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Lo squalo e le sardine

Se per caso aveste bisogno di un’ulteriore dimostrazione dello spessore dell’ex ministro dell’inferno Matteo Salvini allora vi conviene scorrere la sua pagine Facebook (l’ipotalamo della sua propaganda politica) e leggere là dove si scaglia contro un suo contestatore (per lui sono tutti contro di lui quelli che non lo venerano, con l’assolutismo tipico degli immaturi) scrivendo «Contestatori un po’ impacciati a Bologna. Guardate la carica e la grinta di sinistri e pesciolini» sotto al video in cui il giovane Sergio si ingarbuglia per l’evidente imbarazzo di parlare in pubblico.

Il video ovviamente è tagliato ad arte per evidenziare i momenti più impacciati, in una sorta di Paperissima delle difficoltà emotive, e gli sfegatati seguaci salviniani si lanciano in una serie di insulti e irrisioni con la foga di chi viene eccitato dalla visione del sangue.

Peccato che Sergio, il ragazzo preso di mira, sia dislessico e forse proprio per questo ancora più coraggioso: la derisione di Salvini, in sostanza, prende di mira una sua debolezza. Come al solito. «Mi sento orgoglioso del mio imbarazzo – ha detto il giovane -, non avevo preparato nulla, nemmeno il discorso, perché volevo essere me stesso. Sono Dsa (disturbi specifici di apprendimento) e ne sono orgoglioso: talvolta hai difficoltà nelle esposizioni, ma stavolta c’entra poco, in realtà non ero preparato a parlare in quel momento, ha giocato più l’emozione. Credo in una politica che non brutalizzi l’umano, ma che renda libero ogni essere umano di essere ciò che è».

Quindi dopo i gay, i drogati (che per Salvini sono una categoria vasta secondo il suo interesse personale), ovviamente gli stranieri, gli intellettuali, le femministe, le sardine, gli scrittori, i professori, i sinistri e i grillini (prima sì e ora no) ora anche i dislessici sono nemici da esporre al pubblico ludibrio. E tutti i suoi tifosi esultano. Esultano anche i biondi e quelli con troppi nei senza sapere di poter essere le prossime categorie prese di mira. Perché la brutalità diverte moltissimo fino a un centimetro prima che tocchi a te. Ma questi non credono ai professoroni, non ci credono. E quindi niente.

Buon venerdì.

Lavoratori, non schiavi

Uno spettro si aggira per l’Europa. Lo so, non è originale, ma non riesco a pensare ad altro osservando la guerra del tempo. Va bene, ormai dovrebbero saperlo tutti, in Finlandia non è nell’agenda del governo la riduzione della giornata lavorativa ma il sollievo con cui è stata accolta la smentita di una notizia, iniziata a circolare il 2 gennaio e non ancora stoppata, e le modalità con cui il tema è stato aggirato dai commentatori mainstream, rivela che la guerra del tempo è un conflitto diffuso sebbene “a bassa intensità”. Con alcune eccezioni.

Nelle ultime presidenziali in Francia sia Mélenchon sia Hamon erano portatori di una proposta di legge per le 32 ore di lavoro. Poco dopo, a primavera del 2018, il sindacato Ig Metall, 2,2 milioni di iscritti, strappava alla controparte confindustriale della Gesamtmetall un accordo per una riduzione temporanea della settimana dei metalmeccanici a 28 ore. Un po’ poco per salutare un “nuovo modello tedesco” ma certo abbastanza per dire che il più grande sindacato tedesco non s’era mai dato così da fare sui temi della flessibilità, della condivisione e del controllo dell’orario a cominciare dalla campagna del 2017: “La mia vita, il mio tempo: ripensare il lavoro”. All’incirca lo stesso periodo in cui a Göteborg, Svezia, una sperimentazione di 18 mesi della giornata di 6 ore per i dipendenti delle case di cura per gli anziani dimostrava che non solo si creano nuovi posti di lavoro ma aumenta la produttività, si riducono le assenze per malattia, migliorando anche le prestazioni e la felicità degli assistiti. 

E cos’altro è, infatti, il lunghissimo sciopero in Francia contro la “riforma” delle pensioni voluta da Macron? Tempi di vita e tempi di lavoro sono questioni intrecciate in maniera indissolubile. Come pure tempo e salario. Infatti, anziché dalla Finlandia, avremmo potuto iniziare questo sfoglio con una istantanea dalle piazze francesi o da una scuola di Seine-Saint-Denis, distretto operaio a nordest di Parigi, intitolata a Josephine Baker, una delle tante in cui gli insegnanti grevistes, scioperanti, organizzano dei caffè con i genitori per spiegare gli effetti perversi della “pensione a punti”. In Italia lo chiamiamo sistema retributivo e lo scontiamo dal ’94 con peggioramenti continui tipo la…

L’articolo è tratto dal numero di Left in edicola

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Chiediamo un segno di forte discontinuità

Il Pd si è chiuso in conclave annunciando una prossima rifondazione. Il segretario Nicola Zingaretti promette un partito più inclusivo, aperto alla società civile, ai sindaci, ai movimenti, a cominciare da quello delle sardine. Il M5stelle, intanto, rischia l’implosione, fra espulsioni, tentativi di mettere a tacere la dissidenza interna, mentre il capo politico Luigi Di Maio convoca gli Stati generali a marzo. Un momento di grossa crisi può essere anche una preziosa occasione di cambiamento per le due forze che al momento galleggiano con il governo Conte II. Una crisi che in nuce contiene una possibilità di trasformazione, se si ha il coraggio di affrontarla fino in fondo, senza infingimenti, se si evitano operazioni di mero maquillage.

E allora, da osservatori esterni, saldamente collocati a sinistra, in una sinistra antifascista e dei valori, basata su libertà, uguaglianza, antirazzismo, laicità, ci permettiamo non dico di dare suggerimenti, ma certamente di fare qualche osservazione, segnalando gli elementi di discontinuità che ancora stentiamo a vedere in questo governo.

Il primo riguarda il lavoro, di cui torniamo a occuparci in questo numero con cui vogliamo riaccendere la discussione sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, per rimettere al centro le persone, i bisogni, le esigenze di socialità e affetti e la qualità della vita, sempre più aggredite in un mondo del lavoro in cui imperano disoccupazione precariato, frammentazione, mancanza di tutele, anche a causa di misure neoliberiste come il Jobs act e la cancellazione dell’articolo 18.

Il secondo, urgente, segnale di discontinuità riguarda i diritti umani e la mancanza di politiche riguardo all’emigrazione e all’immigrazione. Sotto questo riguardo colpisce la mancata abrogazione dei due decreti Salvini. Non basta emendarli. Occorre una nuova legge sull’immigrazione per la costruzione di corridoi umanitari legali, cancellando finalmente l’orrore della Bossi Fini. La cronaca però ci dice che poco o nulla è cambiato da quando Salvini da ministro degli Interni avocava a sé completi poteri per una cinica e disumana politica dei porti chiusi. Sì, certamente, è cambiato il linguaggio, il tono, ma non sono cambiate le politiche.

Mentre scriviamo, la Sea Watch è bloccata a largo della Sicilia con 119 naufraghi a bordo e la Open Arms davanti a Lampedusa, con 118 persone, fra i quali 35 minorenni. Come accadeva ai tempi di Salvini senza un place of safety assegnato dall’Italia. E nei giorni scorsi una multa da trecentomila euro è stata notificata a Claus Peter Reisch, comandante della Lifeline, Ong impegnata per il recupero dei naufraghi nel Mediterraneo.

Intanto la guerra per procura che divide la Libia e che vede tanti contendenti stranieri – a cominciare da Erdogan e Putin – gareggiare per spartirsi territori e affari, sta generando una grave crisi umanitaria. Civili libici sono costretti a fuggire, a cercare vie di scampo verso il confine tunisino, oppure, disperati, affrontano il Mediterraneo. E sappiamo quale sorte li attende. Con le motovedette della cosiddetta guardia costiera libica (foraggiata di mezzi italiani) che fanno muro e operano respingimenti in violazione delle convenzioni internazionali. Come è stato dimostrato, fra loro, ci sono anche trafficanti. In questo quadro c’è chi torna a osannare Minniti, come grande esperto di Libia e possibile inviato europeo per gestire la crisi. Come se non fosse stato lui, quando era ministro del governo Gentiloni, a fare accordi con i capi clan libici e ad avviare la campagna di criminalizzazione delle Ong.

Da questo governo, come segno di discontinuità, ci aspetteremmo una gestione della crisi internazionale (accelerata dall’atto di guerra di Trump) incentrata su azioni diplomatiche, non sull’invio di contingenti militari, come invece ha proposto nei giorni scorsi il ministro degli Esteri, Di Maio, parlando in un’intervista a La Stampa di invio Caschi blu europei, in un quadro di legalità internazionale sancito dall’Onu. In un momento in cui nel dibattito politico e televisivo si sentono solo voci preoccupate per il perduto ruolo egemonico dell’Italia che – a loro dire – andrebbe riaffermato con forza, vorremmo ricordare che nell’articolo 11 della Costituzione c’è scritto che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

In questo quadro, noi che abbiamo sempre stigmatizzato il populismo di Conte e il suo essere stato prono alle politiche xenofobe del governo giallonero, dobbiamo dire tuttavia che abbiamo apprezzato le parole che ha pronunciato ad Ankara a margine della conferenza stampa e riportate da Radio Radicale parlando dell’Italia come mediatore di pace, «che non si muove per il proprio bieco interesse», ma «per l’indipendenza e l’autonomia del popolo libico». Speriamo che non restino solo parole. Sostenere il processo democratico e mettere al centro i diritti umani è oggi più che mai prioritario, memori delle nostre enormi responsabilità rispetto al fallimento dello Stato libico non solo in tempi recenti, ma fin dai tempi lontani quando il generale fascista Rodolfo Graziani guidò le operazioni militari in Libia ed Etiopia che causarono un genocidio.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 17 gennaio

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Cantami, o Diva, quanto è disumana la guerra

Nel corso della storia degli uomini la guerra è un evento ricorrente con i suoi lutti, distruzioni, ferocia. Nell’antichità è oggetto di molte narrazioni, è elogiata dai poeti che ne hanno esaltato la forza, la bellezza, l’eroismo, il coraggio dei vincitori e dei vinti anche se piegati dalla superiorità del nemico. Eppure nei poemi epici accanto all’eroismo aleggia la morte con l’agonia che spesso la precede, il sangue che scorre a fiumi, le ferite, le mutilazioni e il dramma interiore dell’eroe di fronte alla fine della vita.

L’Iliade di Omero, il poema epico con il quale s’inizia la letteratura greca, racconta gli ultimi mesi dell’ultimo anno della guerra decennale che i principi greci coalizzati intrapresero contro Troia, città fiorente situata a sud dell’Ellesponto, a est dell’Egeo, la cui ricchezza si basava essenzialmente sul controllo dei commerci. Le sue mura ciclopiche, secondo il mito costruite dagli dei Apollo e Poseidone, la rendevano sicura e indistruttibile. I Greci che vogliono imporsi sui traffici del Mediterraneo, riusciranno a incendiarla e a rendere schiavi gli abitanti sopravvissuti. La guerra era iniziata non per il rapimento di Elena, la bellissima sposa di Menelao da parte del troiano Paride, come racconta il mito, ma per una rottura dei rapporti tra popoli che si affacciavano sullo stesso mare.

Nell’Iliade si canta la guerra nei suoi vari aspetti: armi, tecniche, duelli e battaglie di massa, tutto descritto con impressionante realismo. Assistiamo ad assemblee di capi e concili di dèi, partecipi anch’essi alle vicende guerresche, schierati a favore dell’uno e dell’altro esercito, dell’uno o dell’altro eroe. Non mancano rassegne delle forze in campo, strategie di assalti, atti di coraggio.

La guerra è vista come un valore positivo, si descrivono le armi degli eroi, i sanguinosi duelli, quasi con un compiacimento accompagnati da ricche similitudini naturalistiche. Gli eroi sono tutti belli e di grande prestanza fisica. Tra i greci Achille è guerriero intrepido, impetuoso ma magnanimo, forte sopra tutti in guerra, pari agli dèi ma inflessibile nella vendetta; Agamennone è valoroso e autoritario, capo di molti armati; il biondo Menelao, coraggioso ma prudente; Aiace, il più forte dopo Achille, baluardo degli Achei, capo di eserciti; Diomede, domatore di cavalli, ardimentoso e assennato; Odisseo dal “multiforme” ingegno, si contraddistingue per l’astuzia. Fra i troiani campeggiano Paride, bello come un dio, gran vanto degli Achei; Enea obbediente ai voleri del fato; Ettore rispettoso del senso del dovere e legato agli affetti familiari. Per tutti la vergogna più grande è il disonore, l’unico codice morale è quello dell’onore e come suprema aspirazione la gloria conquistata in battaglia, o in duello. Brutto e malvagio è invece Tersite che ha un comportamento anti-eroico: manifesta il suo scontento durante l’assemblea dell’esercito, è ricordato come «l’uomo più brutto che fosse venuto a Troia».

Eppure dagli epiteti ai quali si accompagna la parola “guerra” traspare la consapevolezza dei mali che essa comporta. La guerra è “funesta”, “crudele” “sanguinosa”. La voce del poeta dunque ha molte corde, non rimane insensibile di fronte al dolore di un padre che ha perso il proprio figlio (come quello di Priamo per la morte di Ettore) o quando ricorda il destino di gloria riservato ad Achille, destino che si accompagna a una morte nel fiore degli anni.

Simone Weil, scrittrice francese morta nel 1943 all’età di 34, studiosa della filosofia greca, impegnata affinché fosse rispettata la dignità umana, dopo la guerra di Spagna 1938/39 e prima delle atrocità della seconda guerra mondiale quando Achille è visto come un eroe indiscusso dalla Germania nazista, scrive un saggio, La Grecia e le intuizioni precristiane (Torino, 1967) nel quale considera l’Iliade il poema della forza: «il vero argomento, il vero centro dell’Iliade è la forza che adoperata dagli uomini, li piega ed esercita la sua capacità di espropriare i personaggi omerici della loro umanità». Ogni guerra con la sua dissennatezza, anche quella di Troia, rende i guerrieri disumani: questo il pensiero di Weil.

Non è difficile andare con il pensiero al trattamento disumano riservato da Achille al corpo di Ettore da lui ucciso. Il combattimento che precede il duello tra i due eroi è il momento decisivo della guerra: ad esso partecipano uomini e dèi in uno scontro drammatico e senza esclusione di colpi. Achille fa strage dei troiani; protetto dagli dei, dallo scudo e dall’armatura che la madre Teti ha fatto forgiare da Efesto, uccide Ettore dopo averlo inseguito per tre volte intorno alle mura di Troia.

Il duello tra i due è narrato in tutti i passaggi, alla fine Achille «volendo la morte di Ettore divino, scrutando il suo bel corpo, dove più restasse scoperto, con l’asta attraversa il suo morbido collo dove la fuga della vita è più rapida». Il troiano stramazza nella polvere, ma la ferita non gli impedisce di parlare. Achille gli grida: «Cani e uccelli sconceranno il tuo corpo, mentre gli Achei daranno degna sepoltura a Patroclo».

Ettore lo prega di riconsegnare il suo cadavere al vecchio padre e di «non lasciare che lo sbranino i cani». Ma Achille lo guarda bieco e con dure parole si rivolge a lui: «Cane non starmi a pregare, non c’è nessuno che al tuo corpo possa risparmiare i cani, nemmeno se dieci, se venti volte il riscatto venissero qui a portarmi. Nemmeno se Priamo desse ordine di pagarmi a peso d’oro, nemmeno in quel caso, la nobile madre potrà piangerti steso su un letto; tutto intero ti mangeranno cani ed uccelli».

Poi il valoroso Achille si accanisce contro il suo corpo, ne trafigge i talloni e lo lega per i piedi alla sua biga trascinandolo coperto di polvere e sangue nel campo di battaglia. Il cadavere di Ettore viene così trasportato nell’accampamento acheo, dove, dopo il banchetto funebre, il corpo di Patroclo è bruciato e vengono celebrati i giochi in suo onore. Achille promette che chi l’ha ucciso perirà per sua mano ma non riceverà gli onori funebri, verrà gettato in pasto ai cani. Per dodici giorni prosegue lo scempio del corpo dello sfortunato Ettore, che ogni giorno viene per tre volte trascinato attorno alla tomba di Patroclo.

Il corpo del principe troiano, protetto da Apollo, rimane tuttavia incontaminato. Gli stessi dei non approvano il comportamento folle ed ingeneroso di Achille e chiedono a Teti di indurre il figlio a restituire ai troiani il corpo del loro Principe. Il vecchio Priamo con un ingente riscatto si reca di notte nel campo acheo, chiede con umiltà che gli sia restituito il corpo del figlio. Di fronte al vecchio e canuto re, Achille si commuove, pensa a suo padre se dovesse trovarsi in una situazione simile, come gli suggerisce il supplice re troiano e lo tratta con rispetto. Finalmente, l’ira di Achille, la sua asprezza ed il suo dolore si placano. Priamo ritorna a Troia, dove saranno celebrate le giuste esequie per Ettore.

L’autore dell’Iliade, il poema della guerra e delle sue atrocità, con la riconciliazione finale dei due nemici sembra voler superare la cultura dell’orgoglio, della contesa, dell’ira. All’ideologia guerriera che pure è un valore indiscusso dell’aristocrazia arcaica si sovrappone un messaggio di umanità. Il poema iniziato con una lite tra due guerrieri, Achille e Agamennone, per il possesso di una giovane fatta schiava dai greci, termina con il pianto di un padre sul cadavere del più amato degli eroi omerici e di Achille stesso. Il dolore ha reso umana la disumanità della guerra.

La tranquillità offerta dalla pace, contrapposta agli orrori della guerra è già nella descrizione dello scudo di Achille, ricevuto da Efesto, il fabbro dio del fuoco che vi ha raffigurato due città, una in assenza di guerra, tra nozze, banchetti, danze e canti, campi arati, uomini impegnati nella mietitura o nella vendemmia, bestie al pascolo; in quella devastata dalla guerra dominano invece agguati, scontri, violente stragi.
Il dio Efesto ha voluto proteggere quel guerriero con uno scudo dove è rappresentata la vita intera in tutti i suoi aspetti, sereni o dolorosi.

«Scusatemi, ho mentito»

«Scusatemi, ho mentito per 13 anni»: ha scritto così Gelare Jabbari, una ex presentatrice della televisione iraniana che si è dimessa due anni fa per etica personale. La tv di Stato iraniana, tanto per capire di cosa stiamo parlando, è la stessa che ci aveva raccontato della morte di 80 soldati USA durante un attacco alle basi militare in Iraq ed è la stessa che aveva raccontato di problemi tecnici in riferimento all’aereo ucraino partito da Teheran che invece era stato abbattuta da missili iraniani.

Anche l’associazione dei giornalisti di Teheran ha usato parole nette: «Ciò che mette a rischio la nostra società in questo momento non sono soltanto i missili o gli attacchi militari, ma la mancanza di media liberi. Nascondere la verità e diffondere bugie traumatizza l’opinione pubblica. Quel che è accaduto è una catastrofe per i media in Iran».

La credibilità della televisione iraniana non gode di molto successo nel Paese, il governo ha dovuto bloccare internet per una settimana per provare a controllare l’informazione e il fatto che Gelare Jabbari abbia pubblicato il suo sfogo sul proprio account Instagram spiega perfettamente come siano soprattutto i social a essere consultati dai cittadini per tenersi informati.

C’è però in quel «Scusatemi, ho mentito per 13 anni» tutta la forza di un messaggio dirompente che ribalta improvvisamente la realtà e deve essere stato un sollievo, per i molti critici contro il governo, accorgersi che ciò che credevano vero fosse vero nonostante le bugie di governo è una liberazione politica e sociale.

Immaginate se diventasse obbligatorio dire la verità, magari proprio per decreto di Stato e improvvisamente tutto si potesse spiegare. Immaginate se l’informazione fosse coerente ai fatti e non alla propaganda. Immaginate se i giornalisti esercitassero la propria etica senza essere servi di nessuno. Ecco, avete immaginato un Paese come dovrebbe essere, una democrazia sana. E non c’entra solo l’Iran.

Buon giovedì.

Come (e perché) farla finita con il Concordato, e con l’interferenza del Vaticano sulla nostra vita

Pope Francis exchanges Christmas greetings with the Roman Curia in the Clementine Hall in the Vatican on December 21, 2019. To carry out the continuing reform of the Church requires a willingness to change and a commitment to personal conversion, Pope Francis said. It was Francis’ seventh Christmas address to the cardinals, bishops and ranking officials of the Roman Curia since his election and he delivered it in the 16th-century Clementine Hall of the Vatican’s Apostolic Palace, decorated with magnificent Renaissance frescoes. Photo by ABACAPRESS.COM AbacaPress/LaPresse Only Italy 713927

Il cappellano di Corzano, don Francesco Piccinotti, vanta un record di cui non andar fieri. È lui il protagonista del primo caso noto di pedofilia di matrice clericale dopo la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861. Era il 30 aprile 1864. In base all’accusa «del crimine di libidine contro natura», nei confronti di diverse persone, tra cui un bimbo di 7 anni, la Corte d’Assise di Milano lo condannò a sette anni di reclusione. Notizie di questo tipo in quegli anni erano rare. La profonda trasformazione dell’assetto geopolitico della Penisola in seguito alla breccia di Porta Pia e alla fine dello Stato Pontificio, nel 1870, contribuì a ridurre sensibilmente le possibilità che in Italia accadessero crimini del genere. Grazie al progressivo radicamento di un “sentimento” laico nell’opinione pubblica, il controllo da parte delle autorità civili nei confronti della popolazione clericale fu profondo e capillare.

Nell’Archivio centrale dello Stato a Roma ci sono centinaia di faldoni dedicati alla schedatura, predisposta dai prefetti, di altrettanti sacerdoti con i “vizi” più disparati: gioco d’azzardo, alcool e così via. Si andò avanti così per alcuni decenni fino a quando, tra il 1904 e il 1907, una serie di scandali travolsero diversi istituti cattolici lungo tutto lo Stivale. Citiamo ad esempio il collegio dei Marianisti di Pallanza sul Lago Maggiore, il collegio Greco-Milanese dove erano state violentate delle ragazzine, una scuola di Trani in Puglia, l’Asilo della Consolata di Milano con il cosiddetto “Scandalo Fumagalli” (dal nome della sedicente suora Giuseppina Fumagalli che gestiva l’asilo), che vide l’arresto di cinque donne e di un prete, tale don Riva, per abusi sessuali su una fanciulla, e l’educatorio di Alassio in cui don Bretoni viene accusato di sevizie “sessuali” ai danni di un tredicenne. Stupri, maltrattamenti, abusi su adolescenti, fanciulle e bambini prepuberi: le accuse nei confronti di sacerdoti, educatori e, nel caso di Trani e Alassio, anche di suore, erano pesantissime. Sebbene non sempre risultassero del tutto verificate, le accuse evidenziavano un diffuso malessere anticlericale e antireligioso, e una pretesa di laicità dello Stato, che partivano da molto lontano nel tempo e che si propagarono grazie anche al fatto che gli spazi per la Chiesa nella scuola pubblica erano sempre più ridotti. Cosa di cui il Vaticano era perfettamente consapevole. Tanto è vero che il 5 agosto 1907, dopo l’ennesimo scandalo, questa volta al collegio dei Salesiani di Varazze, passò al contrattacco con un comunicato al vetriolo che accusava «la propaganda massonica e socialista di aver imbastito una campagna anticlericale e contro papa Pio X». A far saltare in aria la “polveriera” era stato il nipote quattordicenne dell’ex console francese presso il Regno di Sardegna, Alessandro Besson, il quale in un diario aveva descritto gli abusi subiti, messe nere in costume «interamente adamitico» e rapporti sessuali tra i frati, le suore del vicino collegio di Santa Caterina da Siena e alcuni alunni.

Ben presto anche la stampa cattolica entrò nella mischia senza risparmiare colpi. E fu come gettare benzina sul fuoco. In quasi tutte le grandi città si svilupparono violenti moti anticlericali. Roma, Milano, Venezia, Pisa, Torino, e ancora Mantova, Livorno, Genova, Firenze e Palermo furono teatro delle proteste con un bilancio di un morto e 20 feriti. Un fatto inusuale nell’Italia di Giolitti, il quale di sicuro non poteva essere definito ostile alla Chiesa, ma che rientrava nel più ampio quadro della feroce disputa tra le istituzioni ecclesiastiche, che ambivano (come oggi) a conservare il monopolio secolare dell’educazione dei bambini, e la giovane scuola pubblica dello Stato italiano. La gestione esclusiva dell’educazione e dell’istruzione da parte della Chiesa si era bruscamente interrotta con l’unità d’Italia. Grazie anche a leggi come la Casati del 1859 e la Coppino del 1877 con cui, eccetto per le elementari, si decretò l’abrogazione dell’insegnamento della religione. Non a caso lo Stato unitario fu riconosciuto dal papa solo con l’avvento del fascismo. Come è noto, Mussolini ridette linfa al controllo ecclesiastico della società ripristinando subito l’insegnamento della religione attraverso la riforma Gentile (1923) e mettendo una pietra tombale sullo Stato laico nel 1929 con il Concordato.

Dopo la fine della guerra e con il ripristino della democrazia, la saldatura tra clero e fascismo – foraggiata dai miliardi dei cittadini italiani regalati da Mussolini al papa come risarcimento per la breccia di Porta Pia e centrata sulla visione comune di una società patriarcale dove, solo per dirne qualcuna, la donna gode di diritti molto limitati e i figli sono di proprietà del padre (non vi ricorda il congresso sulla famiglia organizzato a Verona dalla Lega lo scorso marzo?) – fu solo in parte intaccata dai lavori dell’Assemblea costituente. La disputa tra laici e cattolici non produsse solo l’articolo 7 della Costituzione, che di fatto ha blindato i Patti lateranensi di cui il Concordato fa parte e i privilegi che da esso derivano per il mondo clericale. C’è difatti anche l’articolo 33 che riguarda la scuola e lascia la possibilità di istituire scuole private «senza oneri per lo Stato», demandando alla legge l’applicazione. Come ci ricorda la Uaar, «nel dopoguerra la quasi ininterrotta serie di ministri democristiani alla Pubblica istruzione lasciò più o meno invariata la situazione», e dopo il Concilio e il Sessantotto la discussione si incentrò soprattutto sulla qualità della scuola. «Ma l’elezione di Wojtyla a papa, e il ritorno del Vaticano a una visione integralista dell’educazione (sono gli anni dell’ascesa di Ruini, ndr), hanno portato prima all’approvazione delle modifiche del Concordato nel 1985, poi a richieste sempre più pressanti di finanziare l’esangue diplomificio cattolico» prontamente soddisfatte da governi di ogni colore a scapito della scuola pubblica e in spregio alla Costituzione.

Si parla tanto di discontinuità del Conte 2 dal Conte 1, molto meno, per non dire mai, di discontinuità con tutto ciò che rappresenta il passato fascista (e in varie forme anche il presente) del nostro Paese. L’abolizione del Concordato, il trattato internazionale che regola i rapporti tra l’Italia e la Santa sede con l’imprinting di Mussolini, sarebbe un importante segnale in questa direzione. E con una fava si prenderebbero i classici due piccioni, o forse anche di più. L’eliminazione dell’articolo 4 del Concordato – nel quale si dà facoltà ai vescovi di non collaborare con le nostre autorità – segnerebbe infatti anche la fine della limitazione formale e sostanziale all’attività della magistratura specie nei casi di pedofilia che hanno come sospettato un prete. Non sarebbe cosa da poco. Con picchi di inaudita diffusione negli ultimi 50 anni, la storia d’Italia è attraversata da vicende come quella di don Piccinotti. A fine agosto del 2018 il gesuita tedesco Hans Zollner, membro della Pontificia commissione per la tutela dei minori (istituita del 2015 da papa Francesco) e presidente del Centre for Child Protection della Pontificia università gregoriana, in un’intervista all’AgenSir, l’agenzia dei vescovi, ha significativamente dichiarato: «Troppi sacerdoti, tra il 4 e il 6 per cento nell’arco di 50 anni (1950-2000), hanno agito contro il Vangelo e contro le leggi». Si riferiva agli scandali sugli abusi della Chiesa in Pennsylvania tuttavia ha poi aggiunto: «Sarebbe stupido pensare che in altri Paesi come l’Italia non sia accaduto lo stesso». Queste dichiarazioni sono state completamente ignorate dai media italiani (tranne Left), ma per farsi un’idea delle dimensioni del fenomeno che Stato e Chiesa non vogliono affrontare basti dire che in Italia risiede la più ampia popolazione ecclesiastica del mondo, circa 30mila persone.

Il 2019 si è chiuso con l’annuncio della Santa sede dell’eliminazione del segreto pontificio sui processi per pedofilia. D’ora in poi, se abbiamo interpretato correttamente la dichiarazione ufficiale del segretario di Stato il cardinale Parolin, le magistrature civili di qualsiasi Paese potranno richiedere l’accesso agli atti dei processi canonici e agli archivi delle diocesi. Il segreto pontificio è uno dei principali “responsabili” della diffusione esponenziale della pedofilia di matrice clericale nel mondo. Pertanto, siamo in presenza di un importante segnale in direzione della trasparenza e della collaborazione con le istituzioni straniere e internazionali. Quale migliore occasione per il governo italiano di alzare il telefono e chiedere a papa Francesco un incontro per rivedere gli accordi del 1929-85? L’articolo 7 della Costituzione lo permette: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». Quindi, contrariamente a quello che alcuni sostengono, il Concordato può essere abolito o modificato. In questo caso i Patti subirebbero una modifica, come del resto è accaduto nel 1985 rispetto a quelli del 1929. Insomma, rivedere un trattato internazionale non è un’impresa impossibile. Anzi. Occorre per prima cosa la volontà politica dei nostri “governanti”, dopo di che si alza il telefono e si chiede alla controparte di incontrarsi per avviare una trattativa. Tanto più ora è possibile farlo dato l’avanzato processo di secolarizzazione della società italiana. Se non altro lo è molto di più rispetto al 1929 e al 1985. Quindi la “volontà politica” avrebbe le spalle coperte dal sentire popolare. In tal senso, l’abolizione (o una modifica significativa) del Concordato avrebbe anche una profonda valenza di ordine “socio-culturale”. Significherebbe rimettere in discussione, in coerenza con il processo di secolarizzazione della società italiana, il peso – enorme e ingiustificato – dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica. Si darebbe così un enorme contributo a riportare l’articolo 33 nei binari di una visione laica della scuola e della società in generale, quindi dello Stato. Laicità che non a caso la Corte costituzionale in ben tre sentenze ha definito uno dei pilastri della nostra democrazia. Aggiungiamo noi: insieme all’antifascismo.

L’articolo di Federico Tulli è tratto da Left in edicola fino al 16 gennaio

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Svelare il nesso tra mafia e poteri forti: riuscirà Gratteri nell’impresa tentata da Falcone e Borsellino?

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 15-01-2019 Roma Politica Evento "Una nuova giustizia un'impresa che serve all'Italia" Nella foto Nicola Gratteri Photo Fabio Cimaglia / LaPresse 15-01-2019 Roma (Italy) Politic Event "A new justice a business that needs Italy" In the pic Nicola Gratteri

L’indagine sulla ‘ndrangheta denominata Rinascita-Scott e condotta da Nicola Gratteri conferma ciò che da qualche tempo scriviamo. Esistono punti di collegamento tra i vertici della ndrangheta e centri occulti di potere che hanno interessi comuni con quest’organizzazione criminale. Per noi cittadini è arrivato il momento di comprendere che la “nuova ndrangheta del terzo millennio” ha acquisito rapporti stretti con i poteri forti, nazionali e internazionali.

L’importanza storica dell’indagine di Gratteri, pertanto, dipenderà dal riuscire a provare in giudizio l’esistenza di una rete, ove si anniderebbero questi poteri forti, una sorta di “super comitato”, costituito da uomini politici, massoni, banchieri, giornalisti, alti burocrati dello Stato (magistrati, avvocati, docenti universitari), industriali, che influenzerebbe (direttamente o indirettamente) anche le sorti dello Stato italiano e della sua democrazia.

I poteri forti nazionali costituiscono il cosiddetto terzo livello, mentre quelli sovranazionali realizzerebbero il quarto livello, di cui ancor poco si sa e si scrive. La ‘ndrangheta calabrese prima di tutte le mafie italiane ha compiuto, con particolare arguzia, un vero e proprio avanzamento di qualità riuscendo a cogliere, meglio di altri, le opportunità offerte dalla globalizzazione dei mercati, così come dall’abbattimento dei confini e dalle innovazioni tecnologiche. Ha compreso che la propria pervasività dovesse estendersi alle organizzazioni e alle multinazionali (il quarto livello) abbastanza grandi da contare e pesare nello scenario politico ed economico non solo nazionale ma anche internazionale. Si è organizzata con le strutture intermedie attive ormai in ogni parte del mondo (Americhe, Asia, Australia, Nuova Zelanda, solo per citarne alcune).

La ‘ndrangheta ha capito il ruolo che la globalizzazione dell’economia avrebbe giocato e si è adeguata ai tempi per il semplice fatto che l’attività predatoria di questo tipo di organizzazioni criminali si rivolge sempre verso la ricchezza. Oggi, la ‘ndrangheta è una “impresa multinazionale” entrata a pieno titolo nell’economia globale. Lo stretto legame di consanguineità tra i consociati le consente di espandersi in maniera organica, di accreditarsi con forza (usando violenza o corruzione) in circuiti che sono utili per condizionare scelte politiche e amministrative o regolare rapporti con imprese, enti, banche e istituzioni nazionali e sovranazionali.

La nuova ndrangheta organizzata possiede il know-how relazionale e professionale necessario per mimetizzarsi nell’economia legale rinsaldando alleanze affaristico-mafiose tra consorterie di matrice nazionale e internazionale. L’immensa quantità di denaro di cui dispone la ndrangheta – una massa in continua crescita derivante dal traffico di stupefacenti sempre più lucroso e organizzato – fa si che possa inevitabilmente aggirare, infrangere, piegare ai propri interessi, le leggi dei singoli Stati in cui intende estendere i propri loschi affari.

Per far ciò ha assoluto bisogno dell’appoggio di questi poteri forti. Per rendersene conto basta osservare il comportamento delle multinazionali, dei colossi della finanza, degli operatori dell’economia globale. I principi che li guidano sono gli stessi di quelli mafiosi e la compatibilità e l’adattamento fra i due sistemi sono sostanzialmente analoghi. Una prova di quanto affermato: il contrabbando e tratta degli schiavi e i giovani che abbandonano il Sud non solo per la mancanza di lavoro ma perché non intravedono il futuro di questi territori.

Se rileggessimo gli scritti di Giovanni Falcone, ci tornerebbe a mente come, la mediazione di questi poteri forti era essenziale per le mafie ed era vista da queste ultime come il modo più sicuro, rapido ed efficiente di garantire rapporti finalizzati alla realizzazione del massimo utile possibile. Questo quarto livello, dunque, è molto più pericoloso del terzo e indubbiamente segna il passaggio per la ‘ndrangheta, non da ora, da dimensioni puramente localistiche e nazionali a un livello d’incidenza globale.

La ‘ndrangheta è diventata negli anni un soggetto politico ed economico di livello sovranazionale e la globalizzazione ha rappresentato un ottimo propulsore per la sua espansione. Sono sempre stato convinto che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino siano morti perché, probabilmente, avevano toccato i fili del livello internazionale e mediante le loro analisi finanziarie, complesse e profonde, erano arrivati a individuare quei “poteri forti” sovranazionali (penso alle indagini condotte con Carla Ponte in Svizzera). Furono, presumibilmente, uccisi perché quel livello sovranazionale una volta scoperto, avrebbe rivelato scenari impensabili e inimmaginabili per la pubblica opinione. Avrebbe svelato connessioni tra mafie e poteri militari, oligarchico-finanziari e politici collegati tra loro per scopi non di certo leciti.

Ci riprova oggi Nicola Gratteri cosciente che esista una mafia senza confini che spesso è influenzata da nuovi poteri forti anche a livello sovranazionale. Dobbiamo, pertanto, domandarci se siamo pronti a contrastare questa nuova dimensione delle mafie moderne come lo è oggi la ndrangheta. Dobbiamo chiederci se Gratteri sarà supportato dallo Stato, oppure sarà osteggiato. Ai posteri l’ardua sentenza!

* Vincenzo Musacchio, giurista, associato per il Diritto penale alla School of Public affairs and administration della Reuters University di Newark

Io e internet. Breve storia della rete, da Arpanet al 5G [4/4]

[Segue da qui]

10. Intelligenza artificiale
Che facciamo? Niente email, niente messaggistica, niente social e niente di niente Ginexa
Dobbiamo invece continuare a combattere per la promessa di libertà e di progresso di Internet. Naturalmente a varie scale. La prima è alla grande scala dell’azione politica. Dobbiamo pretendere che l’ascolto non sia solo per la grande banalità “Mettimi i brani di Lou Feed”, ma usare veramente l’intelligenza artificiale verso orizzonti di consapevolezza, di tutela della salute fisica e mentale, di educazione, di sburocratizzazione.

Una volta, per fare capire cosa fosse l’intelligenza artificiale, si faceva l’esempio del consulto con il medico. Si parlava alla macchina intelligente e le si diceva.. “Ho mal di pancia”.. e la macchina rispondeva “Quanto forte?”, e tu “Medio”, e lei ti diceva “Che cosa hai mangiato?”.. eccetera e a poco a poco con una serie di domande e risposte la macchina restringeva il campo e capiva se avevi fatto una indigestione oppure avevi un’ulcera. E di conseguenza ti consigliava il da farsi. 

Questo tipo di intelligenza artificiale il più delle volte non è direttamente commerciabile, ma sistemi pubblici dovrebbero pretendere di averla sempre più sviluppata e diffusa. Oggi siamo appena all’uno su mille. Un gioco che indovina quello che pensi (ovviamente con tecniche di intelligenza artificiale) un programma che ti aiuta a capire la migliore modalità di Pronto soccorso. E con questo almeno c’è un livello di utilità pubblica visto che il sistema fa risparmiare tempo ed energia e aiuta in tante situazioni. Oggi sappiamo già che un sistema come Ginexa può aiutare un ipovedente, oppure un ragazzo con problemi autistici ed è fantastico per insegnare le lingue, ma moltissimo di più potrebbe avvenire. Il pubblico deve intervenire come fa in una qualunque iniziativa privata non per soffocarla, ma per direzionarla. Lo sappiano fare (o ci proviamo) in tanti campi (urbanistica, economia, educazione..), dobbiamo imparare a farlo con il Web. 3.0. La battaglia sulla grande velocità che si sta conducendo – il famoso 5G – è esattamente quella per l’Intelligenza artificiale. Sentivo che la Cina è molto più avanti rispetto a noi. Sapete perché? Perché ha una unica base di messaggistica – WeChat – con circa un miliardo e passa di utenti. Questa base dati “serve” ad insegnare alle macchine come ragioniamo. Di nuovo, ci dobbiamo disperare? Ma ormai qui siamo: bisogna cercare di orientare la politica. La meccanizzazione può condurre (ed ha condotto) allo sterminio del lager, ma anche a progressi incredibili per tutti. Dipende dalla nostra forza di orientamento politica. Non arrendersi.

11. Cose Intelligenti

Il secondo livello è l’uso della domotica. Infatti con Ginexa è arrivato a maturazione un sempre più numeroso sistema di elementi interattivi della casa: lampadine, prese, termostati, tapparelle, sistemi di allarme. Normalmente si pensa sia un gioco. In realtà se ci si trova in una situazione di crisi (siamo anziani o malati o abbiamo delle limitazioni fisiche o arrivano improvvisi pericoli) si capisce immediatamente che poter operare interattivamente e contemporanee può essere vitale.

Abbiamo bilance intelligenti legate a software nei nostri telefonini che monitorano il nostro peso, le pulsazioni cardiache, la percentuale di acqua o di muscolo. E progressivamente più diffusi sono sistemi da polso, che chiamare orologi appare ridicolo, che ci monitorano costantemente. Mandano i dati in rete dove ovviamente sono usati per capirci e capire comportamenti e abitudini di milioni di persone. Il “Corriere della sera” on line il 18 giugno scorso titolava “Google, l’intelligenza artificiale ora può prevedere il rischio di morte dei pazienti.” E avrebbe un’attendibilità al 95 per cento e anche i sensori da polso non sbagliano affatto quando ci avvertono sulle nostre anomalie cardiache: bisogna veramente andare in ospedale. L’articolo si riferiva ad un modello di intelligenza artificiale localizzato in ospedale a supporto dei medici, ma in realtà questo può avvenire in scala enormemente più ampia, quella dei singoli individui. Certo per un verso le informazioni di milioni di persone, quelle sul loro peso, sulla loro pressione, sulla loro attività fisica sono trasmesse dai nostri device alla rete con ovvie violazioni della privacy (che accettiamo con un piccolo “okey” quando le installiamo) per altro verso queste stesse informazioni ci possono salvare. Di nuovo impensabile per il Web 1.0, no?

Ma il legame sensori-informazioni-modelli di attuazione è argomento che vale ancora più nella dimensione urbana. Sempre più oggetti della città sono capaci di reagire interattivamente al variare delle situazioni ed essere collegati a rete uno con l’altro. Tendenzialmente tutti gli oggetti avranno un loro IP specifico e verranno a far parte della rete ed interagiranno con essa. I semafori non scattano a tempo, ma rilevando interattivamente il numero della macchine in fila per fare un esempio. Ma immaginate sensori che leggano le variazioni di inquinamento o il livello delle acque o i venti o le tempeste. Ebbene queste informazioni possono essere collegate a modelli matematici interattivi – lo avevamo anticipato discutendo degli Open data – che rispondono ad una situazione o ad un altra e predispongono azioni coordinate. E quando si tratta di situazioni di crisi (alluvioni, esondazioni, incendi, attacchi criminali) allora emerge l’importanza di questi sistemi.

Il 14 novembre, molti telespettatori hanno visto visto per la prima volta l’ologramma di una cantante fare una recita. Lei era Berlino, ma appariva nello studio di Milano in maniera assolutamente realistica, in una proiezione ologrammatica (che appunto è un sistema che simula la realtà tridimensionale!). I nostri figli o nipoti sono oggi abituati a vederci ogni giorno sugli schemi dei loro palmari anche se stiamo lontanissimo. Hanno una scena nativa così diversa dalla nostra che abbiamo visto arrivare a casa il primo televisore in bianco e nero!

Prepariamoci. Sicuramente i loro figli – magari in nuove Chapel spirituali – ci avranno in carne ed ossa accanto a loro in proiezione ologrammatica. E questo anche se saremo già morti. E cosi Dio-Google quasi esaudirà la più importante promessa della divinità: l’immortalità.

Fine della serie – prima parte seconda parte terza parte

Antonino Saggio, insegna dal 1985 Informatica e Architettura prima alla Carnegie-Mellon di Pittsburgh, poi all’ETH di Zurigo e dal 1999 alla “Sapienza” di Roma. Ha fondato la collana internazionale “La rivoluzione informatica in Architettura” (Birkhauser, Edilstampa) che dal 1998 ha prodotto 38 volumi ognuno incentrato su una personalità o su un tema rivelante per comprendere il grande cambiamento di orizzonte teorico e culturale di cui l’Informatica è portatrice anche per l’architettura

Qui dove il cinismo viene scambiato per sincerità

È che viene facile facile essere cinici, in fondo è la via più breve: essere cinici significa arrogarsi il diritto di riprendere con violenza alla violenza, significa poter buttare tutto nel cesso dell’ironia bieca, comprese le fragilità più fragili dei fragili che ci sono in giro.

Il problema è che il cinismo, inteso come banalizzazione cattiva della complessità che ci accade intorno, viene vissuto addirittura come sincerità. In sostanza si crede che il modo più alto dell’essere sinceri sia quello di essere merde senza vergognarsene in pubblico. Se qualcuno augura a un suo nemico di morire o di soffrire con acutissimo dolore viene considerato coraggioso perché è stato capace di rivendere una sua pulsione (di quelle basse, delle peggiori) come gesto di coraggio. È di moda il coraggio di essere merde, senza rendersi conto che è la via più semplice, quella che viene facile facile: pronunciare ad alta voce ciò di cui ci dovremmo vergognare è diventato un atto di coraggio, anche se è solo una stolta impudicizia.

Ci siamo innamorati della nobilitazione della parte peggiore di noi stessi e ne rimaniamo perdutamente affascinati. Ormai non sogniamo più di essere migliori ma aspiriamo al massimo a una dialettica spendibile del nostro peggio: spargere odio con una frase colorita è la nostra realizzazione.

E così accade che alcuni pensatori (giornalisti, politici o presunti intellettuali) che hanno ceduto al rilascio dei proprio sfinteri improvvisamente diventino dei profeti. Va per la maggiore quello che dice “non fate quello che faccio ma ascoltate soltanto quello che dico” e così siamo tutti contenti. E anche i deliri di un vecchio suonato alla fine sembrano delle intuizioni immancabili.

Se si muore, poi, il quadro è completo: il rigor mortis è sostituito dall’idiozia del fine vita. Tutto accettato, tutto bello. E quelli che combattono per le idee in cui credono vorrebbero farli passare come deboli illusi e invece siete voi, cinici che vi rivendete come sinceri, che siete solo dei poveri sconfitti smutandati. Vale la pena ricordarvelo.

Buon martedì.

Non solo sardine, alcune proposte per una nuova sinistra

Le Sardine, con un effetto a catena, riempiono finalmente le piazze delle città, e lo fanno con parole d’ordine chiare: antifascismo, antipopulismo, difesa della Costituzione. E riescono a farlo unendo un popolo disperso e ampio che proviene dalle tante anime che vivono o sopravvivono nella sinistra: da Sinistra italiana ad Mdp-Articolo1, dal Pd ad èViva, persino dal Movimento 5 stelle fino a giovani antagonisti, da “senza patria” a generici e spesso prevalenti delusi. Meraviglioso e straordinario: è indubbio che tutto questo sia da salutare con favore e partecipazione.

Quindi la Sinistra sta rinascendo? Nutro qualche dubbio. E non per generica diffidenza ma per ragionamento che vuole provare a scavare un po’ al di sotto della superficie visibile. Mi chiedo: quale posizione assumono quelle piazze ad esempio sul Tav? E sul taglio dei parlamentari? E sulla riforma del sistema elettorale? Preferiscono un sistema proporzionale, maggioritario o secondo il novello Germanicum? E lo sbarramento al 3 o al 5%? E che pensano sulla crisi dell’Ilva? E sulla reintroduzione dell’articolo 18 magari aggiornato per comprendere le nuove forme di lavoro sempre più penalizzanti? E sul Jobs act?

Probabilmente (certamente) gli animatori delle piazze di Mdp la vedrebbero in maniera differente da quelli di Sinistra italiana, o da quelli del Pd ecc., e quelle piazze si dividerebbero immediatamente, proprio come è divisa da tempo la sinistra in Italia. Quelle piazze cioè, così come si caratterizzano, non possono andare oltre le parole d’ordine ricordate, le quali – pure se giuste e necessarie – non possono racchiudere in sé e risolvere le contraddizioni e le insufficienze della sinistra di questi decenni. Non è un caso che gli stessi organizzatori del movimento delle Sardine rimarchino, oltre alla distanza dai partiti, che non spetta a loro dare soluzioni.

Allora non si esce dall’equivoco di fondo: le piazze ittiche rappresentano la domanda (l’esigenza di rappresentanza, la necessità di rinnovamento della sinistra) non la risposta, che spetterebbe invece ai soggetti politici finora incapaci a svolgere questa funzione. Il pericolo che si intravede è che questo movimento, così generico e apparentemente unificante, possa trasformarsi in realtà nella replica, magari più consapevole, della genesi che portò alla nascita del Movimento 5sStelle: una forza con parole d’ordine giuste, sufficientemente di sinistra, ma che poi per la genericità dell’impianto si è dimostrata incapace di azione politica di cambiamento, avvitandosi sempre più nel governismo per l’assenza di fatto di una visione alternativa, e avviandosi ora, pare, al dissolvimento. Oppure perire come fu per i Girotondi, il Popolo viola e simili.

Non sono le pur necessarie ed entusiasmanti piazze delle Sardine che possono risolvere i limiti della sinistra in Italia. Una sinistra che fosse tale dovrebbe porsi il problema di immaginare un nuovo modello di sviluppo, di contrasto alla schiavitù della crescita continua del Pil, un’alternativa al liberismo, e su quello animare le piazze.
O c’è chi, in questo scenario, può credere che basti l’abbandono dell’uso delle bottigliette di plastica per essere alternativi al liberismo, cioè all’attuale modello di sviluppo? Chi può credere che bastino le pur opportune battaglie per la diminuzione dell’Iva sugli assorbenti, per costruire davvero un Green New Deal? Tutto ciò oltre che tragico, è ridicolo, semplicistico e riduttivo.

Bisogna andare oltre, e provare ad immaginare una sinistra che riscopra il suo ruolo e la sua funzione, innanzitutto di difesa dei deboli, degli “sfruttati” si sarebbe detto un tempo, di difesa dei diritti, di lotta per il loro allargamento, ma soprattutto che sappia coniugare ciò con un’idea diversa di mondo. Una sinistra che “abiti” le piazze delle Sardine, ma che sappia, nel cogliere le novità e le spinte che lì emergono, arricchirle con una proposta ed una visione complessiva, che è esattamente quella che oggi manca.

Perché in Portogallo ed ora in Spagna, si possono proporre (e con ciò anche vincere) programmi con un minimo di ambizione alternativa al liberismo ed in Italia non si riesce neppure a ipotizzare una riflessione? Questo governo, ad esempio, nato, come noto, inaspettatamente e non come risultato vittorioso di battaglie politiche o sociali o persino parlamentari, tuttavia proponeva la discontinuità come tratto distintivo. Lo stesso simulacro di sinistra parlamentare, nel favorire la nascita del governo per scongiurare i pericoli salviniani, tuttavia sembrava ponesse alla base di tutto la discontinuità con le politiche giallo-verdi, ma anche renziane.

Si deve allora riproporre, o proporre finalmente con forza, almeno quei piccoli (grandi) punti programmatici che sembrava potessero caratterizzare e giustificare la presenza di forze di sinistra nell’esecutivo e che possano renderla riconoscibile:

abolizione, non riforma, dei decreti Sicurezza

riforma del sistema fiscale accentuandone il carattere progressivo con diminuzione della pressione verso i redditi bassi e aumento verso i grandi capitali, l’introduzione di una patrimoniale vera e con meccanismi di tassazione dei profitti delle multinazionali e dei giganti del web (e perciò farsi promotori di battaglie in campo europeo per l’unificazione delle politiche fiscali dei vari Paesi europei)

reintroduzione di un sistema elettorale proporzionale, il solo davvero rappresentativo

smantellamento delle politiche migratorie salviniane ma anche degli accordi dell’ex ministro Minniti;

far riprendere all’Italia un ruolo centrale e di pace nel Mediterraneo ricordando che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (art.11 della Costituzione, ancora fortunatamente in vigore).

Insomma non propriamente l’assalto al Palazzo d’Inverno, ma un programma minimo che dia senso alla presenza delle pur sparute forze di sinistra nel governo, sapendo che non è facile il confronto e i contrasti da affrontare sono enormi. Insomma una sinistra che non rinunci alle proprie visioni, a rappresentare il mondo del lavoro, del lavoro precario e del non-lavoro, che non accetti di sottostare ai facili ricatti (“altrimenti torna Salvini”) ed ingoiare, con la promessa di un dopo, il taglio demagogico dei parlamentari piuttosto che una ennesima riforma elettorale.

Solo se si ricomincia da questo, oggi nell’immediato, si può tornare a riflettere su una nuova politica ecologica per il pianeta quale occasione di sviluppo e di lavoro, sulla necessità di una diversa distribuzione della ricchezza, sulla necessità che lo sviluppo tecnologico serva a migliorare la qualità della vita e non si traduca in aumento dei profitti. Se così non sarà non basteranno Sardine o altre specie ittiche a far rinascere la sinistra. Solo così la sinistra può ambire a tornare a rappresentare un orizzonte di riferimento e una speranza per il futuro.

* Lionello Fittante è cofondatore dell’associazione #perimolti e aderisce a èViva