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Ora più che mai è necessario reagire ai sonniferi che ci propinano

Non bisogna più aspettare, non c’è più tempo. Bisogna reagire a questi sonniferi che ci propinano in continuazione. E le possibilità, grazie alla nostra storia, ci sono. La mia è cominciata molti anni fa, nella Resistenza al nazifascismo. Mi sono anche opposta a Palmiro Togliatti. La sua responsabilità nella sconfitta della sinistra è stata non solo grandissima ma anche consapevole. Cioè lui sapeva che bisognava fermare qualcosa, e che solo fermando quel qualcosa, che poi era il pensiero e l’operato di Gramsci, c’era la possibilità di portare avanti “riforme”, al fondo, reazionarie, anti umane, che andavano contro le prospettive per il futuro. Faceva parte della sua politica cercare di controllare il pensiero degli altri. Era una cosa tremenda perché era difficile da combattere, molto difficile.

Quell’impostazione togliattiana in qualche modo ha reso possibile l’arrivo del renzismo. Gli ha aperto la porta, o meglio, è stato fatto un lavoro di sterramento per appianare la strada. Il risultato è che in questi anni ci siamo trovati un Matteo Renzi presidente del Consiglio e ad avere a che fare con il suo modo di fare politica.
Togliatti, ripeto, è stato deleterio per la sinistra perché non aiutava a pensare, a formarsi un pensiero critico autonomo. Non solo, addirittura chi lo faceva, passava per anti democratico. Ma se si blocca il pensiero, la possibilità di approfondire e di criticare, si impedisce qualsiasi forma di opposizione non solo concretamente ma soprattutto mentale. Questo allora era il problema vero. Oggi potrebbe sembrare un fenomeno di poca importanza invece così si fermava la ricerca e la speranza.

Quell’impostazione ti portava a pensare che a di là dell’esistente non si potesse andare, provocando un atteggiamento di rassegnazione. Insomma, era come se dicesse “State tranquilli, c’è chi pensa a voi, voi fatevi il più possibile gli affari vostri e lasciateci il campo libero”. Esattamente il contrario di quanto sosteneva Gramsci. La stessa dimensione di rassegnazione si ritrova oggi, quando si sente dire “speriamo che passi questa legge, speriamo che arrivi Renzi…”.

Se la storia della sinistra è andata così è anche perché c’è stata l’alleanza con la religione cattolica. È stata una cosa brutta e diseducativa, le conseguenze si vedono anche oggi, con questo papa che viene visto come uno che fa le lotte, un papa bravo. Ma non esistono papi bravi. Il papa è papa. Con Togliatti quindi è stata sancita anche la vittoria della religione senza che ce ne rendessimo conto. Allora come oggi pensare che la Chiesa possa essere alleata in una battaglia per l’emancipazione umana era il colmo, eppure la gente ci ha creduto.

Non capisco come Enrico Berlinguer che aveva una famiglia cattolica alle spalle, non ci pensasse: è una contraddizione in termini. Come faceva a non preoccuparsi? La religione riguarda il pensiero e il modo di affrontare i problemi della società. Ripeto, questa alleanza, blocca qualsiasi pensiero oltre a togliere qualsiasi consapevolezza, per cui uno che tenta di opporsi arriva a pensare di essere lui a sbagliare.

Ma oggi come uscirne? È questo il problema. Per noi che abbiamo vissuto la storia e la ricerca dell’Analisi collettiva e della teoria di Massimo Fagioli il giudizio su quello che è stato è chiaro. Ma non basta.
Il pericolo adesso è costituito da quelli che io chiamo falsi democratici, che agli occhi di molti non appaiono come tali. Il messaggio che passa è che non c’è da lottare per il cambiamento, c’è da fare un’operazione per acquietare le cose, per non creare sconquassi, perché in fondo, pensano, si può sopravvivere abbastanza bene! Questo atteggiamento ha fatto comodo a molti perché altrimenti si sarebbe trattato di riconoscere non solo gli sbagli ma le rinunce che sono state fatte. Renzi, insomma, ha fatto comodo a molti. E ci si abitua a tutto, alla notizia della fabbrica che chiude, alle trattative in corso, tanto la vita continua… Ma che facciamo, aspettiamo Godot?

Noi della sinistra, intendo noi che abbiamo una storia alle spalle e abbiamo realizzato dei cambiamenti epocali pensiamo che l’uomo e la donna abbiano la possibilità di cambiare. Cosa possiamo fare? Coinvolgere i giovani insieme anche a noi anziani. La nostra storia ha bisogno di iniezioni non solo di energia ma di coraggio, di fiducia, di certezza. E quindi di forza. Ci vuole un pensiero nuovo, ma non è un fatto miracoloso. È qualcosa che non nominiamo e poi domani, forse, accade. Bisogna avere i piedi per terra e pensare ai cambiamenti che vogliamo e che si possono e si devono fare.

La sinistra deve ricominciare a interessarsi ad alcune questioni fondamentali. La prima è la scuola. È un terreno pronto, ideale, e lo posso dire dopo tanti anni di lavoro. Certo, per il cambiamento le lotte devono essere fatte in tutte le sedi, ma la scuola è fondamentale. Perché quelli che una persona passa tra i banchi sono anni cruciali. Non solo. È come se la scuola adesso aspettasse idee. Se non rispondiamo ci prendiamo una grande responsabilità perché i giovani sono quelli che ci rimetterebbero di più.

Dobbiamo pensare alle nuove generazioni e a che cosa gli possiamo lasciare. Per farlo dobbiamo partire dalla realtà e dalle sue contraddizioni per poi trovare le soluzioni. Cercheranno di dirci che tutto è difficile, perché si tratta di cose complesse, ma quante cose complesse abbiamo visto nella storia dell’umanità e nelle storie individuali? Le abbiamo affrontate sempre, basta che ci sia una consapevolezza di operare umanamente e concretamente, rifiutando ciò che è disumano, è la paura che blocca.

Centrale è anche la questione delle donne, sembriamo emancipate, ma non è vero del tutto. Certo, molte cose sono cambiate, ma il rapporto tra l’uomo e la donna ancora oggi è un rapporto monco, chi ci rimette e rimane emarginata è sempre lei. Qui non si tratta di ripetere le battaglie femministe. Si tratta di lasciare agli esseri umani la possibilità di vivere in quanto uomo o donna, ognuno con la propria identità, qualsiasi sia il lavoro che fanno. Bisogna fare uno sforzo per trovare la strada e i sistemi per modificare la società con pieno rispetto della realtà umana.

Ora non si tratta più di fare battaglie epocali specialmente per noi donne, ma di acquistare una propria identità, imparando a saper fare dei rifiuti. A vedere bene, infine, questo è un momento molto bello perché c’è tutto da costruire e le possibilità ci sono. Oggi, c’è già una realtà in cui ci sono tanti segnali, tanti fermenti, fatti sociali che sono avvenuti. Dobbiamo solo muoverci subito ognuno per sé stesso e collettivamente.

da Left n. 22 del 3 giugno 2017

E i Centri per il rimpatrio nemmeno funzionano…

Foto Daniele Leone / LaPresse 07/09/2014 Roma, Italia Cronaca Protesta al Cie di Ponte Galeria: immigrati sul tetto gridano "Liberi, liberi". Fuori della struttura una manifestazione di solidarietà. Ponte Galeria Photo Daniele Leone / LaPresse September 07, 2014 Rome, Italy News Protest at the CIE of Ponte Galeria: immigrants on the roof shouting "Free, free." Outside of the structure a demonstration of solidarity. Ponte Galeria

In questo numero di Left documentiamo le numerose violazioni dei diritti umani compiute all’interno dei Centri di permanenza per il rimpatrio, veri e propri luoghi di sospensione del diritto contrari allo spirito (e alla lettera) della Costituzione. C’è però un altro aspetto sorprendente della questione, ed è il fatto che queste strutture sono inefficaci rispetto al loro obiettivo dichiarato: dati alla mano, si può dimostrare infatti che i Cpr non servono affatto – come comunemente si crede – ad espellere i migranti irregolari. In altre parole, anche chi condividesse un’ottica repressiva ed espulsiva dovrebbe convenire che la detenzione nei Cpr è uno strumento inefficace, un’arma spuntata.

I dati Il 17 aprile 2019, Vladimiro Polchi pubblicava su Repubblica i dati relativi all’efficacia dei «centri» negli ultimi venti anni, dal 1999 ad oggi. Le cifre vanno prese con una certa cautela, perché il ministero dell’Interno – la fonte delle informazioni di Polchi – fornisce numeri diversi e contraddittori: solo per fare un esempio, per l’anno 2018 il giornalista riporta 3.697 immigrati transitati nei Cpr, mentre secondo il Rapporto Idos (la cui fonte è sempre il Viminale) gli sfortunati «ospiti» dei centri sarebbero 4.092.

Può sembrare incredibile, ma quando si parla di immigrazione è sempre molto difficile avere dati statistici esatti ed accurati: dobbiamo accontentarci dunque di ragionare su ordini di grandezza e non su numeri precisi. Il quadro che emerge è comunque significativo, e lo dimostrano proprio i dati del 2018: nei Cpr sono transitati – lo abbiamo visto – poco meno di 4mila stranieri, una cifra risibile rispetto ai circa 500mila irregolari stimati dall’attuale presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo.

Ma c’è di più: di quei 4mila detenuti, solo il 45% (meno della metà) ha dovuto affrontare il viaggio di ritorno al Paese di origine. Nella maggioranza dei casi, gli “ospiti” dei Cpr sono stati…

L’inchiesta prosegue su Left in edicola dal 31 gennaio

SOMMARIO

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Ritratto di un’Italia che non vuole cambiare

Il copione è sempre lo stesso. I partiti e i politici lottano per ottenere le poltrone, senza esclusione di colpi, usando indifferentemente mezzi leciti e illeciti. Durante questa battaglia, tutto si ferma e, in un momento di particolare difficoltà per l’Italia, la situazione diventa sempre più drammatica nell’indifferenza totale. L’Italia purtroppo è stata data in mano, per la misera illusione di tentare un cambiamento, per ribellione, o per qualsiasi altro motivo, a gente che non sarebbe in grado di gestire neanche un piccolo negozio di provincia, figuriamoci un Paese complesso e contraddittorio come il nostro. Nel frattempo mafie, corruzione ed evasione fiscale, le uniche realtà attive continuano a prosperare.

Ci si affida ai vaniloqui e alla sete di potere di gente che, in molti casi, non ha mai lavorato e che si trova, all’improvviso e senza il minimo merito, ad avere ruoli decisionali che non è in grado di assolvere. Questa è l’Italia che non cambia mai, neanche quando si pensa potrebbe farlo. Il potere una volta entrato in circolo corrompe e schiavizza. È come le droghe pesanti, spesso una volta provate non se ne può più fare a meno e si diventa approfittatori, furbi e parassiti. Non può cambiare perché ogni blocco di potere si muove sempre in direzione opposta e contraria. Perché chi arriva al potere tutela prima se stesso, poi i suoi familiari, i suoi amici, mai il cittadino.

L’Italia non può cambiare perché il patto tra lo Stato e le mafie è così evidente da essere sotto gli occhi di tutti ma nessuno vuol vederlo o ammetterne l’esistenza. L’Italia non può cambiare perché chi parla ai giovani, lo fa per vendergli l’ennesimo sogno che poi si trasformerà in inganno e sarà con precisione assoluta disatteso.

L’Italia non può cambiare perché ha sacrificato sull’altare degli interessi personali le sue menti migliori (dai suoi magistrati, fino ai suoi cittadini più onesti). Un sacrificio sull’altare del potere e del voto di scambio. Un patto ambiguo che infetta Region, Province, Comuni, istituzioni pubbliche e private. È il patto elettorale scellerato che porta politici corrotti al potere e denaro nelle casse delle organizzazioni criminali.

L’Italia non può cambiare perché, troppo spesso, chi avrebbe la possibilità di cambiarla è colluso, complice, porta in tasca la tessera di un partito, di una lobby, di un gruppo di potere. Come possiamo educare ed essere di esempio a un ragazzo e insegnargli l’etica, la morale? Come può cambiare un Paese che ha messo da parte il concetto di giustizia sociale – tanto anelato da Sandro Pertini – credendo che l’unica giustizia sia l’assunto che il potere logora chi non ce l’ha?

Non è ponendo al centro dell’esistenza umana potere e denaro che prospera una Nazione. Un paese cresce nella cultura, nell’educazione, nella scuola, nella ricerca, nei buoni esempi con i quali s’insegna che essere onesti conviene e non il contrario. Perseguire la giustizia sociale e abbattere il divario che separa il ricco dal povero, questo dovrebbe essere il compito primario dello Stato democratico di matrice solidaristico sociale come il nostro. Se ciò non accade, vuol dire che siamo dinanzi ad uno pseudo Stato e ad una pseudo democrazia.

L’Italia non può cambiare perché quando si discute di legge elettorale, lo scopo non è mai la sovranità popolare ma sempre la tutela di un interesse di partito, del pacchetto di voti, del proprio io. Non può cambiare perché nell’ultimo mese abbiamo avuto un magistrato che ha provato a colpire i poteri forti in Calabria, ma pochi giorni dopo in quella stessa regione ha vinto il partito che aveva tra i suoi fondatori un mafioso.

Non può cambiare perché la legge elettorale con la quale abbiamo eletto gli ultimi due Parlamenti era incostituzionale eppure il Parlamento ha dato la fiducia a cinque Presidenti del Consiglio ed eletto due Presidenti della Repubblica. Non può cambiare perché noi italiani non abbiamo una visione a lungo termine ma tiriamo sempre a campare. Non può cambiare perché se la disoccupazione giovanile tocca picchi altissimi non c’è futuro per nessuno. Non può cambiare perché nessuno si assume la responsabilità di questo disastro, è sempre colpa del Governo precedente. Non può cambiare perché nessun politico, nessun partito ha pensato alle generazioni prossime.

Non può cambiare perché per cambiare bisogna essere onesti e liberi e poiché mancano gli esempi positivi, la cultura, i valori di uguaglianza e di libertà. Noi italiani, onesti e liberi non lo saremo mai, perché in fondo non vogliamo cambiare e stiamo bene anche se rimaniamo sull’orlo di un precipizio.


* Vincenzo Musacchio, giurista, è professore associato per il Diritto penale alla School of Public affairs and administration della Reuters university di Newark

Per loro è giusto solo se funziona

Foto Stefano Cavicchi/LaPresse 27/01/2020 Bentivoglio, Bologna - Italia politica Elezioni Emilia Romagna - Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni in conferenza stampa per commentare i dati elettorali. Nella foto: Matteo Salvini, Lucia Borgonzoni Photo Stefano Cavicchi/LaPresse January 27, 2020 Bentivoglio, Bologna - Italy politics Emilia-Romagna Regional Elections - Press conference Matteo Salvini and Lucia Borgonzoni. In the pic: Matteo Salvini, Lucia Borgonzoni

C’è una coda interessante alle ultime elezioni regionali che si sono volte in Emilia Romagna: dalle parti della Lega continuano a dirci che hanno vinto eppure fioccano le analisi della sconfitta. Poco male, a sinistra sono secoli che si ripete la stessa scena.

Però l’aspetto più curioso e mortificante è che non si sta discutendo che le proposte politiche non fossero giuste o che non siano state capite ma si discute dei gesti del candidato (nel caso della Lega dei gesti di Salvini visto che la Borgonzoni era un ologramma a uso e consumo del leader leghista) e dell’impatto che quei gesti hanno avuto nei sondaggi.

Mi spiego: ieri in molti tra gli amici dell’ex ministro dell’inferno hanno contestato la scena del citofono (ve la ricordate, vero? Facciamo che non la ripetiamo per non insozzare il buongiorno, dai, su) perché non avrebbe funzionato. Capito bene? Il problema non è che sia stata una mossa sbagliata perché contro i principi di democrazia e di rispetto, no, è stata sbagliata perché ha fatto perdere voti.

Allo stesso modo a sinistra si è discusso di Bonaccini, della sua barba e dei suoi occhiali.

Sono convinto che se gli elettori potessero ascoltare le riunioni strategiche o le chiacchiere al cesso delle grandi menti delle campagne elettorali il prossimo presidente del consiglio sarebbe un cactus eletto in un partito per la liberazione degli olii minerali.

Questi continuano a usare la politica come marketing e infatti riescono a partorire leggi che sono utili come una sorpresa dentro l’uovo. Non c’è nulla di serio, di morale, di studiato, niente di niente. Per questo poi accade che una giovane ex eurodeputata che semplicemente studia e prende appunti e ama fare politica come Elly Schlein improvvisamente svetti in mezzo al deserto generale.

Fanno politica semplicemente perché i campi di calcetto erano tutti occupati. Ma con lo stesso spirito.

Evviva, dai. Buon giovedì.

Sandro Pertini, uno di noi

L’averlo conosciuto, visto, ascoltato è stato un privilegio che soltanto una anagrafe compiacente ci ha riservato. E quando a quindici anni mi ritrovai al Bar dello Sport a due passi da piazza Aranci insieme a chissà quanta altre persone, come se fossimo sulle gradinate del Santiago Bernabéu, erano le otto di sera dell’11 luglio 1982. Da li a poco Arnaldo César Coelho avrebbe fischiato l’inizio di Germania-Italia la finalissima del campionato del mondo. Si respirava un’aria densa di tensione e di speranza perché anche il calcio sa regalare emozioni forti e quelli erano anni in cui la voglia di ritrovar sorrisi da condividere dentro il diventare realtà di sogno collettivo ci fece stringere vicini vicini con gli occhi piantati dentro il piccolo schermo delle prime TV a colori e con le dite incrociate. Il primo tempo passò tra sussulti e imprecazioni quando al 25’ il bellissimo terzino azzurro poco più che ventenne Antonio Cabrini ciabattò un rigoraccio che finì fuori dalla porta teutonica. Roba da infarto. Tutta la magia di quella notte infinita scoccò nel secondo tempo e fu un crescendo di emozioni, di urla, di abbracci e lì, quella sera, se mai ce ne fosse stato bisogno, trovammo la spiegazione del perché il “nostro” presidente Pertini fu il più amato dagli italiani. Al 12’ del secondo tempo Pablito Rossi la buttò dentro alle spalle del portierone tedesco Schumacher, follia collettiva e in tribuna il Presidente cominciò a scalpitare impertinente, spontaneo, diretto, adorabile, ineguagliabile ed ineguagliato. Ma non era finita. Trascorsero altri dodici minuti e lo stinco del numero 14 azzurro fece due a zero; e mentre Tardelli galoppava urlante a braccia aperte in mezzo al prato, sugli spalti il Presidente si dimenticò del protocollo (che lo avrebbe voluto sorridente e composto) e balzò in piedi come tutti noi, perché Pertini era uno di noi, in una gioia incontenibile dentro una bolgia incredibile e un tripudio di tricolori al vento.

In quel momento, orgogliosi di essere italiani e orgogliosi di avere un partigiano-presidente che a quella bandiera aveva donato tutto se stesso, ci riversammo come un fiume in piena nelle strade e nelle piazze a festeggiare tutti insieme. A festeggiare nello stesso modo con cui, dopo l’umiliazione criminale del ventennio fascista che portò l’Italia in guerra riducendola in miseria, il 25 aprile del 1945 Sandro Pertini fu festeggiato entrando a Milano che lui stesso a capo del Comitato di Liberazione nazionale aveva contribuito a liberare insieme a Ferruccio Parri ed altri partigiani. Per regalarci così, grazie alla Resistenza, un’Italia finalmente liberata, democratica ed antifascista. Sandro Pertini per la sua storia privata e pubblica, per il suo rigore morale e il suo essere un “combattente” per la democrazia e uno strenuo difensore della Costituzione raccolse in vita una profondissima stima diffusa e trasversale al punto che anche un (ex?) fascista e uomo di destra come il giornalista Indro Montanelli scrisse sul Corriere della sera del 27 ottobre 1963: “Non è necessario essere socialisti per amare e stimare Pertini. Qualunque cosa egli dica o faccia, odora di pulizia, di lealtà e di sincerità”.

A quel tempo invece, non era ancora nato il giovane consigliere comunale leghista di Massa, che seppur tardivamente (e sommerso dalle critiche) ha pure chiesto scusa dopo aver scritto di Pertini in un suo post (poi rimosso) che «lo stesso Sandro Pertini capo partigiano che uccise una marea di persone accusate di essere fasciste…». Ed ancora: «Lo stesso Sandro Pertini che annunciò di essere un “brigatista rosso». E non era nata nemmeno la Lega Nord (quella secessionista che col tricolore ci si puliva il c**o), quando il presidente-partigiano divenne il “più amato dagli italiani”. Ma che dire delle esternazioni del giovane consigliere comunale leghista di Massa? Che non sempre la veemenza giovanilistica corrisponde a quell’entusiasmo che, in politica, deve animare il mettersi al servizio degli altri con passione ed intelligenza. E questo è il suo caso.

A lui, prima di ogni altra cosa sarebbe servito un “misuratore” del senso del limite e del buon gusto. Così come gli sarebbe servita quell’umiltà propria dell’ultimo arrivato utile a calibrare al meglio il delicatissimo equilibrio tra lo starsene zitto e il proferir scempiaggini. Ed infine, ma non per ultimo, potrebbe sforzarsi di trasformare la propria ignoranza in una opportunità per studiare e, soprattutto, per crescere. Ma dovrebbe anche avere il coraggio di dimettersi. Com’è noto, ce lo ricorda l’articolo 54 della “nostra” Costituzione: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore…”. A lui e solo a lui spetta questa decisone senza però dimenticare il monito di Socrate: «È sapiente solo chi sa di non sapere, non chi s’illude di sapere e ignora così perfino la sua stessa ignoranza». A tutti gli altri il compito di difendere la nostra storia dando valore alla memoria e, soprattutto, creando esemplarietà proprio come diceva Sandro Pertini parlando delle ragazze e dei ragazzi: «I giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo». Parafrasando il «campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo» di Nando Martellini …facciamolo, facciamolo, facciamolo!

Maurizio Bonugli, Laboratorio politico Left Massa-Carrara

La giustizia sociale e il grande inganno della meritocrazia

La democrazia si fonda sul principio di uguaglianza, cioè sul riconoscimento a ognuno di uguali diritti e doveri. Tuttavia questa enunciazione formale non determina una reale parità fra cittadini per l’intervento di altri elementi ostativi, come il diverso ceto di provenienza. È evidente infatti come a fronte di un diritto uguale per tutti, possano intervenire fattori esterni capaci di condizionarne il godimento: così laddove è riconosciuto formalmente a tutti il diritto allo studio, sussistono differenze nelle reali possibilità di goderne in uguale misura tra chi ha un reddito o un patrimonio tale da poter impegnare tempo e risorse nella propria formazione e chi invece questa possibilità non ce l’ha, stretto dalla necessità di percepire un reddito o alleggerire il peso del proprio sostentamento sulle spalle della famiglia di provenienza.

Si tratta di una condizione che era ben presente ai membri dell’Assemblea costituente, che dopo aver enunciato il principio di uguaglianza quale cardine su cui si fondava la nuova Repubblica, avevano previsto anche un impegno pratico, un compito concreto cui lo Stato era chiamato, nella seconda parte dell’art. 3: È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Eppure in Europa e negli Stati Uniti il mito della crescita infinita e della mobilità sociale aveva illuso molti, nel trentennio successivo al secondo dopoguerra, definito “glorioso” dall’economista francese Thomas Piketty, che tali discrepanze sarebbero state gradualmente diminuite, fino ad essere assorbite dalla progressiva crescita sociale dei ceti più deboli, con i figli destinati a guadagnare una qualità della vita migliore di quella dei propri genitori. In Italia in particolare, con il boom economico, molti pensarono che il conflitto fra classi sociali sarebbe stato sedato dal progressivo miglioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici.

Un mito, quello della crescita infinita, che si scontra con le ripetute crisi finanziarie globali: difficile ipotizzare che sia un caso che i “gloriosi trent’anni” di cui parla Piketty terminino quasi in perfetta coincidenza con la crisi inflazionistica del 1974, dovuta all’aumento del prezzo del petrolio. D’altronde anche un rapporto Unicef del 2014 dimostrava come la crisi economica del 2008 avesse determinato nei cosiddetti “Paesi ricchi”, una diminuzione del benessere dei bambini rispetto a quelli della generazione precedente. I numeri dunque restituiscono l’immagine di un sistema non solo incapace di creare ricchezza continua, ma anche inefficiente quando si tratta di distribuire la stessa all’interno dei singoli sistemi-Paese.

I dati raccolti da Istat e Ocse circa la mobilità sociale in Italia non sono confortanti: l’elasticità di guadagno intergenerazionale, cioè la possibilità che i figli guadagnino quanto i propri genitori, risulta molto elevata, tanto che passare da una fascia di reddito bassa ad una media potrebbe rendere necessario l’impiego di cinque generazioni nel corso di cento anni. Uno studio degli economisti Guglielmo Barone e Sauro Moccetti, pubblicato sul sito della Banca d’Italia, descrive una situazione ancora più cristallizzata: prendendo in esame i dati disponibili per la città di Firenze sin dal 1427, i patrimoni familiari sarebbero pressoché invariati da addirittura seicento anni, circa venti generazioni, con una certa tendenza di avvocati, banchieri, medici, farmacisti e orafi ad avere discendenti che praticano il loro stesso mestiere, l’accesso al quale è invece più difficile per discendenti di famiglie collocate in un ceto sociale più basso.

Questa scarsa mobilità sociale incide negativamente non solo sulla democrazia reale, impedendo di fatto che tutti godano effettivamente dei diritti garantiti dalle costituzioni democratiche, ma anche sul sistema economico, limitando fortemente la possibilità di elementi validi ma di estrazione sociale medio bassa, di ricoprire ruoli nei quali sarebbe maggiore l’apporto garantito al progresso collettivo: un fenomeno che finisce per frenare lo sviluppo quasi in ogni campo e che si pone in totale opposizione a quel “pieno sviluppo della persona umana “ cui ogni sistema dovrebbe tendere. Anche nel campo della cultura e della creatività c’è chi lancia l’allarme: Tiziano Bonini, autore radiofonico, scrittore e ricercatore in Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso il dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive dell’Università di Siena, ha denunciato la presenza di «una classe che continua a produrre simboli, rappresentazioni del mondo, opinioni, narrazioni e una classe che le consuma, senza avere accesso ai mezzi di produzione». E quale sarebbe l’elemento distintivo fra queste due categorie? Ancora una volta la provenienza da famiglie che vivono in zone urbane, colte e con maggiore disponibilità economica, che permette ai più ricchi di formarsi, fare esperienze all’estero, partecipare a stage non retribuiti presso industrie culturali (case editrici, giornali, radio, tv) e rende la cosiddetta “gavetta” non più solo un dovere, ma un vero privilegio che, come tale, è riservato a pochi.

Questo aspetto non dovrebbe essere sottovalutato dalle forze progressiste che dichiarano di volersi far carico dell’elevazione morale e materiale della “working class”, contrapponendo al privilegio la meritocrazia, invocata quale panacea di tutti i mali. È evidente infatti come, sebbene la meritocrazia rappresenti un valore irrinunciabile, essa si riveli un grande inganno se chi misura l’ordine di arrivo non ha vigilato che le condizioni di partenza siano state le stesse per tutti. Se studiare è più facile per chi proviene dai ceti più abbienti, è facilmente prevedibile chi sarà ad ottenere i risultati migliori, in minor tempo, presso istituti di maggior prestigio. In Italia fu proprio il primo segretario del neonato Partito democratico, Walter Veltroni, a denunciare in apertura di un congresso la “rottura dell’ascensore sociale”: peccato che poi le scelte politiche dei i governi sostenuti dal Pd non abbiano mai dato in merito segni di sostanziale discontinuità rispetto alla destra, con la suddivisione fra chi ha maggiori possibilità di successo e chi non le ha che non è stata nemmeno scalfita.

Un aspetto che sembra permeare la vita di ognuno sin dai primissimi passi, come dimostra l’episodio che ha visto la scuola elementare IC di Via Trionfale a Roma presentare il proprio istituto dividendo in distinte classi sociali i bambini che frequentano le diverse sezioni, descrivendo quali siano quelle frequentate da professionisti e quali quelle con una maggiore presenza di bambini appartenenti a famiglie immigrate. Tutto ciò contribuisce a costruire una visione della società, dei modelli economici e della convivenza, imperniata sull’assunto che il successo rappresenti di per sé un elemento meritocratico, senza alcun riguardo verso le difficoltà che le classi svantaggiate devono affrontare per arrivare allo stesso punto sul traguardo, con una distorsione della realtà che arriva ad imputare l’insuccesso come una responsabilità di chi non ce la fa, non è competitivo, è incapace di adeguarsi agli standard richiesti o non ha voluto investire su sé stesso, anche quando, semplicemente, non era nelle condizioni di poterlo fare.
Ripartire dal riconoscimento delle diverse condizioni di partenza e impegnarsi nella rimozione degli ostacoli reali che incontra chi non proviene da una famiglia agiata, colta, in grado di sostenere ogni legittima aspirazione di miglioramento, è il dovere principale di chiunque oggi voglia rappresentare le istanze progressiste: per essere di sinistra non basta richiamarsi a valori come tolleranza e accoglienza, se non si comprende che sono figlie di questa visione anche le aberrazioni che spingono a vedere nella povertà una colpa, producendo ordinanze che vietano l’accattonaggio o multano chi rovista nei cassonetti, come se chi è costretto a farlo fosse nelle condizioni di poter pagare la propria indigenza.

Non mettere questo aspetto al centro della propria azione politica sarebbe invece funzionale soltanto a chi trae vantaggio dalle disuguaglianze, per speculazioni economiche o politiche, fondate sulla stigmatizzazione di chi rimane indietro che, nel migliore dei casi approdano a soluzioni assistenzialistiche che poco si discostano concettualmente dall’elemosina del ricco verso il povero, mentre nel peggiore finiscono con la demonizzazione di chi non ha nulla, vissuto come una minaccia per chi invece ha una posizione privilegiata, fosse anche di pochissimo. Rinunciare al contributo di quanti, per origini o vissuto, a parità di talento sarebbero in grado di garantire un approccio meno conforme alle cose e portare una sensibilità arricchita da un’esperienza diversa, sarebbe una responsabilità gravissima per chiunque creda ancora nell’idea di progresso collettivo e democrazia. Una responsabilità che, al netto di ogni valutazione legata al concetto stesso di giustizia sociale, non possiamo più evitare di assumerci.

Fabrizio Moscato è il direttore del festival Liberi sulla carta

Le epidemie nella storia umana: la peste di Atene

Il virus cinese sta spaventando il mondo, si teme una diffusione pandemica. Si torna a parlare delle epidemie storiche, da quelle del secolo passato a quelle dell’antichità.
Uno dei principali fattori del calo demografico di un popolo in certi periodi storici avvenne per il gran numero di morti sui campi di battaglia e nelle città assediate o quelli deceduti a causa di un’epidemia. Se i due eventi malefici avvengono contemporaneamente è una catastrofe.

A proposito delle rievocazioni della prima guerra mondiale (1915-18) a cento anni da quegli avvenimenti bellici con il loro carico di distruzioni e perdita di vite umane, devono essere ricordati quanti perirono per la diffusione dell’influenza detta “spagnola”. Nell’autunno del 1918 mentre si stipulavano gli armistizi fra vincitori e vinti si ebbe l’acme della letalità di quel terribile virus influenzale diffusosi già nei mesi precedenti. Quell’anno fu definito horribilis perché il virus influenzale interessò sia i Paesi in guerra che gli altri e molti ritennero che ciò condizionò anche l’esito del conflitto perché numerose giovani vite, colpite dalla malattia, morirono e determinarono alcune sconfitte. Complessivamente quell’influenza provocò 40 milioni di morti, la più grave epidemia che abbia colpito il mondo in epoca storica recente.

Queste notizie riportano alla mente una famosa guerra dell’antichità, quella del Peloponneso (431-411 a. C.) fra Sparte e Atene, quando ai morti caduti in battaglia si aggiunsero quelli di un’epidemia ricordata come “la peste di Atene” (anche se moderni studi hanno stabilito che si trattò di tifo, o di altra malattia virale). Un narratore di eccezione di questo lungo conflitto fu lo storico greco Tucidide che lo descrisse cominciando fin dall’inizio quando «previde che sarebbe stata importante, la più notevole tra le precedenti». Lo deduceva dalla preparazione dei belligeranti, e dal fatto che «vedeva il resto dell’Ellade unirsi agli uni o agli altri; parte immediatamente; parte nelle intenzioni». Convinto che scrivere storia del passato fosse difficile per mancanza di documenti sicuri, preferì scrivere su una guerra di cui fu contemporaneo.

Nel Proemio dell’opera getta le basi della moderna storiografia scientifica, si addentra nell’analisi comparativa delle testimonianze, grazie al quale cerca di arrivare alla più esatta ricostruzione critica degli avvenimenti: «Quanto ai fatti veri e propri svoltosi durante la guerra, ritenni di doverli narrare non secondo le informazioni del primo venuto, né secondo il mio arbitrio, ma in base alle più precise ricerche possibili su ogni particolare, sia perciò di cui ero stato testimone diretto, sia per quanto mi venisse riferito dagli altri». Altrettanto rigorose sono le sue dichiarazioni programmatiche all’inizio della descrizione della peste ateniese che colpì per primi gli abitanti che vivevano presso il porto del Pireo.

Pericle diede l’ordine di far rifugiare gli ateniesi e gli abitanti dei borghi vicini dentro le mura di Atene. La sovrappopolazione e la scarsa igiene causarono la diffusione della pestilenza. La propagazione del morbo fu senza eguali. Prima di descrivere questa calamità lo storico premette: «Dirò di che genere essa sia stata, e mostrerò quei sintomi che ognuno potrà considerare e tener presenti per riconoscere la malattia stessa, caso mai scoppiasse una seconda volta. Giacché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati».

La pestilenza e i successi degli Spartani vennero interpretati dal popolo e anche dai soldati opera di Apollo; il dio si era schierato dalla parte degli Spartani e combatteva al loro fianco. Tucidide si rifiutò di credere a tali superstizioni, non concesse alcuno spazio all’intervento degli dei, ma decise di seguire un ragionamento di tipo scientifico, indagando sulle cause, sulle forme in cui si presentò questa pestilenza nella quale morì anche Pericle, e la descrisse in modo impressionante con tensione narrativa, non priva di umanità, con un linguaggio medico e realistico: «Senza alcuna motivazione visibile, all’improvviso, le persone venivano prese da vampate di calore alla testa, arrossamento e bruciore agli occhi. La gola e la lingua assumevano subito un colore sanguigno, ed emettevano un odore strano e fetido. Dopo questi sintomi sopraggiungevano starnuti e raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva al petto con una forte tosse; e quando raggiungeva lo stomaco provocava spasmi, svuotamenti di bile e forti dolori. Nella maggior parte dei casi, si manifestava anche un singhiozzo con sforzi di vomito che generavano violente convulsioni. Il corpo era rossastro, livido, sparso di pustole e ulcere».

Inutili furono quei rimedi contro le malattie, cui si ricorreva fin da tempi lontanissimi: consultare gli oracoli, pregare nei templi, sacrificare animali. Quel morbo destinato a segnare il declino di Atene, colpiva con una violenza maggiore di quanto potesse sopportare la natura umana. Si mostrò diverso da uno dei soliti mali. La gente moriva perché nessun organismo, pur forte, era sufficiente a combattere quella malattia. I medici non riuscirono a diminuire il numero delle vittime, non solo per le tecniche inadeguate, ma anche perché erano i primi a morire per il contatto con i malati e i morti.

Tucidide descrisse le conseguenze di questo atroce contagio anche sul piano morale e del costume. Con l’alternarsi della paura e della speranza, venne meno la solidarietà fra gli stessi amici e parenti, la diffusione del male abbrutì e si violarono leggi umane e divine: «L’epidemia diede il segnale al dilagare dell’immoralità in Atene. Gl’istinti, prima nascosti, si sfrenarono dinanzi allo spettacolo dei rapidi cambiamenti: ricchi subito morti, nullatenenti a un tratto ereditieri. La vita e il denaro avevano agli occhi della gente lo stesso effimero valore. Si voleva godere materialmente e in fretta … nessun timore divino, nessuna legge umana li tratteneva … prima che scoccasse l’ora valeva la pena aver vissuto».

La descrizione della peste di Tucidide è un grande affresco di un realismo crudo. In un crescendo drammatico davanti agli occhi del lettore scorrono visioni di una città in preda alla devastazione morale e materiale, immagini di uccelli e quadrupedi che si cibano di cadaveri insepolti ammucchiati gli uni sugli altri; di uomini e donne che vagano nelle strade in cerca di acqua fino a gettarsi nei pozzi presi da sete insaziabile, o a denudarsi perché i loro corpi coperti di pustole non sopportano neppure il rivestimento di abiti leggeri; di alcuni che sfiniti si gettano sul fuoco dove ardono i cadaveri; immagini di morenti abbandonati da tutti per paura del contagio perché il morbo ha prodotto la perdita della pietas anche per i morti o i morituri.

La narrazione è priva di artifici retorici, rapida, asciutta, incalzante ma senza lacrime, la commozione del lettore nasce dalla suggestione che lo scrittore ha ispirato con la sua silenziosa umanità di fronte alla tragedia di una città e dei suoi abitanti, dalla tristezza austera con la quale descrive le sorti e le sventure dei popoli. Hegel scrisse che «l’opera di Tucidide rappresenta il vantaggio che l’umanità ha avuto dalla guerra del Peloponneso».

A thorn in the Guardians of religion’s side

An Iranian woman walks past members of an Iranian band Lahzeha playing music on a sidewalk in Tehran on October 8, 2019. (Photo by ATTA KENARE / AFP) (Photo by ATTA KENARE/AFP via Getty Images)

«Do not call it Islamic Republic of Iran but Islamic Republic in Iran». Sitting at a coffee bar table five Iranian students, in Italy for a few months, thus speak of the government that “occupies” their country, they emphasize that. They are debating the name to be given to their association. They want to spread what is going on in Iran, ask for freedom for prisoners and the birth of a democratic government.

«Protests in Iran are not just about rising gas prices – one of them tells us – these protests have been around for 40 years». The Iranian revolution led to the birth of the Islamic republic in 1979 but the dream of revolutionary change was disappointed. The anger of the Iranians is addressed to a government that, like the previous ones, in forty years has led to inflation, to the privation of freedom and above all a policy based on religious dictatorship. And whoever opposed he was taken prisoner and massacred.

The uprising started on 15 November. In the very few videos circulating on the net, nobody asked that the price of gasoline be lowered, as we read in the main international mainstream media. What people wanted was the end of the regime. From the city of Mashhad, the protest spread to the rest of the country. «Iran is like a big prison – explain the guys – and the capital is controlled by millions of cameras and by the Basij sepah, the Guardians of the revolution, a militia with deep ideological faith that over the years has taken power within the State, they arrive already an hour before any protest erupts, they are armed. This is why the protests have started outside Tehran».

On November 17, Iran’s supreme leader Ali Khamenei expressed his support for the government, calling the demonstrators “criminals”, accusing them of conspiracy and being manipulated by the United States. «This shows how stupid they believe we are and how little they are interested in people’s situation, or perhaps they know it but they don’t care» says one of the students. A few hours later, Basij added that he would do everything he could to restore security and stability in the country, and this translated into a violent crackdown on protesters.

According to Amnesty International, more than 143 people would have been killed during the protests but the real number is thought to be at least double. It fired directly on the protesters and thousands of people were arrested. The injured from the hospital were taken directly to prison. Many of them died during transportation. Schools were used as prisons. «There are so many prisoners that cells are not enough. They mainly use girls’ schools because they are surrounded by very high walls».

Some protesters have been killed, or rather “executed”, as announced by the government, others will be tortured as happened ten years ago. «I was in prison for two weeks» says one of our interlocutors. He is the oldest in the group of students to speak, in his early thirties: «Ten years ago we protested in front of the Parliament to denounce the electoral fraud in the presidential elections. They took us to a school, we only heard their voices because they had blindfolded us. Everyday “the inspectors” came to interrogate us, they held us against the wall with our hands tied behind our backs. They do all this to scare people and push them to silence». Silencing protests is the government’s strategy, so the internet was shut for several days on 17 November.

The Supreme National Security Council, President Hassan Rouhani and the Supreme Leader made the demonstrators shut up in this way too. Interviewed by Al Jazeera, the executive director of netblocks.org, Alp Toker, said that there was a total blockade of the internet for 80 million people using filtering and total shutdown. «We didn’t know if our families or friends were alive». The youngest girl in the group is 19 years old, she is an only child. «When I was able to contact my family, I called them continuously to ask only if they were alive». «At night, alone, I smoked a cigarette and cried» adds one of the guys.

«When I was able to contact my family, they asked me to be silent. They were the ones who worried about me. The Iranian government threatens who tells what is going on in my country. If I go back, they will arrest me. My mother is worried about me, I am seriously worried about my brother. It is a chain of fear but we cannot be silent» and while he tells, at times he is short of breath and saliva. «I have to go back to Iran at least once. My family is still there. I miss sleeping in my bedroom».

The two girls from the group show their passports, in their pics they wore the hijab. «We look older in the pics», they laugh. One of the girls now has perfectly wore a black line on her eyes and has very long, black hair, here in Italy she can show it. «In Iran women must remain hidden. You cannot choose your clothes, how to wear makeup. I am an artist, I,’m studying sculpture. For me taking the freedom to expressing myself is essential. I know I will never be able to return to Iran because they called for my family and told them they know about my protests here».

The other girl has hair regrowth and braces on her teeth. When I was in Iran, I was arrested because I went around with bleached blonde hair and the clothes I decided to put on. They told me I was a “criminal”. The students look at their peers at the other tables in the bar we are sitting and they wonder why it is illegal to embrace each other in Iran, walk among friends of different sexes if you are not married, homosexuality, being atheists, music. We claim democracy, people’s dignity, freedom. Which name is easier for you Italians to pronounce? They propose some names, in the end they decide that their association will be called Damavand, the name of an important mountain in Persian mythology. It is the symbol of the Iranian resistance against despotism and the domination of foreign occupation.

* Traduzione a cura di Anna Frollano

Ma anche se fosse, caro presidente Fontana?

Foto Stefano De Grandis - LaPresse 15-01-2019-Milano ITA - CRONACA Seduta Consiglio regionale Palazzo Pirelli nella foto: il presidente Attilio Fontana

Una delle caratteristiche di quest’epoca di bullismo politico spacciato come marketing dell’uomo forte è quello di pronunciare frasi imbecilli che mostrano la caratura di chi le pronuncia con la leggerezza di chi ha avuto una grande intuizione. Alla luce del risultato elettorale in Emilia Romagna (che evidentemente brucia parecchio dalle parti dei leghisti) il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana (lo so, lo so, non vi ricordavate più di lui, tranquilli, normale) si è lanciato in un articolato pensiero politico: «Era difficile – ha detto Fontana -, per la sinistra era l’ultima ancora di salvezza, è stata fatta una mobilitazione degna dei tempi andati, si è vista in tv gente di più di 100 anni portata ai seggi, disabili accompagnati con i pulmini, una mobilitazione per salvare quel che resta di un’idea che ormai è svanita».

Prendiamoci una pausa: Fontana è lo stesso che due anni fa, in campagna elettorale proprio in Lombardia, affermò con candore: «L’Italia non può accogliere tutti i migranti perché tutti non ci stiamo, quindi dobbiamo fare delle scelte: dobbiamo decidere se la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società debba continuare a esistere o debba essere cancellata». Al tempo venne (giustamente) mandato a quel Paese praticamente da tutti e lui si difese parlando di un “lapsus”. Beato lui.

Questa volta però l’idea degli “anziani e dei disabili” che siano “scarti” che non dovrebbero essere “disturbati” per votare e che comunque abbiano voti che contino meno dei sani riflette in pieno l’idea di una certa superiorità di alcune persone rispetto a altre, quella volta per colore della pelle e questa volta invece per condizioni di salute. Insomma esiste per Fontana (e per parecchi leghisti) un’idea di normalità che si traduce in un cittadino tipo che dovrebbe avere più diritti degli altri e possibilmente anche meno doveri.

Dico, davvero serve altro? Perché per smutandare Fontana basterebbe chiedergli: “E anche se fosse che gli anziani e i disabili abbiano votato per Bonaccini?”. E lui rimarrebbe zitto. Parlerebbe di lapsus. La butterebbe in caciara. Come al solito. Eppure questa sua frase dice molto, moltissimo. Spiega tutto.

Ah, a proposito: tra i giovani il 60% ha votato Bonaccini. Diteglielo a Fontana.

Buon mercoledì.

La svastica sulla Memoria

Serve un evento che plasticamente racconti l’aria intorno a questa Giornata della Memoria appena trascorsa qui in Italia nel 2020? Ecco qui: a Rezzato, Brescia, Madiha, una barista italiana di origine marocchine che sconta la colpa di avere una pelle più scura, ha ritrovato il suo bar Casblanca con la vetrina distrutta e il pavimento insozzato da insulti razzisti. C’era anche una svastica e siccome i fascisti sono anche cretini (è una legge matematica: non tutti i cretini sono fascisti ma tutti i fascisti sono dei cretini) l’hanno disegnata al contrario. Imbecilli.

L’evento fa il paio con la scritta comparsa nella notte tra il 23 e il 24 gennaio sulla porta dell’abitazione dell’ex staffetta partigiana Lidia Beccaria Rolfi, deportata a Ravensbruck come politica ma testimone dell’Olocausto.

Gente che piscia sui luoghi della memoria perché inquinare la memoria e la storia è l’unico atto politico di cui sono capaci, inetti come sono a scrivere una loro storia che non sia solo odio e violenza. Dei falliti che hanno la fortuna di questi tempi di essere trattati come degli imbecilli quando sono dei veri e propri criminali, sono la coda lunga della merda che ha coperto la civiltà nei suoi anni peggiori.

«Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò disprezzo, temo e odio gli indifferenti. Le parole di un grande intellettuale e uomo politico, Antonio Gramsci, rendono bene il senso di una malattia morale che può essere anche una malattia mortale. L’indifferenza racchiude la chiave per comprendere la ragione del male, perché quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c’è limite all’orrore. L’indifferente è complice»: l’ha scritto Liliana Segre, un’altra colpevole di essere sopravvissuta.

Se volete un termometro di questo tempo vi basta sfogliare la cronaca nera, putrida e turpe, che ci arriva regolarmente dagli angoli d’Italia. Una svastica sulla Memoria nel giorno della Memoria è qualcosa che non avremmo mai creduto di dover raccontare. E invece siamo arrivati fin qui. E quelli continuano a dirci che esageriamo, noi, a notare il sudiciume.

Buon martedì.