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Fermiamo i discorsi di odio. L’appello di Left

Lettera aperta alla presidente del Senato della Repubblica, Elisabetta Alberti Casellati

Gentile Presidente,

siamo un gruppo di cittadine e cittadini, di diverse estrazioni politiche e culturali, a rappresentarle i sensi di una comune preoccupazione. Quella relativa ai tempi di costituzione e dunque alla operatività della Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza, promossa come prima firmataria dalla senatrice a vita Liliana Segre. Approvata in Aula al Senato il 30 ottobre scorso, la Commissione risulta infatti ancora non costituita e lungi dunque dal poter intraprendere i suoi lavori.
Sappiamo che Lei con la sua ben nota sensibilità istituzionale e democratica ha per tempo invitato i Presidenti dei vari Gruppi parlamentari a indicare i nominativi dei rispettivi commissari; nella maggior parte dei casi però ciò non è ancora avvenuto, con conseguenti ritardi nella costituzione della Commissione, nomina della sua Presidenza e pieno dispiegamento delle condizioni di operatività.
Sappiamo che questi sono stati tempi di assiduo lavoro per il Senato della Repubblica, tenuto conto anche della sessione di bilancio, ma mentre alcuni Gruppi hanno comunque già potuto adempiere, altri hanno mostrato meno sollecitudine.
Noi come cittadine e cittadini italiani, preoccupati per la diffusione che appare esponenziale di fenomeni come il razzismo, l’antisemitismo, i discorsi d’odio sui social media e non solo, siamo a suggerire alla sua attenzione e nei limiti dei suoi poteri l’ipotesi di un appello ai Presidenti dei Gruppi ritardatari affinché attivino le procedure di nomina per porre la nuova Commissione quanto prima nella condizione di disimpegnare la sua importante funzione.
Creda che tanta parte dell’opinione pubblica italiana attende con interesse l’attivazione di uno strumento percepito come indispensabile per la conoscenza e il contrasto di fenomeni che non smettono di suscitare allarme e preoccupazione per la stessa tenuta democratica e civile del nostro Paese.

Con sincera gratitudine

Furio Colombo, giornalista e scrittore
Giuseppe Sala, sindaco di Milano
Felice C. Besostri, avvocato
Matteo Ricci, sindaco di Pesaro
Silvana Pisa, ex senatrice
Vincenzo Vita, ex senatore
Francesco Somaini, docente universitario e presidente del Circolo Rosselli di Milano
Fc St. Pauli 1910 – Brigate Garibaldi FC St. Pauli
Arci Cotone APS di Piombino
Rosy Tucci, capogruppo del gruppo consiliare “Gorizia è tua”
Antonio Caputo, presidente Federazione circoli Giustizia e Libertà
Antonello Falomi, ex senatore e presidente associazione Ex parlamentari
Laura Fasiolo, ex senatrice
Simona Grabbi, presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Torino
Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Torino
Moni Ovadia, attore, regista e scrittore

Le mani sulle città – sommario

Sommario

03
Introduzione
di Simona Maggiorelli

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La città come merce

09
Lo spazio pubblico in ostaggio
di Edoardo Salzano

13
Pensare lo spazio urbano è fare politica,
un ritratto di Edoardo Salzano
di Mauro Baioni

17
Le mani della finanza su Roma
di Paolo Berdini

22
Gentrification, da benessere per tutti a business per pochi
di Camilla Ariani

27
La faccia nascosta di Airbnb
di Leonardo Filippi

32
Le bolla del capitalismo digitale
di Lorenzo Fargnoli

36
Il Giglio appassito e la trappola del turismo
di Grazia Galli e Massimo Lensi

40
Esquilino, una Disneyland dell’esotico
di Vincenzo Carbone
46
Come cambia la città nell’era del turismo
di Marzia Coronati

Nel mondo

57
Il liberismo del mattone non convince i moscoviti
di Yurii Colombo – da Mosca

62
Una capitale in crisi di identità
di Daniele Coltrinari – da Lisbona

67
La fuga degli artisti da Hackney Wick
di Tommaso De Paoli – da Londra

72
La magia di Istanbul minacciata dal cemento
di Dino Buonaiuto

76
Quella piccola oasi urbana che dà fastidio a Pechino
di Alessandra Colarizi

80
La lezione di Marshall Berman
di Vittorio Giacopini

Architettura e diritti umani

88
Salvatore Settis: Quando l’architettura nega i diritti umani
di Simona Maggiorelli

94
Razzisti sì ma con stile, arriva il design anti-povero
di Leonardo Filippi
100
Porte aperte allo sconosciuto
di Massimo Guastella

105
Arte, città e diritti umani
di Simona Maggiorelli

111
Il diritto a una casa al tempo di Greta
di Checchino Antonini

Ripensare l’urbanistica

117
Fermate il Mose, una sciagura per Venezia
di Vezio De Lucia

121
Ricostruiamo l’urbanistica pubblica
di Sergio Brenna

130
Se la città smarrisce la sua identità
di Ugo Tonietti

135
Venezia affonda, sì ma nell’incuria
di Fulvio Cervini

140
Il ruolo sociale dell’architetto è un bene comune
di Corrado Landi

Le mani sulle città – introduzione

Le mani sulla città. Quelle invisibili dell’ideologia neoliberista che, attraverso il braccio armato di palazzinari e costruttori senza scrupoli, sfregia il paesaggio e costruisce nuovi ghetti. Deregulation urbanistica, zooning, cementificazione ad oltranza segnano il volto del territorio. Gli esempi sono tantissimi, dalle interminabili periferie senza identità che assediano il centro storico di Roma, alla laguna di Venezia intossicata dalle grandi navi, fino alla crescita esponenziale e cacofonica di Istanbul, che annulla le millenarie radici multiculturali e cosmopolite di questa straordinaria città ponte fra Oriente e Occidente. Le mani sulla città, però, sono anche quelle, sapienti, della buona architettura, che sa immaginare e dare forma a edifici e quartieri che rispondono ad esigenze sociali e politiche, creando e ricreando spazi urbani a dimensione umana e collettiva. Influenzando positivamente la qualità della vita, progettando freespaces (per dirla con Yvonne Farrell e Shelley McNamara, curatrici della Biennale architettura 2018), riaffermando il binomio democrazia e sostenibilità. Di questi due opposti modi di mettere le mani sulla città ci occupiamo in questo volume, con reportage da metropoli simbolo di questa trasformazione epocale – Mosca, Istanbul, Pechino, Londra, Lisbona, Roma, Venezia, Firenze ecc – e chiamando architetti, sociologi e urbanisti a confronto. Se è vero che il cambiamento rapido delle città è cominciato con l’industrializzazione stessa, è altrettanto vero che nel nuovo millennio le megalopoli stanno andando incontro a una trasformazione totale, sotto la spinta di un potente inurbamento (in questo quadro il diritto alla città diventa un tema assolutamente centrale). Per averne un’idea basta dire che nel 1850 in città viveva circa il 3% della popolazione mondiale, mentre oggi la percentuale si aggira intorno al 54%. Secondo le previsioni nel 2030 si arriverà al 70%.

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Uno degli aspetti più drammatici di questa accelerata urbanizzazione è che più di un miliardo di essere umani vive in slums, mentre nelle grandi città occidentali – pensiamo per esempio alle banlieue parigine – sono sorte delle vere e proprie enclave separate. È il nuovo apartheid urbano che nelle metropoli americane (e non solo) separa minoranze ultra ricche da vaste maggioranze di poveri. Esempio lampante di questo conflitto che si è aperto fra architettura e democrazia sono i quartieri per miliardari circondati da mura, fili spinati, telecamere e strettissimi controlli. Se ne trovano in Messico, in Brasile, in Sudafrica ed anche in Occidente. Più spesso, anche da noi, le città sono contrassegnate da quartieri dormitorio, che formano una barriera, un confine definitivo, un capolinea. Come il Corviale a Roma. Un problema che non riguarda solo le periferie più povere: con la crescita esponenziale dello sprawl sono tanti i quartieri senza identità, senza piazze e luoghi di ritrovo che non siano centri commerciali. Marc Augé anni fa coniò il termine “non luoghi” per parlare di questi spazi commerciali e di transito standardizzati, omologati dalla globalizzazione. Un fenomeno, la globalizzazione, che se da un lato ha democratizzato il turismo, rendendolo di massa, dall’altra sottopone centri storici allo stress di un numero esorbitante di visitatori. Il problema sorge in particolare quando città come Firenze vengono ridotte a una Disneyland dell’antico, sfrattando botteghe e servizi per gli abitanti, a favore del bric a brac delle multinazionali del turismo. Con tanto di ordinanze che impongono assurde norme di decoro urbano, come quella voluta dal sindaco di Firenze Nardella, che vieta di sedersi sulle panchine a mangiare e bere dopo una certa ora. Misura che finisce per colpire solo i senza fissa dimora. Accanto alla “turistificazione” delle città cresce l’ostracismo verso i più poveri. Non è un caso se i centri storici di Venezia e Firenze continuano a perdere abitanti. Queste problematiche vengono approfondite qui da illustri urbanisti, fra i quali, Vezio De Lucia, Edoardo Salzano (che ricordiamo con riconoscenza e affetto) e Paolo Berdini. Insieme invitano a una presa di posizione e a un nuovo impegno civico dal basso, per resistere e opporsi alla speculazione, alla privatizzazione degli spazi pubblici e all’annullamento della memoria che minaccia i centri urbani.

Importante è anche la riflessione sull’identità dell’architetto come capacità di visione, rapporto con l’umano e rifiuto di logiche neoliberiste, come suggeriscono lo storico dell’arte Salvatore Settis e gli architetti Corrado Landi e Camilla Ariani. «Si è sempre costruito per politica, fin dalla polis, l’architettura è l’arte che ha il più immediato e necessario impatto politico» ha scritto Fabio Sani ne L’architettura e la morte dell’arte (1996). «Antonio da San Gallo, uomo colto e difensore dell’ordine costituito, progettava edifici per il potere politico. Michelangelo, indipendente e difficilmente controllabile, usava il potere politico per affermare le sue idee. La storia ci dice che l’architettura ha sempre avuto una valenza politica. Essa fa le scelte, ma è l’architetto che cerca una forma e ha il dovere etico di opporsi alla cattiva politica».

Due ministre due misure

Nel febbraio del 2013 la cancelliera tedesca Angela Merkel annunciò a malincuore le dimissioni della ministra dell’istruzione nel governo tedesco Annette Schavan, accusata di plagio nella sua tesi universitaria. La situazione fu presa terribilmente sul serio: l’università di Dusseldorf, dove nel 1980 aveva conseguito il dottorato, le ha revocato il titolo accusandola di plagio con l’approvazione di 12 componenti del consiglio di facoltà. Il decano della facoltà di filosofia, Bruno Bleckmann spiegò che Schavan nella stesura della tesi aveva “simulato in maniera sistematica e intenzionale prestazioni intellettuali che lei stessa non ha prodotto”. Disse anche che i testi copiati avevano “un’ampiezza considerevole” e non erano stati adeguatamente indicati.

Su Repubblica il docente di linguistica italiana Massimo Arcangeli ha illustrato come la ministra dell’istruzione italiana Lucia Azzolina (del Movimento 5 Stelle) abbia copiato ampi stralci della sua tesi di specializzazione per l’insegnamento del sostegno. Anche in questo caso si tratta di ampi stralci (di cinque, sei righe) che non sono stati segnalati, per un totale di circa della metà del documento.

Vale la pena ricordare che nel 2017 l’allora ministra della pubblica amministrazione Madia finì sotto accusa per lo stesso motivo e finì sotto gli strali proprio dei componenti del Movimento 5 Stelle che ne chiesero a gran voce le dimissioni.

Ora basta mettere in fila i fatti per immaginare come dovrebbe andare a finire se la coerenza non fosse un orpello omeopatico da sventolare per mungere voti. Per ora la ministra Azzolina si difende dicendo che non si tratta di una tesi (riferendosi al fatto che sia la fine di un corso di specializzazione e non di laurea). Difesa deboluccia: provate a accusare un ladro di mele e osservatelo mentre si difende chiarendo che ha sottratto una pera.

Lo spettacolo continua.

Buon lunedì.

La sinistra al governo, uno schiaffo al franchismo

Alla fine la Spagna volta pagina con il primo governo di coalizione della sua moderna democrazia, qualcosa senza precedenti dai tempi della II Repubblica (1931), una fase nuova che rivendica il ruolo della politica come mezzo di trasformazione del reale e di opposizione a tutte le destre, per fermarle. Il twitter di un emozionato Pablo Iglesias è come un lieto fine, ma è solo un inizio: #SíSePuede.

Dopo nove anni dalla piazza del 15M (il movimento degli Indignados) accetta la sfida di governare e strappa la vicepresidenza del consiglio, formata però questa volta da due aree, diritti sociali e Agenda 2030, quella che riunisce gli obiettivi delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile, con l’ambizione della lotta alla povertà e all’emergenza climatica, passando per la riduzione delle disuguaglianze.

Composizione e programma dicono con chiarezza che quello spagnolo è un governo progressista, in aperta controtendenza, come per il vicino Portogallo, con il resto dell’Europa. È un esecutivo espressione delle due principali forze che si richiamano alla sinistra, quella tradizionale e storica del Psoe di Pedro Sánchez e quella nuova rappresentata dalla coalizione Unidas Podemos, con Pablo Iglesias di Podemos e Alberto Garzón di Izquierda Unida.

Una maggioranza risicata resa …

L’articolo di Massimo Serafini e Marina Turi prosegue su Left in edicola dal 10 gennaio

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Se l’italiano è piccolo piccolo

Incasso record al botteghino, pubblico diviso tra estimatori e delusi, interventi di politici pro e contro, persone del mondo dello spettacolo e non che twittano di essere corsi a vederlo il primo giorno di programmazione, Tolo Tolo scritto e diretto da Checco Zalone (nome d’arte di Luca Medici) trionfa in sala, oscurando gli ottimi risultati di Ficarra e Picone e Antonio Albanese e proiettandosi oltre i 65 milioni di euro del precedente Quo vado.

Soggetto di Virzì, che ne è rimasto co-sceneggiatore, regia di Zalone, che stavolta sostituisce Gennaro Nuziante, prodotto da Valsecchi – ultimo progetto, almeno sulla carta, della loro collaborazione – budget stellare per un progetto italiano di origine controllata pugliese, preceduto da polemiche intorno al videoclip di lancio, accusato di razzismo. Un film, che ottiene un così ampio interesse e soddisfa una attesa così spontanea, non può essere considerato solo un’astuta strategia di marketing o una riuscita commedia italiana/all’italiana come non può essere configurato come l’ennesimo exploit di un artista di talento o il gioco dissacrante di un mattatore che “surfa” abilmente sull’emergenza umanitaria e le migrazioni dal continente africano; è qualcosa di più, si pone come un fenomeno sociale, intercetta un immaginario ed un sentir comune, ne coglie le fibre tissutali su cui rotoliamo di crisi in crisi.

Non è vero che il tema dell’immigrazione non paga sullo schermo e non è vero che all’opinione pubblica non interessa, dipende da come lo si racconta e Zalone – indossando la maschera mostruosa che già Sordi aveva plasmato su di sé come una seconda pelle – sembra saperlo fare e bene, con intelligenza schiva e sincerità mirata, parlando in primo luogo di ciò che gli italiani sono diventati…

L’articolo di Daniela Ceselli prosegue su Left in edicola dal 10 gennaio

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L’Iran, la vendetta e un popolo diviso

Graffiti depicts a defaced Iranian flag on a wall in Tahrir Square, Baghdad, Iraq, Wednesday, Jan. 8, 2020. Iran struck back at the United States early Wednesday for killing a top Revolutionary Guard commander, firing a series of ballistic missiles at two military bases in Iraq that house American troops in a major escalation between the two longtime foes. (AP Photo/Nasser Nasser)

La morte del generale Qassem Soleimani avvenuta tra la notte del 2 e 3 gennaio non verrà archiviata con gli imponenti funerali che hanno visto milioni di iraniani prenderne parte. La gente nelle strade ha gridato per ore «America, tu hai cominciato noi finiremo». Il drone Usa che ha colpito le due auto all’aeroporto internazionale di Bagdad ha colpito un intero Paese e le conseguenze si ripercuoteranno in tutto il Medio Oriente.

Da alcune fonti locali, l’aereo di Soleimani sarebbe arrivato a Bagdad dal Libano e, una volta salito sul convoglio retto dal leader Hezbollah iracheno, sarebbe stato colpito dal drone. Soleimani avrebbe anche dovuto incontrare il primo ministro Iracheno Adil Abdul-Mahdi. Si era già a conoscenza di questa visita in quanto era stata programmata e quindi tutti conoscevano i movimenti del generale. Tra l’altro il primo ministro ha anche dichiarato che Soleimani aveva con sé una lettera della leadership iraniana su come ridurre le tensioni con l’Arabia Saudita. Questo dovrebbe far riflettere su cosa stava lavorando il generale prima di essere assassinato e su chi non vuole ripristinare una pace in Medio Oriente.

Come afferma il generale di Brigata (Aus) Francesco Ippoliti che a lungo è stato in missione in Iran e che ha avuto modo di conoscere da vicino Soleimani: «Il generale era un…

* L’autrice Tiziana Ciavardini giornalista ed esperta di Iran. Il suo ultimo libro è Ti racconto l’Iran. I miei anni in terra di Persia, Armando editore, 2018

L’articolo di Tiziana Ciavardini prosegue su Left in edicola dal 10 gennaio

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Le ragioni di Nicoletta e l’ombra del codice Rocco

ROME, ITALY - FEBRUARY 17: Nicoletta Dosio, leader No Tav partecipates at Defend Afrin, national demonstration against the Turkish bombardments in Afrin, for the freedom of Ocalan and justice in Kurdistan.on February 17, 2018 in Rome, Italy. (Photo by Simona Granati - Corbis/Corbis via Getty Images)

Sono quelle dell’ambiente e quelle della libertà di movimento le ragioni di Nicoletta e di tutte e tutti i suoi compagni di strada nelle marce No Tav, nei presidi in valle, nei conflitti ambientali che costellano una penisola mediterranea, più di altri luoghi esposta agli effetti dell’ingiustizia climatica.

Ragioni scippate e deluse – Left ne ha scritto – da un Movimento 5 stelle che, una volta al governo, ha tradito ogni causa ambientalista. Per i fanatici della legalità vale la pena ricordare i 548 milioni di euro per mancato rispetto della normativa comunitaria e le 21 procedure di infrazione Ue su 67 che riguardano le normative sull’ambiente e l’energia. Senza contare le procedure istruttorie del sistema Eu Pilot (la richiesta di chiarimenti tra Commissione e Stati membri prima dell’apertura formale della procedura): nel 2017 l’Italia è stato il Paese con il maggior numero di casi Eu Pilot, 43 su 178 totali.

Intanto Nicoletta ci ha scritto dalla sua cella delle Vallette a Torino in cui è rinchiusa dal 30 dicembre per scontare una condanna definitiva a un anno (il pm ne aveva chiesti 3). «Sta bene, convinta della sua scelta – racconta a Left Gianluca Vitale, uno degli avvocati del Legal Team – una delle prime cose che mi ha detto è di aver toccato con mano che il carcere è il cassonetto della marginalità: tossicodipendenti, migranti comunque persone svantaggiate. O chi viene considerato dissidente».

La vicenda della sua carcerazione dimostra che, anche senza i decreti Minniti e Salvini, questo non è mai stato un Paese agibile per il conflitto sociale. «Il decreto Salvini – spiega Vitale – tenta un salto di qualità nel senso e diventa più facile contestare cose che prima dovevano essere forzate dentro paradigmi sanzionatori, ad esempio l’interruzione di pubblico servizio o il blocco stradale». Un reato che…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 10 gennaio

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Caro ministro Franceschini, il museo è diverso da un centro commerciale

Il 2020 è nato illuminato dell’esaltazione mistica social, quasi adolescenziale, esternata il cinque gennaio dal ministro Mibact, Dario Franceschini, e da molti “suoi” direttori: è la prima apertura gratuita, in questo nuovo anno, di grandi musei e siti archeologici statali. Sembra di vederli quei volti esterrefatti mentre scattano e ingurgitano foto alle file interminabili dei visitatori per poi vomitarle sui social. Neanche i pastori del presepe davanti alla celebre Stella cometa sono arrivati a tanta commozione. È il nuovo sport (disumano): quello a chi ha la fila più lunga.

Perché questo esibizionismo ministeriale è preoccupante? Almeno per due ragioni. La prima, di natura tecnica, è legata al fatto che dietro quelle file c’è una ricercata disorganizzazione dei singoli musei. Le file sparirebbero, ad esempio, se solo i biglietti di accesso potessero essere acquistati on-line e in ogni dove, edicole incluse, così come accade per quelli della metropolitana in alcune città. L’aggravante in tale vicenda sta nel fatto che questa soluzione, così qui rapidamente ricordata, è alla portata di tutti già da tempo ma non viene applicata come dovrebbe. Inutile dire che la lunghezza delle code si risolverebbe semplicemente aumentando anche i giorni di accesso gratuito. La verità, però, è che le due soluzioni appena citate non vogliono adottarle perché, semplicemente, le file interminabili da Black Friday sono molto scenografiche e riempiono di like le pagine dei social.

La seconda ragione, invece, è più sottile perché quell’ostentazione ministeriale è dimentica del Paese reale, quello che fa fatica ad arrivare alla fine del mese, quello che ha, di fatto, solo due alternative: rimanere in casa davanti ai tanti programmi della tv trash oppure andare nei centri commerciali dove la solitudine diventa ancora più densa di silenzio. Diciamocela proprio tutta senza troppi giri di parole: dietro quell’esaltazione di ministro e seguaci c’è di più e di peggio. Loro, infatti, in quell’ostensione digitale parlano di se stessi, e, senza rendersene conto, dimostrano quello che sono e soprattutto, più dolorosamente, come intendono i visitatori.

Questi ultimi sono considerati alla stregua dei consumatori come quelli, sempre in fila, davanti alla cassa di un fast-food o di un hard discount o, come detto, di un Black Friday. La nostra Costituzione della Repubblica ci vuole, invece, cittadini, soggetti di diritti, di doveri e soprattutto di dignità e un museo questo tipo di persone dovrebbe abbracciare e coltivare. Inutile dire che fra le patatine fritte e un dipinto di Caravaggio si estende un abisso di umanità, quella che evidentemente difetta a tutti i disaccorti, impietosi fotografi di file umane anche nei giorni di pioggia.

Ma l’Italia ripudia quelli che amano la guerra?

Articolo 11 della Costituzione, vale la pena ripassarlo:

«L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».

L’articolo 11 della Costituzione sembra un orpello scritto come souvenir delle buone intenzione ma evidentemente sfugge al pensiero dominante di certa politica: a qualcuno sfugge che l’Italia (e così dovrebbe essere l’Europa) nasce per assicurare la pace ai propri cittadini e per fare la propria parte nel consolidamento della pace nel mondo.

«Pace nel mondo»: fa senso, vero? Scrivere una roba del genere fa passare direttamente questo scritto nel cassetto delle analisi troppo utopistiche per essere discusse, considerate e prese sul serio. La stragrande maggioranza della classe dirigente politica nel mondo ritiene la guerra un male necessario e ci promette al massimo di farla con buona educazione. Stiamo a posto così.

Ogni tanto qualcuno prova a riportare le dimensioni dell’evento ma viene tacciato. Gino Strada fece notare che per costruire 12 ospedali servono 250 milioni di dollari che sono il costo di 8 ore di guerra. «Si prendano un giorno di vacanza», disse. Ma Gino Strada, si sa, è un buonista. Nessuno smentisce le cifre: attaccano la persona che le ha fornite.

Però si affacciano anche quelli che la guerra la amano, addirittura la invocano e la propongono come soluzione politica in assoluta scioltezza. Ci sono persone (anche tra i nostri politici) che anzi invitano Trump a bombardare anche quegli altri, quelli che gli sono antipatici, e ci invitano ad armarci ancora di più e ancora più forte per scendere in battaglia. Sembra incredibile ma gli amanti della guerra vengono presi molto più in considerazione degli amanti della pace.

Allora mi chiedo: ma se l’Italia ripudia la guerra quindi ripudia anche quelli che amano la guerra?

Così, per sapere.

Buon venerdì.