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Chi ha vinto davvero in Emilia Romagna

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 27-01-2020 Roma Politica Conferenza stampa di Nicola Zingaretti sull' esito delle elezioni regionali Nella foto Nicola Zingaretti Photo Roberto Monaldo / LaPresse 27-01-2020 Rome (Italy) Press conference by Nicola Zingaretti on regional elections In the pic Nicola Zingaretti

Il risultato delle elezioni amministrative in Emilia-Romagna e in Calabria ci regala una fotografia nuova dello scenario politico nel Paese. Non c’è dubbio che Salvini abbia registrato la sua prima sconfitta, nata da una serie di errori che è riuscito a mettere in serie uno dopo l’altro: una tracotanza senza precedenti, un comportamento provocatorio aggressivo e discriminatorio, una sfacciataggine finita per risultare antipatica a molti. Per certi aspetti un atteggiamento – se pensiamo alla citofonata al cittadino di origine tunisina accusato senza ragione di essere responsabile della “piazza” di spaccio del quartiere Pilastro a Bologna – anche violento e pericoloso.

Ma non solo. Pensiamo alla montatura mediatica costruita a Bibbiano, dove c’è stato chi ha messo da parte la politica per dedicarsi allo sciacallaggio, alla falsificazione della realtà operata e alle accuse infondate dirette al naturale percorso della giustizia. Eppure, proprio a Bibbiano si è consumata una delle sconfitte più brucianti per la destra, staccata di venti punti da Bonaccini. Una vittoria, quella nel comune simbolo di questa infuocata campagna elettorale, anche dello stesso Partito democratico che a sua volta ha staccato la Lega di dieci punti confermandosi davvero “il partito di Bibbiano”.

Per molti versi allora possiamo dire che ci troviamo di fronte ad una vittoria anche e soprattutto dei dem e del loro segretario Zingaretti. Non solo a Bibbiano, ma anche in Emilia Romagna il Pd si attesta primo partito assoluto, sopra la Lega, così come in Calabria, dove pur registrando la sconfitta netta del centro sinistra, si conferma la forza politica con il consenso più alto.

Se allora il “Conte 2” può far valere un merito è certamente, sempre dal punto di vista del Pd, quello di aver ridato in mano al principale partito del centrosinistra nel Paese il pallino del dibattito politico, quello che un tempo si sarebbe chiamato “discorso pubblico”. Solo pochi mesi fa sarebbe stato impensabile, mentre poco più di anno fa qualcuno parlava addirittura della fine dello schema “centrodestra – centrosinistra”, sostituito nel suo secondo polo dal Movimento 5 stelle, considerato l’unico antagonista alla destra sovranista di Salvini.

Proprio il Movimento 5 stelle segna invece, con questo passaggio elettorale, la fine della propria ascesa, costretto a fare i conti con: un corpo organizzativo disgregato, un leader dimissionario, la necessità di riformarsi e ripensarsi.

Infine, c’è il dramma della sinistra radicale, quella che un tempo poteva essere definita “sinistra d’alternativa”, che si ferma su percentuali irrilevanti, arrivando a poco più dell’1% sommando ben tre liste – L’altra Emilia, Potere al Popolo, Partito comunista – senza prendere alcun seggio e soprattutto rimando fuori dal dibattito politico. Se la lista più a sinistra, Emilia Romagna Coraggiosa, ecologista e progressista, in sostegno a Bonaccini raccoglie un discreto risultato, fuori dallo schema del centro sinistra coalizzato per fermare l’arroganza dell’ex ministro degli Interni le tre liste citate non trovano alcun spazio e consenso, incapaci di far valere il proprio ruolo.

Se il Pd è davvero il principale vincitore, lo è però non in quanto capace di proposte convincenti e forse, neanche per il buon governo del territorio che in questi anni è riuscito comunque a garantire. Chi ha vinto questa tornata è stato chi è riuscito a mettere in campo l’“organizzazione”, chi è riuscito a rimettere in moto un processo partecipativo che ha visto il coinvolgimento di migliaia e migliaia di uomini e di donne che si sono sentiti di nuovo partecipi.

Certo è importante sottolineare il contributo del movimento delle Sardine, ma è il ritorno dei corpi intermedi che segna il cambio di passo. Il partito come forza organizzativa, capace di coinvolgere, aggregare, trasformare l’elettore in protagonista attivo.

Ecco il compito della sinistra tutta, in particolare di quella incapace da troppi anni di ricostruire intorno a proposte e idee, una forza incisiva e riconoscibile. Ritorna quindi prepotentemente all’ordine del giorno, la necessità della ricostruzione di una soggettività politica ampia e inclusiva capace di interloquire con tutte le forze diffuse della sinistra: partiti, sindacati, associazioni, realtà organizzate. Senza veti, superando ogni ostacolo, rilanciando temi e proposte politiche, rimettendo in connessione le persone non attraverso la democrazia diretta, ma ricostruendo le organizzazioni come spazio di confronto e partecipazione attiva. Sta qui la chiave non solo per sconfiggere la destra nel Paese, ma anche per ricostruire uno spazio di sinistra che possa rappresentare un pezzo di società e contribuire a trasformarla, senza rischiare di essere fagocitata nei percorsi condivisi o di finire per rappresentare lo zero virgola alla prossima tornata elettorale.


* Lorenzo Ballerini è consigliere comunale a Campi Bisenzio (Fi) per la lista Campi a Sinistra

Niente, scherzavano

Foto Stefano Cavicchi/LaPresse 24/01/2020 Ravenna , Emilia Romagna - Italia politica Elezioni Emilia Romagna 2020, il leader della Lega Matteo Salvini in piazza del Popolo a RavennaNella foto: Matteo Salvini con Lucia BorgonzoniPhoto Stefano Cavicchi/LaPresse 24/01/2020 Ravenna , Emilia Romagna - Italy Politics Emilia-Romagna in regional elections. Matteo Salvini in RavennaIn the picture: Matteo Salvini and Lucia Borgonzoni

C’è qualcosa di inebriante nelle elezioni regionali che vengono ribaltate sul piano politico nazionale per accreditare eventuali crisi e ribaltoni: se non vanno come dovevano andare nei progetti di qualcuno diventano subito un “l’importante è partecipare”, “ce la siamo giocata” e altre amene sciocchezze del genere.

Salvini aveva promesso di liberare l’Emilia Romagna e poi prendersi l’Italia e invece l’Emilia Romagna si è liberata di lui e l’Italia continua ad avere un governo come sancito dalle elezioni che riguardavano il Parlamento perché no, non è sempre tutto campagna elettorale e no, non è obbligatorio votare ogni volta che qualcuno recrimina facendo casino. Però alcune osservazioni vale la pena farle.

Il Partito democratico risorge proprio nel momento in cui si era dichiarato morto. Con poco tempismo Zingaretti aveva annunciato il fallimento del progetto Pd e per tutta la sera ieri ha detto “viva il Pd!”. Forse, semplicemente, fare campagna elettorale sui contenuti senza preoccuparsi dei fuoriusciti rende tutto molto più interessante e forse qualcuno dalle parti del Nazareno può cominciare a rendersi conto che le questioni ombelicali (e i fuoriusciti con percentuali ombelicali) interessano poco e a pochi. Ora si potrebbe anche fare qualcosa al contrario rispetto a Salvini anche nelle politiche, i decreti Sicurezza, ad esempio, che dite?

Il Movimento 5 stelle (quelli che puntavano al 51%, ve lo ricordate?) affondano e forse sarebbe il caso che si occupino degli elettori oltre che dei quadri dirigenti. Di Maio ha abbandonato la nave prima dello schianto (tempismo perfetto) ma si ritrova anche lui l’acqua in cabina. Ora l’errore che può fare è quello di illudersi di pesare anche nel Paese reale per i parlamentari che si ritrova (e che diminuiscono in continuazione): lo faranno, sicuro.

Salvini l’ha messa sul personale, Bene, bravo, bis. E ieri si è riscoperto moderato. Bene, bravo, bis. Ora ci dirà che ce l’hanno tutti con lui, vedrete. Intanto il centrodestra che non vede l’ora di ammazzare Berlusconi deve fare i conti con Berlusconi che stravince in Calabria.

Poi c’è un dato generale: chi perde dice che ha alzato i toni ma stava scherzando, chi vince dice che ha vinto dappertutto e invece non è vero. Chissà però se ora accada tutto quello che non accadeva perché bisognava aspettare le elezioni regionali in Emilia Romagna. Siamo qui.

Buon lunedì.

Questo qualcosa davanti a me

Falthauser, Lindner, Mennecke, Hebold

Nel libro Se questo è un uomo Primo Levi riporta il colloquio, ad Auschwitz, con un certo dott. Pannwitz. Se Levi fosse riuscito a entrare nel laboratorio chimico diretto da Pannwitz, le sue probabilità di sopravvivenza sarebbero aumentate di parecchio. Era perciò una selezione che decideva su vita (non garantita) o morte (certa). Levi, in piedi davanti alla scrivania, descrive così lo sguardo con il quale Pannwitz lo scrutò: «Questo sguardo non corse fra due uomini. Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri diceva: Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile».

Levi riuscì a richiamare le sue conoscenze della chimica; alla fine dell’esame egli contempla «istupidito e atono la mano di pelle bionda che, in segni incomprensibili, scrive il mio destino sulla pagina bianca». Non sapremo mai che cosa provò una signora viennese quando, pochi anni prima, dovette affrontare una situazione del tutto simile. Klara B. rischiava la vita per due motivi indipendenti: era ebrea ed era una paziente psichiatrica. Di lei è rimasta solo una di quelle schede che, a partire dal 1940, gli istituti neuropsichiatrici in Germania e Austria riempivano per ogni degente. La valutazione conclusiva di queste schede era affidata a un comitato di periti esterni, tutti psichiatri rinomati, per i quali costituiva un’ambita fonte di guadagno aggiuntivo.

La Signora Klara, di anni 31, sarà stata convocata da uno o due di loro che si erano recati presso il manicomio, per un colloquio di qualche minuto appena. Sulla scheda già compilata, il direttore del manicomio le aveva attestato una “schizzofremia” – la segreteria dell’Istituto non padroneggiava i termini tecnici. Contrasta, con questa incertezza ortografica, la sicurezza con la quale appare, poche righe sotto, la parola unbrauchbar, inutilizzabile. Klara B., così recita la scheda, non è neppure adatta a fare lavori di pulizia. Riassumendo: per la clinica, la signora era incurabile e un’esistenza zavorra.

Seguì veloce la condanna a morte, decretata da quattro segnetti “+” in fondo alla pagina, distrattamente buttati lì dai periti esterni. Erledigt, fatto. Da lì a poco, la signora Klara sarebbe stata deportata in in una delle prime camere a gas della Germania nazista, costruite appositamente per le 70mila vittime dell’Operazione T4. A questa cifra si aggiungono altri 130mila pazienti psichiatrici che furono invece uccisi “a casa loro”, all’interno degli stessi manicomi.
Nel 2014 la Società tedesca di psichiatria allestì un’estesa mostra sulla storia di questa persecuzione, e dal 2017 l’adattamento italiano di questa mostra, arricchita di una sezione sulla psichiatria italiana durante il fascismo…

La mostra “Schedati, perseguitati, sterminati” sarà dal 31 marzo al 30 aprile presso la sede della Provincia di Treviso

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 24 gennaio

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El Greco, il ribelle

È un impressionante viaggio nell’universo di El Greco quello che il Grand Palais offre fino al 10 febbraio. Un vorticoso percorso che corre di sala in sala, in un susseguirsi di prospettive inaspettate, fino all’apice de L’apertura del quinto sigillo dell’Apocalisse (1608-1614). Davanti a noi un tripudio di colori brillanti, di forme e figure umane allungate che ardono come torce nella notte, una ridda di visioni, mentre santi e predicatori in primo piano catturano il nostro sguardo con piedi leggeri sulla terra pietrosa, mantelli troppo grandi che avvolgono i loro corpi nudi, mani eleganti e volti di madreperla che non hanno nulla di serafico, ma anzi si rivolgono increduli, inquieti e restii alla chiamata divina.

Il cardinale Guevara

Fin dai suoi esordi cretesi, il talento di El Greco si palesò in opere eterodosse nate all’incrocio di culture diversissime fra loro, nel segno di una originale contaminazione. Nella sua arte si ritrova la memoria delle icone bizantine, abbaglianti di oro e di riflessi, in mezzo alle quali il pittore di origine cretese era cresciuto e si era formato. Ma si rintraccia anche il fascino del colorismo veneto assimilato e ricreato in modo personalissimo dopo un soggiorno veneziano che, dal 1567, lo portò a conoscere da vicino l’opera di Tiziano e di Tintoretto, dal quale El Greco mutuò la tensione mistica e lo studio della luce simulando scorci inediti con modellini di argilla. In alcuni dipinti pare di scorgere anche qualcosa del tanto vituperato Michelangelo, di cui a Roma il pittore cretese si offrì sfrontatamente di ridipingere il Giudizio universale, facendosi così cacciare dai Farnese.

Fu la sua fortuna, perché rifiutando la nitida e precisa pittura tosco-emiliana, andandosene dall’Italia, El Greco incontrò la più notturna tradizione spagnola. Non tanto alla corte di Filippo II quanto nella piccola e arroccata Toledo, dove esplose il suo genio, guardato con sospetto dai committenti controriformisti per il suo dispiegarsi ardito in un teatro delle emozioni ai limiti dell’eterodossia. Al Grand Palais tutta questa sua bruciante e solitaria traiettoria è ripercorsa in modo spettacolare in saloni bianchi che si aprono l’uno sull’altro senza soluzione di continuità.

Dopo le celebrazioni per i quattrocento anni dalla morte in Spagna questa esposizione parigina curata da Guillaume Kientz con una settantina di opere provenienti da Paesi lontani fra loro – dall’Ungheria agli Usa passando per la Spagna – è di gran lunga la più completa e avvincente fra le tante dedicate negli ultimi anni a Domínikos Theotokópoulos (1541-1614) detto El Greco.

Curiosamente questa è la prima importante retrospettiva che la Francia dedica a questo artista visionario che – dopo secoli di oblio – fu riscoperto nell’Ottocento (anche grazie a Théophile Gautier e a Delacroix) ed esercitò un fascino fortissimo su Cézanne (basta confrontare le sue Bagnanti con l’ Apocalisse di El Greco proveniente da New York) ma anche su tanti protagonisti dell’avanguardia novecentesca.

Fin dalle prime sale, la mostra intitolata semplicemente Greco ne sottolinea l’eclettismo, caratteristica che lo accompagnò dagli esordi con opere sorprendenti come la piccola tempera con San Luca che dipinge la Vergine qui esposta ad incipit del percorso espositivo. Era capace di passare da ritratti di acuta penetrazione psicologica a opere di carattere storico e monumentale orchestrando innumerevoli figure come nella inamovibile Sepoltura del conte di Orgaz, che si trova nella piccola chiesa di Santo Tomé a Toledo.

Quanto ai ritratti al Grand Palais, fra i moltissimi raccolti, spiccano in particolare il Ritratto del fratello Hortensio Félix Paravicino (1609-1611, prestito del Museo di Boston) per la bella e umanissima malinconia e il Ritratto del cardinale Niño de Guevara che al contrario colpisce per la freddezza lucida da inquisitore, con le labbra serrate e la mano aggrappata al bracciolo. Un gesto che evoca il ritratto di Giulio II di Raffaello e che ispirò Velàzquez per il suo Innocenzo X, poi tradotto in chiave feroce da Bacon.

Su una parete isolata scorgiamo la sequenza in più varianti, de Il ragazzo che soffia sul fuoco, a partire dalla prima versione veneziana ispirata a una favola popolare fino a quella del 1585 e proveniente dall’America. Al centro della tela c’è un adolescente con un tizzone nella mano sinistra. Nel primo è solo, in primo piano, il volto violentemente ma sottilmente illuminato dal carbone che brucia: è un prodigio naturalistico, in chiaroscuro, che quasi pare annunciare Caravaggio, che sarebbe nato due anni dopo.

Ma dove El Greco non trova davvero paragoni è la fiammeggiante irruenza dei quadri del periodo iberico dove ogni impalcatura razionale e prospettica viene meno. Dopo il suo trasferimento a Toledo si dischiuse un universo pittorico popolato da perenni adolescenti dalle braccia e dai colli lunghi, dai corpi acerbi, sproporzionati, che lasciano trasparire un mondo interno animato da una tempesta di emozioni. La sua poetica ricca di distorsioni spaziali ed “espressioniste” fu però stigmatizzata dai suoi detrattori come frutto di dimensioni patologiche, fu accusato di megalomania, di soffrire di allucinazioni. Vicenda annosa capitata anche ad altri artisti che si innamorarono della sua opera a cominciare da Cézanne le cui visioni, “a macchie”, baluginanti della montagna Sainte Victoire furono additate dall’invidioso Zola come frutto di un difetto della vista fisica. Nel caso di El Greco feroce fu soprattutto l’attacco dei tradizionalisti che condannarono come blasfemo il modo in cui allungava i corpi e, soprattutto, come li spogliava, contraddicendo i canoni religiosi dell’epoca. Per i liberali illuministi che nel Settecento si affacciarono sulla scena spagnola, al contrario, incarnava l’oscurantismo della Controriforma. Ciò che non volevano vedere era l’artista ribelle, l’uomo libero, iconoclasta rispetto all’arido e razionale realismo, l’artista che libera le forme delle loro catene, che dà forza al colore. Ma se razionalismo e ideologia resero ciechi e stupidi certi critici, per fortuna, la sensibilità artistica risvegliò l’interesse di Picasso all’epoca della rivoluzione cubista e delle Demoiselles d’Avignon, degli espressionisti e persino di Pollock.

 

 

L’articolo di Simona Maggiorelli prosegue su Left in edicola dal 24 gennaio

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Più dignità per chi ha lavorato, please

A woman sits near Piazza Navona's Fontana del Moro in Rome, Thursday, Nov. 10, 2011. European Commissioner for the Economy Olli Rehn warned Italy it needs to further reform the pension system, and said that the 17-country eurozone could slip into "a deep and prolonged recession" next year as the debt crisis shows alarming signs of spinning out of control. (AP Photo/Gregorio Borgia)

Carlo ha 58 anni, ha iniziato a lavorare nel 1987 come artigiano ma dopo 15 anni ha dovuto chiudere la sua attività, come tanti. Poi ha svolto una serie di lavori part time e tra questi alcuni in cooperative di servizi con appalti stipulati con enti pubblici. Chissà perché, però, le ore di lavoro erano di più rispetto al contratto, venivano anche pagate, ma i contributi rimanevano sempre quelli, rigorosamente al 50%. Tre anni fa ha ricevuto la famosa busta arancione dell’Inps con la previsione della pensione che prenderà nel 2029: mille euro al lordo, quindi 900 euro più o meno al netto. Ma Carlo tutto sommato è un privilegiato, pur avendo passato anni di semi-sfruttamento, perché ha cominciato a lavorare prima della riforma Dini del ’95 che ha introdotto il calcolo della pensione con metodo contributivo al posto di quello retributivo.

«I miei colleghi più giovani anche loro part time si troveranno in una situazione ben peggiore», dice. I compagni di Carlo fanno parte di quella massa indefinita di lavoratori che, tra periodi di disoccupazione, impieghi a tempo determinato, in appalto o subappalto, comunque precari, tra 20-30 anni riceveranno pensioni da fame, se non si interverrà in qualche modo.

«In pratica avranno una pensione abbondantemente al di sotto della soglia di povertà se non si interviene cambiando l’assetto pensionistico», dice Felice Roberto Pizzuti, docente di Economia e politica del Welfare State, che ha curato il rapporto E sempre più anziani soli tra 20-30 anni a stento basteranno a se stessi: un netto peggioramento rispetto ad oggi visto che, come fotografa l’Istat, oltre sette milioni di famiglie basano per tre quarti il loro reddito sulla pensione del nonno. Pizzuti in più di un’occasione ha parlato di «bomba sociale delle pensioni». Adesso, a inizio 2020, il tema sembra finalmente diventare centrale nel dibattito politico, anche per…

L’articolo di Donatella Coccoli prosegue su Left in edicola dal 24 gennaio

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Turpiloquio e attacchi alle sardine: Sgarbi e la destra hanno finito gli argomenti

Foto Stefano Cavicchi/LaPresse 07/09/2019 Borgosesia (Vercelli) - Italia Politica Matteo Salvini a Borgosesia per inaugurare la fontanaNella foto: Matteo Salvini e Vittorio Sgarbi

Le Sardine ferraresi non hanno raccolto l’ennesima provocazione di Vittorio Sgarbi che qualche ore fa a Ferrara, in piazza Trento e Trieste, ha concluso la propria campagna elettorale emiliana passando quasi inosservato con poche decine di accoliti ad applaudirlo nella sua città. L’opinionista e critico d’arte è infatti candidato nella competizione regionale che si terrà domenica 26 gennaio nella lista di Forza Italia, a sostegno della aspirante governatrice leghista Lucia Borgonzoni.

Di recente, durante una puntata del talk show Piazzapulita, il critico ha rimproverato le Sardine biasimandole di non avere riferimenti ideologici. In sostanza, di non avere un’identità con cui interpretare la società attuale. E con supponenza ha sbandierato di fronte ad uno dei rappresentanti emiliani del movimento “ittico” presenti in studio, Lorenzo Donnoli, i suoi capisaldi: Croce, Einaudi, Gramsci e Gobetti.

Di sicuro Sgarbi dimostra di aver trattenuto ben poco del loro attivismo e di avere un’identità politica assai confusa, contraddittoria, altrimenti non si spiegherebbe la difesa accorata, ribadita dal palco ferrarese, di un Salvini che si permette di suonare un campanello altrui muovendo accuse infondate, né il silenzio di fronte alle dichiarazioni del vicesindaco di Ferrara, il leghista Nicola Lodi, che è arrivato a minacciare volgarmente i suoi avversari, e cito: «Vi faremo un culo così. Questo è un linguaggio istituzionale, segnatevelo, vi faremo un mazzo così». Senza inutili scuse Croce, Einaudi, Gramsci e Gobetti conoscevano profondamente i doveri delle istituzioni e di chi le rappresentava, e mai si sarebbero posti al di sopra delle regole, fingendo peraltro di farsi giustizia da soli o vantando una morale di facciata.

«Chi non ha competenza non può governare, chi non ha conoscenza non può fare il ministro», è stato uno degli slogan più gettonati da Sgarbi durante l’evento a sostegno della destra, così scomodando persino il pensiero crociano; ma forse Sgarbi non stava ascoltando la Borgonzoni, sua candidata e già senatrice della Repubblica, quando dichiarava candidamente di non è essere solita leggere.

Le elezioni regionali sono da sempre quelle con meno affluenza alle urne e Matteo Salvini si è giocato tutto nel tentativo di incitare emotivamente i cittadini meno informati, trattandoli alla stregua di una tifoseria. «Liberiamo l’Emilia-Romagna!» è uno slogan assurdo e fuori tempo massimo. Sgarbi, dal canto suo, insiste nel prendersela con le Sardine per sottrarre preferenze alla Lega che lo ha tollerato in coalizione. D’altronde, i like sulla sua pagina ufficiale sono direttamente proporzionali alle aggressioni verbali contro Mattia Santori e affiliati.

Non solo, Sgarbi è sceso in piazza mescolando tutte le sue “giacchette”: nel videoclip che annunciava l’evento odierno appariva il suo nuovo libro su Leonardo da Vinci, la locandina ammiccava al suo incarico da presidente della Fondazione Ferrara Arte grazie al quale porterà in loco una mostra dedicata a Banksy, e finalmente sul palco è riemerso il suo legame con Forza Italia. Non poteva mancare infine un passaggio accorato per la povera vittima che fu Craxi.

Ancora una volta durante le parabole di Sgarbi è prevalso il turpiloquio, la confusione ha avuto la meglio sulla chiarezza, come il sovrapporsi delle cariche che già ricopre; se dovesse piazzarsi in Emilia-Romagna in qualità di consigliere o persino di assessore regionale, chissà se rinuncerebbe alla poltrona da deputato, alla fascia da sindaco di Sutri e a quella da prosindaco di Urbino con delega alla cultura. O se piuttosto valuterebbe di continuarne l’accumulo, quasi fosse uno Stachanov delle pubbliche amministrazioni.


* Matteo Bianchi è un esponente del movimento delle Sardine di Ferrara

Quei governi che negano il diritto allo sciopero

NAPLES, ITALY - MARCH 15: Tensions between protesters and police during the global strike for the climate proposed by the movement "Fridays for Future" on March 15, 2019 in Naples, Italy. Fridays for Future is a worldwide movement of protest and awareness-raising for global warming issues, born around the charismatic figure of the climate activist Greta Thunberg, a young Swedish student recently proposed as Nobel Peace Prize. (Photo by Ivan Romano Getty Images)

Mentre la Francia brucia, alimentata da una serie di scioperi e proteste che sembrano unificare categorie eterogenee di persone in un’unica lotta contro la riforma delle pensioni, in Italia tutto tace. O, per meglio dire, viene fatto tacere, sotto la pesante scure di riforme repressive dei diritti fondamentali di ogni cittadino, in nome della pubblica sicurezza e dell’interesse collettivo.

Tra gli esempi più rilevanti di come una certa ideologia del decoro e della pubblica sicurezza agisca nel limitare le nostre libertà costituzionali, c’è senza dubbio quello che riguarda il diritto di sciopero. Tale diritto è fissato e riconosciuto dall’art. 40 della nostra Carta fondamentale, disciplinato da specifiche norme di legge (la 300 del 1970 per quanto attiene allo sciopero nel settore privato, la 146 del 1990 per i servizi pubblici essenziali) e, nel tempo, regolamentato da una folta e specifica giurisprudenza da parte dei giudici di ogni grado, che in più riprese hanno rimarcato la centralità dello sciopero quale strumento di riequilibrio nella dicotomia tra lavoratore e datore di lavoro.

Ebbene, sembra che negli ultimi tempi il diritto a scioperare sia sotto attacco, soprattutto in virtù di norme e regolamentazioni (spesso rafforzate da interpretazioni degli organi istituzionali che in funzione di garanzia dovrebbero verificare il rispetto dei diritti fondamentali in caso di sciopero) che in alcun modo sono finalizzate a disciplinare il lavoro o le questioni sindacali.

Dopo la pioggia di critiche di una parte dell’opinione pubblica verso i due decreti Sicurezza a firma Salvini, iniziano ora a partire le prime denunce per il reato di blocco stradale, reintrodotto proprio dalla prima delle due norme. Reato che, lo ricordiamo, prevede una pena massima a dodici anni di reclusione – più o meno la pena media prevista per un omicidio preterintenzionale -, per i lavoratori che osano scioperare e manifestare magari bloccando la via di una città.

A Prato una ventina di lavoratori della tintoria Superlativa, per aver denunciato di lavorare in nero, con turni di 12 ore al giorno per sette giorni la settimana, senza ferie e malattia e di non ricevere lo stipendio da sette mesi, hanno ricevuto multe da 4mila euro a testa perché…

Riccardo Bucci, avvocato, fa parte dell’associazione Alterego – Fabbrica dei diritti

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 24 gennaio

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Ma chi se ne fotte della Calabria

Se è vero che Facebook è il nuovo luogo della campagna elettorale allora i numeri sono impietosi: per le elezioni in Emilia Romagna la candidata leghista Borgonzoni ha speso negli ultimi 30 giorni circa 45mila euro, 45mila euro la pagina di Matteo Salvini, circa 12mila euro il candidato di centrosinistra Stefano Bonaccini; in Calabria 7mila euro per il candidato Pippo Callipo (diviso tra il suo profilo personale e quello della lista) e 828 euro spesi da Matteo Salvini. Se non avete notato la mancanza di spesa da parte del Partito Democratico, no, non è una svista: il centrosinistra parla dell’abuso dei social da parte degli avversari ma evidentemente si scorda di usarli, i social. E vabbè.

La Commissione Europea e la pagina italiana di Save the Children hanno speso in pubblicità su Facebook per promuoversi in Calabria più di quanto abbia speso Salvini. Del resto basta leggere i giornali o guardare le trasmissioni televisive: le elezioni regionali in Calabria tornano utili per quel paio di giorni che seguono la maxi operazione di Gratteri e poi sono sparite. Che la commissione antimafia abbia poi segnalato come impresentabili due candidati del centrodestra (Giuseppe Raffa e Domenico Tallini, lista Berlusconi per Santelli) sembra interessare pochissimo.

Non conta che il Pd abbia nel governo un suo ministro per il sud. Niente. Il centrosinistra si affida all’imprenditore Pippo Callipo (che si proclama “né di destra né di sinistra” provocando brividi lungo la schiena) mentre il centrodestra ha buone probabilità di vincere con Jole Santelli, deputata forzista, nipote del ras socialista cosentino Giacomo Mancini, ex assistente di Cesare Previti e vicesindaco di Cosenza, quando la città finì in dissesto di bilancio. La campagna elettorale si svolge stanca sui soliti binari della politica che cerca voti nel mezzogiorno promettendo le stesse cose che si promettono da cinquant’anni. Nemmeno le sardine sembrano avere troppi interessi.

Intanto da Catanzaro arriva la notizia del rafforzamento della scorta al procuratore Gratteri poiché ci sarebbero segnali preoccupanti su un progetto di attentato. Un attentato che, basterebbe ascoltare le parole di Gratteri, farebbe comodo a un coacervo di delinquenti che non sono solo mafiosi, no. Ma Gratteri torna utile solo per farsi una foto con lui e lanciarla sui social. Solo per quello.

Se l’attenzione per il sud si misurasse dalla passione di questa campagna elettorale c’è da mettersi le mani nei capelli. Ma è la politica dello spettacolo, quella che si tuffa su Bibbiano, quella che insegue i like: figurarsi se c’è il tempo di essere seri.

Buon venerdì.

L’omicidio Regeni e la fabbrica dei falsi

GIULIO REGENI TORTURED CAMBRIDGE UNIVERSITY STUDENT FOUND DEAD IN CAIRO, EGYPT, 04 FEB 2016 CAMBRIDGE UNIVERSITY PHD STUDENT GIULIO REGENI, 28, WHO HAS BEEN FOUND DEAD IN CAIRO AFTER REPORTEDLY BEING TORTURED. TORTURED, CAMBRIDGE, UNIVERSITY, STUDENT, FOUND, DEAD, CAIRO, EGYPT, 04, FEB, 2016, GIULIO, REGENI, NOT-PERSONALITY, 34721116

Ma ci sono novità sulla morte di Giulio Regeni? Sì, ci sono, eccome, e dicono chiaramente che la pressione diplomatica sull’Egitto da parte dello Stato italiano funziona, ha funzionato e non si capisce perché sia stata abbandonata. Il procuratore reggente di Roma Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco che da quattro anni indaga sul caso del giovane ricercatore in Egitto sono stati ascoltati dalla commissione parlamentare d’inchiesta e hanno raccontato come nell’anno e mezzo in cui l’Italia ha ritirato il suo ambasciatore in Egitto, era l’aprile del 2016, l’autorità egiziana ha fornito elementi utili al raggiungimento della verità. Il rapporto di collaborazione si è poi bruscamente interrotto di nuovo nell’agosto del 2017 quando il governo italiano è tornato alle normali relazioni diplomatiche: la procura ora non riesce nemmeno a ottenere i dati dei cinque funzionari degli apparati di sicure per notificare l’indagine a loro carico. Siamo messi così.

Però i fatti sono ostinati e molto (troppo) lentamente stanno venendo a galla: Giulio Regeni è stato torturato a più riprese tra il 25 e il 31gennaio di quattro anni fa ed è morto presumibilmente l’1 febbraio «per la rottura dell’osso del collo». I magistrati italiani sembrano avere le idee chiare: Giulio Regeni sarebbe finito al centro di «una ragnatela in cui gli apparati si sono serviti delle persone più vicine a Giulio al Cairo tra cui il suo coinquilino avvocato, il sindacalista degli ambulanti e Noura Whaby, la sua amica che lo aiutava nelle traduzioni». Non sembrano esserci dubbi sulla responsabilità della National Security egiziana.

Colaiocco e Prestipino hanno messo in fila anche i quattro tentativi di depistaggio che hanno rallentato le indagini: «Sono stati fabbricati dei falsi per depistare le indagini – hanno raccontato alla commissione -. In primis l’autopsia svolta al Cairo che fa ritenere il decesso legato a traumi compatibili con un incidente stradale. Altro depistaggio è stato quello di collegare la morte di Giulio ad un movente sessuale: Regeni viene fatto ritrovare nudo». Nel marzo 2016 poi accade che un ingegnere racconti alla tv egiziana di avere visto Regeni litigare con uno straniero vicino al consolato italiano: il traffico telefonico dello studente indica che il giovane fosse da tutt’altra parte e si scopre che il falso testimone fosse imboccato da un ufficiale della sicurezza nazionale egiziana.

Il quarto depistaggio accertato, dicono i magistrati italiani, «è legato all’uccisione di cinque soggetti appartenenti ad una banda criminale morti nel corso di uno scontro a fuoco. Per gli inquirenti egiziani erano stati loro gli autori dell’omicidio».

Insomma, la morte di Giulio Regeni fa schifo fin dal primo momento e continua a fare schifo di fronte alla reticenza e all’insabbiamento del governo egiziano che continua a godere di una certa morbidezza da parte del governo italiano. Dicono bene i genitori di Giulio: «In questi anni abbiamo dovuto lottare contro violenze, depistaggi, omertà, prese in giro e tradimenti. Siamo grati ai nostri procuratori e alle squadre investigative per il lavoro instancabile svolto in questi quattro anni in sinergia con noi e la nostra legale. Se oggi abbiamo i nomi di alcuni dei responsabili del sequestro, delle torture e dell’uccisione di Giulio e se alcuni di quei nomi sono iscritti nel registro degli indagati, lo dobbiamo a loro».

Con fatica si scava nella verità giudiziaria, chissà quando ci arriverà decisa la politica.

 

L’articolo di Giulio Cavalli è tratto da Left in edicola dal 24 gennaio

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La ministra dell’Uguaglianza Irene Montero fa già irritare le destre spagnole

Madrid Spain; 13/01/2020.- Irene Montero in her inauguration as minister of equality and exchange of Ministerial Portfolios at the headquarters of the ministry. Montero belongs to the United Left Party We Can (Unidas Podemos) Coalition of Government with the President of Spain Pedro Sánchez of the Spanish Socialist Workers Party (Psoe) Photo by: Juan Carlos Rojas/picture-alliance/dpa/AP Images

La foto di rito del nuovo governo formato dal Psoe e da Unidas Podemos non è una immagine nuova per la Spagna dell’ultimo anno. Pedro Sánchez si era già distinto, nella passata legislatura, per la significativa presenza di donne nel suo esecutivo. Anche per questo Sánchez-bis, primo governo di coalizione dalla fine della dittatura di Franco, si contano 8 ministre e ben 3 donne vicepresidenti, 11 in totale. Non è solo una questione di genere, come si usa dire, o di quote rosa da salvaguardare, nel programma depositato per il nuovo governo c’è proprio un capitolo titolato Politiche femministe, e l’uso del termine femminista, così, senza giri di parole, tedia la destra estrema e non del Paese.

Le reazioni sono iniziate subito, dal giorno del giuramento di fronte al re Felipe VI quando Irene Montero, deputata di Unidas Podemos e ministra di Uguaglianza, ha usato una formula leggermente diversa rispetto alla maggior parte di colleghe e colleghi quando, proprio alla fine, ha detto “Consiglio delle ministre” utilizzando il femminile plurale generico, onnicomprensivo, proprio come provocazione contro l’uso del maschile dominante. Subito la Rae, la Real Academia Española della lingua, ha dichiarato che non è «grammaticalmente accettabile».

La Rae, quella stessa istituzione che non prevede di includere nel Dizionario della lingua spagnola il concetto di violenza di genere, almeno fino al 2026, quando uscirà la nuova edizione, si è scomodata per così poco. Femminismo e grammatica non sembrano proprio andare d’accordo. Quindi il consiglio resta dei ministri, al maschile, ma, altro fatto senza precedenti nella storia spagnola c’è una coppia che occupa due poltrone nell’esecutivo. È proprio quella formata da Pablo Iglesias, segretario di Podemos e ora vicepresidente del Consiglio, e Irene Montero, finora portavoce in parlamento per lo stesso partito e ministra.

Nessuno ha chiesto a Iglesias se può essere al governo pur essendo il partner di Irene Montero o come farà a gestire i tanti impegni politici e la famiglia con i due gemelli Leo, Manuel e la nuova arrivata Aitana, mentre in tanti si sono preoccupati se lei è stata eletta solo grazie al ruolo del suo partner e leader, o come farà adesso a conciliare il lavoro da ministra e la famiglia, perché la cura della famiglia e della prole è cosa solo da donne, si sa.
Irene Montero, ministra di Uguaglianza, è stata anche presa di mira per la mancata nomina di uomini a posizioni di alto livello nel suo ministero. Attualmente non ci sono maschi in ruoli apicali, vero, ma, come lei stessa ha fatto notare nel corso di una intervista televisiva, forse è poco importante perché l’uguaglianza è qualcosa «a cui le donne hanno tradizionalmente dedicato più tempo e più studio».

La nuova ministra di Uguaglianza ha fatto scelte importanti nel campo dei diritti. Ha designato alla guida dell’Istituto delle donne, istituzione spagnola con un certo riconoscimento tra i movimenti femministi, Beatriz Gimeno, femminista e attivista per i diritti LGTBIQ+, scrittrice, deputata di Unidas Podemos. Mentre la storica attivista Boti García, sarà la direttora dell’area di nuova creazione Diversità Sessuale e LGTBI, perché la diversità sessuale, di genere e familiare saranno argomenti rilevanti nell’agenda politica del Sánchez-bis, con buona pace delle destre tutte.

Poi si è trattato di scegliere chi potesse dirigere un dipartimento governativo legato alle persone razzializzate e non è stata scelta una persona nera, araba, zingara o asiatica, comunità presenti e attive nella società spagnola. La prima nomina per la direzione generale di Uguaglianza di trattamento e diversità etnico razziale è stata la ricercatrice e scrittrice Alba González, con il curriculum giusto, una grande esperienza di questioni come la ridistribuzione economica o l’uguaglianza, ma bianca. Nomina e successive, rapide dimissioni dopo le pressioni di collettivi e associazioni antirazziste.

Un passo indietro e una rettifica nelle reti sociali: «Se c’è una cosa che sappiamo nel femminismo è che la rappresentazione e il simbolico contano. Abbiamo riorganizzato l’équipe di questo ministero in modo che ci sia una presenza visibile di donne appartenenti a gruppi razziali».
Saggia rettifica con il risultato che ora è Rita Bosaho, di nazionalità spagnola, ma nata in Guinea Equatoriale, prima donna nera eletta al Congresso dei deputati nel 2016 con Podemos, ad occupare quella posizione.
Con il progetto di chiudere tutti i Centri di internamento per stranieri (Cies), e di legalizzare tutti gli immigrati che arrivano in Spagna.

È politicamente scorretto che nessuno nel ministero di Uguaglianza guidato da Irene Montero si sia reso conto di quello che stava per fare. La verità è che non sorprende. Il movimento antirazzista e le associazioni di persone afrodiscendenti questa volta hanno agito come una comunità e così hanno messo a segno una prima grande vittoria politica come gruppo di pressione, modificando l’agire delle istituzioni,dimostrando che quando esiste una dialettica tra governi e movimenti è sempre un bene.