiamento, per l’appunto, “costantemente orientato in tal senso”. Sono gli stessi valori che l’hanno portata in Siria a combattere per la libertà del popolo curdo o a partecipare al presidio davanti alla Camera di Commercio di Torino, nel novembre scorso, contro la fornitura d’armamenti militari italiani alla Turchia – valori che una parte considerevole dell’opinione pubblica ritiene giusti.

L’imposizione della sorveglianza speciale nei suoi confronti solleva delle questioni importanti, che ora vengono oscurate dall’emergenza sanitaria in corso ma che non possono essere ignorate a lungo, sul diritto che hanno i cittadini ad esprimere una visione diversa delle cose. Contraria, forse. Per questo pericolosa? Ne abbiamo parlato con Eddi.

La richiesta della sorveglianza speciale suscitò molte polemiche ai suoi tempi, ora è arrivata la conferma ufficiale. Te l’aspettavi?
Più che altro speravo che i magistrati si rendessero conto di come questa decisione non avrebbe incontrato alcuna forma di consenso e che avrebbero quindi fatto un passo indietro, considerate le reazioni avverse dell’opinione pubblica durante l’intero procedimento. Ci sono stati momenti di grande partecipazione della società italiana all’intera vicenda, non solo attraverso una solidarietà nei nostri confronti che si è espressa da ogni lato, ma anche e soprattutto nei confronti della causa per cui eravamo lì a combattere, ritenuta giusta da moltissime persone. È evidente però che c’è una spaccatura profonda tra società civile e Stato, evidente nella valutazione finale da parte dei giudici. Una scelta che si pone in continuità assoluta con l’operato della polizia, che i magistrati non si sono sentiti di sconfessare. Salvaguardando in questo modo quella che di fatto è un’alleanza tra poteri che si garantiscono a vicenda. C’è una continuità di interessi affini che credo sia in netta contrapposizione con la volontà espressa a livello sociale.

Questa spaccatura vale soprattutto nel tuo caso o parli in generale?
Credo ci sia una differenza di atteggiamento tra istituzioni e società molto profonda a qualunque livello. Perché se penso a Lorenzo Orsetti penso a un partigiano, cioè una figura che rappresenta valori fondamentali per tantissime persone nel territorio italiano. Tante e tanti hanno ben chiaro in mente l’importanza di una scelta come la sua, persone che desidererebbero vivere in un mondo diverso, più proteso verso l’altruismo e meno individualista, dove l’impegno e la responsabilità nei confronti degli altri e della propria comunità contano davvero qualcosa. Questo è vero per uno spaccato di persone di una varietà incredibile.

Ne sei sicura? Spesso, senza volerlo, tendiamo a proiettare la nostra visione delle cose sugli altri…
Io ho avuto la fortuna in questo anno e mezzo, da quando sono ritornata dalla rivoluzione confederale, di partecipare a decine di incontri in tutto il territorio nazionale, dal piccolo comune alla grande città. Ho parlato con chiunque, individui di spaccati sociali molto differenti. È un tema che avvicina moltissime persone, perché mette in discussione la stessa forma di vita che caratterizza anche la nostra società, le sue storture e le sue ingiustizie, la sua miseria materiale e non solo. È un tema molto sentito dalla società italiana; non è così invece per lo Stato: nei confronti di Lorenzo ha speso a malapena un tweet e qualche parola di commiato.

Perché è grave questa spaccatura? Secondo alcune teorie la neutralità dello Stato rispetto alla società civile è un bene…
Perché poi chi deve decidere sulla vita degli altri – in questo caso i giudici, ma attraverso loro parla lo Stato italiano – non ha la capacità di percepire nulla di quel che si muove nella società, requisito imprescindibile per poter operare in nome di essa e non contro. La società si è espressa molto chiaramente in questa occasione, dal basso e non solo, dicendo che lo riteneva un provvedimento ignobile, nonché un insulto a tutte le vittime dell’Isis e dei fondamentalismi, un insulto a tutti i martiri e le martiri di questa guerra. Le forze siriane democratiche hanno sacrificato 11mila caduti per difendere, di fatto, l’umanità, perché i morti dell’Isis reclamano giustizia in tutto il mondo. Un po’ di giustizia le forze siriane democratiche gliel’hanno data, lo Stato italiano no. Anzi, dichiara l’impegno nella lotta al terrorismo ma è uno dei primi partner commerciali della Turchia, i cui legami con l’Isis e altre bande jihadiste sono acclarati.

Cosa ne pensi delle misure di prevenzione che ti sono state imposte per i prossimi due anni?
Le rifiuto. La sorveglianza speciale non si applica sulla base di un reato commesso da qualcuno, ma sulla predizione delle sue intenzioni supposte. Trovo inquietante il fatto che si vada a restringere la libertà di una persona a partire dalla previsione di un suo comportamento futuro – previsione formulata nel mio caso attraverso il giudizio di un pubblico ministero che si è formato solo sulle carte della polizia e nient’altro. C’è stata una pregiudiziale forte nel poter produrre dei materiali per la difesa. La pm Emanuela Pedrotta ha detto in luogo di udienza che riteneva superflui i materiali e le memorie prodotti dalla difesa perché erano sufficienti le carte della polizia in merito ai fatti. A volte neanche di fatti veri e propri si trattava ma solo di segnalazioni della mia o della nostra presenza in determinati luoghi, in cui semplicemente ha avuto luogo un presidio.

Cosa diresti a proposito della tua “pericolosità sociale”?
Per me è socialmente pericoloso il Tribunale di Torino, che tiene in carcere Nicoletta Dosio. Socialmente pericoloso, per esempio, è questo Stato che si permette ancora, dopo il tragico numero di vittime causate dal coronavirus, di scrivere decreti ambigui e controversi sulle norme di protezione nei confronti di chi continua a lavorare. Pericoloso è un tribunale che, per esempio, assolve uno stupratore perché la donna che ha aggredito non ha urlato abbastanza. Questo è molto pericoloso perché in Italia c’è un femminicidio ogni 72 ore e questa quarantena non può far altro che esasperare situazioni già di per sé molto complicate. Lo Stato italiano è molto pericoloso per la società italiana e non solo: penso agli accordi sui flussi migratori con la Turchia, ai rapporti commerciali e militari che intratteniamo con Ankara, alle bombe in Kurdistan, all’orrore in Libia, alla devastazione in Latino America.

Perché sei stata condannata solo tu?
Loro in qualche modo dovevano portare a casa il risultato, hanno pensato che probabilmente su di me potevano portarlo a casa più facilmente, perché faccio parte di una categoria di persone – quella delle donne – ritenuta più addomesticabile. Personalmente penso ci sia il perpetrarsi di una differenziale di genere, che è strutturale alla società in tutti i suoi livelli. I toni di questo dispositivo sono molto tarati sul comportamento della persona e le sue credenze. Chiaramente sotto processo ci sono sempre state le nostre idee e il nostro essere conseguenti con esse: si tratta di due visioni del mondo che si scontrano. Nella loro prospettiva, il fatto che sia una donna a non comportarsi secondo le aspettative e i dettami dello Stato risulta ancora più intollerabile.

Pensi dunque che il fatto di essere una donna abbia pesato sulla decisione finale?
Non è che lo penso: lo vedo e lo vivo tutti i giorni cosa significa essere una donna in Italia. Sono i fatti che dicono come lo Stato si comporta nei confronti delle donne, i numeri dei femminicidi e delle violenze (che sono solo quelle che conosciamo), per cui non mi sembra così strano che sia più inaccettabile che sia una donna e non un uomo a non stare al “proprio posto”. La violenza nei confronti delle donne – e di tutte le soggettività non conformi – viene perpetrata soprattutto attraverso un disciplinamento pervasivo da parte delle istituzioni, che cercano in questo modo di imporre delle identità normate. Ma questo non avviene necessariamente in ogni luogo: nella confederazione democratica del Rojava, la vita delle donne e della società tutta è molto diversa. In generale, si tratta di un sistema sociale migliore, che non lascia indietro nessuno, al contrario di questo che fa male a quasi tutte.

 

Non riuscire a salvare i salvatori

Foto Claudio Furlan - LaPresse 19 Marzo 2020 Brescia (Italia) NewsCoronavirus, dentro il reparto di terapia intensivaNella foto: il reparto di Terapia Intensiva dell’Ospedale Poliambulanza di Brescia Photo Claudio Furlan/Lapresse 19 March 2020 Brescia (Italy) Intensive care unit of the Poliambulanza hospital in Brescia

Sono morti 41 medici. 41. 6205 operatori sanitari contagiati. Più il personale che lavora in ospedale o in case di cura (su cui diventa difficilissimo trovare dati poiché fa molto meno notizia). Stanno morendo i salvatori. Siamo un Paese che non riesce a salvare i salvatori.

C’è questa lettera, dolorosa e importante, del segretario generale Fimmg (Federazione italiana medici di medicina generale) Silvestro Scotti:

«Questo dovrebbe far riflettere le istituzioni sanitarie: gli operatori sanitari vanno protetti e nessuno può sentirsi in pace con la coscienza se continua ad esporre il personale sanitario senza protezioni. È ormai evidente che per la medicina di famiglia il tempo sta finendo. Vogliamo sperare che la dematerializzazione delle ricette, il triage telefonico prima di ogni visita ambulatoriale o domiciliare, per noi e per i colleghi medici dei distretti specialisti, come tutte le soluzioni che stanno partendo compreso il consulto a distanza, il video consulto, le consulenze specialistiche telefoniche, possano servire a fermare questa strage. Purtroppo però ogni giorno mi chiedo se ho dimenticato qualcosa, se potevo pensare o agire, fare qualcosa di più. Sento forte questa domanda dentro di me e altrettanto forte il desiderio di continuare a cercare delle soluzioni. Voglio sperare dal profondo del mio cuore che questa stessa condizione riguardi tutti quelli che hanno più di me responsabilità direzionali e di governance a tutti i livelli e che soprattutto valutino se ognuno di loro ha fatto tutto quello che poteva per tutti gli attori della nostra sanità perché, se non fosse così, saremmo di fronte ad una strage di Stato».

Vale per i medici di base ma se ci pensate vale per tutti quelli che sono in prima linea. Veramente si vuole sconfiggere un virus non riuscendo a preservare coloro che sono in prima linea a combatterlo? Davvero ci dobbiamo accontentare degli striscioni? Davvero, per sapere.

Buon venerdì.

La voce del padrone

An employee of a health food fruit and vegetable shop, wearing a face mask, handles clients' goods from behind a plexi-glass protection on March 23, 2020 in the Flaminio district of Rome, during the COVID-19 new coronavirus pandemic. (Photo by Tiziana FABI / AFP) (Photo by TIZIANA FABI/AFP via Getty Images)

Ci sono due battaglie, contemporanee anche se trattate in modi dissimili: una sul campo (e il campo sono le strade che andrebbero liberate per rallentare il contagio) e una sulla politica, che poi la politica sarebbe le disuguaglianze da appianare e da sottoporre al Parlamento per trovare una giusta e rapida soluzione. E invece no, e invece il “nessuno rimanga indietro ai tempi del coronavirus” diventa una mantra che si ripete nelle dirette Facebook, quelle che hanno sostituito le conferenze stampa perché si evita quella pessima abitudine di dover rispondere alle domande. E intanto le macerie sociali oltre che sanitarie rimangono per terra e quasi tutti che ci passano sopra, quasi scavalcandole.

Partiamo dalla fine, dall’ennesimo decreto che avrebbe dovuto chiudere tutto e che lascia in giro per l’Italia, afferma il costituzionalista Enzo Di Salvatore «almeno 3,5 milioni i lavoratori ancora impegnati, dal 20% al 25% dell’intera forza lavoro del Paese ma le maglie larghe potrebbero far salire la quota anche al 35-40%». Lavoratori impegnati assiduamente a sfiorare il virus in nome del profitto e agli ordini di Confindustria terrorizzata dal dover rallentare prendendo coscienza di quello che accade intorno. Il premier Conte, sollecitato da alcuni presidenti di Regione, si è accorto che non avrebbe retto a lungo la narrazione che vedeva i corridori sotto casa come untori unici di un virus che sfugge da giorni a qualsiasi previsione ed è dovuto correre ai ripari ritirando fuori dal tappeto i lavoratori che sono costretti a operare in condizioni di insicurezza e a stretto contatto con la possibilità di contagio.

L’avevamo scritto in tempi non sospetti: l’imperativo di stare a casa rischia di risuonare come vuota retorica se non si permette di restare a casa alle categorie più deboli. E diventa impossibile pensare a una rinascita qualsiasi di una sinistra qualsiasi se non ci si rende conto che tra le categorie deboli ci sono tutti quei lavoratori sottopagati, sfruttati, non tutelati che continuano a vivere appena sopra alla linea di galleggiamento della sopravvivenza. Sono quelli che a differenza di molti altri non si possono permettere di fermarsi perché non possono perdere anche solo un giorno di stipendio che serve per arrivare alla fine della settimana o di pagare l’affitto. Sono gli stessi che per settimane, nonostante la favoletta del tutto chiuso hanno continuato a spostarsi in massa, secondo orari più o meno stabiliti, uno addosso all’altro nei mezzi pubblici, uno al fianco dell’altro a contatto con colleghi e senza nessun presidio medicale e poi alla sera, tornati a casa, hanno dovuto schivare gli affetti dei propri familiari.

Questi sono rimasti indietro. Sarebbe onesto riconoscerlo e ripartire da qui, ripartire da quella conferenza stampa di Conte che si è reso conto quanto sia un controsenso fermare un Paese scaricando la colpa di tutto ciò che accade sui cittadini e trattando solo le imprese (anzi, solo certe imprese) come interlocutori privilegiati. La reazione dei sindacati, Landini della Cgil in testa, dimostra che molti dei contatti sociali (pericolosi e evitabili) che hanno ammorbato questi primi giorni di chiusura sono stati dettati da associazioni di categoria appassionate più di profitto che di salute pubblica e la difficoltà di rendere operativo il decreto e tutte le critiche (da entrambe le parti) dimostrano che le tensioni sociali, così come le disuguaglianze, sono tutt’altro che appiattite. Nessuno resti indietro, dicono e ci dicono.

Lo dicono gli stessi compagni di questo governo che tentenna ad ogni sospiro di Confindustria e lo dicono quelli che hanno uniformato un’informazione che continua a tenere indietro un’infinità di categorie sociali.
Sono indietro i lavoratori, l’abbiamo detto, ma sono indietro anche i commercianti, i piccoli imprenditori, tutti coloro che hanno un’attività che gli è costata i risparmi di una vita e che ora vedono travolta dalle scartoffie burocratiche e dalle spese che il virus non ha bloccato, per ora. Sono indietro i poveri, poveri veri mica i poveri che ancora abitano nell’alme della dignità, quelli che hanno la strada come habitat naturale e che già prima del virus davano fastidio perché rovinavano il decoro. Sono indietro i carcerati, le migliaia di carcerati in attesta di una prima sentenza e che per il pensiero comune sono già colpevoli perché “se sono in carcere qualcosa di male avranno fatto di sicuro” e invece vivono in luoghi invivibili e vengono usati come carne da macello da una politica irresponsabile e cinica. Sono indietro le persone sole, mica quelle isolate come tutti, quelle proprio sole che dividono il proprio appartamento largo come un buco con se stessi e senza nessun appiglio per provare a vedere che colore ha l’affettività fuori dal mondo.

Sono lasciati indietro gli operatori sanitari: in un Paese normale il numero di medici e infermieri che sono risultati positivi al coronavirus dovrebbe accendere una rivolta popolare che invece rimane sopita dalla solita bugia delle vittime collaterali del virus. Sono indietro gli insegnanti costretti a inventarsi un metodo nuovo per garantire il prosieguo di un’attività che era già claudicante prima del virus e sono indietro gli studenti costretti ad abituarsi a un nuovo metodo che avrebbe dovuto essere introdotto nelle scuole già da anni ed invece è rimasta una promessa elettorale. Sono indietro le cassiere che operano nei supermercati, esposte ogni ora del giorno al contagio di chi per necessità si ritrova a dovere mangiare e loro malpagate a essere la mano che sfiora le altre mani, un avamposto che viene trattato come carne da macello.

Sono indietro gli operatori di call center che hanno il privilegio di potere rimanere nascosti negli androni di palazzi di cui non si può raccontare. Sono indietro gli operatori delle poste, aperte esattamente come prima, che da giorni emettono comunicati sindacali che descrivono una situazione allucinante. Sono indietro i migranti che nemmeno da malati riescono a esistere e anzi se si ammalano saranno il bersaglio perfetto per l’odio generalizzato. Sono indietro tutte le partite Iva che vivono sperando che i bonifici continuino ad arrivare e che le fatture che emettono abbiano ancora un senso. Sono indietro le donne vessate dai propri uomini che ora hanno di fianco tutto il giorno, spesso con i figli a fare da testimoni a situazioni indicibili. Sono indietro in tanti, tantissimi, con l’obbligo di raccontarli, di difenderli ogni giorno. E sarebbe l’occasione giusta per mostrare le disuguaglianze senza nasconderle dietro un semplice hashtag.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 27 marzo 

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La normalità era il problema

Urban concrete cityscape

Viviamo in un Paese in cui 18,6 milioni di persone sono a rischio esclusione sociale; 5 milioni vivono in condizioni di povertà assoluta (di cui 1milione e 200mila minori); 9 milioni in povertà relativa e 50mila vivono in strada; dove 4 milioni di lavoratori e lavoratrici nonostante abbiano più di un impiego (precario) restano poveri e il 27% del totale lo diventerebbe se perdesse tre mesi di stipendio; in cui oltre 40mila donne sono vittime di violenze fisiche e psicologiche; 11 milioni di persone non possono più curarsi e il 40% di quelle che lo fanno si indebitano; dove si registra il più alto numero di Neet in Europa coinvolgendo 2milioni 116mila giovani e in cui la dispersione scolastica è al 13,8%; dove la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo ci racconta di mafie che fanno affari per un valore di circa 110 miliardi l’anno con traffici, droga, usura, corruzione e altro. Questo prima che arrivasse l’epidemia di Covid-19. E ora che facciamo?

Le forze politiche che si sono alternate al governo negli ultimi 12 anni hanno praticato tagli in tutti quei settori pubblici di fondamentale importanza per uno Stato democratico. Si sarebbero dovuti mettere al centro i diritti fondamentali delle persone e – riprendendo l’art. 3 della nostra Costituzione – rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando la libertà e l’eguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la sua effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Ma la tragedia raccontata dai numeri evidenzia altre priorità.

In nome dell’economia in Italia si è affossato il Servizio sanitario nazionale e, con la scusa della riduzione del debito e della spending review, i governi hanno chiuso i rubinetti degli investimenti nella sanità pubblica aumentando dal 2009 al 2017 solo dello 0,6% la spesa sanitaria. Questo ha provocato la riduzione per la spesa del personale sanitario, il blocco del turnover, l’abbattimento di 70mila posti letto, la chiusura di 175 unità ospedaliere, e l’accorpamento compulsivo delle Asl da 642 negli anni 80 a 101 nel 2017. I tagli hanno raggiunto 25 miliardi di euro solo tra il 2010 e il 2012, seguiti da liberalizzazioni e privatizzazioni dei servizi pubblici, provocando l’esplosione della spesa privata che il Censis calcola in 40 miliardi di euro solo nel 2017. Lo stesso è accaduto al Fondo nazionale politiche sociali che…

Elisa Sermarini fa parte della Rete dei numeri pari

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 27 marzo 

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Cosa non si fa per negare a una donna il diritto di interrompere volontariamente la gravidanza

La pandemia Covid-19 ci ha fatto capire che l’ospedale, oltre che un luogo di cura, può essere un luogo di diffusione delle infezioni, che gli accessi in ospedale devono sempre essere ridotti all’indispensabile e che, in situazioni gravi come quella che stiamo vivendo, tali accessi devono essere limitati alle sole urgenze, per ridurre le possibilità di contagio. Le interruzioni volontarie di gravidanza sono urgenze, e i Centri Ivg continuano a lavorare anche in questa situazione difficile e complessa, come hanno fatto notare scandalizzati alcuni commentatori dell’ultima ora. Perché neanche la pandemia riesce a scalzare i preconcetti di una cultura che considera la differenza inferiorità e la medicina riproduttiva una branca per tempi di vacche grasse, preoccupata solo di soddisfare le richieste egoistiche di donnine capricciose e irresponsabili.

Se le interruzioni volontarie di gravidanza non possono essere rimandate, gli ospedali non possono però sopportare l’occupazione di posti letto che comporterebbe la procedura farmacologica se fossero rispettate le antiscientifiche indicazioni del ministero della Salute e del Consiglio superiore di sanità, che prevedono un ricovero ordinario della durata media di tre giorni. Sappiamo tutti come tali indicazioni ministeriali siano disattese, in primo luogo dalle Regioni che hanno previsto per questa procedura il regime di day hospital, ma anche dalle donne delle regioni “obbedienti” ai diktat ministeriali, la stragrande maggioranza delle quali firma la dimissione volontaria dopo l’assunzione del primo farmaco, e si ripresenta dopo due giorni per la somministrazione delle prostaglandine.

Nonostante ciò, in tempi di pandemia le possibilità di accedere all’Ivg farmacologica si riducono perché, in ogni caso, per l’aborto farmacologico sono previsti tre passaggi in ospedale, mentre per l’Ivg chirurgica gli accessi in ospedale possono essere ridotti a due. Dunque, in tempi di pandemia, al fine di ridurre l’impegno per l’ospedale e i rischi di contagio, si decide di sacrificare il diritto di scelta delle persone, osteggiando o bloccando l’accesso alla procedura farmacologica. È quello che sta succedendo a Lodi, Lombardia, esempio di come le preclusioni ideologiche – la paura infondata della banalizzazione dell’aborto e del conseguente aumento del ricorso a questa scelta – possano spingere a scelte organizzative e di politica sanitaria inappropriate e deleterie. Il nostro è l’unico Paese nel quale per l’Ivg farmacologica è obbligatorio il ricovero; nel resto del mondo la stragrande maggioranza degli aborti farmacologici viene espletata in regime ambulatoriale ed accedono in ospedale solo le donne – pochissime – che abbiano avuto complicazioni.

La sicurezza della procedura ha spinto molti Paesi a sperimentare servizi di telemedicina, con ottimi risultati. La stessa Food and drug administration statunitense, le cui linee di indirizzo furono il riferimento per le nostre nel 2010, dal 2016 «raccomanda» il regime at home per gravidanze fino a 70 giorni di amenorrea, perché è sicuro e richiede un minor numero di controlli, il che è un vantaggio non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista delle possibilità di contrarre infezioni legate all’ambiente sanitario. Recependo tali raccomandazioni, basate su una solida letteratura scientifica, la Regione Lazio, con determinazione n.G03244 nel 2017, dopo aver istituito uno specifico Tavolo tecnico, aveva approvato una sperimentazione per la Ivg farmacologica in regime ambulatoriale, che fu bloccata dalle proteste del fronte no-choice e dal veto ministeriale (la Regione Lazio era ancora in piano di rientro). L’ospedalizzazione ingiustificata di persone sane, quali sono le donne che decidono di interrompere una gravidanza non voluta, comporta un aumento del rischio di contrarre infezioni (non solo Covid-19), uno spreco di risorse economiche sempre più vitali per il nostro Sistema sanitario nazionale, nonché l’occupazione di posti letto che vengono sottratti a chi ne ha realmente bisogno.

Nell’ottica di limitare i rischi, si dovrebbe facilitare l’accesso alla Ivg farmacologica, eliminando la raccomandazione del ricovero ordinario, riducendo a due gli accessi in day hospital e ammettendo il regime ambulatoriale; riteniamo la scelta opposta, quella della limitazione o della soppressione, sconsiderata, inappropriata dal punto di vista della Sanità pubblica, nonché offensiva ed umiliante per le donne, volta solo a dimostrare che in Italia bisogna pensarci bene prima di abortire. È finalmente tempo che il ministero della Salute abbatta questa inappropriatezza, inaccettabile anche…

La ginecologa Anna Pompili fa parte dell’associazione medici italiani contraccezione e aborto (Amica), la ginecologa Mirella Parachini dell’Associazione Luca Coscioni conduce la trasmissione “Il maratoneta” su Radio Radicale

 

L’articolo prosegue su Left del 20 marzo 

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