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Isolare. Mica solo il virus

Il ministro Roberto Speranza e il direttore dell’Istituto Spallanzani di Roma hanno annunciato al mondo di essere riusciti a isolare il Coronavirus. Questo permetterà di studiare più velocemente e meglio eventuali vaccini e lo sviluppo della malattia. Solo la Cina, la Francia e l’Australia erano riuscite nell’impresa ma, diversamente dagli italiani, non avevano messo tutti i risultati a disposizione della comunità internazionale. L’Italia, ancora una volta, è in cima al mondo per abilità nella ricerca e per i risultati ottenuti.

Ovvio e inevitabile che qui dove il virus è diventato argomento per la propaganda, con Salvini che riesce addirittura nell’enorme sciocchezza di collegare un virus esploso in Cina con i migranti che arrivano dall’Africa ora qualcuno cerchi di prendersi il merito politico della scoperta. Poi se si fa notare che ogni anno, con ogni governo, i soldi alla ricerca vengono vissuti come una spesa da limare questi si offendono pure. Sia chiaro: essere orgogliosi del risultato comunque è un gesto invidiabile rispetto a tutto il resto.

Il resto, appunto. Il resto è un nuovo stupido razzismo (tutti i razzismi del resto hanno bisogno di stupidità per proliferare) che attraversa l’Italia, questa volta contro i cinesi. Che poi, diciamolo subito, abbiamo parlato degli africani perché Salvini è riuscito a renderli appetibili ma cinesi, rumeni e albanesi sono sempre stati in testa alle antipatie dei razzisti di casa nostra. Ecco così i video e i post contro i musi gialli considerati sporchi e comunque inferiori, ecco allora i ristoranti cinesi che si svuotano (come se c’entrasse qualcosa), ecco l’occasione giusta per prendere a sberle in faccia un pezzo importante della nostra economia. Non è questione di virus: i razzisti aspettano solo che venga disponibile una leva per potere vomitare la propria ignoranza.

L’ignoranza, appunto. Il male endemico di un Paese che non riesce a isolare l’ ignoranza e non riesce a vaccinarsi dall’ignoranza. Si vede e si legge di tutto: genitori che tengono i figli a casa da scuola per la compagna cinese, gente che non mangia più gli involtini primavera, nuovi nazionalisti che improvvisamente hanno un nuovo nemico.

E non ci sarà nessun medico che riuscirà a isolare l’ignoranza, purtroppo. A ben vedere dovrebbe pensarci la politica ma la nostra politica, questa nostra politica, invece è sempre intenta a concimarla.

A proposito: il team che ha isolato il Coronavirus è formato da donne. Aspettate che lo scoprano i fallocrati editorialisti.

Buon lunedì.

La rotta balcanica, dove la lotta per la vita non è un videogioco

Con una discreta dose di ironia, i migranti lo chiamano “the game”, il gioco: si affronta il freddo delle montagne che dividono la Bosnia Erzegovina dalla Croazia, chi riesce a non farsi intercettare dalla polizia di confine arriva fino a Trieste via Slovenia e vince il premio, la speranza di una vita migliore. Chi perde, e capita la maggior parte delle volte, perde tutto: la polizia croata picchia, sequestra giacche, scarpe, telefoni cellulari, e respinge il loser in Bosnia, privo di tutto, fino al prossimo tentativo. Secondo il network Violence border monitoring «nel 2019 almeno 770 persone sono state respinte con l’uso di armi da fuoco nel corso dei push-back, e questi dati rappresentano solo una piccola porzione delle espulsioni illegali che si sono verificate» e che sono per loro natura impossibili da censire con completezza.

Ma la stessa Croazia ha ammesso per il 2019 almeno 9.500 respingimenti. Di sicuro c’è che i trattati Ue, regolamento di Dublino in testa, imporrebbero invece la presa in carico dei migranti da parte del primo Stato membro in cui questi mettono piede, proprio come accade in Italia per quelli che sbarcano nei nostri porti. È così invece che da due anni la Croazia impiega i circa 100 milioni stanziati dalla Commissione europea per la sorveglianza dei confini propri e dell’Unione.

Due anni di rotta bosniaca
La situazione è estremamente critica e dopo lo scorso 19 dicembre, in seguito alla decisione delle autorità di radere al suolo il terrificante campo informale di Vucjak, una discarica in cui stanziavano fino a 900 persone, rischia di deflagrare nelle cittadine di confine di Bihac e Velika Kladusa, ma anche nell’interno, a Tuzla, tappa obbligata dei flussi di migranti provenienti dalla Serbia.

Nella Krajna bosniaca, in particolare, l’assistenza è già scarsa e spesso mal vista: accanto a singoli attivisti che si muovono per aiutare i transitanti sistemati in squat o accampati in strada crescono episodi di intolleranza, con la politica che agita lo spauracchio della sostituzione etnica dei migranti con le migliaia di giovani bosniaci costretti ogni anno a emigrare in cerca di lavoro. Paure che oggi hanno un loro impatto anche in Italia, a maggior ragione in un Paese che non ha ancora del tutto superato i traumi della crisi umanitaria degli anni Novanta: il prezzo è quello di una tendenza alla radicalizzazione che si sta accentuando anche per via dei nuovi ingressi.

La via bosniaca è stata l’ultima in ordine di tempo a ingolfarsi di migranti in cerca dello european dream, a causa della chiusura delle vecchie tappe della rotta balcanica: da quasi due anni in Bosnia confluiscono afghani, pakistani e siriani che prima entravano dall’Ungheria e che ora sbattono contro i muri innalzati da Viktor Orban, e a loro cominciano ad aggiungersi anche marocchini che preferiscono il lunghissimo viaggio per la Bosnia a un Mediterraneo sempre meno sicuro

Campi Oim al collasso a Bihac e Velika Kladusa
La Bosnia e le Nazioni Unite, attraverso l’Organizzazione mondiale per le migrazioni, hanno risposto all’emergenza aprendo uno dopo l’altro 8 campi di accoglienza formali, di cui l’ultimo a Blazuj, alle porte di Sarajevo, destinato ad…

Il reportage prosegue su Left in edicola dal 31 gennaio

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Nuova luce sull’esordio romano di Caravaggio

Il 29 luglio 1610 Deodato Gentile, nunzio apostolico a Napoli, scrive al cardinale Scipione Borghese che Caravaggio aveva perso la vita pochi giorni prima non a Procida, come si credeva, ma a Porto Ercole dove, scarcerato dalla fortezza di Palo in cui era stato rinchiuso dopo essere sceso dalla feluca, era giunto nel torrido clima di quel luglio 1610. Ma la notizia che interessava davvero il cardinal Borghese, avido collezionista di Caravaggio, era un’altra.

Dei quadri con i quali il pittore si era imbarcato alla volta della capitale dello Stato pontificio soltanto tre erano stati ricondotti indietro, nel palazzo della marchesa Costanza Colonna a Chiaia: «I doi San Giovanni e la Maddalena». È il 1991 quando Vincenzo Pacelli pubblica questa ed altre lettere di Deodato Gentile ed è la prima volta che la Maddalena in estasi di Caravaggio, di cui erano note diverse copie disseminate tra Francia, Spagna, Russia e Italia, viene menzionata come presente a Chiaia in casa della marchesa protettrice del pittore lombardo.

Un foglio di piccolo formato, ritrovato nel palazzo dei conti Pacelli in cui era conservato anche il dipinto della Maddalena in estasi scoperto nel 2014 da Mina Gregori, esperta di fama mondiale della pittura di Caravaggio, e da lei attribuito all’artista, reca la scritta: «3. di 19 Madalena roversa di Caravaggio a Chiaia, ivi da servare pel beneficio del Cardinale Borghese di Roma ff.(fidem facio)».

Il testo collima perfettamente con quanto il nunzio apostolico riferiva a Scipione Borghese, al quale Gentile farà arrivare nel 1611 il San Giovanni Battista oggi in Galleria Borghese. Dell’altro San Giovanni Battista e della Maddalena si perdono le tracce. Il quadro della Maddalena Gregori, compare in mostra al Western Art Museum di Tokyo nel 2016 e al museo Jacquemart-André di Parigi nel 2018 con un’attribuzione a Caravaggio da consolidare anche perché nulla si sapeva fino a sei mesi fa della storia del quadro.

Insieme a Francesca Curti, mettendo a frutto le reciproche competenze di specialista di documenti e di storica dell’arte che già nel 2011 hanno portato alla scoperta di documenti che gettano nuova luce sull’esordio romano dell’artista lombardo, abbiamo condotto una campagna di ricerche incentrata sia…

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Evviva l’identità antifascista dell’Emilia Romagna

Un mio caro amico ha sintetizzato la dinamica che ha portato alla vittoria di Bonaccini e del Pd in Emilia-Romagna con queste parole che condivido: «A sinistra Bonaccini ha recuperato grazie alla paura del “lupo”, a destra ha drenato presentandosi come la forza della stabilità, che non tocca i rapporti di forza ma li consolida». Il mio giudizio sulla politica della Regione di questi anni è che essa sia stata espressione, nelle sue linee fondamentali, di quel “neoliberismo progressista” di cui il Pd è il principale perno nel nostro Paese.

In Emilia-Romagna quell’aggettivo “progressista” risente più che altrove della lunga storia della “regione rossa” che ha alle spalle. E dunque è migliore di quello che mediamente il Pd riesce a esprimere nazionalmente. Ma la collocazione del Pd nel contesto sociale è saldamente ancorata agli interessi forti, non più vissuti come distinti, per non dire alternativi, ai ceti popolari. Il Pd vive la società come una melassa di soggetti indistinti annegati nel binomio onnicomprensivo e salvifico di “lavoro e impresa”.

Sotto questa visione pacificata situazioni anche estreme di sfruttamento del lavoro, di abbandono e degrado sociale, di decadimento qualitativo e privatizzazione dei servizi sociali, di cementificazioni selvagge (tarate spesso sulle esigenze dei costruttori) si producono senza sollevare eccessivo scandalo. D’altra parte i gruppi dirigenti del centrodestra condividono quelle politiche ed anzi le vorrebbero attuare in misura ancora più drastica.
La esplosione del voto grillino degli anni passati si era alimentata di quote crescenti di malcontento e di stanchezza nei confronti di queste politiche.

Quando il voto grillino si è dissolto per effetto delle sue contraddizioni, della sua incapacità di dare uno sbocco al malcontento, come si è visto coi governi Conte, una parte di quel voto è trasmigrato verso la Lega facendone il primo partito regionale alle Europee del 2019. Ma la Lega, come si è detto, è un partito non solo di protesta populista, bensì anche una forza che ha cercato…

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Calabria Saudita, un voto senza vita

Come volevasi dimostrare. Il risultato del voto in Calabria era scontato e tutti i sondaggi parlavano chiaro e non lasciavano ombra di dubbio. Inoltre, a differenza dell’Emilia Romagna, era un voto che non aveva rilevanza nazionale e la campagna elettorale è stata condotta sotto tono e fuori dai riflettori, a parte qualche show di Salvini a Riace.

D’altra parte la Calabria è la regione più povera d’Italia dagli anni 50, sempre ultima rispetto ai più importanti indicatori socio-economici. Una Regione che ha subito più di altre del Mezzogiorno l’impatto della crisi che ha provocato una fuga di massa dei giovani come non si era vista nemmeno nell’immediato dopoguerra.
Una Regione dove è radicata la più grande organizzazione criminale italiana, e una delle più potenti al mondo, ma anche la terra dove una parte della magistratura, imprenditori e società civile organizzata lottano da anni contro l’economia criminale come in nessuna altra regione italiana.

Una terra di grandi contraddizioni che due anni fa aveva dato, sia pure con un po’ di confusione in testa, un segnale forte di rottura con le clientele, i clan della ‘ndrangheta e la borghesia mafiosa che usa e investe i grandi profitti dei mercati illegali. Quasi la metà dei calabresi aveva votato per il M5s sperando di mandare a casa una classe politica inetta e corrotta e di voltare finalmente pagina. Purtroppo, il M5s ha profondamente deluso l’elettorato calabrese, ma soprattutto ha ucciso la speranza di un cambiamento radicale: questo è stato il suo peccato capitale, che nessuna rifondazione post-Di Maio potrà cancellare.

La maggioranza relativa dell’elettorato calabrese aveva dimostrato di non essere più schiavo e dipendente dai ricatti e clientele tradizionali, in quanto il voto al M5s è stato un voto libero di protesta, sia pure populista, ma comunque senza condizionamenti. In soli due anni il M5s si è mangiato, divorato, un patrimonio di fiducia, la speranza di un popolo che è stufo di una politica di false promesse. Una parte di questo elettorato non è andato a votare in questa tornata delle elezioni regionali, un’altra ha votato per la Lega e dintorni, un’altra parte, la più piccola, ha votato per Callipo e ancora meno per Tansi (lista civica indipendente).

Da questo voto emerge una triste realtà: una Regione rassegnata si consegna nelle mani del vecchio potere, quello che…

L’intervista prosegue su Left in edicola dal 31 gennaio

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Laura Parker: Corbyn va, le idee radicali restano

Tourist walk along by the United Nations controlled buffer zone (Green Line), in central divided capital Nicosia, Cyprus, Thursday, Jan. 21, 2016. United Nations Secretary General Ban ki-Moon encouraged the leaders of ethnically divided Cyprus to capitalize on the current positive momentum in ongoing reunification talks and to make further progress. Ban said solid progress has been made in eight months of talks, but key differences remain. The island of Cyprus has been divided since 1974, when Turkey invaded in response to a coup aimed at uniting the island with Greece. Cyprus gained independence from Britain in 1960. (AP Photo/Petros Karadjias)

Laura Parker è stata fino a poche settimane fa la coordinatrice nazionale di Momentum, l’organizzazione nata nel 2015 attorno alla candidatura a leader del Labour di Jeremy Corbyn. Momentum è stata decisiva nel sostenere Corbyn e indirizzare a sinistra il partito laburista. Ha avuto anche un ruolo importante nella campagna elettorale appena conclusa e abbiamo fatto una chiacchierata con la sua ex coordinatrice per cercare di capire meglio cosa è andato storto il 12 dicembre e che piega sta prendendo il congresso del Labour, che porterà il 4 aprile all’elezione del nuovo leader del partito, attraverso primarie a cui prenderanno parte cinque candidati: la radicale Rebecca Long-Bailey, il più moderato Keir Starmer (i due favoriti), e poi Jess Philips, Lisa Nandy ed Emily Thornberry.

Qual è stata la cosa fatta da Momentum che ti ha reso più fiera in questa campagna elettorale?
Sono molto orgogliosa del numero di persone che siamo riusciti a mobilitare, tra cui anche individui che non si considerano della sinistra del Labour. È stata una campagna elettorale molto aperta e inclusiva. Ci sono stati oltre 2,5 milioni di contatti sulla nostra app My campaign map che aveva lo scopo di indirizzare gli attivisti nei posti in cui era più utile. Chiaramente nel Regno Unito, con il nostro sistema elettorale, è molto importante dare più attenzione ai collegi marginali e abbiamo cercato di indirizzare i militanti nei posti in cui potessero dare un contributo maggiore.

Abbiamo organizzato telefonate di gruppo con migliaia di partecipanti, sessioni di “addestramento” per nuovi attivisti, grandi squadre di volontari, militanti che giravano video che poi noi aiutavamo a diffondere; abbiamo attivato il car pooling per i volontari che si accordavano per andare a fare campagna elettorale in giro per il Paese. È stato davvero uno sforzo collettivo generato dal basso e non dalla leadership del partito, molto più simile alle campagne di mobilitazione dell’associazionismo piuttosto che di un grande partito tradizionale. E penso che questo nostro approccio potrebbe cambiare il modo in cui il Labour si mobiliterà in futuro. Inoltre sui social media abbiamo avuto degli ottimi risultati, con molte più interazioni dei canali ufficiali dei Conservatori o del Labour stesso.

C’è qualcosa che, in retrospettiva, pensi che abbiate completamente sbagliato?
Come tutto il resto del Labour, avremmo dovuto impegnarci di più e prima nel portare più risorse in alcune zone del Paese, in particolare nella cosiddetta “muraglia rossa” (il gruppo di collegi del Nord Est ex minerario che da quasi un secolo garantiva decine di seggi al Labour e che, tramite la Brexit, Boris Johnson ha strappato a Corbyn, ndr). In pochi avevano capito appieno il rischio che correvamo nel Nord Est e nello Yorshire, da dove provengo. La decisione del Brexit party di non presentarsi in alcuni collegi ha avuto più importanza di quanto avessimo pensato. Ma questo non è stato un errore compiuto solo nelle sei settimane di campagna elettorale, è un problema che…

L’intervista prosegue su Left in edicola dal 31 gennaio

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La fake news dell’emergenza è un vero affare

Il 20 gennaio è stato aperto il Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) a Macomer in provincia di Nuoro. Si tratta del nono in Italia, e si sa già che il decimo sarà operativo da marzo a Milano (v. Left del 31 gennaio 2020, ndr). L’apertura del Cpr è stata presentata dal governo regionale come una scelta importante per rilanciare l’economia locale e indispensabile per disincentivare il flusso migratorio dei giovani harraga dall’Algeria verso le coste della Sardegna sud-occidentale. Si tratta di una rotta attiva da quasi un quindicennio e che conta circa 750 arrivi nel 2019. È un fenomeno ben noto e nonostante i toni allarmistici puntualmente utilizzati dai media locali difficilmente può essere definito un’emergenza.

Il nuovo Cpr isolano è principalmente destinato a trattenere proprio questi giovani, ma anche tutti coloro che per vari motivi non possono rinnovare il proprio permesso di soggiorno senza aver commesso alcun reato o chi, dopo avere già scontato un periodo di reclusione sarà nuovamente privato della libertà in vista del rimpatrio. A oltre dieci giorni dall’apertura del Cpr non sappiamo con certezza quante persone vi siano già state trasferite. Per ora è mantenuto il più stretto riserbo ed è di fatto impossibile per la società civile monitorare gli arrivi a causa dell’imponente dispiegamento delle forze dell’ordine a protezione dell’intera area.

Il Cpr di Macomer è un ex carcere chiuso dal 2014 destinato a “ospitare” fino a 100 persone. La gestione è affidata alla Ors Italia, filiale del Gruppo Ors, una multinazionale già attiva in Svizzera, Austria e Germania. L’affidamento a privati della gestione dei Centri per stranieri comporta spesso il prevalere delle logiche di mercato e si traduce nella riduzione della qualità dei servizi erogati e nella frequente violazione del rispetto dei diritti fondamentali delle persone ristrette. Questi timori sono alla base di un’interrogazione parlamentare del deputato Leu Erasmo Palazzotto che ha chiesto più controlli in particolare sulla Ors, affinché sia verificato il reale possesso dei requisiti richiesti per la gestione dei centri di grandi dimensioni e che l’obiettivo di massimizzazione del profitto non vada a discapito dei migranti e dei contribuenti.

Macomer è un Comune simbolo del fallimento della politica industriale sarda e luogo da cui in media fugge un abitante ogni due giorni e mezzo. L’annuncio dell’apertura del Cpr è stato accolto dagli amministratori locali come occasione di sviluppo per il territorio. Sperano infatti di far ripartire l’occupazione mediante i servizi di cui avranno necessità le persone trattenute nel Centro e dalle eventuali ricadute positive per l’arrivo di nuove unità delle forze dell’ordine.

Dalla minoranza del Consiglio comunale iniziano, però, a levarsi opinioni contrarie. Le proteste e le dimissioni di alcuni consiglieri minano il precario equilibrio dell’assemblea, già messo a dura prova dallo scandalo dello scorso ottobre sulla sanità nell’oristanese che aveva portato agli arresti domiciliari il sindaco di Macomer. Lo stesso che aveva condotto le trattative per l’apertura del Centro con l’ex ministro dell’interno Minniti e con il governo regionale e che aveva ottenuto uno stanziamento per la sicurezza del territorio diretto alla videosorveglianza e all’illuminazione di alcune zone adiacenti al Cpr e rassicurazioni sulla riapertura della locale caserma della Guardia di Finanza.

Nemmeno l’approvazione del decreto sicurezza Salvini che ha abolito la protezione umanitaria e aumentato i tempi di trattenimento ha fermato la macchina organizzativa. C’è chi all’interno del consiglio comunale palesò all’ex ministro leghista e vice premier una preoccupazione per il possibile venire meno del requisito del rispetto della dignità umana all’interno del Cpr.
Ma si è rivelata una controversia passeggera.

Dovrebbe essere ormai noto che le strutture di detenzione amministrativa per stranieri, sin dalla loro istituzione alla fine degli anni Novanta, si sono dimostrate inutili e costose per le collettività che le ospitano e luoghi di sofferenza e di violazioni di diritti per le persone trattenute. Ciononostante l’apertura del Cpr può contare sul favore di quella parte dell’amministrazione locale che si illude che ad essa possa seguire il risveglio economico del territorio. Ma la realtà sarà ben diversa e i rappresentati della comunità macomerese dovrebbero preoccuparsi non solo per la sicurezza dei propri concittadini, rassicurandoli sulla natura carceraria del nuovo centro, ma anche delle continue violazioni di diritti segnalate e accertate anche dai monitoraggi istituzionali e dovrebbero ritenersi responsabili per quanto accadrà nel centro che hanno accettato di attivare nel proprio territorio.

Esiste anche un variegato fronte del No al Cpr. Raccoglie non solo la parte di comunità preoccupata per la propria sicurezza ma anche parte della società civile sensibile alla salvaguardia dei diritti dei migranti e che inizia a organizzarsi per lottare contro l’apertura del Centro di Macomer e di tutti i Centri di detenzione per il rimpatrio.

Per approfondire, Left in edicola dal 31 gennaio

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Perché l’Università forma medici obiettori?

Valentina aveva 32 anni. Nel 2016, al quarto mese di una gravidanza gemellare, fu ricoverata all’Ospedale Cannizzaro di Catania per una rottura prematura delle membrane, una condizione grave con un rischio altissimo di infezione; morì dopo circa due settimane di ricovero, per una setticemia (v. Left dell’11 maggio 2018 ndr).

Forse Valentina avrebbe potuto essere salvata. Forse, un aborto, che era comunque pressoché inevitabile, avrebbe potuto scongiurare l’insorgenza della sepsi che l’ha uccisa, ma all’Ospedale Cannizzaro tutti i ginecologi erano obiettori di coscienza e, a quanto risulta, l’ipotesi dell’aborto terapeutico non fu neanche presa in considerazione: nessuno avrebbe informato Valentina dei rischi connessi alla sua condizione, nessuno avrebbe ascoltato la richiesta disperata dei genitori di farla abortire. Sembra, invece, che il medico in servizio abbia opposto a tale richiesta la sua “coscienza” di obiettore, che gli impediva di intervenire finché un cuore fetale batteva ancora.

Il dramma di Valentina ha riacceso le polemiche sull’obiezione di coscienza e sulla peculiarità italiana, con quasi il 70% di obiettori tra i ginecologi. Sono stati fatti paralleli con il caso di Savita Halappanavar, morta in Irlanda dove la legge puniva severamente chi praticasse l’aborto, anche in caso di grave pericolo per la vita della donna. Ma se la sepsi conseguente ad una rottura prematura delle membrane ha ucciso entrambe, l’analogia si ferma qui, perché in Italia la legge 194, proprio quella che all’articolo 9 prevede la possibilità per il personale sanitario di sollevare obiezione di coscienza, non esonera gli obiettori dall’obbligo etico e professionale di intervenire con un aborto nel caso in cui sussista un pericolo grave per la vita della donna. Dunque, il caso di Valentina si configura come un caso di cattiva pratica medica, che ha ben poco a che vedere con la coscienza, come sostiene lo stesso Pubblico ministero nel rinvio a giudizio dei medici coinvolti nella vicenda.

La storia di Valentina ci mette però di fronte ad una triste evidenza: troppo spesso i medici obiettori non hanno conoscenza del dettato della legge che riconosce il diritto cui loro si richiamano, né hanno conoscenza delle tecniche mediche e/o chirurgiche per interrompere la gravidanza, perché, da obiettori, sono convinti che non dovranno mai occuparsene. Accade così che in situazioni di grave rischio, come nel caso di Valentina, alcuni di loro non considerino e non prospettino l’aborto tra le opzioni di trattamento da valutare, né sappiano come comportarsi in caso di richiesta in questo senso della donna. La triste vicenda di Valentina mette così a nudo il grave vuoto formativo nei programmi delle Scuole di specializzazione in ostetricia e ginecologia, in primo luogo di quelle di ispirazione confessionale, ma non solo di quelle.

Dal 2014 i medici possono accedere alle Scuole di specializzazione accreditate sulla base di una graduatoria, alla quale vengono iscritti i vincitori di un concorso nazionale. L’accreditamento delle Scuole, pubbliche e private, viene fatto sulla base di requisiti e indicatori clinico-assistenziali definiti da un decreto del Ministro dell’Istruzione, dell’università e della ricerca nel giugno 2017, nel quale però non si specificano nel dettaglio gli argomenti che, fondamentali per la formazione specialistica, pur nel rispetto dell’autonomia e della libertà di insegnamento, devono essere comunque trattati nei programmi di studio.

Tra le Scuole accreditate risulta il Campus Biomedico di Roma, nella cui Carta delle finalità, all’art. 10 si legge: «Il personale docente e non docente, gli studenti e i frequentatori dell’Università …. considerano l’aborto procurato e la cosiddetta eutanasia come crimini in base alla legge naturale; per tale motivo si avvarranno del diritto di obiezione di coscienza previsto dall’art. 9 della legge 22 maggio n. 194. Si ritiene inoltre inaccettabile l’uso della diagnostica prenatale con fini di interruzione della gravidanza ed ogni pratica, ricerca o sperimentazione che implichi la produzione, manipolazione o distruzione di embrioni»; e all’art. 11: «Il personale docente e non docente, gli studenti e i frequentatori dell’Università riconoscono che la procreazione umana dipende da leggi iscritte dal Creatore nell’essere stesso dell’uomo e della donna (….). Tutti considerano, pertanto, inaccettabili interventi quali la sterilizzazione diretta e la fecondazione artificiale».

Il regolamento dell’Università stabilisce che i programmi di studio devono conformarsi alla Carta delle finalità; è dunque evidente che gli studenti e gli specializzandi in ostetricia e ginecologia del Campus Biomedico di Roma non riceveranno alcuna formazione in tema di interruzione volontaria della gravidanza (Ivg), contraccezione sicura e fecondazione medicalmente assistita, e che verrà loro imposta l’obiezione di coscienza. Una “coscienza” collettiva, “di Istituto”, certamente non prevista dalla legge 194, che riconosce il diritto all’obiezione solo come libera scelta personale, ma non contempla certamente il dovere di obiezione come imposizione del luogo di formazione, dove si può capitare non per scelta ma in base ad una graduatoria.
Per questo motivo Amica (Associazione medici italiani contraccezione e aborto) rivolge un appello al ministro della Salute e al ministro dell’Università e della ricerca, cui aderiscono l’associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica e l’Uaar (Unione degli atei e degli agnostici Razionalisti) e che è stato sottoscritto da numerose associazioni e personalità della cultura e del mondo scientifico. Nell’appello si chiede al ministro della Salute «di agire nei confronti del Campus Biomedico per la piena applicazione delle norme in vigore in Italia, che prevedono il rispetto della legge 194», mentre al ministro dell’Università e della ricerca si chiede di verificare la completezza della formazione offerta dalla Scuola di specializzazione in ostetricia e ginecologia, che non può escludere temi quali l’Ivg, la contraccezione sicura, la fecondazione medicalmente assistita, e di procedere alla revoca dell’accreditamento qualora fosse confermato tale grave vuoto formativo. Analoga verifica dovrà essere fatta non solo per le Scuole di specializzazione private accreditate di chiara impostazione confessionale, ma anche per le Scuole di specializzazione delle Università pubbliche. Nel 2016 Amica svolse un’indagine tra gli specializzandi in ostetricia e ginecologia dei tre poli universitari statali di Roma, al fine di valutare le conoscenze fornite loro in tema di legge 194 e Ivg. L’indagine, presentata al congresso della Federazione internazionale degli operatori di aborto e contraccezione (Fiapac) tenutosi a Lisbona nell’ottobre dello stesso anno, evidenziò una grave carenza formativa in tutte le Scuole universitarie: l’89% degli specializzandi riteneva inadeguata la formazione in tema di Ivg, solo il 15,8% aveva fatto un training clinico sulla Ivg del primo trimestre, pochissimi sulla Ivgdel secondo trimestre, oltre il 60% aveva una conoscenza insufficiente o errata della legge 194. Se il 46% degli intervistati si dichiarava obiettore di coscienza, ben il 44%, pur lamentando il vuoto formativo, dichiarava di non essere obiettore e di voler includere l’Ivg tra i propri impegni lavorativi.
A questi futuri ginecologi l’Università deve dare una formazione adeguata. La carenza riguardo i temi “sensibili” non è ovviamente una dimenticanza, ma piuttosto il segnale di un’impostazione ideologica confessionale che segna pesantemente non solo l’Università, ma tutta la società italiana. A dieci anni dall’introduzione della Ivg farmacologica in Italia, nonostante questa metodica si sia dimostrata sicura, efficace e molto meno costosa della chirurgica, in Italia è utilizzata in meno del 20% dei casi, per il giudizio “morale” che grava su di essa; la stessa ostilità “morale” esclude qualunque forma di rimborso da parte del Sistema sanitario nazionale dei contraccettivi sicuri; sono solo due esempi, che evidenziano la necessità di un impegno reale non solo dei ministri in questione ma del governo tutto, al fine di garantire la laicità dello Stato, fondamentale per assicurare ai medici una formazione basata sulla scienza, libera da pregiudizi ideologici o confessionali e ai cittadini una reale tutela della salute come bene pubblico.
Carlo Flamigni, scherzando, ha proposto come titolo: «Ogni volta che qualcuno parla di legge naturale, un laico muore».

***

Anna Pompili è medica, ginecologa presso i consultori della ASL RM1 e presso il servizio di Interruzioni Volontarie di Gravidanza dell’ospedale San Giovanni di Roma. E’ professoressa a contratto della Scuola di specializzazione in Farmacologia Medica, Università degli Studi di Roma “Sapienza”. Da sempre impegnata nel campo dei diritti riproduttivi, è cofondatrice di AMICA (Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto)

 

L’articolo è tratto da Left del 31 gennaio 2020

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Complici, altro che discontinui

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 10-09-2019 Roma Politica Senato.Voto di fiducia al governo Conte bis Nella foto Luciana Lamorgese, Giuseppe Conte, Luigi Di Maio Photo Fabio Cimaglia / LaPresse10-09-2019 Roma (Italy) Politic Senate. Vote of confidence to the government Conte bis In the pic Luciana Lamorgese, Giuseppe Conte, Luigi Di Maio

L’Alto commissariato delle Nazioni Unite ieri ha annunciato che abbandonerà la struttura di raccolta e partenza (Gathering and departure facility – Gdf) a Tripoli, sotto il diretto controllo del governo perché, ha spiegato il capo della missione Jean-Paul Cavalieri, temono «che l’intera area possa diventare un obiettivo militare, mettendo ulteriormente in pericolo la vita dei rifugiati, dei richiedenti asilo e di altri civili» essendoci a pochi metri le esercitazioni dell’esercito.

In questi giorni qualche ministro continua a rassicurare in merito a un negoziato tra Italia e Libia che nei fatti non è mai iniziato. È quel ministro che si è tolto la cravatta qualche giorno fa rinunciando al ruolo di capo politico del Movimento 5 stelle e che vorrebbe essere discontinuo senza interferire con gli equilibri precedenti: un alambicco vuoto, insomma.

Il prossimo 2 febbraio il governo Conte bis perpetuerà il patto tra Italia e Libia che fu sottoscritto da Gentiloni (sì, da Gentiloni). Un patto vergognoso che gronda sangue e che ha aperto le porte di fatto al fetido cattivismo di questi ultimi anni. Un patto di cui si continua a non conoscere l’entità e economica e che in violazione alla nostra Costituzione (art. 80: «Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi») non è passato dal Parlamento. Un accordo economico che nessuno riesce a controllare.

Si sa che più della metà dei migranti scappati dalla Libia sono stati riportati nell’inferno libico. Eppure il diritto internazionale dice che la Libia non è sicura. Eppure in Libia a causa della guerra ci sono 350.000 sfollati e centinaia di morti e di feriti.

Questi pensano di battere le destre vincendo le elezioni regionali in Emilia Romagna e poi facendo la destra al governo. Da mesi il PD ci propina i suoi messaggi via social di solidarietà ai profughi e di contrarietà ai patti con la Libia (come ai decreti Sicurezza) e si è dimenticato che è al governo. Da mesi ci parlano di discontinuità e non si vergognano nemmeno.

Ha ragione Emergency quando dice «L’Italia dice di aver fatto la sua parte, ma non è così. Non ha mantenuto la promessa di modificare il memorandum rendendo il nostro Paese complice – se non il committente – delle innumerevoli violazioni dei diritti umani perpetrate in Libia».

Anche le Sardine si lamentano (a proposito: perché non convocare le piazze anche su questo?)

E intanto tutto scorre, sangue incluso. Complici, altro che discontinui.

Buon venerdì.

I diritti di un migrante sono i diritti di tutti noi

Vakhtang Enikidze è morto il 18 gennaio nel Centro di permanenza per i rimpatri di Gradisca di Isonzo, dove di fatto era detenuto senza aver commesso nessun reato. A 36 anni, tre anni fa era venuto in Italia dalla Georgia per cercare lavoro. Faceva l’imbianchino ma non aveva il permesso di soggiorno. Fermato dalla polizia a Roma è stato portato nel Cpr di Bari e poi a Gradisca di Isonzo, dove ha perso la vita. Le testimonianze raccolte dal deputato di +Europa Riccardo Magi (lo si può riascoltare su Radio radicale) parlano di una lite con un ragazzo nordafricano, ma soprattutto di un intervento della polizia per sedare la rissa e immobilizzarlo. L’autopsia indica un edema polmonare come causa di morte. Ma cosa l’ha provocata? Cosa è accaduto quando Vakhtang è stato portato in carcere per resistenza a pubblico ufficiale? Perché quando è stato riportato nel centro non si teneva in piedi?

Perché gli furono somministrati antidolorifici e ansiolitici? Perché nonostante avesse chiesto assistenza nella notte, il soccorso è arrivato solo dopo molte ore? Perché almeno uno dei testimoni è già stato rimpatriato prima di essere ascoltato in procura? Ci sarà una inchiesta della magistratura e la possibilità che gli altri testimoni siano sentiti fuori dal contesto del centro in modo da non subire alcuna pressione? Le domande sono tante. Verità e giustizia non possono aspettare. «Non deve esserci spazio per nessun sospetto di omertà o di impunità rispetto alla morte di un giovane uomo mentre era sotto la responsabilità dello Stato», ha commentato il Garante Mauro Palma, ribadendo al Fatto quotidiano «l’assoluta volontà di fare piena luce».

È questo il punto: deve essere garantita l’incolumità di una persona che si trova nelle mani dello Stato. Deve essergli garantita l’assistenza medica. Un sindacato di polizia si è risentito perché alcuni giornali hanno evocato un nuovo caso Cucchi. Certo non si può accusare nessuno senza prove, ma le domande su questo caso sono davvero tante e come giornalisti è nostro dovere sollevarle. Peraltro questa drammatica vicenda è avvenuta in un centro segnato già in passato da un altro caso di morte, come ci ricorda il libro Mai più edito da Left e curato da Stefano Galieni e Yasmine Accardo che ora – insieme a esperti come Sergio Bontempelli – tornano a denunciare le condizioni inumane e degradanti in cui si trovano costrette persone innocenti nei centri di detenzione amministrativa in Italia.

Dall’inizio dell’anno sono già due i casi di persone migranti decedute in queste strutture. Prima di Vakhtang Enikidze è stato trovato morto il trentaquattrenne Aymen, nel Cpr di Caltanissetta.
Intanto, per effetto del secondo decreto sicurezza voluto da Salvini che ha abolito la protezione umanitaria e sospinge sempre più i migranti in zone di marginalità e “irregolarità” crescono i centri per il rimpatrio. Uno è stato appena inaugurato a Macomer, in Sardegna. È aumentato anche il periodo di permanenza in questi centri che privano le persone della libertà, non di rado impedendo loro anche di comunicare con l’esterno. Un trattenimento che va contro l’articolo 10 della nostra Costituzione, come ci ricorda il costituzionalista Russo Spena in questo sfoglio in cui non ci limitiamo ad analizzare la situazione italiana ma apriamo un confronto con ciò che avviene nel resto d’Europa.

Ora che in Emilia Romagna l’avanzata sovranista e xenofoba ha subito una battuta d’arresto e, anche per la debacle del M5s, si palesa una possibilità di spostamento a sinistra dell’asse di governo, non ci sono più scuse: non può essere ulteriormente rimandata l’abrogazione dei due decreti sicurezza. Ma non solo. Occorre rivedere più complessivamente la legislazione che riguarda l’immigrazione. Non dimentichiamo che la legge Bossi Fini entrata in vigore nel 2002 ha subordinato l’ingresso e la permanenza in Italia al contratto di lavoro, ha introdotto l’espulsione immediata con accompagnamento alla frontiera e ha dimezzato la durata dei permessi di soggiorno, creando un clima da caccia alle streghe. Non dimentichiamo che ad istituire i centri di permanenza temporanea per immigrati sprovvisti di permessi di soggiorno fu la legge Turco Napolitano del 1998.

Sono questioni che non riguardano solo i migranti ma la democrazia e lo stato di diritto in Italia e che ci riguardano tutti. Anche grazie alle sardine è stato inviato un messaggio chiaro a chi pretende pieni poteri e predica odio ed esclusione. Ora chiediamo scelte di governo conseguenti. L’abolizione della prescrizione e il taglio dei parlamentari prospettano scenari giustizialisti, di indebolimento della rappresentanza e delle garanzie democratiche. Anche su questi temi, come per il ripristino di una legge proporzionale, continueremo a dare battaglia. L’appuntamento del referendum confermativo è stato fissato per il 29 marzo, non c’è tempo da perdere.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 31 gennaio

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