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Addio al filosofo Emanuele Severino, cultore di Parmenide

Per ricordare il filosofo Emanuele Severino riproponiamo questa intervista di Left in cui raccontava la sua passione per il pensiero dei greci antichi e in particolare per Parmenide

I miei 60 anni con Parmenide
11 luglio 2008

 

«Severino novello o (eterno) Parmenide?» recita non troppo scherzosamente il depliant che invita alle Vacances de l’esprit. Ovvero, sulle Dolomiti, sette giorni di full immersion nel pensiero di quello che è considerato il maggior filosofo italiano dei nostri giorni. E se al greco Parmenide, obliato dalla riflessione metafisica dell’Occidente, il professore ha dedicato l’opera di una vita (al punto da dire oggi «chiedermi del mio interesse per Parmenide sarebbe come chiedere a un matematico perché si dedica alla matematica»), nei tre suoi nuovi libri, usciti nell’arco di sei mesi, Emanuele Severino torna a declinare in orchestrazioni nuove alcuni dei suoi temi di sempre: il nihilismo moderno fondato sulla cieca fede nel divenire delle cose. La riflessione sul senso dell’essere e del nulla. La tecnocrazia e i suoi rischi. E ancora Immortalità e destino, per dirla con il titolo del libro appena uscito per Rizzoli che si collega strettamente al precedente: L’identità della follia, nel declinare quel concetto di “follia” a cui Severino contrappone un concetto di «non follia», intesa come «necessità dell’essere sé, presente nel profondo di ogni uomo». Quasi che una qualche forma follia abitasse da sempre e irrimediabilmente l’uomo e un’immagine di sanità mentale non fosse nemmeno pienamente enunciabile. Su alcuni di questi temi, di cui la filosofia si va sempre più appropriando, denunciando il fallimento della psicoanalisi, abbiamo rivolto a Severino alcune domande.

Professore è possibile che oggi filosofia e scienza trovino un dialogo fruttuoso?
Certamente nessuna delle due può ignorare l’altra. Ma, specie nel mondo anglosassone, è diffusa la convinzione che la filosofia sia una specie di ultima fase della scienza. Si tende a concepire la filosofia come una truppa d’esplorazione, poi arriverà l’esercito della scienza. Una concezione perniciosa, perché la filosofia così finisce per essere inutile. La scienza può procedere senza queste sbirciate in avanti da parte del pensiero filosofico. Così come non ha bisogno di consuntivi filosofici. La grande filosofia non è mai stata quella cosa a cui oggi molti tendono a ridurla. La filosofia è un sapere originario che sta alle radici stesse della scienza. È il terreno su cui crescono tutti gli alberi della conoscenza ma anche quelli religiosi. Non ci sarebbe stato il cristianesimo senza la filosofia greca.

Di filosofia ora si occupano molto anche i media italiani e si accendono dibattiti. In particolare con l’uscita del Meridiano Mondadori delle opere di Spinoza si è discusso molto sulla sua eredità di pensiero. Anche con qualche stravolgimento. Per esempio, Toni Negri ha voluto vedere in lui il padre del materialismo, parlando di un nesso stretto con Marx. Lei che cosa ne pensa?
Volendo si possono trovare degli agganci. Non solo con Marx. Nietzsche diceva di aver incontrato la sua anima gemella in Spinoza, il quale è indubbiamente la bestia nera del pensiero religioso. Ha una coerenza che oggi si tende a evitare. Le religioni vanno più d’accordo con le filosofie deboli, aperte a varie possibilità. Spinoza è tutto di un pezzo. Se gli si va addosso, è spigoloso, ci si fa male. Ci sono dei motivi per affermare che Spinoza indichi una strada del materialismo, ma rimanendo molto lontano da conclusioni non metafisiche.spinoza_1

Un legame segreto avvicina Spinoza a Cristo, lei ha scritto sul Corsera, in un pezzo dal titolo “Spinoza, dio il nulla”.
Lì alludevo a una cosa diversa. Cioè, nonostante tutto ciò che ho detto adesso di Spinoza, nonostante l’antitesi che si è voluta vedere fra cristianesimo e Spinoza, hanno in comune l’essenziale: la persuasione che l’essere non appartenga necessariamente alle cose. La libera creazione del mondo da parte di dio, cosa vuol dire? Significa che l’essere non compete con necessità al mondo e alle cose del mondo. Nonostante il suo ferreo determinismo (per cui tutto ciò che accade, accade con necessità, non può accadere diversamente da come accade), Spinoza dice che ciò che accade nel mondo riceve a un certo momento l’essere e poi lo perde, dando spazio agli eventi che gli succedono. Come una ruota che gira, in cui c’è posto in piedi solo per uno o per due, ma non per tutti. La ruota gira con necessità e, con necessità, i vari individui si presentano in cima alla ruota. Un momento stanno lì, poi cadono. Questo cadere delle cose significa che non sono legate all’esistenza. Ecco la profonda solidarietà che lega Spinoza e il cristianesimo, una solidarietà che riguarda tutta la cultura occidentale. Dunque anche Marx. Ma quella tesi della derivazione del materialismo da Spinoza non significa che possiamo permetterci degli spropositi storiografici.

Ovvero?
Dire che in Spinoza c’è un materialismo in senso stretto. Semmai c’è una corrispondenza. Spinoza è quello del noto teorema: «l’ordine e la connessione delle cose è la stessa dell’ordine e della connessione dell’idea». C’è stato anche chi ha voluto vedere in Spinoza il padre del parallelismo psicofisico, cervello-mente, ma lui non si è mai sognato di dire che la sostanza è materia. La sostanza, cioè dio, ha l’attributo della materia, ma ha anche l’attributo originariamente del pensiero. Ma non nel senso che la materia primeggi sul pensiero. La filosofia ha una tecnica, quando se ne parla così, anche come ho fatto io adesso, si rischia sempre di tradirla e di alterare il profilo del pensatore.

Nell’ultimo suo libro parla del rapporto fra mente e cervello, centrale nelle neuroscienze. Ma anche di psicoanalisi che ne L’identità della follia lei diceva essere «una delle figure essenziali del nihilismo». Che nesso c’è fra le due discipline?
La psicoanalisi è fra quelle discipline in cui si afferma il condizionamento della mente. Con un accento critico verso la grande tradizione filosofica che, come dicevo prima, sta alla radice della mente scientifica, della mente economica eccetera. Marx sostiene che i rapporti di produzione determinano il modo in cui l’uomo pensa il mondo. Oppure si dice: la società determina i modi di pensare. E quindi la mente è pensata come condizionata dal lavoro, dalla società, dalla storia, ma anche dal cervello, e c’è anche l’inconscio. Per la psicoanalisi una piccola isola emerge dall’abisso profondo, ma non viene alla luce del sole. Che cosa si sottintende? Che alla radice della mente ci siano dei processi dinamici e che il cervello è nato, si logora, si distrugge. La mente stessa è logorabile. Un’architettura che viene tenuta in piedi male, basata com’è sul vecchio discorso filosofico metafisico di causalità. Ci si serve di una metafisica che deve fare i conti con la critica di un concetto di causalità che oggi la scienza, volendo essere coerente con la propria logica, non dovrebbe usare. Dovrebbe parlare di leggi statistico probabilistiche non di leggi causali.

Dunque psicoanalisi e neuroscienze condividono una forma di determinismo?
Non esplicitamente. Le neuroscienze e la psicoanalisi non si dichiarano, non è che inalberino il vessillo del determinismo. Di fatto, però, stabiliscono un rapporto deterministico fra fattori condizionanti la mente. Ma come si può oggi in scienza parlare di causa necessaria? Purtroppo sento anche pensatori rigorosi come Davidson e Rorthy parlare con tranquillità di rapporto causale. Si resta davvero stupiti nel vederli così scaltri nel collocare i concetti al posto giusto e fare poi un uso così ingenuo del concetto di causalità.

Nel nuovo libro Immortalità e destino lei torna a parlare di «mente originaria». Ma cos’è che origina la mente originaria?
Se originaria, vuol dire che non ha origine.

Una contraddizione in termini se parliamo di esseri umani…
Per spiegarmi meglio. Tutto quello che noi possiamo pensare, fare nell’arte o nella filosofia da che cosa viene? Dal fatto che il mondo sta davanti, si manifesta. Non si può fare nessuna scienza se non partendo da qui. Ora questa manifestazione del mondo (che è la condizione di ogni forma di sapere e di agire) è proprio ciò a cui la scienza deve la propria vita, ma a cui volta subito le spalle, perché la scienza non si interessa del mondo manifesto in quanto mondo manifesto, ma si interessa delle cose, lasciando da parte il loro essere manifeste. Come dire, si interessa delle cose, non del fatto che esse siano in luce e che pertanto illuminano ogni percorso e ogni azione. Allora la mente originaria è questa manifestazione rispetto alla quale, all’indietro, non risaliamo. Questa manifestazione delle cose del presente, del passato, del futuro, dei colori, suoni, sentimenti, questo orizzonte, questo cerchio di determinazioni luminose, questa è quella mente non considerata dalla scienza. Nel senso che la mente considerata dalla scienza è una tra le cose. C’è la mente, poi c’è il cervello e così via. Invece la mente originaria è il luogo dove tutte queste determinazioni appaiono. E la scienza non guarda il terreno su cui cammina, il terreno su cui poggia i piedi. Qui torniamo alla mia prima risposta, quella sul carattere della filosofia, che, invece, proprio di questa mente originaria si è interessata. Per questo la filosofia non può essere né un consuntivo della scienza né una proposta a briglia sciolta, alla disperata, di un’avanguardia che esplora le nuove ragioni-regioni, ma è il sapere radicalmente originario che guai se si costruisse sul fondamento del sapere scientifico. Così abbiamo chiuso il ciclo.

Dacché non esistono le idee innate, lei intende questo suo concetto di mente originaria come qualcosa che, per ogni essere umano, compare alla nascita?
Da quando ha davanti un mondo. Si dice, lo si ha davanti da quando si nasce. È un problema che ha toccato anche Agostino. Il nostro aprire gli occhi noi non lo sperimentiamo. Se sperimentassimo il nostro aprire gli occhi li avremmo già aperti con quello sperimentare. Non si può cominciare a vedere la visione, perché se la si comincia a vedere vuol dire che la visione c’è prima di essere veduta.

La «follia estrema» lei dice,« è la fede nel divenir altro». Per follia estrema lei pensa anche all’alienazione?
È la radice anche dell’alienazione di tipo psicologico-psichiatrico che per esempio si esprime con quelle forme di depressione in cui il paziente dice: io non sono niente. Quando parlo di follia però – e lo faccio non da ora – io intendo qualcosa di infinitamente più radicale.

Simona Maggiorelli

Quattro domande da porre al vostro politico preferito

businessman raising hand during seminar. Businessman Raising Hand Up at a Conference to answer a question.

Che siate di destra o di sinistra, che siate sovranisti, che siate democratici, che impazziate per Bonaccini o Borgonzoni, che siate sardine o che siate in qualsiasi movimento che vorrebbe occuparsi di politica ecco qui quattro domande, facili facili, per uscire dal tunnel della propaganda e per valutare chi vuole fare cosa e soprattutto come.

I dati Oxfam e Eurostat danno numeri chiari, i numeri possiedono la bellezza di essere lì puliti da leggere e da interpretare.

Ad esempio, in Italia l’1% più ricco detiene la stessa ricchezza del 70% della popolazione. Metteteci anche che in Italia la povertà avanza e che si allarga il numero di persone che si trova a vivere al di sopra dei livelli minimi di dignità. Chiedete al vostro politico di riferimento: è giusto? È normale? E soprattutto: come si può risolvere questa situazione? Se vi basta vivere con la speranza di diventare quell’1% e se non ci trovate nulla di strano lasciate pure perdere.

Però qui c’è anche la seconda questione: il 23% degli under 29 versa in condizione di povertà lavorativa. La flessibilità del lavoro per molti è soltanto un impoverimento legalizzato. Chiedete al vostro politico di riferimento cosa ha intenzione di fare e come ha intenzione di farlo, quali siano le riforme che ha in mente e come potrebbero funzionare. Se non vi interessa, buon per voi.

Terza questione: in Italia crescono gli abbandoni scolastici. Eh sì, proprio così, l’Italia che si vantava di avere sconfitto l’analfabetismo ora subisce una preoccupante retromarcia. Se ne parla poco e spesso se ne parla male. Chiedete al vostro politico di riferimento: come si risolve? È normale? Quali sono gli strumenti per evitare la dispersione scolastica e inevitabilmente l’impoverimento culturale del Paese? Se non vi interessa, beati voi.

Ultima questione: c’è il 23,7% di differenza salariale tra uomini e donne. Persone che svolgono la stessa mansione nello stesso modo e per lo stesso tempo guadagnano diversamente in base al loro sesso. È normale? Va bene? Come si risolve? Chiedetegli anche questo. Se non vi interessa lasciate perdere.

Una nota di metodo: tutti i vostri politici di riferimento vi diranno che questi quattro punti sono una vergogna. Beh, crucciarsi non vale: i politici si valutano sulle proposte. Anzi a ben vedere il fatto che tutti i politici siano contrari a situazione che continuano tranquillamente a perpetuare non gioca molto a loro favore.

Buon martedì.

Lavorare meno, lavorare tutti, vivere meglio

La crisi economica del 2008 in Italia ha segnato la fine dei due modelli politici proposti nella II Repubblica: la rivoluzione neoliberale del berlusconismo e la normalità rassicurante proposta dal centrosinistra. Il centrodestra ha colto la cesura e si è ridefinito lungo l’asse Lega e FdI, con la marginalità di Fi. Le forze progressiste e di sinistra, il campo che dovrebbe opporsi allo schieramento sedicente sovranista, mostra evidenti limiti a ridefinirsi nel mutato contesto prima sociale e poi politico-istituzionale. Di radicalità c’è bisogno, di radicalità che guardi al mondo del lavoro e dia risposte ad un corpo sociale frantumato, atomizzato, immiserito, umiliato. Di radicalità includente che tenga assieme questione democratica e dimensione sociale, c’è bisogno. Disoccupazione di massa, precarietà e lavoro povero da un lato e aumento esponenziale delle ore lavorate invece per quella parte di stabilmente occupati dovrebbero rilanciare – anche da noi – il tema della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. In Italia i lavoratori e le lavoratrici lavorano ben più della media europea, dunque la scarsa produttività del sistema non è attribuibile ad un presunto lassismo di parte operaia.

Anzi, il poter disporre di forza lavoro sovente priva di diritti, con bassi salari aumentando a dismisura la giornata lavorativa è causa ed effetto del processo di terziarizzazione debole del sistema economico italiano.

La Cgil, nel congresso che ha eletto Maurizio Landini segretario generale, ha prodotto un documento che parlava  in maniera inequivocabile di riduzione generalizzata degli orari e del tempo di lavoro, a parità di salario, finalizzando la redistribuzione dell’orario a favore dell’occupazione e della qualità del lavoro e alla conciliazione dei tempi di vita, indicandoli come «assi strategici dell’azione rivendicativa della Cgil». A fronte dei processi di innovazione tecnologica e organizzativa ci avrebbe dovuto portarci a perseguire una riduzione degli orari contrattuali rivendicando «certezza dei tempi di connessione e di lavoro reale, oltre che il diritto alla disconnessione e al tempo libero e il diritto permanente e soggettivo alla formazione e all’aggiornamento professionale retribuito». La strada prevalente proposta dal maggior sindacato italiano passa dalla via contrattuale, attraverso «la sperimentazione nei contratti nazionali di modalità innovative di riduzione o modifica dell’orario – anche temporanee – di lavoro individuale su base giornaliera e settimanale».

Il tema della riduzione dell’orario di lavoro non è in realtà una questione che possa essere ricondotta esclusivamente al piano sindacale e/o contrattuale: la storica battaglia per la riduzione delle ore di lavoro giornaliere recitava 8 ore per…

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Il cibo del futuro: fra Davos, Bismarck e Jonathan Swift

I padroni del pianeta sono così preoccupati per «i rischi globali» (causati da chi? È un mistero) che nel loro incontro annuale di Davos annunciano il «Manifesto per un mondo coeso e sostenibile».

Chi possiede tutto controlla anche teste e stomaci. Dunque fra le nevi di Davos pensano già a come darci cibo… senza agricoltura. Infatti la Fao ci ha avvisati: «continuando il ritmo di degradazione degli ultimi 40 anni, entro i prossimi 60 anni saremo fisicamente rimasti senza terra fertile per coltivare». Per questo Mauro Balboni titolò Il pianeta mangiato (Dissensi editore) il suo bel libro che vale recuperare per avere un quadro d’insieme, magari leggendolo in accoppiata con I signori del cibo: viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta (Minimun fax) di Stefano Liberti.

Ma se i campi e gli orti si svuotano di cos’altro possiamo cibarci? Interessante il mix inventato da Yossorian, uno dei protagonisti di Comma 22, splendido romanzo antimilitarista di Joseph Heller. «Ho tritato centinaia di pani di sapone militare insieme alle patate al solo scopo di dimostrare che la gente ha gusti filistei e non sa distinguere fra ciò che è buono e ciò che è cattivo». Tutta la squadriglia finisce in ospedale, e Milo gli replica: «Si è dovuto rendere conto quanto la sua opinione fosse sbagliata». La risposta di Yossorian è secca: «Al contrario, ne divorammo piatti interi chiedendo a gran voce che ce ne portassero ancora». Accade già con il cibo-spazzatura: ci piace la merda se è luccicante, pubblicizzata e nociva. Sempre in Comma 22 Milo propone alla mensa «cotone (egiziano) ricoperto di cioccolato» e soprattutto «compra uova a Malta per 7 centesimi l’una per rivenderle a Pianosa per 5 cent, guadagnandoci su» che è decisamente il trionfo del capitalismo-discount.

Noi abbiamo oggi il cibo di plastica e quello bio (o preteso tale). E almeno nella parte ricca del mondo su questo c’è scontro politico-culturale. Ma la tavola è sempre stata e resta un campo di battaglia. Per evidenti ragioni: chi mangia e chi no; chi si ammala per i veleni nel piatto e chi si nutre in modo sano. Ma anche per le imposizioni-sperimentazioni (ogm in testa) a vantaggio di pochi; per i veleni nei campi e nei conservanti; per questioni intricate che si legano a identità, insicurezza e/o dittatura dell’immagine traducendosi nell’aumento di anoressia e bulimia; per la sacrosanta lotta contro la Cacca-Cola, il Mc-disgusto o i vari Neskifezzè; per i tentativi di dare un salario equo a chi lavora nei campi (o nelle cucine globali) e viene sfruttato fino alla schiavitù.

E domani? Nel futuro prossimo (domattina forse) avremo i negozi di cibo sorvegliati da guardie armate cone fossero gioiellerie o banche. Lo aveva profetizzato, nel 1966, il romanzo Largo, largo di Harry Harrison.

Fantascienza anche quel che accade su Arret, strano pianeta mezzo incubo e mezzo utopia. Ricco di acqua ma con metà popolazione assetata mentre l’altra metà gode di acquedotti e comodissimi rubinetti. La cosa più assurda è che su Arret un gruppo di vampiri possa imbottigliare l’acqua, trasportarla da una parte all’altra (su veicoli inquinanti) per venderla, a caro prezzo, alle stesse persone che potrebbero berla, quasi gratis, a casa loro. Provate per un attimo a supporre che i governi li lascino fare e che la gente ci caschi. Impossibile vero? Un mondo a rovescio, proprio come il nome Arret…

Nel racconto “La bibita speciale del cercatore minerario” siamo invece su un pianeta arido e disabitato. Però il protagonista riesce a rinvenire tali quantità di materiale prezioso che finalmente può ordinare sulla Terra, attraverso un «trasmettitore di materia», la sua bibita preferita, purtroppo costosissima in quell’angolo dell’universo: «n semplice ma agognato bicchiere di acqua fresca». L’idea è di Robert Sheckley e qui davvero siamo nella letteratura fantastica.

Ancora fantascienza. Immaginate che i corsi organizzati da una multinazionale dell’ingozzarsi (una a caso: Mc Donald) diventino in un Paese compiacente (che so? l’Inghilterra) titolo di studio. Vi chiederete se questo orrore sia nelle pagine del meraviglioso romanzo I mercanti dello spazio di Pohl e Kornbluth, scritto nel lontano 1952. Macché, è accaduto nel gennaio 2008 sulla più grande isola monarchica del pianeta Terra.

È il mondo reale anche quello dove il prussiano Bismark, tempo prima, si era lasciato scappare che i cittadini non dormirebbero tranquilli se venissero a conoscenza di come davvero si fanno le leggi… e i cibi.

Forse a Davos fra tanta modernità, filantropia e un pizzico di fantascienza potrebbero recuperare anche un progetto – anzi Una modesta proposta – del 1729, formulata dallo scrittore (e pastore anglicano) irlandese Jonathan Swift. L’idea è tutt’altro che modesta: vuole impedire che i bambini della povera gente siano di peso per i loro genitori o per il Paese, e anzi risultino utili all’intera comunità. «Un metodo onesto, facile e poco costoso» per risolvere in un colpo solo le tragedie della povertà e della sovrappopolazione. Il colpo di genio è questo: ingrassare i bambini denutriti e darli da mangiare ai ricchi. Si risparmierebbe alle famiglie (e a un eventuale Welfare State) il costo del nutrimento dei figli fornendo loro una piccola entrata aggiuntiva, si migliorerebbe l’alimentazione e si contribuirebbe al benessere economico dell’intera nazione. Swift offrì un supporto statistico e precisò il numero di bambini da vendere, il loro peso e il prezzo suggerendo persino alcune ricette per preparare questo tipo di carne, particolarmente tenera. I tempi forse non erano maturi nel 1729 ma oggi è una tentazione forte per i padroni del cibo: altro che alghe, formiche o polli fatti in laboratorio. C’è anche una suggestione femminista ante litteram in Swift che a Davos potrebbe piacere: la «modesta proposta» avrebbe effetti positivi in famiglia costringendo i mariti a trattare le mogli con maggior rispetto.

Perché la riduzione della Tampon tax è una battaglia culturale per i diritti delle donne

IMAGE DISTRIBUTED FOR SEVENTH GENERATION - Ashley Orgain of Seventh Generation calls for an end of the tampon tax during a National Period Day rally at the Capitol on Saturday, Oct.19, 2019 in Washington. PERIOD and Seventh Generation held the first National Period Day rallies nationwide to raise awareness of period poverty and call for menstrual equity. (Kevin Wolf/AP Images for Seventh Generation)

Per secoli, se non millenni, con l’ingresso nella pubertà iniziava per le ragazze una vita di vergogna: ora hai le mestruazioni, sei una donna e quindi sei impura. Già Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia denunciava i pericoli di avere accanto una donna mestruata: vino inacidito, fiori appassiti, specchi appannati, api morte per non parlare poi del bronzo, arrugginito e puzzolente. Nella Bibbia, precisamente in Levitico 15, 19-31, si parla diffusamente dei motivi per cui le mestruazioni siano da associare a un periodo di impurità e si invitano gli uomini a stare lontani da coloro le quali siano in questa fase terribile del mese.

Le donne sono state lasciate sole, dall’alba dei tempi, a cercare di trovare una soluzione a una condizione che semplicemente esiste nella vita di ognuna per buona parte della sua esistenza. Millenni di pensiero religioso e una cultura guidata dagli uomini (ovviamente bianchi, ovviamente benestanti) hanno reso l’avere le mestruazioni un problema non solo sociale, ma anche economico. Si è parlato molto, di recente, della cosiddetta Tampon tax, cioè dell’Iva sui prodotti igienici femminili che in Italia (ma non solo) è pari a quella imposta sui beni di lusso, nel nostro caso pari al 22%. Inutili le proposte di abbassarla al 4%, cioè quanto viene applicato a beni di prima necessità (come il basilico): la Tampon tax è sempre lì, che costringe le donne a pagare di più per qualcosa che per loro è indispensabile.

La questione non riguarda soltanto i costi, seppure sia un lato da non trascurare: gli anglosassoni la chiamano period poverty, riferendosi in questo modo a tutte quelle donne che non possono permettersi di acquistare gli assorbenti igienici perché troppo costosi. Una situazione che spesso si riflette maggiormente sulle ragazzine, costrette a perdere giorni di scuola perché impossibilitate a lasciare casa loro. Succede nel lontano Bangladesh, ma anche nella vicinissima e sviluppatissima Gran Bretagna: secondo i dati di Plan international Uk, il 10% delle ragazze non può acquistare gli assorbenti igienici perché troppo cari.

Nel 2020 è semplicemente inaccettabile fa passare il pensiero che avere le mestruazioni sia qualcosa riservato alle ricche signore beneducate, che ovviamente non ne parlano se non sotto pseudonimo, chiamandole ad esempio «regole». Il “governo della discontinuità”, nella nostra Italia, ha provato a ingannarci inserendo nell’ultima legge di bilancio la riduzione dell’Iva al 5% sugli assorbenti biodegradabili. Inutile dire che sono più costosi degli altri e ovviamente meno diffusi. Così, mentre alcuni uomini della politica provavano a passare come eroi femministi, le donne continuano a doversi confrontare con una legge degli anni 70 che impone loro di affrontare le esigenze legate al ciclo mestruale come se fosse un lusso.

Un certo tipo di femminismo ha deciso di legare la questione della Tampon tax a quella del divario di genere nel reddito da lavoro. Il problema è molto più profondo di così. Gli uomini hanno sempre cercato di sfruttare il ciclo mestruale come l’ennesima arma contro le donne, che sarebbero instabili mentalmente e meno affidabili a causa degli sbalzi ormonali dovuti al ciclo. L’unica risposta possibile mi sembra il rifiuto che si narra fece la filosofa greca Ipazia lanciando un panno sporco del suo sangue mestruale a un pretendente particolarmente insistente con cui lei non voleva avere niente a che fare. Tutto questo accadeva prima che, nel Medioevo, fosse impedito alle donne di recarsi in Chiesa durante i giorni del ciclo o che si diffondessero le leggende terrificanti su cosa ti può accadere, ad esempio, se nuoti durante «quei giorni».

Con la generazione delle millennials qualcosa si sta muovendo più forte di prima. Le ragazze sono stanche di doversi vergognare di essere esseri umani di sesso femminile in età fertile. Le mestruazioni sono diventate un simbolo della lotta contro l’oppressione della cultura occidentale sulle donne. Ci si batte non per essere radical chic o risparmiare qualche euro (o dollaro) sugli assorbenti. Ci si batte per abolire la period poverty e per cancellare dalle schiene di tutte quel simbolo di ignominia color rosso sangue.

In un articolo del 2016, la giornalista americana Abigail Jones riconduceva al femminismo della terza ondata quello che nel suo articolo “The fight against period shaming is going mainstream” definisce «attivismo mestruale». Il 19 ottobre 2019, negli Stati Uniti è stato indetto il primo National period day, una mobilitazione a livello nazionale contro i 35 Stati in cui esiste ancora la Tampon tax.

Ma il minus che la cultura occidentale vuole attribuire all’essere donna non si ferma al ciclo mestruale. Non potendo più rinchiuderle in casa accanto al focolare, i misogini del XXI secolo hanno escogitato sistemi più subdoli per farla letteralmente pagare alle donne: sarà mica un caso che i rasoi da donna costano sempre di più di quelli da uomo? Inutile dire che nel primo caso vengono considerati superflui, mentre nel secondo beni necessari. Non c’è nulla di male nel considerare una necessità maschile quella di farsi la barba tutti i giorni, infatti i rasoi hanno l’Iva al 4%. Radersi conviene, avere le mestruazioni no.

Come un coniglio che abbaia

Siamo alle battute conclusive, Salvini andrà a processo per avere lasciato alla deriva una nave militare italiana (la Gregoretti) con l’intento di lanciare un segnale all’Europa e per potere fingere di avere chiuso i porti anche se mai i porti siano stati chiusi. Oggi è il giorno tanto atteso e si voterà per l’autorizzazione a procedere. Si alzerà molto fumo, ci saranno molte parole e regnerà il chiasso. Il chiasso fa comodo a tutti, sia a quelli che possono fingere di avere vinto (chissà che cosa, poi, mandando qualcuno a processo) e ci saranno quelli che potranno insistere nel fare le vittime.

Salvini è riuscito a fare il solito Salvini, del resto è schiavo di se stesso, e dopo avere citofonato in giro un po’ a tutti con il piattino in mano ora si è inventato che si farà processare perché l’ha deciso lui. Sono come i fidanzati che vengono lasciati ma alzano il divino per dire «però volevo lasciarti prima io». Una cosa così. E come accade spesso per quelli che sanno di avere torto ora il trucco sarà quello di rivendere il fatto di essere processato come un tentativo di condanna. Forti questi garantisti, solo quando riguarda gli altri.

Poi c’è il solito refrain de “il popolo è con me”, ora rilanciato con un “è un processo al popolo”. Come se davvero Salvini fosse convinto di essere proprietario del sentire comune e come se non si rendesse conto che nessuna giudica le sue convinzioni politiche ma lo Stato ha il dovere di giudicare i suoi comportamenti. Di tutti. Di lui e del suo popolo che troppo spesso negli ultimi mesi è stato protagonista del’Italia peggiore.

Però in tutto questo c’è un punto sostanziale: Salvini era scappato da un processo per lo stesso motivo frignando dagli ex alleati del Movimento 5 Stelle, ha cercato in tutti i modi di salvarsi anche questa volta (nonostante come sempre dica che è una medaglia sul petto) e ora dice di volersi fare processare. Vi sembra credibile? Come un coniglio che abbaia.

Buon lunedì.

I ragazzi della Pantera lottarono per la conoscenza

È il gennaio del 1990 quando gli studenti occupano pacificamente più di 150 facoltà. Preoccupati di come la politica stesse affrontando un nodo critico della società italiana: l’istruzione. Il movimento prende avvio a Palermo e si diffonde rapidamente in tutta Italia. È un movimento molto particolare: si incontrano giovani appartenenti alle organizzazioni e gruppi politici eredi della sinistra parlamentare ed extraparlamentare degli anni 60 e 70, e tanti, tantissimi studenti alla loro prima esperienza politica, in una fase di crisi ormai conclamata dei partiti politici di massa della Prima Repubblica e, in generale, di riconfigurazione delle appartenenze e delle ideologie del Novecento.

Gli studenti chiedono migliori condizioni di studio e protestano contro il malaffare che lambisce gli atenei all’epoca del Caf (il patto di governo tra Craxi, Forlani e Andreotti, ndr). Si oppongono alla legge sull’autonomia universitaria del ministro Ruberti che, nella loro analisi, avrebbe…

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Silva Stella: Cos’è la disgrafia, facciamo chiarezza

Dottoressa Stella, nella disgrafia sono compromesse delle abilità di base che afferiscono all’area di sviluppo psico-motorio, senza deficit neurologico o intellettivo. Il mondo scientifico come interpreta questo fenomeno?
La disgrafia rientra fra le difficoltà di tipo percettivo-motorio, investe la scrittura dal punto di vista della forma e non del contenuto; ad oggi l’origine non è stata ancora dimostrata scientificamente.
Il modello medico attribuisce alla disgrafia cause neurobiologiche innate e suggerisce di utilizzare come terapia, strategie dispensative e compensative. Il modello psico-pedagogico sfruttando la plasticità del cervello suggerisce di sollecitare e potenziare l’apprendimento del segno grafico con l’esercizio continuo e mirato.

Come potremmo definire la scrittura da questo punto di vista?
La scrittura è una disciplina motoria e necessita di abilità di coordinazione oculo-manuale, d’integrazione spazio-temporale, di attenzione e di memoria. La lingua scritta non si acquisisce spontaneamente come il linguaggio fonico, ma deve essere appresa.

Quali sono gli organi di senso che vengono utilizzati nella scrittura e nella lingua parlata?
La lingua scritta coinvolge vista e tatto, diversamente dalla lingua parlata che coinvolge solo il canale uditivo. I terminali nervosi delle dita della mano sono potenti stimolatori del cervello. Per eseguire il segno grafico si coinvolge la sensorialità di tutto il corpo, basta pensare al contatto dei polpastrelli della mano con la pagina scritta; si integra così corpo e mente. I bambini con difficoltà percettive non hanno problemi a ricevere il segnale sensoriale uditivo o visivo, ma piuttosto hanno problemi a “tradurre correttamente” le informazioni che provengono dagli organi di senso coinvolti. Per la scrittura…

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Hammamet, crepuscolo di un potere

Ormai lo abbiamo capito. Se c’è Favino il film è fatto. Non c’è dubbio che la sua monumentale interpretazione di Bettino Craxi – dopo le stupende prove di dare volto, voce e postura a Masino Buscetta e prima ancora a Pino Pinelli – spinge la pellicola di Gianni Amelio più in alto di quanto sarebbe potuta andare senza il grande lavoro di immedesimazione dell’attore romano, che rende pallidissima, va da sé, la prova interpretativa degli altri. Il regista si è misurato con un personaggio difficile che è ancora oggi parte della nostra cronaca viva, sebbene la sua azione si sia svolta in un tempo ormai lontano – una didascalia apre il racconto: “In Tunisia alla fine del secolo scorso”.

Amelio dice che ha buttato lì l’idea di fare un film su Craxi per liberarsi dalla proposta poco allettante di farne uno su Cavour: chissà se è andata proprio così, comunque il suo lavoro non è certo improvvisato. Tutt’altro. Ma non aspettatevi la biografia di Bettino perché la scelta cade sui giorni di Hammamet, in definitiva sul crepuscolo del potere di un uomo che è stato potente e che si ritrova completamente solo, nel deserto, accanto ad un vecchio arnese della Guerra fredda – un carro armato.

Il regista usa le sue armi migliori per umanizzare al massimo il personaggio, usando un tema che gli è caro – i rapporti padri-figli/e – e rappresentando, respiro dopo respiro, la sofferenza della malattia e della solitudine. Quando il potere è visto lì, in quella fase decadente, il diabete aggressivo, il tumore, le flebo, il letto di ospedale, siamo sempre più indulgenti, cediamo alla partecipazione emotiva, alla compassione. Eppure Amelio non si sottrae affatto ad una visione più politica: è che non la troviamo nell’immediatezza di un giudizio: “esule politico” o “latitante”, “vigliacco” o “resistente”, ma nell’aver collocato il personaggio nel suo tempo politico.

È lì che si consuma lo scempio. Il finanziamento illecito ai partiti nasce…

L’articolo di Stefania Limiti prosegue su Left in edicola dal 17 gennaio

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Elena Cattaneo: Spiragli di luce in fondo al tunnel della ricerca pubblica

«La ricerca può fare da volano del rilancio dell’Italia e dell’economia in affanno. Serve però una strategia solida, di lungo termine. Cioè una discontinuità con gli ultimi anni durante i quali, per via del governo di un comparto appassionante, ma difficilissimo da gestire, quale è la scuola, si è andata progressivamente riducendo l’attenzione verso il settore della ricerca e università, troppo spesso in balìa di una gestione politicamente residuale e di corto respiro. Ma ora si apre una stagione importante per la ricerca pubblica». La divisione del Miur nel ministero della Scuola e nel ministero dell’Università e Ricerca (che fa seguito alle dimissioni del ministro Fioramonti) e le novità introdotte nella legge di Bilancio 2020 ci danno l’occasione per incontrare la senatrice a vita e docente di farmacologia alla Statale di Milano, Elena Cattaneo, e fare il punto sullo stato di salute della ricerca in Italia.

Il 9 gennaio il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha firmato il decreto che permette lo “spacchettamento” del Miur. Qual è il suo giudizio circa questa operazione?
Ascoltare dal presidente del Consiglio l’intenzione del governo di dividere il comparto della scuola da quello dell’università e della ricerca è stata per me una positiva sorpresa. L’esigenza di un ministero dedicato specificamente alla ricerca era sempre più sentita dopo anni di abbandono. Da tempo, in molte occasioni, vari esperti del settore hanno caldeggiato un nuovo assetto istituzionale di questo tipo. Penso agli studiosi del Gruppo 2003, ma anche agli Enti di ricerca e agli atenei, in prima linea con la stessa Conferenza dei rettori (Crui), il cui presidente, il professor Gaetano Manfredi, è stato appena designato nuovo ministro per l’Università e la ricerca.

Cosa può comportare in termini di opportunità questa separazione?
Come detto, il governo di un comparto appassionante, ma difficilissimo da gestire, quale è la scuola, in questi anni, ha…

L’intervista alla senatrice Elena Cattaneo prosegue su Left in edicola dal 17 gennaio

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