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Ultima fermata, Salvini

Certo, non è facile, riportare la politica ai fatti e riuscire a discutere dell’ex ministro Salvini senza inciampare nelle trappole della sua propaganda è un esercizio che richiede cura dei fatti e studio dei numeri. E se ci pensate bene ultimamente non va molto di moda, no. Eppure le colpe (e gli insuccessi) di Matteo Salvini non sono solo nell’inquinamento esasperato di un dibattito politico che riversa le sue scorie anche in una pessima tensione sociale ma si ritrovano anche nei suoi provvedimenti al governo, nelle sue disarticolate proposte politiche e in un’idea di Paese che vale la pena affrontare sul piano squisitamente politico.

I decreti “sicurezza”, ad esempio. Partiamo dai provvedimenti di cui il leader leghista va particolarmente fiero. Il tema che occupa praticamente il 50 per cento della sua comunicazione e che viene usato come clava ancora oggi che la Lega sta all’opposizione.
I decreti voluti dalla Lega hanno stretto le maglie dell’accoglienza, cancellando i permessi di soggiorno umanitari, radendo al suolo il sistema virtuoso degli Sprar e soprattutto creando un impressionante nuovo numero di stranieri senza permesso di soggiorno.

Qualcuno parla di circa 70mila nuovi “fantasmi” lasciati all’addiaccio per le strade delle nostre città e ancora qualcuno non capisce che quei disperati sono tutti carne da macello per premere ancora il piede sull’acceleratore dell’insicurezza e per chiedere ancora l’intervento di un uomo forte che, vedrete, sarà ancora Salvini: lo stesso che ha provocato il disastro. Poi dentro i decreti “sicurezza” c’è ovviamente anche il restringimento dei diritti degli italiani – badate bene mica degli stranieri – che dopo avere esultato ora si ritrovano…

L’articolo di Giulio Cavalli prosegue su Left in edicola dal 24 gennaio

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Lupi travestiti da pecore

Italy's Interior Minister Matteo Salvini waits for the arrival of Hungary's Prime Minister Viktor Orban ahead of a meeting in Milan on August 28, 2018. (Photo by MARCO BERTORELLO / AFP) (Photo credit should read MARCO BERTORELLO/AFP via Getty Images)

«Me ne frego» dice Salvini citando Mussolini. «È finita la pacchia» urla ai naufraghi dopo avergli negato un approdo sicuro. E poi: «Non è roba nostra», riferito a migranti minorenni non accompagnati. Fino ad arrivare a sbeffeggiare un giovane attivista delle sardine per un suo momento di incertezza nel parlare in pubblico. Basterebbe questo suo linguaggio totalmente privo di empatia, che giustifica e fomenta l’odio e il razzismo, per fare del capo leghista un impresentabile.

Oltre a rifiutare il contenuto violento delle sue parole, torniamo a smontare una per una le sue pericolose fake news a cominciare dall’invasione di migranti (che non c’è mai stata) che punterebbe alla sostituzione etnica dei bianchi, maschi, cristiani. Ma non solo.

Qui ci siamo applicati a ripercorrere la sua lunga serie di fallimenti e gli innumerevoli disastri che ha combinato, soprattutto da ex ministro e vice premier, recando grave danno al Paese.

Micidiali sono gli effetti dei due provvedimenti del governo giallonero che portano il suo nome. Il decreto Salvini “sicurezza e immigrazione” ha impresso una feroce stretta sui diritti cancellando i permessi di soggiorno umanitari e ha smantellato il sistema di accoglienza. In questo modo ha sospinto in una zona grigia i migranti, diventati “invisibili”, ha fatto crescere il numero degli «irregolari» e 15mila operatori, perlopiù giovani, rischiano di perdere il lavoro. Ben lungi dal rimpatriare 500mila persone senza permesso di soggiorno come aveva millantato con la sua politiche xenofobe, Salvini è solo riuscito ad andare a sbattere contro le leggi.

La Cassazione ha confermato che la capitana Carola Rackete di Sea Watch non andava arrestata perché ha agito per portare in salvo dei naufraghi. E se nel caso della nave Diciotti, Matteo Salvini si è salvato dal processo per sequestro di persona grazie all’assist dei grillini e di Conte, diverso è il caso della Gregoretti, nave della guardia costiera italiana con a bordo più di cento naufraghi che lui, in quanto ministro dell’Interno, non poteva bloccare a bordo, come invece ha fatto. E poi dove era il «rilevante interesse pubblico» che avrebbe giustificato quell’azione? Quali erano i«diritti costituzionali preminenti» che rischiavano di essere lesi? Sulla nave non c’erano terroristi né armi. Quel gruppo di stranieri provati e vulnerabili quale pericolo potevano mai rappresentare per l’interesse pubblico?

Salvini li ha usati come ostaggio per ridiscutere la ridistribuzione dei migranti. Se questo era lo scopo perché non si è mai impegnato per una revisione del trattato di Dublino quando era parlamentare europeo? La verità è che Salvini è stato un campione di assenteismo disertando ben 22 sedute come gli ha rinfacciato pubblicamente la ex parlamentare europea Elly Schlein durante la campagna elettorale per le elezioni in Emilia Romagna del 26 gennaio.

Il fatto che Salvini abbia detto ai suoi in Giunta per l’autorizzazione a procedere di votare per mandarlo a processo la dice lunga: dice che il lupo intende vestirsi da pecora. Ma pur facendo la vittima sarà difficile coprire la realtà e la gravità dei fatti.

A questo proposito è utile andarsi a rileggere un bel libro di Daniele Giglioli, Critica della vittima, in cui smaschera una pletora di ricchi e potenti che si sono finti martiri per ingannare e affermare un potere. Come insegnava già la favola di Fedro quello di uccidere la pecora e poi dire che gli aveva fatto un torto, non solo lei ma tutti i suoi avi, è un antico vizio di certi lupi.

Che non hanno nulla dell’eroe ma sono solo dei prepotenti pericolosi. Forti con i deboli che impongono il daspo urbano ai più poveri, che multano chi protesta, come è accaduto a lavoratori e due studentesse a Prato colpevoli di aver manifestato pacificamente per strada e come paradossalmente rischia di accadere ai pastori sardi a cui la Lega di Salvini si era proposta come interlocutore, fingendo di sostenerne la lotta. Lupi travestiti da pecore che mentre fingono di fare gli interessi del popolo, propongono provvedimenti che aiutano solo le classi più agiate, come la flat tax e l’autonomia differenziata.

Mentre fingono di lottare contro l’Europa dei mercati votano i trattati neoliberisti e sostengono il meccanismo europeo di stabilità (Mes) salvo poi mostrarsi smemorati. Il lavoro? Non lo creano interventi di Stato, ma solo i privati e le partite Iva ha detto Salvini a Porta a Porta in una delle sue innumerevoli comparsate in tv. Per non dire poi di certi lupi travestiti da agnelli che, sentendosi onnipotenti, pretendono «pieni poteri». Per nostra fortuna esistono ancora baluardi democratici e organi costituzionali come la Consulta che ha bocciato la proposta di referendum Calderoli che avrebbe rischiato di portarci dritti a un maggioritario secco all’inglese.

Non è riuscita la spallata, il referendum è stato giudicato «manipolativo». Ora dopo che la Lega di Bossi è stata costretta a restituire 49 milioni (in comode rate), aspettiamo novità sul Russiagate che vede coinvolto – tra gli altri – l’ex portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, quello che sulla sua scrivania in redazione alla Padania teneva foto di Hitler. C’è bisogno di dire altro su questi signori, muniti di rosari, che dicono di agire nel nome del popolo?

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 24 gennaio

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Finisce sempre così

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 06-03-2019 Roma Politica Camera dei Deputati - Question time Nella foto Luigi Di Maio, Giovanni Tria Photo Roberto Monaldo / LaPresse 06-03-2019 Rome (Italy) Chamber of Deputies - Question time In the pic Luigi Di Maio, Giovanni Tria

Di solito accade quando c’è un momento di vuoto politico, accade perché cambiano gli scenari e perché i paradigmi ormai non funzionano più e riesce molto meglio quando c’è una crisi economica che accende una depressione sociale: qualcuno arriva al momento giusto, al posto giusto, con la faccia giusta, con il vocabolario giusto, con la giusta simpatia, con la giusta indignazione che viene espressa nel modo giusto e riesce ad avere un immediato e insperato seguito.

Inizia dicendo che lui non vuole rappresentare nessuno ma intanto piano piano si costruisce un cerchio magico, inizia un’organizzazione dei quadri dirigenti. Quando li intervistano dicono che non diventeranno mai un partito. Poi dicono che saranno solo un movimento, uno stimolo ai partiti. Poi decidono di partecipare alle elezioni, ma solo come movimento. Quando ormai sono un partito ci tengono a dire che non sono mica un partito come gli altri partiti e fanno finta di non sapere che tutti i partiti dicono così.

Poi accade che lo scontento (o comunque la spinta generale) non basti e non serva per fare politica. In politica tocca decidere: o si è d’accordo su una riforma o si è contro oppure si propone una strada intermedia. Bisogna scendere per terra, prendere posizione e ogni volta che non parli per concetti generali inevitabilmente scontenti qualcuno. Per intendersi : se 100 su 100 sono contro la povertà (facile, così) 30 la vorranno risolvere in un modo, 10 in un altro, 20 in un altro e 40 in un altro modo ancora. Così accade che perdi consenso. Normale, inevitabile, matematico.

Quando perdi consenso il partito che non doveva essere un partito si spezza in correnti (che poi sono quelli che vorrebbero risolvere la povertà in modi diversi, sempre loro) e quello che era il grande capo che ha avuto la bravura di cogliere l’attimo (all’inizio di quella storia) viene accusato di un calo di consensi che non è nient’altro che una trasformazione. Quelli che criticano il capo dicono di non volere mica fare i capi (si applica la stessa regola dei partiti che non volevano essere partiti) ma alla fine brigano per la caduta del leader e ovviamente per sostituirlo. Si crea una gran confusione e quel movimento è visto come un partito proprio come tutti gli altri.

Si creerà sfiducia generale verso la politica e ci sarà qualcuno che ricomincerà di nuovo.

Buon giovedì.

I beni confiscati alla criminalità in aiuto alle donne vittime di violenza

Cinque case confiscate alla criminalità ora saranno un luogo di accoglienza per le donne vittime di violenza grazie al progetto «Differenza Donna in rete», promosso dall’Ong Differenza Donna. L’iniziativa è stata presentata il 22 gennaio alla Sala della Stampa estera a Roma. «Questo è il primo caso in Italia di collaborazione tra la sezione confische del Tribunale di Roma e la nostra associazione per la costruzione di un progetto sistemico di sostegno per le donne in uscita dalla violenza» spiega a Left Elisa Ercoli, presidente di Differenza Donna. La scelta di riassegnare i beni confiscati alla criminalità rendendoli protagonisti di un percorso di uscita dalla violenza delle donne e dei loro figli ha una forte valenza culturale, oltre che legale. Nella creazione del progetto si è instaurato un rapporto di reciprocità con le istituzioni che fa ben sperare in un momento in cui le case rifugio sono sempre meno e i posti letto disponibili per le donne che ne hanno bisogno restano di molto sotto la soglia prevista per legge. La volontà di vedere i problemi e riconoscere le criticità che queste donne devono affrontare rende questo progetto un importante tassello nella rivoluzione della cultura cosiddetta patriarcale, portata avanti dai movimenti e dalle associazioni di donne.

La prima differenza con il passato è che l’assegnazione dei beni in via di confisca alla criminalità è arrivata prima che si arrivi al terzo grado di giudizio, una procedura lunga che può durare talmente tanto da rendere il bene in questione inutilizzabile a causa del degrado portato, ad esempio, dalla mancanza di manutenzione. La proposta di agevolare le operazioni è arrivata dal presidente della Sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Roma (che si occupa appunto delle confische) Guglielmo Muntoni, ora in pensione ma che continuerà a seguire il progetto a fianco del nuovo presidente. «Le case che noi abbiamo ricevuto hanno superato il primo grado e stanno terminando il secondo» dice Ercoli. «Il Tribunale ha rilasciato delle nuove linee guida in cui ha dato l’opportunità direttamente alle associazioni di gestire questi beni prima che arrivino alla confisca definitiva, abbattendo i tempi di attesa che sono previsti invece nel caso in cui si debba passare dagli enti locali», ci spiega. «Le cinque case che per ora ci sono state assegnate fanno parte di un progetto che prevede varie fasi, per rispondere a tutti i bisogni concreti delle donne, delle bambine e dei bambini sopravvissuti alla violenza. Ci tengo a specificare che il progetto è rivolto a tutte le donne, senza nessuna distinzione e non lasciando mai escluso nessuno», conclude Ercoli.

La prima casa, situata in via Tacito, nel quartiere Prati, diventerà la sede principale del progetto e sarà anche la sede del primo osservatorio per le donne con disabilità vittime di violenza. Questa struttura sarà riservata alla fase di emersione dalla violenza, con anche un servizio di assistenza telefonico: in totale la presidente Ercoli stima che si arriverà ad aiutare circa 1500 donne l’anno.

«A Ostia ci sarà la casa rifugio di emergenza, un luogo che offrirà accoglienza a circa 96 donne ogni anno. Qui verranno ospitate per massimo 15 giorni quelle donne che arrivano al pronto soccorso a rischio di vita, eventualità che rende impossibile per loro ritornare a casa. In queste situazione noi di Differenza Donna abbiamo bisogno, come le forze dell’ordine e la magistratura, di un posto sicuro dove le donne possano incontrare persone che le sappiano orientare verso l’uscita dalla violenza. Una scelta, questa, che spesso viene compiuta quando sono presenti delle alternative concrete e sostenibili, ma soprattutto quando viene concesso alle donne del tempo per riflettere» racconta Ercoli. «Quando si parla di emergenza la spinta istituzionale è spesso quella di collocare la donna rapidamente. Invece abbiamo potuto notare che inserire una donna che ancora indecisa all’interno di un contesto di una casa rifugio, circondata invece da donne che hanno già scelto, causa delle difficoltà per le donne stesse. La casa di Ostia servirà proprio a offrire loro un contesto che le faccia sentire protette e libere di scegliere avendone il tempo», continua la presidente.

Sempre nel quartiere Prati ci sarà la casa dedicata ai bambini e alle bambine. «Gestendo i centri antiviolenza dal 1992 e seguendo anche le donne nei procedimenti penali e civili, ci troviamo ad accompagnarle per tanti anni. In questo processo abbiamo potuto notare come i bambini e le bambine a volte ricevono inizialmente un sostegno dalle istituzioni, sostegno che però negli anni purtroppo si è sempre più sfaldato» spiega la presidente. La casa di Prati sarà un punto di riferimento continuo per i bambini e le bambine che si sono trovati a vivere una situazione di violenza o che hanno perso la mamma perché vittima di femminicidio, oltre che un luogo dove le mamme e i loro figli possano riconsolidare il rapporto, se necessario, dopo aver vissuto una situazione gravissima come quella da cui escono.

La quarta casa, nel centro di Roma, è dedicata alla semi-autonomia, dove le donne potranno risiedere per un anno insieme ai loro figli. «In questa struttura le donne potranno consolidare la loro situazione economica e lavorativa, dando in questo modo anche più solidità alle loro vite», racconta Ercoli.

L’ultima casa è in realtà una villa a Fregene che si occuperà di ospitare donne vittime di tratta degli esseri umani con lo scopo dello sfruttamento sessuale. «Noi dell’associazione siamo da sempre impegnate nel contrasto alla tratta e agli sfruttamenti sul nostro territorio, collaboriamo anche con la commissione territoriale per i richiedenti asilo per far emergere le situazioni di tratta che colpiscono in particolare le donne, per quanto riguarda noi di Differenza Donna. Ci tenevamo tantissimo che le vittime di questa terribile forma di violenza potessero beneficiare di questa bellissima villa di Fregene che avrà quattro posti di primo livello, che prevedono una permanenza di un anno, e poi altri due posti in semi-autonomia» dice a Left Elisa Ercoli.

Il progetto, che farà da modello in tutta Italia, prevede di accogliere o aiutare ad uscire dalla violenza circa 1800 donne l’anno. Altro lato innovativo di questa iniziativa è che i finanziamenti sono tutti provenienti da donatori privati, senza alcun contributo pubblico. «Ikea, ad esempio, si è offerta di arredare gratuitamente le case entro il 31 marzo, in modo da renderle accessibili e operative a partire dal primo aprile» racconta Ercoli. Quello delle case confiscate alle criminalità è solo il primo passo: Differenza Donna pensa di ingrandire il progetto con l’aggiunta di altre case o anche di attività commerciali in cui coinvolgere le donne vittime di violenza. Una grande conquista per loro, un doppio smacco alla criminalità e al patriarcato.

Il paurismo in tv, un’arma di distrazione di massa

Nei giorni scorsi il Corriere della Sera, in vista del voto in Emilia, ha titolato “Sardine, la grande festa (e la paura) ” dove abbiamo letto: «Le paure si esorcizzano meglio sentendosi moltitudine … e di paura, tra il pubblico, ieri, ce n’era davvero tanta». Questo termine, la paura, si ripropone di grande attualità come categoria dell’analisi politica. Non solo per quanto le competizioni regionali di quest’anno che potrebbero fare scaturire sviluppi inattesi. Lo stesso Governo Conte due  è nato e poggia  buona parte della sua consistenza sul timore che una possibile tornata elettorale nazionale possa vedere avvantaggiata la Lega di Matteo Salvini, come molti sondaggi lasciano intendere. L’azione politica dunque estende i suoi perimetri verso dimensioni non più e non solo programmatiche, sulle proposte con le quali si ricerca il consenso e quindi il voto popolare ma verso i comportamenti individuali e collettivi, verso meccanismi complessi di diffusione e percezione della realtà, sull’uso di linguaggi e di “racconti” graniticamente mediatici, in altre parole fondati su un uso massiccio e intensivo della comunicazione audiovisiva. In questa chiave si può leggere la “fortuna” di chi ha saputo, forse per primo in Italia, utilizzare le nuove forme e gli strumenti di comunicazione elettronica meglio di molti altri. La combinazione di tecnologie, scelta dei contenuti, tempi di esposizione e modalità “narrative” sembra costituire la combinazione perfetta del nuovo manuale di comunicazione politica.

In questi termini si colloca, in primo luogo, la televisione. Nei giorni scorsi l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AgCom) ha segnalato per l’ennesima volta la violazione degli  obblighi imposti dalla Legge sulla par condicio. L’Autorità si è rivolta a Rai, RTI, La7 e Sky affinché  «provvedano ad assicurare nei notiziari un’immediata e significativa inversione di tendenza rispetto a quanto rilevato nel trimestre settembre-novembre 2019 … in particolare, i tempi fruiti da alcuni soggetti politici non sono risultati coerenti con le rispettive rappresentanze parlamentari». Il meccanismo è molto semplice: invadere lo schermo in ogni modo, circostanza e occasione a partire dai telegiornali anzitutto ma senza disdegnare l’intrattenimento e se necessario pure i documentari. Attenzione: il problema non è solo la persona (in questo caso Salvini che da solo ha occupato nei Tg due volte il tempo di Di Maio e tre volte quello di Zingaretti) ma il come, quanto e dove il “racconto” sociale, culturale  viene svolto. Ad esempio, il tema migranti non richiede un volto particolare per suscitare “timore” o allarme e non è necessario mostrare immagini “minacciose” per suscitare emozioni in grado di modificare la percezione del problema.  È sufficiente la continua, martellante, ossessiva riproposizione del problema stesso per farlo apparire, per essere percepito, come più rilevante rispetto ad altri. La televisione dunque costituisce il primo livello d’interazione tecnologica della comunicazione politica che, nella declinazione successiva, inserisce l’uso dei cosiddetti ”social”. Sempre più spesso, infatti, è facile vedere in un telegiornale l’inserimento di dichiarazioni provenienti da Facebook piuttosto che da Twitter. Quest’ultimo, in particolare, si presta perfettamente per l’uso televisivo: anzitutto per i tempi, dettati dal numero delle battute che si possono utilizzare, e poi per l’immagine che viene proiettata a supporto del testo, il tutto a costo pressoché zero.

Come abbiamo prima accennato, sembra che siano i telegiornali la preda più appetibile della comunicazione politica: vedi pure l’attuale contesa per la nomina dei direttori delle testate Rai, dove ogni schieramento partitico vorrebbe intestarsi una casella a sua immagine e somiglianza. Al contrario di quanto avviene per le testate giornalistiche stampate dove, per quanto si legge su YouTrend, hanno subito una drastica riduzione delle vendite: vedi esempio del Corriere della Sera, passato dalle oltre 620 mila copie nel 2003 a 212 mila nel 2018.

È in corso una mutazione genetica importante nella composizione del pubblico televisivo e nelle modalità di fruizione delle notizie: i giovani da tempo sono orientati a comporre una personale “dieta” informativa che non vede più la televisione al suo centro. I dati ci dicono che i giovani fino a 35 anni  s’informano e si documentano, verificano e controllano i fatti, attraverso i cellulari, i tablet, il computer mentre gli “anziani” sono rimasti con telecomando adagiati sul divano di casa.

Interessante una notazione su Tik Tok, una nuova App oggi di grande successo, in particolare tra i cosiddetti “millennials”. Ancora una volta, il primo ad esplorare questo nuovo territorio come pure avvenne con Twitter (con il suo buon maestro Donald Trump),  è stato il leader della Lega che, seppure non raggiunge cifre di followers di grande rilievo ha colto il risultato di aprire il fronte della ricerca del consenso, del gradimento “simpatico” attraverso un linguaggio meta politico composto più di gesti e ammiccamenti che non di proposte. I pochi secondi a disposizione non consentono, infatti, la formulazione di un messaggio compiuto ma potrebbero essere sufficienti a renderlo più simile, umanamente più leggibile e quindi “vicino” a chi dovrebbe votarlo.

Questo il contesto mediatico della paura e di come possa essere utilizzata in modo scientifico, razionale e pianificato. Si tratta di una nuova “arma di distrazione di massa” dai potenziali devastanti, nell’intensità e nell’estensione. La politica ne ha fatto strumento “moderno”  e adattato ai nuovi paradigmi della civiltà contemporanea che poggia sulle immagini il suo capitello granitico. Alcuni anni addietro fu coniato il neologismo Paurismo. È di grande attualità e oggi potrebbe costituire un nuovo programma politico.

Per approfondire:

Gli italiani e le paure

Lo scorso ottobre Italiani.coop  (1) ha reso note le ultime rilevazioni sulle paure degli italiani sul Web effettuate attraverso le query di Google Trend ed emergono informazioni interessanti. Al netto dei timori privati o personali (animali, volare, il dentista o i clown) quelli riferiti ai sentimenti  più marcatamente “sociali” come la paura, la  gioia, la sorpresa, la rabbia, la tristezza e il disprezzo (vedi la classificazione di Paul Elkan) nel corso degli ultimi dieci anni hanno subito profondi mutamenti. Tra questi, il termine che ha avuto più attenzione  è stato esattamente la paura che da sola occupa più del 50% delle ricerche. Dal 2007 al 2019 il timore di perdere il posto di lavoro passa dal 3° posto al 25°, la paura del prossimo futuro scende di 6 posizioni mentre un timore associato, il cambiamento, sale dal 23° al 18 posto insieme alla solitudine che sale di una posizione rimanendo tra i timori più diffusi. La paura degli stranieri nonostante il grande clamore mediatico, rimane stabile in fondo alla classifica e si attesta dal 36° al 37° posto.

Pochi mesi dopo giunge la 53a  edizione del Rapporto Censis (2) dove ogni anno si fotografa la situazione del paese nelle sue principali connotazioni sociali, economiche, culturali e politiche. A proposito di paura si legge: “Sfuggiti a fatica al mulinello della crisi, adesso l’incertezza è lo stato d’animo con cui il 69% degli italiani guarda al futuro, mentre il 17% è pessimista e solo il 14% si dice ottimista” e più avanti “E secondo il 69% l’Italia è ormai un Paese in stato d’ansia (il dato sale al 76% tra chi appartiene al ceto popolare). Del resto, nel giro di tre anni (2015-2018) il consumo di ansiolitici e sedativi (misurato in dosi giornaliere per 1.000 abitanti) è aumentato del 23% e gli utilizzatori sono ormai 4,4 milioni (800.000 di più di tre anni fa). Disillusione, stress esistenziale e ansia originano un virus che si annida nelle pieghe della società: la sfiducia. Il 75% degli italiani non si fida più degli altri, il 49% ha subito nel corso dell’anno una prepotenza in un luogo pubblico (insulti, spintoni), il 44% si sente insicuro nelle vie che frequenta abitualmente, il 26% ha litigato con qualcuno per strada”.

Una ulteriore informazione sulle paure degli italiani  si può trarre  da alcuni dati forniti dal Ministero degli Interni  (3) a fine maggio dello scorso anno: “-9,2% i reati in generale in Italia, -15% gli omicidi, le violenze sessuali e i tentati omicidi. In calo anche le presenze di stranieri in accoglienza -31,87%: dalle 170mila al giorno, rilevate al 13 maggio 2018, alle 115.894 conteggiate al 13 maggio 2019”.

Infine, interessante riportare i numeri proposti dalla ricerca Demos&Pi lo scorso anno (pubblicato sul sito di AgCom) dove vengono confrontate le serie storiche degli ultimi dieci anni dove si legge che mentre rimane pressoché stabile l’insicurezza globale (ambiente e natura, guerra, alimentazione e globalizzazione) scende di rilievo l’insicurezza legata alla criminalità (furti, rapine aggressioni etc). più dettagliatamente: le fasce di età maggiormente “preoccupate” sono comprese tra i 25 e i 54 anni e i temi più avvertiti e in crescita sono quelli sull’ inefficienza e corruzione politica  seguiti dalla criminalità. (4)

(1) https://www.italiani.coop/una-cronaca-che-fa-paura/

(2) sintesi 53° Rapporto Censis  http://www.censis.it/rapporto-annuale/il-furore-di-vivere-degli-italiani

(3) https://www.interno.gov.it/it/notizie/reati-92-3187-presenza-stranieri-i-dati-2019-viminale

(4) http://www.demos.it/2019/pdf/49772019_rapporto_sicurezza_demos_unipolis.pdf

Un bullo di quartiere al citofono

Oggi di buongiorno tocca farne due perché l’ex ministro dell’Interno Salvini, probabilmente obnubilato dal digiuno, è riuscito a toccare il fondo ancora più in fondo del solito superando ogni potabile decenza mentre suonava al citofono di un privato cittadino colpevole, secondo le voci di quartiere, di essere uno spacciatore.

Un processo sommario e per direttissima in cui l’uomo dei pieni poteri si è attaccato al citofono come un venditore di scope elettriche accompagnato da una selva di telecamere e giornalisti plaudenti.

Qualche considerazione, veloce veloce: quanta vigliaccheria ci può essere nell’accusare in diretta di fronte a milioni di persone un uomo, dando nome e cognome, per sentito dire, accompagnato dalla scorta senza la quale Salvini non ha nemmeno il coraggio di lavarsi i denti (cit. il premio Campiello Andrea Tarabbia)?

Perché Salvini si attacca alla gola solo dei disperati e non citofona mai a un ‘ndranghetista (ce ne sono migliaia con sentenze passate in giudicato senza bisogno delle voci del condominio) chiedendogli «scusi lei è un mafioso?»

Perché Salvini non citofona ai poteri forti davvero forti come una multinazionale qualsiasi che devasta la nostra economia chiedendo «scusi, lei è un evasore?»

Perché Salvini teme i suoi processi, si inventa nuovo Silvio Pellico, e intanto sputa addosso agli altri addirittura le sentenze?

Perché le forze dell’ordine si prestano a insozzare la divisa seguendolo nelle sue scorribande?

Perché i giornalisti non si rendono conto che tutto questo orrore è ingrassato dalla nostra indignazione ma è tenuto in vita dal loro servilismo? Perché nessun giornalista ha messo Salvini di fronte alla brutalità del suo gesto piuttosto che farne la corte?

E soprattutto perché Salvini se la prende solo con i disperati, meglio se stranieri?

Perché quella è la sua dimensione, solo quella: il pubblico ubriaco di cattivismo, le telecamere, il condominio. La sua dimensione è quella del bulletto di periferia. Che vorrebbe essere Presidente del Consiglio.

Buon mercoledì. Ancora.

I nonni sono diventati un ammortizzatore sociale

II quadro che emerge dai dati forniti dall’Istat nel report sulle condizioni di vita dei pensionati 2017-2018 conferma la condizione di sofferenza in cui versano milioni di persone con pensioni sempre più basse, che collocano, loro e le loro famiglie, sul limitare o spesso sotto la soglia di povertà. Un’analisi ragionata dei dati poi mostra purtroppo la permanenza di squilibri e divari che confermano ancora di più quanto la società italiana sia segnata negativamente dalle le politiche antipopolari degli ultimi anni.

Ma mostra anche la straordinaria resilienza dei ceti popolari nell’affrontare difficilissime condizioni materiali praticando forme basilari di solidarietà, quelle familiari, per sopperire alla scarsità di salari e servizi.
 Nella distribuzione dei redditi da pensione risulta confermata la spinta alla polarizzazione dei redditi e alla crescita delle disuguaglianze accentuata negli ultimi decenni dall’attacco ai redditi da lavoro e dalla finanziarizzazione dell’economia.

Infatti ci dice l’Istat che e il «20% di quanti percepiscono i redditi pensionistici più bassi dispone del 5,2% del totale delle risorse pensionistiche mentre il quinto più ricco ne possiede otto volte di più (42,4%)», cioè i più poveri prendono pensioni 8 volte più basse. Sicuramente ciò è dovuto all’esistenza di un eccesso di pensioni d’oro, ma soprattutto al fatto che ben 5 milioni e 800 mila pensionati ricevono meno di mille euro di pensione e circa 2 milioni cumulano meno di 500 euro.

Dati drammatici che concorrono a spiegare quelli sulla povertà in Italia forniti recentemente sempre dall’Istat: 5 milioni di persone vivono in stato di povertà assoluta e 9 milioni di persone in condizione di povertà relativa.
 Le discriminazioni economiche nei confronti delle donne sono un altro grande problema del Paese che risulta confermato anche in riferimento al valore delle pensioni. 
Le donne ricevono il 55% delle pensioni e rappresentano il 52% delle persone pensionate, ma ricevono solo il 44% della spesa complessiva; l’importo medio delle pensioni di vecchiaia delle donne è più basso di quello degli uomini del 36%; secondo gli ultimi dati dell’Inps sono per le donne il 75 per cento degli assegni sotto i 750 euro.

Le donne pagano due volte; prima stentando a raggiungere l’età della pensione, poi con pensioni più basse degli uomini le discriminazioni subite in tutto l’arco della vita lavorativa: salari ridotti, carriere lavorative discontinue, non riconoscimento a fini pensionistici del lavoro riproduttivo e di cura.
Il grave divario Nord Sud è un altro fenomeno che emerge con forza dal report dell’istituto di statistica, a conferma del fatto che la gestione neoliberista della crisi accentua i divari economici e sociali invece che ridurli: chi è povero diventa più povero, chi è ricco diventa più ricco.

Può essere ovvio, vista la distribuzione dell’occupazione nel Paese, ma non meno grave il fatto che il nord beneficia di più del 50% della spesa pensionistica mentre il mezzogiorno riceve solo il 27, 8%: piove sul bagnato. Non altrettanto ovvio che nel sud dove sono più diffuse le pensioni assistenziali, il quinto di popolazione che appartiene alla fascia di reddito da pensione più basso percepisce fino a un massimo di 7 mila euro lordi annui, al nord lo stesso quintile riceve il 30% in più.

Eppure sono i pensionati del sud più di quelli del nord a svolgere il ruolo di aiuto ai figli e ai nipoti in sostituzione di un lavoro che non c’è e di un welfare assente: nel mezzogiorno sono il 25% i pensionati che vivono in famiglie con figli, mentre la media nazionale si attesta al 18,8% e al nord è ancora più bassa.
 E questo nonostante anche la media delle famiglie di pensionati del Sud e delle Isole presentano un’incidenza del rischio di povertà quasi tripla rispetto a quella delle famiglie residenti nel Nord e più che doppia rispetto a quelle del Centro.

Un’altra questione che emerge dai dati smentisce nel modo più lampante i fiumi d’inchiostro spesi per alimentare la retorica del conflitto intergenerazionale, dei vecchi che rubano il futuro ai giovani. Al contrario risulta indispensabile la solidarietà dei pensionati nel sostegno alle famiglie gravemente impoverite dalla difficoltà dei giovani a trovare lavoro, da bassi salari e lavori precari, carenza di servizi, costi sanitari, affitti insostenibili. Per ben 7 milioni e 400 mila famiglie le entrate da pensione rappresentano i tre quarti del reddito disponibile.

Dati confermati dalla ricerca effettuata per la Fondazione Di Vittorio nel 2019 secondo la quale il 37, 5% dei pensionati, circa 6 milioni di anziani aiutano economicamente i familiari, soprattutto figli e nipoti; altro che conflitto generazionale! Siamo di fronte a un vero e proprio ammortizzatore sociale, che vale circa 10 miliardi, molto più del reddito di cittadinanza, senza il quale molti giovani e famiglie cadrebbero nella disperazione della povertà e della grave deprivazione materiale.

Fatto ancor più significativo se si considera che la metà di questi pensionati, tre milioni, vivono in famiglie che hanno all’interno una persona non autosufficiente con tutte le necessità di cura e di costi che ne conseguono. La presenza di un pensionato all’interno di nuclei familiari “vulnerabili” consente quasi di dimezzare l’esposizione al rischio di povertà, dal 31,6% al 16,1%. 
È certamente una forma di risposta prepolitica quella che oppone la solidarietà intergenerazionale cementata da legami familiari al tentativo di chi prima crea le fratture sociali reali e poi prova a mettere i giovani contro i vecchi nella logica di espandere la guerra di tutti contro tutti. Almeno in questo caso il gioco non è riuscito e non è poco.

Anche dall’analisi della distribuzione delle pensioni emerge dunque l’immagine di una società polarizzata di cui portano la responsabilità tutti i governi che in ossequio ai deliri dell’austerità e dei vincoli di bilancio hanno perseguito tenacemente la riduzione dei redditi da pensione, l’allungamento della vita lavorativa e la distruzione del sistema previdenziale pubblico a vantaggio di quello privato. 
Da questa analisi esula un ragionamento sulle pensioni delle future generazioni, ma è chiaro che se non si riescono a mettere in discussione i pilastri della legge Fornero, per i giovani di domani e per le donne si prospetta una vita lavorativa senza termine e pensioni da fame.

La lotta dei lavoratori francesi, che ha ottenuto un risultato parziale ma importante, è un’occasione importante per allargare il conflitto agli altri Paesi e stare all’altezza dell’attacco neoliberista forte dei trattati e dei vincoli di quest’Europa dei capitali e della finanza.
Guai a chi si assume la responsabilità di lasciarli soli come è già accaduto con la Grecia.

Antonello Patta è responsabile nazionale Lavoro PRC-S.E.

Ah, se si facessero le domande

Ieri ha girato molto il video di cui Elly Schlein, candidata alle elezioni regionali in Emilia Romagna con la Lista ER Coraggiosa e ex eurodeputata per Possibile, ferma il suo ex collega all’europarlamento Matteo Salvini per chiedergli perché la Lega non abbia mai partecipato alle 22 riunioni sui negoziati per la riforma del trattato di Dublino che blocca in Italia i richiedenti asilo. Matteo Salvini ha indugiato a lungo sul telefono, non ha saputo cosa rispondere e se n’è andato. Ma non è questo il punto.

Il video è stato condiviso diverse volte ed è stato ripreso da tutte le testate giornalistiche come se fosse accaduto qualcosa di straordinario degno di stare nella colonnina delle notizie sensazionali. E in effetti qualcosa di sensazionale c’è: una candidata alle regionali ha posto una domanda che Salvini (quello che è sempre in televisione, lo dicono le statistiche) non ha mai dovuto affrontare nel quintale di interviste che gli vengono fatte ogni giorno.

Un cittadino che chiede a un politico è un fatto che qui da noi genera clamore. Incredibile. Lo stupore che si è generato però fotografa perfettamente la pessima abitudine di vedere i nostri politici (vale per tutti) che sciorinano i loro monologhi accompagnati da giornalisti che si comportano come servizievoli camerieri. Non so se vi sia mai capitato ad esempio di vedere le dichiarazioni dei politici all’interno dei telegiornali: guardano in camera, ben pettinati e sistemati e provano e riprovano il tono della voce e la mimica facciale. Ogni tanto capita in qualche trasmissione satirica che vengano proposti anche i fuori onda: sono decine di prove e ri-prove come a un casting. Comunicazione unidirezionale: le interviste sono semplicemente dei post sui social un po’ più lunghi e detti a voce.

Se si potessero fare le domande si potrebbe chiedere di tutto, a tutti: si potrebbe chiedere al Pd come si sente dopo avere distrutto l’articolo 18 e avere demolito il mondo del lavoro, si potrebbe chiedere a Renzi com’era quella storia che chi se ne andava dal Pd doveva dimettersi dal Parlamento, si potrebbe chiedere a Berlusconi di chi sia stato tramite Marcello Dell’Utri nei suoi rapporti con Cosa Nostra, si potrebbe chiedere alla presidente del Senato Casellati come fosse quella storia di Ruby nipote di Mubarak, si potrebbe chiedere a Di Battista che fine abbia fatto il suo libro su Bibbiano, si potrebbe chiedere alla dirigenza di Leu come fosse quella storia della sigla elettorale che non era solo una sigla ma che si sarebbe fatta partito, si potrebbe chiedere a Giorgia Meloni come si può apparire nuovi dopo una vita intera passata in politica. Insomma, se ci pensate sarebbe una televisione molto più scoppiettante se si facessero le domande. Sarebbe un giornalismo più giornalismo se si facessero le domande. No?

Buon mercoledì.

Sovraffollamento, abusi e diritti violati: le carceri diventano luoghi di tortura

Foto LaPresse - Stefano Porta 11/07/2017 Bollate ( Mi ) Cronaca Servizio nella casa di reclusione di Bollate Nella foto: la vita all'interno del carcere

Un rapporto pubblicato il 21 gennaio dal Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura (Cpt) fotografa una situazione molto critica delle nostre carceri sotto diversi punti di vista. Innanzitutto da quello del sovraffollamento: «La popolazione carceraria italiana totale ha continuato ad aumentare in modo progressivo. Il Comitato invita nel suo rapporto le autorità italiane a garantire che ogni detenuto disponga di almeno 4 mq di spazio personale vitale nelle celle collettive e ad adoperarsi per promuovere maggiormente il ricorso a misure alternative alla detenzione». Il quadro dipinto dal comitato è confermato anche dai dati statistici forniti dal ministero della Giustizia: al 31 dicembre 2019, a fronte di una capienza regolamentare di 50.688 posti, sono 60.769 i reclusi presenti, di cui circa 10.000 in attesa di primo giudizio. A ciò si aggiungono, stando ancora al rapporto, «carenze materiali riguardanti essenzialmente i locali, docce fatiscenti e insalubri, la struttura spartana ed austera dei cortili di passeggio e in alcuni casi la qualità scadente del cibo».

Il secondo punto di vista si focalizza sui maltrattamenti fisici inflitti ai detenuti da parte del personale di polizia penitenziaria: il rapporto illustra alcuni casi di percosse (anche nei confronti di un detenuto sottoposto a regime “41-bis”) su cui sono state raccolte informazioni, in particolare nel carcere di Viterbo. «Tali maltrattamenti – prosegue il documento del Comitato – consistevano principalmente nell’estrarre i detenuti dalla loro cella a seguito di un evento critico e nell’infliggere loro calci, pugni e colpi di manganello in luoghi non coperti da telecamere a circuito chiuso. Il Comitato ha potuto osservare nelle cartelle cliniche dei detenuti in questione descrizioni di lesioni corporali considerate compatibili con le accuse di maltrattamento».

Fra i maltrattamenti denunciati e raccolti dal Cpt, c’è quello di bruciare i piedi a un detenuto soggetto al 41 bis per verificare se stesse fingendo uno stato catatonico. Ma anche il caso di un detenuto preso a pugni da un gruppo di agenti verosimilmente per fargli dire come fosse riuscito a far entrare nel carcere un cellulare trovato nella sua cella. Nel suo rapporto, il Cpt scrive che a Viterbo «alcuni detenuti, intervistati separatamente, hanno identificato specifici agenti e ispettori come autori di numerosi episodi di presunti maltrattamenti e hanno parlato dell’esistenza di un gruppo informale d’intervento punitivo della polizia penitenziaria o squadretta». Inoltre, l’organo di Strasburgo sostiene che, «anche se la maggior parte dei carcerati ha affermato di essere trattata correttamente», la delegazione che ha condotto la visita ha «ricevuto denunce su un uso eccessivo della forza e maltrattamenti fisici» anche nelle carceri di Biella, Milano Opera e Saluzzo.

Nel terzo punto, forse quello più significativo, il Cpt raccomanda di abolire la misura d’isolamento diurno (che può andare dai due mesi ai tre anni) imposta dal tribunale come sanzione penale accessoria per i detenuti condannati a reati che prevedono la pena dell’ergastolo. Il Comitato considera «anacronistico», in particolare alla luce degli effetti dannosi che l’isolamento prolungato può avere su detenuti che intraprendono un percorso positivo di risocializzazione.

In ultimo, il Cpt ha esaminato l’applicazione delle estese restrizioni imposte ai detenuti soggetti al regime detentivo speciale previsto dall’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario presso le carceri di Milano Opera e di Viterbo, «rilevando le carenti condizioni materiali di detenzione osservate nelle celle (come un accesso insufficiente alla luce naturale e una ventilazione inadeguata), nelle sale comuni (mobilio fatiscente e illuminazione artificiale non funzionante) e nei cortili adibiti al passeggio, la carenza di attività minime destinate a creare momenti propositivi e la limitata dimensione dei gruppi di socialità (un massimo di quattro componenti, ridotto a due nelle cosiddette aree riservate). Tutto ciò impone «di avviare una seria riflessione sul bilanciamento tra le esigenze di lotta alla criminalità organizzata e il rispetto del concetto della funzione rieducativa della pena, alla luce dell’articolo 27 della Costituzione italiana».

Sollecitata dai giornalisti, la senatrice a vita Liliana Segre dopo la sua visita nella casa circondariale milanese di San Vittore dove ha incontrato i reclusi e dove lei stessa fu trattenuta prima di essere deportata ad Auschwitz ha così commentato: «Io sono sempre perché ci sia umanità; poi le guardie carcerarie possono essere troppo poche per la quantità di detenuti che ci sono. E troppi detenuti sono in uno spazio che dovrebbe essere più grande. È questo il mio parere da cittadina che legge i giornali».

Alessandro Capriccioli, consigliere regionale del Lazio di PiùEuropa che si è occupato da vicino delle problematiche del carcere di Viterbo, ha rivelato che «le percosse, i casi di violenza, i soprusi, l’esistenza di una ”squadretta punitiva” mi sono stati raccontati da diversi detenuti ed ex detenuti, in diversi momenti e contesti. Ho cercato di portare fuori dal carcere questi racconti, chiedendo che se ne accertasse la veridicità e che se ne chiarissero i contorni, e tre mesi fa ho chiesto formalmente al Ministro Bonafede un incontro in cui poter riferire quanto avevo visto e ascoltato, senza tuttavia ricevere alcuna risposta».

Per l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, si tratta di una «notizia clamorosa» soprattutto in relazione al 41bis e denuncia: «Qui in Italia governo e Parlamento non fanno nulla» mostrando l’incremento dei detenuti dal 2016 nonostante la sentenza Torreggiani nel 2013 avesse condannato il nostro Paese per la violazione dell’articolo 3 della Cedu, concernente trattamenti inumani o degradanti subiti da sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione.

Per Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone, «la spinta riformatrice post sentenza Torreggiani si è fermata e questo ha prodotto e sta producendo un peggioramento delle condizioni di detenzione, con situazioni gravi sulle quali chi ha responsabilità politiche dovrebbe intervenire con urgenza».

Zagabria dice no a Chiesa e neofascisti

05.01.2020, Zagreb, CRO, Präsidentschaftswahl in Kroatien, Der Sozialdemokrat Zoran Milanovic wird neuer Präsident Kroatiens. In der Stichwahl setzte er sich gegen die konservative Amtsinhaberin Kolinda Grabar-Kitarovic durch, im Bild Former Croatian Prime minister Zoran Milanovic // Social Democrat Zoran Milanovic becomes Croatia's new president. In the runoff election, he prevailed against the conservative incumbent Kolinda Grabar-Kitarovic. Zagreb, Croatia on 2020/01/05. EXPA Pictures © 2020, PhotoCredit: EXPA/ Pixsell/ Jurica Galoic *****ATTENTION - for AUT, SLO, SUI, SWE, ITA, FRA only*****

L’anno appena iniziato ha visto, il 5 gennaio scorso, almeno una notizia interessante per l’Europa. Un fatto passato quasi in sordina in Italia nonostante la vicinanza geografica del Paese interessato e i legami storici. In Croazia, dove le guerre degli anni Novanta hanno lasciato una traccia profonda e dove tutto è fortemente influenzato dal peso della Chiesa e da una destra che non ha mai fatto i conti col proprio passato, è stato eletto Presidente della Repubblica l’ex primo ministro leader dell’Sdp, il Partito socialdemocratico, Zoran Milanović. Ha vinto al ballottaggio con la coalizione di centro sinistra che ha ottenuto il 52,7 dei consensi mentre all’avversaria, candidata per il partito di centro destra Hdz (Unione democratica croata) e presidente uscente, Kolinda Grabar-Kitarović, è andato il 47,3%.

Una vittoria in parte insperata: al primo turno il candidato socialdemocratico non era andato oltre il 30%, l’Hdz aveva ottenuto il 27% mentre a sorpresa il cantante populista ultra-nazionalista Miroslav Škoro (un fuoriuscito da destra dall’Hdz), aveva ottenuto oltre il 24%. La campagna elettorale al ballottaggio aveva fatto registrare un ulteriore spostamento a destra dell’Hdz. Numerose le dichiarazioni, tardivamente smentite, della candidata Grabar-Kitarović contro “l’islam militante” (che dominerebbe nella confinante Bosnia) o sull’incapacità dei migranti ad integrarsi. Non è invece stato possibile smentire le foto che hanno ritratto la candidata insieme a esponenti della diaspora croata in Canada, che tengono in mano un ritratto di Ante Pavelić, fondatore dello Stato Indipendente di Croazia, leader fantoccio filo-fascista di un regime sanguinario durante la Seconda guerra mondiale. Ma non è stato sufficiente.

L’ultra destra di Miroslav Škoro, ha invitato i propri simpatizzanti ad annullare la scheda nel ballottaggio e in molti lo hanno seguito. Le schede nulle sono state oltre 90mila al ballottaggio rispetto alle 22mila del primo turno e tenendo conto che il 5 gennaio si è recato alle urne soltanto il 55% degli aventi diritto ma che nelle regioni tradizionalmente in mano alla destra (Slavonia e parte della Dalmazia) si è scesi anche sotto il 38%.
Il centro sinistra ha vinto soprattutto…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 17 gennaio

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