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Il governo del “per me”

Luigi Di Maio da ministro degli Esteri ci dice che rispetta la sentenza della Cassazione (beh, almeno quello) ma aggiunge che “per lui” la mafia è un “atteggiamento” ancora “prima dei profili giudiziari”. La frase andrebbe benissimo in un laboratorio a scuola contro il bullismo (ma neanche troppo) ma detta da un ministro confonde molto le acque in un Paese dove la legge fa la legge, il governo governa le leggi e il Parlamento dovrebbe scrivere o modificare le leggi. Per capirci: è un’uscita che serve per difendere la sindaca Raggi ma che ha lo spessore politico di una riflessione al bancone del bar. Ma tant’è.

Quelli di Italia Viva dicono che Quota 100 è una vergogna, “per loro”, ma che accettano di lasciarla nella prossima manovra. Però è una vergogna, ripetono. Ma solo “per loro”, precisano. E però la voteranno. Qualcuno potrebbe chiedergli quindi perché la votano ma risponderebbero che è “per il bene del Paese” (solo perché non possono dire che quella dichiarazione gli serve per esistere, per differenziarsi dagli altri nel momento in cui devono lanciare il loro nuovo partito e quindi farsi notare). E vabbè.

Poi c’è qualcuno che dice che la lotta all’evasione non deve mettere alla gogna i commercianti e i piccoli professionisti. Leggi le carte, le proposte e le dichiarazioni e ti accorgi che nessuno ha indicato i commercianti come causa fondante dell’evasione in Italia, nessuno ha additato nessuno. E quindi ti domandi che senso abbia fingere di smentire una dichiarazione che non è mai esistita soprattutto se stai governando con quelle stesse persone che smentisci. Loro precisano: “per me”, “parlo per me”. Ah, ok.

Poi c’è chi dice che questo governo arriverà fino alla fine, lo diceva tutto il suo partito e invece ieri il segretario di quel partito dice che “andrà avanti finché serve al Paese”. Ma come? Ma davvero? “Per me”, risponde lui. Capito?

Ora, ci sta che la dialettica politica sia un elemento normale anche in una compagine di governo ma c’è qualcuno da quelle parti che si rende conto quanto sia difficile dare credito a questo spettacolo qui fuori?

Grazie.

Buon giovedì.

Corte Costituzionale: permessi premio anche per mafiosi e terroristi. Perché questa sentenza è importante

Il Palazzo della Consulta sede della Corte Costituzionale, Roma, 25 settembre 2019. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

La mancata collaborazione degli ergastolani condannati per mafia con la giustizia non impedisce i permessi premio purché ci siano elementi che escludono collegamenti con la criminalità organizzata: lo ha stabilito la Corte Costituzionale oggi mercoledì 23 ottobre pronunciandosi sulla questione dell’ergastolo ostativo.

Si tratta di una sentenza importantissima perché i giudici costituzionali hanno dichiarato che l’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario non è conforme alla nostra Carta Costituzionale nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Si può non collaborare perché non si ha nulla da dire o per paura di ritorsioni nei confronti dei proprio familiari, ad esempio. La Corte chiarisce però che l’accesso ai benefici deve essere subordinato ad una piena prova di partecipazione da parte del condannato al percorso rieducativo, come previsto dall’articolo 27 della Costituzione stessa.

A sollevare il dubbio di legittimità costituzionale era stata prima la Cassazione e poi il tribunale di Perugia.

In virtù della pronuncia della Corte, la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica.

Il 13 giugno 2019 in merito si era già pronunciata la Corte europea dei Diritti dell’Uomo (caso Viola c. Italia) sancendo che l’ergastolo ostativo – quello per cui o collabori utilmente con la giustizia o muori in carcere – è contrario all’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Secondo i giudici di Strasburgo, la legge del nostro Paese vìola la dignità e sottopone a trattamenti inumani i detenuti quando a priori – ossia quando non collaborano appunto con la giustizia – impedisce loro di ottenere permessi premio, la semilibertà o la libertà condizionale, oppure di lavorare fuori dal carcere.

“È una sentenza di straordinario valore questa della Corte Costituzionale. I giudici pongono un limite al potere di punire e ribadiscono un principio fondamentale della nostra carta costituzionale: sempre e comunque la pena deve tendere alla rieducazione del condannato”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “In attesa di leggere nel dettaglio le motivazioni della sentenza, la Corte ribadisce anche l’importanza del ruolo delle istituzioni penitenziarie e della magistratura di sorveglianza. Nessun mafioso infatti uscirà – sottolinea ancora Gonnella. Con questa decisione, così come con quella della Cedu, si restituisce alla magistratura il potere di decidere, caso per caso, se per un detenuto condannato per reati di mafia sussista ancora il criterio di pericolosità sociale e quindi se possa essere idoneo o meno ad usufruire di permessi premio”.

La decisione della Corte Costituzionale “apre una breccia nel muro di cinta del fine pena mai” per l’associazione ”Nessuno tocchi Caino”, da anni impegnata, con il Partito Radicale, per l’abolizione dell’ergastolo ostativo: “la decisione della Corte Costituzionale è un primo passo nell’affermazione del diritto alla speranza ed infrange il totem della collaborazione come unico criterio di valutazione del ravvedimento – hanno dichiarato i dirigenti di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti – ora la Corte deve affermare lo stesso per gli altri benefici penitenziari secondo la progressività del trattamento penitenziario”.

Gianni Rodari o dell’importanza della fantasia

Esattamente novantanove anni fa, il 23 ottobre del 1920, ad Omegna, nasceva colui che tutti conosciamo come l’autore di “Favole al Telefono” e “Grammatica della Fantasia”, ma Gianni Rodari, uomo riservato ma dotato di grande sensibilità e curiosità, è stato un intellettuale e un artista assai più ricco e complesso di quanto comunemente si creda.

Rodari infatti, oltre ad essere scrittore e poeta per bambini è stato maestro elementare, giornalista  dell’“Unità” e di “Paese Sera”, fu direttore del “Pioniere” e del “Giornale dei Genitori”, è stato pedagogo e politicamente attivo, è stata una figura poliedrica che anche attraverso versi e filastrocche ha richiamato l’attenzione a temi sociali di grande importanza.

Per desiderio e per stima, dopo aver potuto conoscere alcuni dei suoi lavori già dalla scuola primaria, aver scritto una tesi su di lui e avendo la possibilità di leggere e sapere da vicino il percorso che come autore e uomo attivo nel dibattito politico ha compiuto, anche grazie ai racconti, ai testi e alle documentazioni con cui per amichevole cortesia sua moglie Maria Teresa mi nutre accrescendo in me il desiderio di conoscenza, scrivo qualche riga qui che possa far apprendere almeno in parte e accendere, mi auguro, la curiosità per la grande ricerca che egli intraprese sui processi dell’invenzione e della fantasia.

Le esperienze di infanzia, per Rodari, sono state indubbiamente, come spesso accade, fondamentali. Ad influire è l’ambiente: il lago d’Orta e i monti, che forse, insieme alle sue prime letture dei giornaletti, letti di sera, sotto al lampione del cortile, gli hanno regalato delle immagini che cominciò molto presto a sviluppare. Il padre, («L’uomo che chiuse  gli occhi per non vedermi vestito da Balilla») proprietario di un forno e con cui aveva un ottimo rapporto. La religione, è dalla madre infatti che il piccolo Gianni subisce l’influsso religioso ma, nonostante entra in seminario dagli undici ai tredici anni, probabilmente anche per la possibilità di aver facilmente accesso a molte letture, comincia a maturare in lui, appunto grazie anche ad autori che gli capitò di leggere, quel pensiero militante che lo portò poi nella maturità ad essere un uomo laico. Esce dal seminario con la certezza che fosse un percorso da non continuare, di quel periodo dice: «Non saprei ricostruire per quale processo vi sia entrato, ne sono uscito perché trovavo umiliante la disciplina». Le prime critiche al fascismo le formulò quando aveva sedici anni, durante la guerra di Abissina.

Nel 1937, si diploma maestro, preparando da solo, in un anno, l’ultimo biennio.

Le capacità di Rodari si annunciano già da bambino nelle poesie delle elementari quando si divertiva a scriverle sul suo quaderno e a farle illustrare dal suo compagno di classe.

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Dalla prima adolescenza avviene la lettura di autori come Verne e Salgari, di poeti come Montale e Gatto, di russi come Dostojeski e Tolstoi.

Riesce a leggere vari testi politici e approfondisce la conoscenza di Marx grazie al direttore della Biblioteca civica di Varese che concede al giovane qualsiasi libro richiesto, comincia tra i sedici e i diciotto anni ad aver chiara l’idea politica. Si appassionerà a Gramsci,Vittorini, Calvino, Zanzotto, Zavattini, Palzzeschi, Propp, Lewis Carroll…La sua curiosità continuerà nel tempo spaziando e offrendosi la possibilità di non avere confini di letture di autori, poeti e filosofi.

E’ però con i surrealisti d’oltralpe che Rodari trova quell’esigenza di emancipazione dalla cultura tradizionale, anzi, forse ancor prima e lo cita nell’Antefatto della “Grammatica della Fantasia”, – la scoperta è nel ritrovamento di quel frammento filosofico di Novalis «Se avessimo anche una Fantastica, oltre una Logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare»– e trova in quasi tutti i frammenti di Novalis varie illuminazioni. E’ lì che Rodari, comprende e poi matura col tempo, l’importanza della Fantastica che gli permetterà poi di scrivere manuali su come inventare storie e quali esercizi compiere per esercitarci a far nascere immagini. E’ nell’aver appreso che nella Fantasia c’è l’ideazione, Rodari scrive e ci fa comprendere l’utilità e la necessità dell’immaginazione che deve avere un suo posto nell’educazione, ripeterà più e più volte nei suoi discorsi. E che dobbiamo avere fiducia nella creatività dei bambini e difendere il valore di liberazione che la parola ha.

Rodari è rivoluzionario nell’uso delle frasi, nella ricerca che ha fatto del nonsense. Crea immagini, incita all’azione, è un giocoliere colorato che ha la capacità di esprimersi in modo semplice e far arrivare a tutti un pensiero che è vitale e può cambiare il modo di pensare. Nei suoi giochi di parole e in alcuni dei suoi lavori si denota una ricerca scientifica sulle persone e sul quotidiano che descrive nei sui racconti con espressioni semplici per  far comprendere la lettura a tutti.

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Tornando all’uomo militante, Rodari nel maggio del ’44 entra in clandestinità, si aggrega alla 121° brigata d’assalto garibaldina Walter Marcobi in azione nel Varesotto. Risale al periodo della lotta partigiana un episodio poco noto che lo vede salvare la vita a Mario Sironi, il 25 aprile. Lo scrittore in un appunto racconta l’intera giornata e quell’incontro col pittore. Non se ne vantò mai di avergli firmato il lascia passare, in nome dell’arte, ma aveva appena consegnato al comandante della sua brigata John Emery, super traditore inglese, figlio di un ministro inglese addetto alla propaganda fascista. Quel Sironi, in fondo, si poteva anche far passare. Era il pittore della metafisica, dei gazometri e delle periferie.  

Nel ’47 viene chiamato all’Unità di Milano, da prima si fece già notare dagli intellettuali milanesi   per le sue capacità di analisi, inizia la sua carriera da inviato speciale ed è lì, attraverso la visione della realtà dei fatti, che si denota il giornalista capace di riportare gli accadimenti reali attraverso dei racconti. Prende sempre più forma il Rodari intellettuale che fa ricerca ed esprime le sue opinioni con parole concrete che suggeriscono immagini immediate.

Dal ’49 al ’50 risalgono i suoi primi scritti per bambini con “La Domenica dei piccoli” ma è con la direzione del “Pioniere” che elabora il ruolo di giornalista e di scrittore per ragazzi, essendo divenuto funzionario di partito si rende conto dell’importanza che questo comporta, votarsi come missionario politico, ed è nella scelta di impegno e cultura che nasce l’autore che ancora oggi possiamo leggere. E’ chiaro che la scrittura dedicata ai bambini cambierà nel tempo in base anche al suo percorso di ricerche fino a quando si dedicherà principalmente a questa portando esempi  di pedagogia nelle scuole. Comunque, anche se sono chiare le ispirazioni di ideali, il Pioniere non si occupa di politica, questo non rientra nello spirito dell’Api e Rodari – ci tiene particolarmente a fare in modo che il suo giornale e l’Associazione dei Pionieri non sia una settaria associazione di piccoli militanti politici ma un’associazione con ragazzi che hanno voglia di studiare, conoscere la natura e la società –

Ma succederà qualcosa che forse pochi sanno ed è interessante sapere.

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Ci sarà contro Pioniere e contro l’Api una vergognosa campagna da parte del clero, che calunnierà il lavoro svolto bruciando copie del giornale sui sagrati. Lo scrittore cercherà di non cadere nella provocazione continuando a dirigerlo con intenti laici. Il Pioniere infatti rileva uno sforzo continuo a far passare il messaggio ideale attraverso la fantasia, l’invenzione, il racconto, proponendo una forma innovativa ed onesta. Rodari e la redazione, si fanno delle vere domande: “Come deve essere un giornale nuovo? Come può divertire senza illudere, svagare senza distrarre, educare senza annoiare, appassionare senza corrompere?”.

Successe altro, nel 1951 viene discussa alla Camera una legge per “moralizzare” la stampa per ragazzi. Nilde Jotti sferra una requisitoria contro i fumetti esplicitamente indirizzata alle immagini pubblicate dal Pionierie. Rodari si risente, Togliatti appoggerà la Jotti con la richiesta di far diventare quei fumetti delle storie educative e più italiane che americane. Che tutto questa polemica suscitata dalla chiesa e portata avanti dal Partito faccia pensare a me, oggi, a quanto il cattocomunismo sia stato castrante per generazioni, è un pensiero che non metto a tacere, così come fece Rodari che continuò comunque a far pubblicare fumetti sul “Pioniere” che fu il primo giornale, nella pubblicistica infantile, a rovesciare il modulo razzista del pellerossa feroce e selvaggio.

Alcuni dei  personaggi che presero vita su queste pagine diventarono famosi non solo tra i lettori italiani, ma anche all’estero. Nasceranno qui le storie di Cipollino. Frutta e ortaggi illustrati dal disegnatore umorista, Raul Verdini. Forse Rodari nelle sue prime avventure di inviato, quando per l’Unità andava in giro per mercati a fare sondaggi ed intervistar persone, ha fatto nascere nella sua mente tali personaggi antropomorfi. Usciranno diverse tavole e Cipollino ormai importante, diventerà  Il romanzo di Cipollino dove protagonista è il popolo portatore di valori positivi. Rodari gioca in chiave ironica col neorealismo e il surrealismo, fa essere Cipollino l’eroe proletario insieme a Ciliegino giovane intellettuale e forse, un po’ di ideologia accompagna tutta la storia, ma il racconto dimostra anche la grande conoscenza dell’autore e l’ammirazione che sempre ha dimostrato di avere nei confronti di Pinocchio e di Collodi. Ci sono analogie tra il giovane ortaggio e il burattino. Cipollino è un bambino cipolla che cresce attraverso le esperienze del mondo che lo circonda. Rodari, come Brecht, da  fiducia alle nuove generazioni e gli lascia la possibilità di cambiare le cose che non vanno. Lo scrittore è infatti un po’ agli antipodi rispetto alla letteratura italiana per ragazzi che lo aveva preceduto, come il libro Cuore ad esempio, dove la borghesia e la sottomissione emergono fortemente come messaggi principali evitando qualsiasi emancipazione da parte dei giovani.

Rodari scriverà tanto, scriverà articoli ironici con pseudonimi diversi come per Benelux. Scriverà poesie, filastrocche, storie e programmi televisivi come Giocagiò, rimarrà sempre un autore con una chiara identità, gentile e rispettoso con tutti i colleghi che sempre lo hanno ricordato con affetto e stima, ma sempre preferirà alla chiassosità dei salotti la sua scrivania e tutti i suoi personaggi di fantasia.

Girerà le scuole d’Italia per avere un confronto con gli insegnanti e poter comunicare direttamente con i suoi piccoli lettori, ed è proprio in una scuola di Roma, nella borgata del Trullo, nei primi anni ’60 che Rodari, in una quinta elementare, poiché conosceva la maestra con cui collaborava nella Movimento di Cooperazione Educativa, fa nascere, aiutato dai piccoli alunni, la famosa storia della “Torta in Cielo”. Rodari sapeva far divertire i più piccoli, riusciva a tirar fuori la fantasia anche ai più pigri, era lui che andava incontro a loro diventando poi contagioso e innescando processi continui di invenzione. Ci ha lasciato un messaggio importantissimo, con la dissacrazione dei luoghi comuni e lo stravolgimento del linguaggio ci aiuta a liberarci dal conformismo e dai pregiudizi a oltrepassare gli schemi. I suoi continui esperimenti linguistici, il riportare tutto ad una forma semplice, chiara, sincera anche nei discorsi più impegnati, smuove il lettore a pensare, a provare ad agire, anche solo a dargli la possibilità di immaginare e le immagini si sa, sono portatrici sane di nuove formule e pensieri, innescano una creatività conoscitiva. Il bambino matura anche attraverso le immagini che ha nel quotidiano, Rodari crea storie senza “bamboleggiare” cercando di far crescere con un uso moderno delle parole, fatto di tutto ciò che fa parte del mondo che viviamo. Le favole possono contribuire ad educare la mente “è un modo per entrare nella realtà, anzi che attraverso la porta dal tetto, dalla finestra”.

Cosa direbbe oggi Rodari della Buona Scuola di Renzi non posso saperlo esattamente ma non mi è difficile intuirlo anche in base alle testimonianze che ci ha lasciato. Lui che sempre ha desiderato e ha lavorato insieme ai colleghi per una scuola laica e solidale, dove gli studenti devono essere i protagonisti della riforma della scuola. Ed è proprio sulla comune idea di scuola che ha lavorato, sul ruolo che la scuola deve avere nella società, sull’idea che le riunioni devono tendere, con preferenza, per l’assemblea perché questa offre la più ampia partecipazione. Al centro della scuola Rodari ha messo sempre il bambino, proponendo una società nuova amica dell’infanzia. Direbbe che è coscienza di ognuno di noi, di ogni singola persona, fare in modo che questo avvenga sempre.

Prenderebbe parola o la darebbe ad uno dei suoi personaggi per fargli dire che non dobbiamo farci togliere il diritto allo studio “Cultura significa dare un senso unitario a tutte le conoscenze”.

I suoi messaggi portatori di grandi ideali rimarranno con noi. Ci è comune ritrovare sue frasi nel quotidiano, ci accompagna ancora e ci accompagnerà ancora poiché è il maestro di tutti.

I suoi libri sono stati illustrati da gradi disegnatori come Munari, Lele Luzzati, Altan e molti altri.

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Le sue opere sono tantissime e vengono pubblicate in tantissime lingue diverse in quasi tutti i paesi del mondo, così che ogni bambino possa conoscerle.

Gianni Rodari rimarrà sempre in vita come il protagonista del suo romanzo C‘era due volte il barone Lamberto dove il presente è un tema fondamentale, e proprio come Lamberto ogni volta che qualcuno ripeterà il suo nome, lui ringiovanirà. Nell’epilogo di questo libro Rodari lascia il finale aperto permettendo al lettore la possibilità di terminare la storia come vuole, per non aver mai paura della parola FINE.

 

Andrà lontano? Farà fortuna? Raddrizzerà tutte le cose storte di questo mondo? Noi non lo sappiamo, perché egli sta ancora marciando con il coraggio e la decisione del primo giorno. Possiamo solo augurargli, di tutto cuore: Buon viaggio!

Grazie Gianni.

«Un’offesa alla memoria di Serantini». Pisa non ci sta a intitolare un luogo della città al fascista Niccolai

 

Pisa brucia. Di sdegno. La giunta di centrodestra di Michele Conti, ex Alleanza Nazionale, ha deciso di intitolare un “luogo della memoria” all’on. Giuseppe Niccolai, uno dei padri fondatori del Movimento Sociale Italiano ed «un fascista che mai ha rinnegato il proprio passato ma che anzi ne ha sempre esaltato le virtù», come si legge in un sito di nostalgici del Msi.

La notizia ha suscitato immediate reazioni in città e dure prese di posizione del consigliere comunale di Diritti in Comune, Ciccio Auletta (Una Città in Comune – Rifondazione Comunista – Pisa Possibile), del presidente dell’Anpi provinciale, Bruno Possenti, e del Circolo culturale Biblioteca Franco Serantini/Associazione amici della Biblioteca Franco Serantini intitolata proprio al giovane anarchico sardo che, il 5 maggio 1972, era sceso in piazza con altre migliaia di antifascisti per manifestare contro il comizio dell’on. “Beppe” Niccolai. Arrestato e picchiato, Franco Serantini, vent’anni, troverà la morte due giorni dopo nel carcere “Don Bosco” di Pisa.

«Giuseppe Niccolai entra nella storia di Serantini, come tutti sanno, ed è uno dei protagonisti nel bene e nel male. Oggi a lui viene dedicato un luogo di memoria, sembra un’ulteriore beffa e ingiustizia che colpisce ancora la memoria del giovane anarchico» si legge nel comunicato della BFS. Ma il vero scandalo, la vera ferita democratica fatta alla città non appartiene al presente leghista di Pisa. Purtroppo l’idea di frenare l’antipolitica omaggiando, in modo bipartisan, «tre pisani che hanno nobilitato la politica» (Carlo Ciucci, democristiano, Giuseppe De Felice, comunista, e Giuseppe Niccolai del Msi) risale al 2013 quando il Consiglio comunale della prima amministrazione a guida Marco Filippeschi (Pd) approvò in un’aula risicata (25 consiglieri su 41 di cui solo 12 a favore) la mozione presentata da un largo schieramento politico (primo firmatario Filippo Bedini, Pdl) per «richiamare come esempi positivi di “buona Politica”, utili a imparare, figure che hanno dedicato la vita alla ricerca del bene comune della propria città, in maniera appassionata e disinteressata».

Anche se in seguito il sindaco Filippeschi, assente alla seduta, deciderà di non dare seguito alla mozione perché ritenuta inopportuna, ormai la frittata era stata fatta: i suoi compagni di maggioranza avevano firmato la mozione come proponenti e l’avevano fatta approvare in Consiglio. L’attuale giunta, dove oggi siede anche l’assessore Bedini, ha deciso di realizzare quella operazione partita sei anni fa. Pisa avrà quindi una rotatoria a Marina di Pisa, zona porto, intitolata a Giuseppe Niccolai.

Chi era “Beppe” Niccolai? Nato a Pisa il 26 novembre 1920, militò nelle organizzazioni giovanili fasciste e, studente universitario, accorse volontario a combattere nell’esercito fascista, a fianco dei nazisti, per difendere la Libia, colonia italiana, dall’avanzata degli anglo-americani. Catturato dagli inglesi fu imprigionato negli Stati Uniti, nel Fascist’s criminal camp di Hereford (Texas), un campo di detenzione dedicato ai fascisti incalliti, da dove uscì nel 1946 grazie all’amnistia firmata da Togliatti.

Eletto deputato nelle file del Movimento Sociale Italiano nel 1968 rimase in Parlamento fino al 1976. Morirà a Pisa il 31 ottobre 1989. Sarà quello il giorno in cui la giunta pisana inaugurerà la rotatoria intitolata a suo nome, per celebrare il trentesimo della sua morte, se la decisione non sarà revocata, come ha chiesto il presidente dell’Anpi di Pisa in una lettera inviata al sindaco ed al prefetto per «risparmiare alla città di Pisa questa umiliazione».

Perché “Beppe” Niccolai, per tutta la sua vita, non si è mai pentito di essere fascista. Anzi, ha approfittato degli spazi democratici garantiti dall’ordinamento costituzionale per continuare a fare una propaganda fascista profondamente antidemocratica.

Come denunciato pubblicamente dal consigliere Auletta (Diritti in Comune) «Niccolai nella sua lunga attività parlamentare in effetti ha fatto molto: ha proposto il ripristino della pena di morte, ha proposto il riconoscimento a fini pensionistici dell’appartenenza alla Mvsn (le camicie nere della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, n.d.r.) – ricettacolo dei peggiori squadristi – sin dalla sua creazione nel 1923, ha proposto il diritto alle pensioni e agli assegni di guerra per i volontari che combatterono con Franco nella guerra di Spagna tra 1936 e 1939 e il ripristino delle decorazioni che i militi volontari fascisti si erano conquistati nella stessa guerra di Spagna, ha proposto l’estensione dei benefici di guerra ai militari repubblichini alleati dei nazisti tra 1943 e 1945, ha proposto una legge in cui si prevede che “chiunque svolge attività diretta a deprimere nei cittadini il sentimento del dovere per la difesa della Patria, è punito […] con la reclusione fino ad un anno”. Quale messaggio si vuole dare ai cittadini, alle giovani generazioni, intitolando una rotatoria a una persona che ha provato per tutta la sua vita a difendere il fascismo e a sostenere che il fascismo non è stato un regime dittatoriale colpevole dei peggiori crimini?».

«Il fascismo arrivò al potere con la violenza e l’assassinio. Instaurò una dittatura che soffocò tutte le libertà esistenti. Per chi si opponeva ci furono il carcere, il confino, l’esilio. Portò l’Italia alla guerra coloniale, all’infamia delle leggi razziali, alla guerra di aggressione a popoli che nulla ci avevano fatto. Fu corresponsabile delle stragi del 1943-45. Lasciò una dolorosa eredità di rovine, di sofferenze, di lutti» ha scritto il presidente Anpi nella sua lettera indignata al prefetto di Pisa.

E l’avere accostato la figura del fascista doc Giuseppe Niccolai a quella del comunista Giuseppe De Felice (1930-2004) che è stato segretario provinciale del Pci a Pisa, membro della direzione nazionale del partito e poi del Comitato Centrale negli stessi anni della carriera parlamentare di Niccolai, ha offeso profondamente i suoi familiari che, in queste ore, hanno espresso il proprio sdegno ed il proprio dissenso ad accostare le due figure politiche attraverso le parole della figlia di Giuseppe, Michela.

«Il Comune non ci ha informato dell’iniziativa, e questa è stata una prima scorrettezza – ha dichiarato Michela De Felice – . Abbiamo appreso solo dai giornali che stavano per intitolare una rotatoria alla memoria di mio padre da celebrare insieme alla figura di Niccolai. Avvicinare Niccolai a Giuseppe De Felice significherebbe infangare la memoria di mio padre e questo non lo possiamo accettare».

Se la città rintronata dalla batosta leghista non rialzerà la testa, se gli insegnanti e gli studenti non manifesteranno pubblicamente la propria indignazione nel nome della cultura antifascista su cui si fonda la nostra Costituzione repubblicana e di cui la scuola dovrebbe essere portatrice e veicolo nei secoli avvenire, la città di Pisa potrebbe essere condannata ad essere ricordata come la “città della vergogna”.

Vorrei ricordare che Pisa ha già un pesante fardello storico da portare, essendo stata la sede (nella Tenuta di San Rossore) della firma delle Leggi razziali, il 5 settembre del 1938, e del Codice penale (ancora oggi vigente) noto come Codice Rocco (dal nome del Guardiasigilli che lo firmò insieme al re Vittorio Emanuele ed al capo del governo, Benito Mussolini, il 19 ottobre del 1930) che prevedeva la pena di morte fino a quando non fu abolita, il 10 agosto del 1944, con il Decreto legislativo luogotenenziale n. 224. Dovremmo fare in modo che Pisa non sia ricordata dalla Storia per altri disonori.

L’amoralità dei moralisti

Secretary of Fratelli d'Italia party, Giorgia Meloni (C), during the demonstration of the center right "Orgoglio Italiano" (Italian Pride) against the government in Rome, Italy, 19 October 2019. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

C’è un aspetto curioso in questa caciara sulla lotta all’evasione fiscale (vera o presunta che sia e che sarà) che agita le acque del governo: quelli che giudicano con i risolini i soldi degli altri (quasi sempre per screditarli) sono gli stessi che in questi giorni gridano allo scandalo se lo Stato vuole controllare i loro soldi. Sono quelli che dicono che Saviano ha un attico a Manhattan (che non ha), sono gli stessi che verificano gli orologi o le borse di questo o di quel politico, sono quelli che giudicano falsa la storia di un migrante in base al modello di scarpe o di telefonino, sono gli stessi che non vedono l’ora di incontrare un “sinistro” (chiamano così gli avversari, simpatici) con un’auto che non sia scassata per esprimere dubbi: in pratica sono quelli che pretendono di avere “l’occhio clinico” sui guadagni dei nemici ma che non vogliono essere osservati.

Il risultato? Il risultato è che sono proprio loro a volerci insegnare cosa sia la libertà, loro che sulla moralità usata come manganello hanno costruito la propria credibilità di conservatori. Conservatori, ovviamente, concentrati sul conservare e mantenere i propri privilegi. Tra quei privilegi, viene il dubbio, probabilmente considerano anche la loro evasione fiscale. Evasione “giusta”, ovviamente, perché sono gli stessi che ci dicono che rubano solo quello che gli serve per sopravvivere. Saranno i famosi 30 euro al giorno, quelli che (non) danno ai migranti.

Poi, magari, un giorno invece discutiamo del fatto che la grosse web company (ma mica solo loro) utilizzino l’Italia come sede di profitti ma non di doveri. Però si sa che è difficile fare i forti con i forti. Non gli riesce proprio bene, ai governanti.

Buon mercoledì.

Si muore, di tatticismi

epa07935031 Democratic candidate for United States President, Senator Bernie Sanders, addresses a crowd of supporters during a campaign rally in Queensbridge Park in New York, New York, USA, 19 October 2019. This is Sanders first major campaign rally since his heart attack in the first week of October 2019. EPA/Peter Foley

«Voglio che vi guardiate intorno, e che troviate qualcuno che non conoscete. Magari qualcuno che non vi somiglia molto. Magari qualcuno di una religione diversa dalla vostra. Magari qualcuno che viene da un paese diverso. La domanda che vi faccio è: siete pronti a battervi per quella persona, che neanche conoscete, come vi battereste per voi stessi? Perché se siete pronti a farlo, se siete pronti ad amare, se siete pronti a battervi per un governo giusto, compassionevole, umano, se siete pronti a battervi contro il desiderio di Trump di dividerci, se siete pronti a battervi contro l’avidità e la corruzione delle élite economiche, se voi e milioni di altri siete pronti a farlo, non ho alcun dubbio che non solo vinceremo queste elezioni, ma che insieme cambieremo questo paese. Grazie a tutti!»: sono le parole di Bernie Sanders qualche giorno fa a Brooklyn, ne ha scritto Pippo Civati, e leggendole si coglie una differenza abissale con il dibattito politico qui da noi.

Ci ho pensato a lungo e sostanzialmente si potrebbe dire che la dichiarazione di Sanders, che uno sia d’accordo o meno, ha il coraggio di non travestirsi di tatticismo come non capita mai di leggerne da noi: dichiarare chiaramente da che parte stare, senza la fissazione di voler pescare un po’ a destra e un po’ a sinistra, senza la vigliaccheria di non scendere nelle cose maledettamente umane è il primo atto di lealtà per chiunque, mica solo i politici, abbia l’opportunità di parlare a una schiera di persone.

Anche perché il punto sostanziale è proprio qui: c’è un pezzo di Paese che si dichiara non disposto a aiutare (e non si tratta solo di immigrati, si tratta degli ultimi in generale che oggi sono in maggioranza immigrati ma ieri erano i terroni e domani potrebbero essere chiunque altro sfortunato per censo, per nascita o per professione) e c’è un pezzo di Paese che invece decide di volgere lo sguardo su chi ha bisogno. Semplice, lineare. Non è semplice e non è lineare la composizione di quelli che invece chiedono voti e non si capisce da che parte stiano. Si muore, di tatticismi.

Buon martedì.

 

Un laboratorio politico permanente per la riscossa del Sud

Bentornati al Sud, così titola l’editoriale di Giovanni Russo Spena su Left del 13 settembre 2019.
Bentornati al Sud, noi siamo qui, tra i papaveri rossi, come api che resistano all’ estinzione, tra il verde della nostra Terra, sempre più calpestata e il blu del Mediterraneo. «Mare nostro … tu sei più giusto della terraferma pure quando sollevi onde a muraglia poi le abbassi a tappeto. Custodisci le vite, le visite cadute come foglie sul viale, fai da autunno per loro, da carezza, abbraccio, bacio in fronte, madre, padre prima di partire» (da Mare Nostro di E. De Luca). Noi siamo qui nel tentativo di liberare coscienze da un sud dimenticato, qui per il nostro Sud, rinnovato nella sua potenzialità, «ma anche – scrive Russo Spena – fecondo ed innovativo laboratorio di temi produttivi, ecologici, antropologici (penso alle grandi migrazioni). Le lotte per i lavori di qualità, per il reddito possono rilanciare il sindacalismo territoriale delle vecchie “Camere del lavoro” oggi appannate dall’assenza di vertenzialità. Le esperienze di cooperazione Nord/Sud ma soprattutto Sud/Sud possono alimentare nuove ragioni di scambio, nuove aree economiche integrate». Da qui nasce l’idea del Laboratorio la riscossa del Sud in collaborazione con la rivista Left e Transform Italia, perché per noi il Mezzogiorno d’Italia è il paradigma della riorganizzazione degli spazi di vita.

Sud: colonia depredata ed abbandonata. Terra di conquista, di sfruttamento ed abbandono, nasce come colonia dal 1861 condizione che ne ha determinato nel corso dei secoli, nel senso comune, la condizione di una zavorra per lo sviluppo del Paese, condizionandone da un lato un approccio antropologico della popolazione nella gestione del territorio e del quotidiano ma dall’altro la messa in discussione di uno stato di accettazione che ha dato vita a focolai di lotta e di conquista. I nostri territori sono stati luoghi di rivolte contadine, dei movimenti di occupazione delle terre, di movimenti per il salario, per il diritto al lavoro e alla casa, di movimenti femministi, delle conflittualità urbane lungo tutto il 900 sino ad oggi, un oggi inquinato, dal richiamo di una pericolosa ideologia, da quel: si stava meglio prima dell’unità, con frequenti adulterazioni storiche capeggiate da formazioni neoborboniche ed altri movimenti sudisti, dentro un sistema di conservazione e non di opposizione politica e sociale, oggi più che mai pericoloso, perché si colloca dentro il dibattito sull’autonomia differenziata animando la contrapposizione tra secessionisti ed autonomisti, facendo così sponda ai desiderata leghisti.
Ad oggi “la questione meridionale” esiste, causa è la rivoluzione mancata, quella rivoluzione passiva, che è stato il risorgimento italiano, un nodo storico irrisolto in questo sud dove alberga la cultura del potere costituito.

Nell’idea di rivoluzione mancata, un altro nodo storico irrisolto vogliamo metter in luce: la mancata unificazione storica tra la classe operaia del nord e le lotte del Mezzogiorno.
Le lotte contadine a partire dagli anni 48/50 contribuirono alla formazione e difesa della democrazia, nel Paese, creando una coscienza di classe, ma la mancata connessione con le lotte operaie del nord ha determinato un arretramento storico sul terreno strategico di un nuovo sviluppo del Paese e la riforma dello Stato, venendo meno, così, la prospettiva del cambiamento.
Il venir meno della tensione trasformatrice del Sud ne ha determinato negli anni una crisi di democrazia causata anche dalle deboli protezioni sociali soccombendo ai richiami clientelari speculativi di alcune forze politiche, come ad es. la democrazia cristiana, che ha organizzato, lungo tutto il 900 uno sviluppo assistito, in modo, spesso parassitario, determinando una vera e propria caduta di civiltà. Da qui un “sud colonia”, nell’intendo di determinare l’idea di dipendenza, un sud depredato dalla propria vocazione, derubato del proprio popolo “forza lavoro” utile per lo sviluppo altrove, della propria terra ed infine abbandonato come rifiuto.
Nella lunga storia del riscatto del Sud da sempre è annidata la corruzione nella gestione della cosa pubblica , l’antistato come risposta al disagio, la carenza di classe dirigente capace di investire sullo sviluppo del territorio, e non nel clientelismo e nel familismo l’elemento caratterizzante della gestione delle relazioni e dei territori, con sempre più presente il ricatto sociale, che ne ha identificato una caduta di civiltà politica sociale ed economica e incapace di definirne la condizione di volano per lo sviluppo culturale, sociale del Mezzogiorno e del Mediterraneo.
Oggi, gli effetti, della crudele gestione e valorizzazione di un territorio, vengono al pettine e con la parola biocidio, nel Mezzogiorno d’Italia si sta scrivendo una nuova pagina della questione meridionale, un nuovo alfabeto di lotta e partecipazione, una lotta biopolitica, ove temi come salvaguardia del territorio, inquinamento industriale, riconversione ecologica, valorizzazione delle risorse agricole declinano in modo nuovo il tema della salute, della difesa dell’ambiente, del lavoro/non lavoro, delle migrazioni, con una ancora più radicale critica al sistema neo liberista. Questo conflitto tra capitale e vita ha generato nuove forme di Resistenza che, purtroppo, come unica risposta hanno trovato un regime securitario, ove un’informazione e una comunicazione non oggettive sono complici e specchio illiberale del soffocamento della libertà, come riconosciuto dal Tribunale dei Popoli.
Siamo il Sud d’ Europa , dell’ “Europa dei Popoli e della Giustizia sociale” un’ altra Europa che rifiuta il liberismo disumano, fondato sui vincoli economici e sugli strangolamenti delle popolazioni locali e dell’area euromediterranea, un’altra Europa che fa della centralità Mediterranea, dell’ambiente, dell’accoglienza e del diritto dei migranti, della cooperazione la propria vocazione, elementi centrali di proposta politica, attraverso un’assemblea parlamentare euroafricana, il riconoscimento della cittadinanza euromediterranea, la costruzione sezione mediterranea della Be.
Alla luce di questa breve sintesi oggi come ieri chi non vuol soccombere e far soccombere il Sud sotto il macigno di un potere costituito ha un compito, quello di riprendere le file di una discussione di cambiamento e di riscatto, un’ impegno di donne ed uomini, protagoniste e protagonisti di lotte in difesa della Terra e dei diritti per il lavoro, impegnati sull’antimafia sociale, accademici, intellettuali una sinergia di sapere e di proposta per il cambiamento, che affronti i nodi da sciogliere con una visione gramsciana.
Un laboratorio di pensiero capace di agire nelle contraddizioni delle politiche liberiste, che oggi ci consegnano una drammatica verità, dal Rapporto Svimez 2019, dove non a caso si parla di “eutanasia del Mezzogiorno, in cui si assiste ad un calo degli investimenti pubblici, del credito e del Pil ed il drammatico fenomeno di emigrazione, una vera emergenza nazionale, in altre parole siamo di fronte allo spopolamento e alla recessione del Mezzogiorno.

Da una disamina degli ultimi 15 anni quasi due milioni di meridionali si sono spostati nelle regioni del Centro Nord Italia. Gli “emigrati” dal Sud tra il 2002 e il 2017 sono stati oltre 2 milioni, di cui 132.187 nel solo 2017, la metà sono giovani ed il 33% giovani laureati.
In sostanza, sono di più i meridionali che emigrano dal Sud per lavoro o studio al Centro Nord e all’estero che gli stranieri migranti che scelgono di vivere nelle regioni meridionali.
Il saldo migratorio interno, al netto dei rientri, è negativo per 852 mila unità. Solo 2017 – si legge nel Rapporto Svimez – sono andati via «132 mila meridionali, con un saldo negativo di circa 70mila unità».
L’emergenza emigrazione del Sud determina una perdita di popolazione, soprattutto giovanile, e qualificata, solo parzialmente compensata da flussi di migranti, modesti nel numero e caratterizzati da basse competenze. Questa dinamica determina una prospettiva demografica assai preoccupante di spopolamento, che riguarda in particolare i piccoli centri sotto i 5mila abitanti.
E se l’Italia non cresce, il Sud arranca sempre di più, al punto che il divario con il resto del paese aumenta progressivamente.
«Nel quadro di un progressivo del rallentamento dell’economia italiana, si è riaperta, dunque, la frattura territoriale che arriverà nel prossimo anno a segnare un andamento opposto tra le aree, facendo ripiombare il Sud nella recessione da cui troppo lentamente era uscito». Nel rapporto Svimez 2019 in base alle previsioni, l’Italia farà registrare una sostanziale stagnazione, con incremento lievissimo del Pil del +0,1%. con un Pil del Centro-Nord di appena lo +0,3%, mentre nel Mezzogiorno l’andamento previsto è negativo e si sostanzia con una dinamica recessiva: -0,3% .
Come è noto il motore dello sviluppo economico del Mezzogiorno è stato ed è la spesa pubblica, non perché sia maggiore rispetto al Centro-Nord (come spesa pro-capite), ma in quanto sono più deboli gli altri settori, industria e servizi non tradizionali, rispetto al resto del paese. Ed è scandaloso pensare che la parte più ricca del paese che gode già di una maggiore spesa pubblica punti oggi ad aumentarla ancora attraverso la famigerata “autonomia finanziaria differenziata”.
Relativamente alla dinamica del lavoro il rapporto Svimez mostra un Gap occupazionale del Sud rispetto al Centro-Nord nel 2018 «pari a 2 milioni 918 mila persone, al netto delle forze armate» sottolineando che come la dinamica dell’occupazione al Sud presenti dalla metà del 2018 «una marcata inversione di tendenza, con una divaricazione negli andamenti tra Mezzogiorno e Centro-Nord». Gli occupati al Sud negli ultimi due trimestri del 2018 e nel primo del 2019 “sono calati di 107 mila unità (-1,7%)”, nel Centro-Nord, invece, nello stesso periodo, «sono cresciuti di 48 mila unità (+0,3%)», chiaro è che l’indebolimento delle politiche pubbliche nel Sud, poi, incide significativamente sulla qualità dei servizi erogati ai cittadini. Preoccupanti anche i dati sulla disoccupazione giovanile al record europeo in Calabria (58,7%), nonché il record europeo di Neet ( tre milioni e mezzo di giovani che non studiano più e non lavorano), il livello di povertà assoluta del 10% della popolazione, problematiche ambientali e sanitarie, evasione scolastica vicina al 20%, ben 6 punti sopra la media nazionale, il doppio di quella europea, un sistema universitario messo alle strette per effetto di criteri “folli” nella ripartizione dei fondi che premiano le Università del nord, i comuni prossimi al default grazie alle politiche del pareggio di bilancio con conseguenti politiche socio-sanitarie quasi azzerate e trasporti locali ai minimi storici, un’aspettativa di vita più bassa di 5 anni rispetto alla media nazionale, natalità in forte calo causa emigrazione giovanile e si potrebbe ancora continuare a lungo.

Il divario nei servizi dovuto soprattutto ad una minore quantità e qualità delle infrastrutture sociali e riguarda diritti fondamentali di cittadinanza: in termini di adeguati standard di istruzione, di idoneità di servizi sanitari e di cura. Nel comparto sanitario vi è un divario già nell’offerta di posti letto ospedalieri per abitante: 28,2 posti letto di degenza ordinaria ogni 10 mila abitanti al Sud, contro 33,7 al Centro-Nord. Tale divario diviene macroscopicamente più ampio nel settore socio-assistenziale, nel quale il ritardo delle regioni meridionali riguarda soprattutto i servizi per gli anziani, a partire dalla residenza domiciliare.
Infatti, per ogni 10mila utenti anziani con più di 65 anni, 88 usufruiscono di assistenza domiciliare integrata con servizi sanitari al Nord, 42 al Centro, appena 18 nel Mezzogiorno.
Ancor più drammatici sono i dati che riguardano l’edilizia. A fronte di una media oscillante attorno al 50% dei plessi scolastici al Nord che hanno il certificato di agibilità o di abitabilità, al Sud sono appena il 28,4%. Inoltre, mentre nelle scuole primaria del Centro-Nord il tempo pieno per gli alunni è una costante nel 48,1% dei casi, al Sud si precipita al 15,9%
Insomma, il rapporto Svimez oggi ci pone di fronte alla «grande crisi del Sud». Occorre sapere che se ne potrà uscire non con piccoli aggiustamenti, ma solamente con un surplus di radicalità, a partire dal NO alla autonomia differenziata, che comporterà ulteriore povertà culturale economica e sociale. Questo Sud così difficile e lacerato può rappresentare, tuttavia, un terreno di sperimentazione politica straordinaria con la messa in discussione delle caratteristiche di fondo del capitalismo contemporaneo. Non si tratta più di ragionare dello schema, ormai anacronistico, del binomio arretratezza/sviluppo. Non c’è un deficit di modernità al Sud; esso è segnato, invece, dalla modernità nel suo versante della svalorizzazione sociale della ricchezza, la qual cosa è appunto l’altra faccia della valorizzazione produttiva.
Il Mezzogiorno d’Italia necessità di un progetto globale di sviluppo che lo avvicini sempre più agli standard dei servizi e delle infrastrutture presenti in altre parti del Paese al fine di rendere meno gravoso lo sforzo che cittadini ed imprese pure profondono per non restare relegati e marginali nel contesto italiano. Un Piano di Sviluppo che punti a far crescere il lavoro in modo ecosostenibile e che parta da una vera e propria carta dei diritti del sud che incarni la vocazione di una intera area vasta, che veda nella riconversione e nell’innovazione ambientale, nell’agricoltura e nel turismo settori di crescita ed occupazione.
Il laboratorio “La riscossa del Sud” uole esser luogo di approfondimenti, di analisi e rinnovamento interpretativo della questione meridionale, di pratiche di conflitto, di sperimentazione per la valorizzazione delle risorse umane e materiali, capace di stabilire un nesso tra modernità e trasformazione, perché il sud sia sempre più risorsa del Paese e non marginalizzato a solo mercato di sfruttamento e consumo.

Il laboratorio permanente “La riscossa del Sud” è uno spazio di confronto che incontra i territori, programmando una serie di appuntamenti dalla Campania alla Sicilia, attraversando tutte le regioni del Sud, a partire da novembre di concerto con quanti possono ospitare la nostra iniziativa.

«In Rojava usano armi chimiche e l’esercito turco non risparmia gli ospedali»

Supporters express solidarity with Kurdish people during a protest 'Rise Up For Rojava' in front of US Consulate General in Krakow, Poland on 18 October, 2019. After the US withdrew its troops from the Syrian border region last week, the Turkish military began its assault on Kurds. (Photo by Beata Zawrzel/NurPhoto via Getty Images)

Cecilia ha 23 anni, è di Firenze e studia Medicina a Careggi. Da sempre vicina alla causa curda, tre mesi fa ha deciso di recarsi nel nord-est della Siria per unirsi a Heyva Sor a Kurd (la Mezzaluna Rossa curda, organizzazione locale nata nel 2012, partner della Mezzaluna Rossa Kurdistan) per poter mettere le proprie competenze al servizio del Rojava.

Non è la prima volta che visita il Kurdistan: a marzo, infatti, era stata per più di due settimane con Uiki, l’Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia, nei territori del Kurdistan turco, il Bakur, insieme a un gruppo di osservatori internazionali per verificare che, durante le elezioni amministrative in cui si candidava il partito filo-curdo Hdp, non ci fossero irregolarità.

È stata evacuata da Qamishlo venerdì sera 11 ottobre, poche ore dopo l’inizio dell’aggressione turca, mercoledì 9 ottobre, ed è rientrata a Firenze il 16 ottobre. L’ho incontrata giovedì 17 – poche ore prima della “tregua” (si legge “richiesta di resa”) turca – al polo universitario di Novoli, a Firenze, a margine di un’iniziativa dello Spazio Autogestito – vendita di kebab a prezzi popolari per raccogliere fondi per la Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia.

Cosa ti ha spinto ad andare in Rojava?
Principalmente gli ideali. Sono voluta partire per essere partecipe e avere la possibilità di osservare con i miei occhi, imparare qualcosa in prima persona di quel modello che ho sempre considerato incredibile. Volevo andare e condividere questa esperienza sul campo. E volevo, sì, entrare all’interno di questo territorio da attivista, ma – avendo io una formazione di tipo sanitario – anche facendo qualcosa di effettivo, nel mio ambito.

Cos’hai trovato là?
Sono arrivata proprio nel primo momento di pace dopo otto anni di guerra, quindi in una fase di forte ricostruzione: delle strutture cittadine, delle infrastrutture, dei trasporti, di miglioramento delle strutture ospedaliere. Finalmente si poteva risparmiare dal punto di vista di spese e sforzi investiti nella difesa militare.
Sul piano sanitario e umanitario, invece, ancora prima dell’aggressione turca la situazione era già critica, perché parliamo della presenza di campi profughi che vanno dalle 10mila alle 70mila persone, con difficoltà ulteriori – per il fatto che non sono riconosciuti – per quanto riguarda i rifornimenti e il supporto internazionale. Tuttavia era davvero un momento di crescita e ripartenza, che è stato completamente minato da questo attacco.

Che impressione ti ha fatto il confederalismo democratico messo in pratica, con la sua rivoluzione femminista, ecologista, anti-capitalista?
Le cose ovviamente hanno bisogno del loro tempo per passare dalla teoria alla pratica in maniera completa e condivisa, con la partecipazione attiva di tutti. Ma in Rojava ogni cosa tende verso il modello del confederalismo democratico, con un grande lavoro per implementarlo dove ancora non c’è, mobilitandosi subito su alcuni punti fondamentali. Come ad esempio la difesa della donna, con l’apertura immediata dei centri femminili e la prevenzione ginecologica. I consigli cittadini, poi, sono ovunque, sono capillari. Ogni cosa che viene fatta rientra all’interno della visione del confederalismo. Ad esempio, quando hanno dovuto creare la rete di trasporti pubblici, hanno usato solo veicoli elettrici, per quanto questo fosse molto più difficile, molto più costoso.

Di cosa ti occupavi come volontaria?
Quando sono arrivata, all’inizio, lavoravo direttamente in un ospedale da campo, all’interno del campo profughi di Al-Hawl. Dopo poco ho iniziato a lavorare come coordinatrice sanitaria, quindi ero responsabile di sei strutture e lì mi occupavo del rifornimento farmaci, di gestire il personale, organizzare queste cliniche sotto l’aspetto logistico. E poi della parte di comunicazione, raccogliendo informazioni dagli ospedali, quindi della scrittura di report sulla situazione delle malattie nelle varie zone. Comunque anche in ambito sanitario sono parecchio avanti in Rojava.

In che modo?
Da un lato il progetto è avanzatissimo perché ha veramente l’obiettivo della capilarizzazione più totale, partendo dalle visite domiciliari. E non nel senso che il paziente chiama il medico a casa, ma proprio si bussa porta per porta tramite gli operatori sanitari, per fare prevenzione e copertura. Dall’altro, però, attualmente anche la parte sanitaria è fortemente sotto attacco turco: le ambulanze e gli ospedali vengono bombardati e si devono fermare. Quindi rimangono poche strutture aperte e con una difficoltà di movimento delle ambulanze e del sistema emergenziale in generale enorme. Inoltre è stata presa l’autostrada che collega Qamishlo ad Aleppo e che era quella su cui viaggiavano anche i rifornimenti. E, ripeto, parliamo della presenza di campi profughi con 70mila persone che, con la partenza delle Ong, si ritrovano adesso ad affrontare una situazione di totale incertezza.

Chi rimane?
In questo momento solo Heyva Sor e tutto quello che è la sua componente locale dei comitati della salute.

La Turchia è accusata di aver utilizzato napalm e fosforo bianco durante i suoi attacchi. E le immagini, terribili, che arrivano dal Rojava sembrerebbero confermarlo.
Sì, ci sono stati, pare, attacchi con armi chimiche. C’è un po’ di ritardo nelle conferme perché per andare a dire al mondo che sono armi chimiche hai bisogno di fare una serie di test sui pazienti colpiti che, in questo momento, i medici giù non sono in grado di effettuare. Quindi hanno difficoltà a dichiararlo. Per ora c’è solo la prova visiva, perché sono armi abbastanza riconoscibili per quello che fanno sui corpi rispetto a una bomba normale. E ci sono testimonianze di dottori che ti dicono: “Io non te lo posso far vedere nel vetrino, ma ti sto dicendo che queste sono armi chimiche”.

Che racconti ti arrivano da chi è rimasto?
I compagni giù, nell’ambito sanitario, esprimono preoccupazione sul fatto che l’esercito turco e i gruppi jihadisti filo-turchi stanno avanzando ben oltre l’autostrada e oltre i 30km oltre il confine. E prendono di mira gli ospedali. Se si ferma l’ospedale di Tell Temer è un casino, perché quella è la struttura più vicina al fronte che in questo momento sta lavorando davvero a ritmi serrati.

Poi ci sono le voci che arrivano dai compagni combattenti, quelli che lottano sul fronte, e sono ancora peggio. Da Sere Kaniye in particolar modo, dove adesso il nemico sta puntando a circondarli. Stanno resistendo all’interno della città e ne hanno ripreso una parte in questi giorni, però è una situazione in bilico, perché gli altri attaccano da terra con i jihadisti e dal cielo con la copertura aerea. È arrivata anche una testimonianza dagli internazionalisti, dodici compagni che stanno combattendo lì, che suonava tanto come una lettera di addio. Tell Abyad, invece, è completamente caduta, però dentro ci sono dei compagni che fanno guerriglia. Le informazioni che arrivano da Tell Temer riguardano l’uso delle bombe a tappeto, come è avvenuto ad Afrin: le stesse modalità, con poche perdite dal punto di vista turco, perché vengono mandate avanti le bande jihadiste per fare gli attacchi.

Cosa possiamo fare noi da qua?
Un sacco di cose! Ci sono delle raccolte fondi attualmente in corso per rispondere direttamente all’emergenza. Ce n’è una della Mezzaluna Rossa di Livorno, e i soldi vanno interamente nelle casse di Heyva Sor.
Dal punto di vista politico, poi, dobbiamo fare pressione sul nostro governo e sull’Unione Europea per lo stop, anche retroattivo, alla vendita di armi alla Turchia, e per cancellare il suo processo di adesione alla Ue. I cittadini italiani, poi, dovrebbero puntare a un boicottaggio pieno della Turchia (prodotti, vacanze) e delle cosiddette banche armate.

Inoltre c’è stato un rafforzamento Nato all’interno della Turchia stessa, con un contingente italiano di 130 soldati e una batteria di missili terra-aria puntati per prevenire o rispondere a un attacco siriano in territorio turco. Bisogna chiedere di ritirarli. O di orientarli nella direzione opposta. Servirebbe infatti un contingente di tutti gli Stati europei che faccia da cuscinetto diplomatico e che blocchi gli attacchi, una forza di interposizione.
Insomma, possiamo fare un lavoro enorme all’interno dei nostri Stati, che è una cosa che i compagni da giù non possono fare. Loro, sul campo, resistono alla guerra combattendo, noi, da qui, possiamo prendere parte attiva nella resistenza facendo pressione sui governi.

Per approfondire, Left in edicola fino al 24 ottobre

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Zaia manganellato

Manifestazione: Orgoglio italiano, organizzata dalla Lega in piazza San Giovanni, Roma, 19 ottobre 2019. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Se le Forze dell’Ordine dovessero ascoltare quel gran genio di Luca Zaia che pur di strappare un applauso nella piazza romana della Lega si è lanciato in una dichiarazione da brividi (“Togliere il galateo alle forze dell’ordine e riconsegnare il manganello, e non lo dico per strappare l’applauso alla piazza”, ha detto Zaia, aggiungendo ovviamente anche la postilla dell’applauso perché in fondo si deve essere vergognato un po’ anche lui) allora la Polizia avrebbe dovuto entrare in quella stessa piazza, manganellare i fascisti che non possono professare fascismo (lo dice la legge, lo dice la Costituzione) e tirare due colpi ben assestati anche allo stesso Zaia che insieme ai suoi amici leghisti è nel partito che ha fatto sparire 49 milioni di euro di soldi pubblici (è condanna, è una notizia, è la realtà dei fatti) che saranno restituiti in comode rate mensili come se si trattasse dell’incauto acquisto del nuovo modello di aspirapolvere.

Ma Zaia e i manettari della sua stessa stoffa sono quelli che godono nel vedere la legge diventare dura contro i deboli: forti con i deboli, deboli con i forti e garantisti con gli amici degli amici, la cifra stilistica è sempre la stessa, vigliacca e bugiarda, da parecchi anni. E magari se le forze di Polizia dovessero rinunciare anche al galateo proprio a Zaia potrebbero puntare una lampada sotto il mento e interrogarlo sulle sue responsabilità da ministro all’Agricoltura quando contribuì all’enorme multa che l’Europa ha comminato all’Italia sulle quote latte. Solo per fare un esempio.

Solo che noi, a differenza di Zaia, siamo portati a chiedere attenzione dei diritti proprio nei momenti più delicati della democrazia, quando la forza dell’autorità (che non riesce a esercitare autorità e quindi sfocia nella violenza) segna pagine vergognose come quella che il 22 ottobre “festeggia” il mesto decennale della morte di Stefano Cucchi.

Le forze dell’ordine non hanno bisogno di essere leccate per cercare un po’ di consenso: hanno bisogno di mezzi e di uomini. E chissà se Zaia sa chi è stato il ministro dell’Interno che ha avuto l’occasione di migliorare la situazione e non ha mosso un dito. Nel dubbio a Zaia gli diamo il permesso, se incontra quell’ex ministro, di dargli un buffetto, mica una manganellata, perché ancora crediamo nella legge, qui, dalle nostre parti.

Buon lunedì.

Più Sardex per tutti, l’economia della fiducia

Tutti parlano di soldi. Il mondo gira intorno ad essi e in nome di essi. Per ottenerli si scatenano guerre, omicidi, rapine, delitti efferati. Si evadono tasse, ci si corrompe, si tradisce la propria etica e la propria morale. Il denaro è diventato uno dei dogmi più inviolabili del nostro tempo, eppure in pochi si sono mai interrogati veramente su che cosa sia, da dove venga, dove vada e soprattutto se ci possono essere altre forme di economia e altri mezzi per farla “muovere”.

Negli ultimi decenni, poi, la moneta stessa è diventata qualcosa di quasi religioso. Ci sono monete “forti” e “deboli”, movimenti pro-euro e no-euro, spread e tassi di interesse, speculazioni finanziarie e crolli bancari. Tutto sembra in qualche modo “dato”, inevitabile, ma non è così.

L’esperienza del Sardex lo dimostra e vedremo in che modo. Ma partiamo dall’inizio.

Il denaro viene normalmente definito come «tutto quello che viene utilizzato come mezzo di pagamento e intermediario degli scambi» e che svolge le funzioni di misura del valore (come unità di conto); mezzo di scambio nella compravendita di beni e servizi e in genere nelle transazioni commerciali (moneta come strumento di pagamento); riserva di valore (mantiene il valore nel tempo).

Tre funzioni semplici e lineari che però non vengono svolte da tutti gli strumenti oggi considerati “moneta”. Ad esempio il Bitcoin, la celebre criptovaluta di cui da qualche anno tutti parlano, non funziona bene come misura di valore, o come mezzo di scambio, essendo per sua natura…

L’articolo di Daniel Tarozzo prosegue su Left in edicola dal 18 ottobre

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Daniel Tarozzi è giornalista, scrittore e documentarista. Dal 2012 gira l’Italia in camper, treno e a piedi alla ricerca di persone che stanno cambiando in meglio il Paese. Da questo lavoro sono nati libri, documentari, spettacoli teatrali e un giornale web, Italia che cambia. Prima del saggio appena uscito per Chiarelettere “Una moneta chiamata fiducia. Oltre il denaro”, ha scritto anche “Io faccio così” (Chiarelettere) e “E ora si cambia” (con Andrea Degl’Innocenti) per Terra Nuova e Arianna editrice.