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Van Gogh e il mistero della camera

Per Van Gogh gli oggetti non sono oggetti. Sono esseri viventi, quasi persone. Chi nei suoi quadri incontra i nidi, le scarpe, gli alberi in fiore o i girasoli difficilmente dimentica quegli oggetti-persone. Perché questo è il punto. Van Gogh non dipinge affatto “nature morte”, dipinge gli oggetti in un sforzo di renderli accesi e vitali, in una sorta di continuo anelito verso un altro da sé in cui però vuole riconoscersi ed essere riconosciuto.

L’universo delle immagini di Van Gogh è quindi carico di significati simbolici: è un mondo pieno di rimandi letterari, religiosi, magici e autobiografici. Ma la vita dell’artista non spiega l’opera, al contrario è l’opera stessa la più alta narrazione della vita. Come se l’opera inscrivesse dentro di sé il reale e il simbolico e fosse l’unica forma autentica di vita dell’artista.

«Ciò che Van Gogh vuole – scrisse Giulio Carlo Argan – è una pittura vera fino all’assurdo, viva fino al parossismo, al delirio, alla morte. La materia pittorica acquista un’esperienza autonoma, esasperata, quasi insopportabile: il quadro non rappresenta, “è”».

Il quadro di Van Gogh in cui questi livelli di impersonificazione si trovano esaltati è La camera da letto di Vincent dipinto nella settimana dal 15 al 22 ottobre del 1888 ad Arles, in Provenza. Van Gogh sin dal primo mese del suo soggiorno in Provenza aveva dettagliatamente descritto al fratello Theo l’idea di fondare ad Arles un “atelier du Midi”, cioè uno studio in cui…

L’articolo di Antonino Saggio prosegue su  Left in edicola dal 18 ottobre

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Antonino Saggio, architetto e urbanista, docente di Progettazione architettonica e urbana alla Sapienza università di Roma, il 20 ottobre terrà una lectio magistralis al Macro di Roma dal titolo “Il mistero della stanza”.

Tra gli eventi in corso che approfondiscono la figura artistica del pittore olandese, da segnalare la mostra al Van Gogh Museum di Amsterdam, aperta fino al 12 gennaio 2020, dedicata a Jean-François Millet, esponente della “pittura contadina”, un artista che ha ispirato Van Gogh.

Un calcio ai totalitarismi

Protesters raise their hands as they gather on Taksim square during the clash between riot police and protestors in Istanbul on June 22, 2013. Turkish police used water cannon today to disperse thousands of demonstrators who had gathered anew in Istanbul's Taksim Square, calling for the resignation of Prime Minister Recep Tayyip Erdogan. AFP PHOTO / OZAN KOSE (Photo credit should read OZAN KOSE/AFP/Getty Images)

È il minuto 22esimo della semifinale tra Algeria e Nigeria della Coppa delle nazioni africane di calcio quando dalla curva occupata dagli algerini parte il coro «Dio onnipotente, Aboutrika». Un coro semplice, ma nient’affatto privo di significato: prima di tutto perché è un omaggio all’ex star del calcio egiziano da parte degli acerrimi rivali calcistici dell’Egitto. Ma, soprattutto, è un chiaro atto politico contro il presidente al-Sisi. Mohamed Aboutrika, infatti, da tre anni vive in esilio in Qatar dopo che il regime egiziano ha posto il suo nome sulla lista dei terroristi accusandolo di aver finanziato la Fratellanza musulmana, movimento fuorilegge dal 2013 da quando l’ex generale al-Sisi ha preso potere in Egitto con un golpe militare.

Quel semplice coro al minuto 22esimo in ricordo del numero leggendario di maglia di Aboutrika è stato motivo d’imbarazzo per il Cairo che ha utilizzato la vetrina della competizione calcistica internazionale svoltasi questa estate in Egitto per ripulire la sua immagine pubblica all’estero. La lotta contro i rispettivi regimi autoritari ha però legato tanti algerini ed egiziani: ciò è apparso evidente quando centinaia di tifosi delle “Volpi del deserto” si sono recate a Piazza Tahrir, il fulcro delle proteste anti-Mubarak, intonando sì cori sportivi, ma anche slogan contro il loro regime militare e quello di al-Sisi.

Calcio e politica dopo tutto viaggiano insieme: un’affermazione tanto più vera nel variegato mondo arabo dove nel corso dei decenni i governi oppressivi hanno lasciato che il pallone fosse una valvola di sfogo per i loro cittadini. Una vera e propria arma di distrazione di massa dai problemi quotidiani che lacerano le loro vite. La recente Coppa delle nazioni è stata solo l’ultimo esempio: l’avanzata nel torneo della nazionale algerina – vincitrice alla fine della coppa – è stata strumentalizzata dal governo militare di Algeri che ha provato ad accattivarsi le simpatie del suo popolo organizzando per la semifinale e finale una decina di voli charter per portare in Egitto più tifosi possibili «a sostenere i colori della nostra Nazione».

Ma strumentalizzare il calcio per fini politici può rivelarsi un boomerang per i governi autoritari. Soprattutto in un Paese come l’Algeria dove…

L’articolo di Roberto Prinzi è tratto da Left in edicola  dal 18 ottobre

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La trista reunion del centrodestra

MATTEO SALVINI POLITICO GIORGIA MELONI POLITICO SILVIO BERLUSCONI POLITICO

Alla fine la piazza è solo un Papeete senza mojito. E se Salvini scende in piazza, con al seguito Meloni e Berlusconi a fargli da maggiordomo, è solo perché il Capitano (ormai piuttosto dinoccolato) sa benissimo che la sua propaganda ha bisogno di essere eterea per funzionare, deve frequentare gli spazi aperti dove non contano i fatti ma dove si trasformano in fatti le opinioni, le piccole propagande ricoperte di bava, le promesse che poi non interessa a nessuno se saranno mantenute, le foto prese dalle angolazioni migliori, i soliloqui rivenduti come ragionamenti e i dibattiti relegati solo nei commenti.

Salvini e il suo fedele Morisi hanno spremuto tutte le loro armi per cercare di convincerci che il leader leghista sia stato fatto fuori da chissà quali poteri occulti o chissà da quali giochetti di palazzo ma alla fine anche i più ingenui, quelli che mettono sullo stesso piano un tweet con un’analisi politica, hanno capito benissimo che l’estate salvinana è stata un viaggio di Icaro che si è sciolto le ali di cera per essersi troppo avvicinato al sole.

I greci la chiamano hybris, ciò che punisce l’uomo quando tenta troppo di avvicinarsi agli dei: Salvini ha creduto davvero che si potesse fare politica senza farla per davvero e così si è sbriciolato di fronte all’inconsistenza della sua poca credibilità internazionale, della sua incapacità di confronto con tutti i corpi intermedi (sindacati, rappresentanti di categoria e gli stessi funzionari dello stesso ministero di cui è stato titolare) e si è ritrovato…

L’articolo di Giulio Cavalli prosegue su Left in edicola dal 18 ottobre 

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La rivoluzione non finisce qui

Fighters from the Kurdish Women's Protection units (YPJ) perform a traditional dance as they participate in a military parade on March 27, 2019, celebrating the total elimination of the Islamic State (IS) group's last bastion in eastern Syria, in the northwestern city of Hasakah, in the province of the same name. (Photo by Delil SOULEIMAN / AFP) (Photo credit should read DELIL SOULEIMAN/AFP/Getty Images)

Peace spring, così si chiama l’operazione dei turchi contro il Rojava. La “primavera della pace”, il suo sgorgare sorgivo, aurorale. Ecco, ancora una volta, un fulgido esempio di neolingua, un’oscena ipocrita antifrasi, un’espressione luminosa per nascondere un orrendo cuore di tenebra. Viene alla mente quella spring rain dei versi iniziali della Waste land di T.S.Eliot, dove appunto, in realtà, protagonista è una terra resa arida: «Quali i rami che crescono da queste macerie di pietra?».

In momenti come questi pare che solo la poesia possa dare conforto, e portare salvezza in mezzo alle macerie. I curdi, da questo punto di vista, ne hanno tanti di poeti che cantano il riscatto che, prima o poi, verrà. L’immensa fiducia che li tiene uniti non cessa di far luce anche in momenti disperati come questo, quando tutto appare perduto.

Che cosa orrenda essere costretti a dover scegliere tra il genocidio desiderato dai turchi e la rinuncia alla rivoluzione che da sette anni ha fatto il Kurdistan siriano il luogo al mondo che ha conosciuto la democrazia più integrale e avanzata su questo pianeta. Orrendo essere ridotti a sperare che sia un gioco delle parti concordato da mesi, al summit di Astana dove Putin e Erdoğan si erano incontrati, insieme all’iraniano Rohani: voi aggredite la Siria, avrà probabilmente detto Putin a Erdoğan, ché tra tiranni ci si intende, avete mano libera per mettere al loro posto i curdi che vi ossessionano, e poi le truppe del nostro amico Assad intervengono e si riprendono il controllo del nord della Siria, altro che Rojava.

In fondo l’esperimento di democrazia diretta, socialista, ecologista e femminista nemmeno Putin deve vederlo di buon occhio – per non dire di Rohani, che ai suoi curdi iraniani continua a negare qualsiasi riconoscimento, e continua a imprigionarne i militanti. Non restava che attendere l’assenso del buffonesco presidente americano, che puntualmente è arrivato, nonostante i dissensi interni. (A proposito del tweet con cui Trump si lavava le mani dei curdi dicendo che non li avevano aiutati in Normandia: i curdi, nella Seconda guerra mondiale, il loro contributo lo diedero, visto che presero le armi sia in Siria contro il governo filo-tedesco che controllava Damasco da quando la Germania aveva invaso la Francia, sia in Iraq per sconfiggere il tentato colpo di Stato da parte delle forze filo-tedesche. Questo, giusto per amor di precisione, dal momento che invocare un precedente storico del genere è puro fumus retorico, roba da cialtroni mentecatti).

Di fronte al massacro in corso (mentre scrivo, i turchi avanzano verso Kobane, ciò per cui Erdoğan dice di avere l’appoggio di Putin), l’Europa fa schifo.
Non trovano una posizione comune per bloccare la vendita delle armi all’alleato turco. L’Italia ferma la vendita delle armi, ma solo quelle a venire, i contratti passati si dovranno rispettare. E del resto, sarebbe comunque troppo tardi: è grazie agli aerei e agli elicotteri europei e italiani che i turchi fanno strage, da anni, dei curdi.

In singolare coincidenza, arriva proprio in questi giorni in aula del tribunale il processo contro dei militanti torinesi che sono stati a combattere in Rojava, e invece di essere ringraziati per aver combattuto il Daesh/Isis sono stati accusati e per loro si è chiesto la sorveglianza speciale, misura fascistissima contro il dissenso politico.
Di fronte a questa ignominia internazionale, i curdi resistono con le armi che hanno – non avendo contraerea, come possono sperare di resistere? Resisterebbero eccome, solo sul terreno, se la Nato bloccasse lo spazio aereo.

Ma la Nato di Stoltenberg, servo sciocco di Trump, difende le ragioni di Erdoğan, nonostante questo ormai sia più amico di Putin che fedele all’Alleanza atlantica. I curdi possono essere legittimamente sacrificati, figuriamoci che gliene può fregare al servo sciocco di Trump – del resto stiamo parlando della Nato, chi può stupirsi.
A resistere è solo l’immensa fede di chi si è speso anima e corpo, in una lotta che riguarda tutti noi, che riguarda la libertà di tutti, la giustizia per tutti, la bellezza per tutti.

Le piazze piene nelle grandi città, ma anche i presidi affollati nei piccoli centri, sono la testimonianza che la lotta dei curdi è sentita da molti come la propria battaglia.
Certo, per i più disinformati non si tratta che di un piccolo popolo che vuole la sua indipendenza nazionale; ma sempre di più si capisce ormai che la lotta dei curdi è una lotta internazionalista, che afferma valori universali e che propone un modello politico radicalmente democratico, come noi non siamo più capaci nemmeno di pensare.

Così termina una poesia del grande poeta curdo Sherko Bekas, una di quelle poesie che mantiene viva la luce in questo cuore di tenebra:
Ora siamo ancora una foresta
Siamo milioni
Siamo semi
Piante
e alberi annosi
Il vecchio elmo è caduto!
E ora, siete voi il nuovo elmo
Perché con la punta delle lance
mirate alle nostre gole?
Volete la nostra fine?

Eppure io so
e voi sapete:
fino a che resterà un seme
per la pioggia e per il vento
questa foresta non finirà.

L’articolo di Marco Rovelli è stato pubblicato su Left del 18 ottobre 2019

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Nemmeno le bombe turche fermeranno il progetto politico e culturale del Rojava

Ozlem Tanrikulu, lei è stata presidente di Uiki, l’ufficio di informazione del Kurdistan in Italia, ci può dire cosa si intende per rivoluzione quando si parla di Rojava?

Già prima della rivoluzione del Rojava la popolazione aveva un buon livello di organizzazione politica. Con la rivoluzione si è sviluppato il sistema democratico confederale. Parliamo di una zona geograficamente ampia, con un mosaico di lingue, culture ed etnie: per questo motivo era importante disporre di un sistema completo che abbracciasse questa ricchezza culturale e storica. Nel corso della storia, la lingua curda Suryani-sunnita e approcci nazionalistici sono stati usati per creare differenze nella regione. Costruire un sistema confederale democratico richiedeva dunque un’ampia consapevolezza da parte della gente e una organizzazione complessa. Per prima cosa sono stati creati rapidamente i gruppi (associazioni, comitati) e le istituzioni come struttura amministrativa del sistema. Di seguito gli interventi in economia e autodifesa, intesa questa non come forza militare ma come autodifesa sociale di base. Si tratta, vorrei ricordare, di una società che ha vissuto sotto la pressione di forze d’invasione per migliaia di anni e che veniva da una cultura feudale.

In cosa consiste il progetto?

Il progetto consiste nella formazione di una mentalità comune in settori come istruzione, cultura, salute, economia e autodifesa ed è a lungo termine. Il confederalismo democratico non è un modello rigido, ma si evolve sulla base delle esperienze acquisite. Per questo motivo era necessario sviluppare una ‘fiducia in sé’, nell’idea che la cultura e la consapevolezza storica e sociale sarebbero stati percorsi complessi da affrontare. Infatti puoi creare organizzazioni, far partecipare la popolazione dal basso, ma è importante renderla consapevole per prendere le distanze dalla natura del potere. Il sistema del confederalismo democratico richiedeva una mentalità flessibile: se questa non è formata sull’educazione comune, una società non può essere creata. Ora, con il tempo, si è capito la differenza tra il confederalismo democratico e l’organizzazione dello Stato-nazione. Il confederalismo democratico richiede uno sguardo profondo. Le organizzazioni sono importanti, ma ciò che muove internamente lo è ancor di più. È ciò che rende il sistema permanente.

Le pratiche di autogestione hanno modificato l’approccio dei singoli, sono state cioè uno strumento “educativo” verso una gestione equa delle risorse economiche, politiche, sociali?

La società è cambiata nella visione femminile perché era importante rappresentare equamente le donne e farle partecipare ai meccanismi decisionali. Questo processo ha reso più consapevole la donna della propria forza e capacità di agire. Grazie a questo cambiamento, oggi anche nei gruppi più lontani dalla mentalità democratica, i problemi vengono espressi e risolti con il dialogo. È cambiata anche la mentalità a proposito di giustizia sociale: la società trova le soluzioni dei propri problemi familiari, sociali e personali attraverso, appunto, metodi di dialogo. In questo modo oltre l’80 per cento delle dispute sono state risolte nei comitati territoriali per la pace.

L’economia è stata l’area di sviluppo che invece ha presentato maggiori difficoltà.

Dopo la rivoluzione le proprietà statali governative sono state distribuite alle comunità e sono state costituite cooperative agricole. Ma il problema era gestirle con la mentalità giusta: le cooperative infatti non sono solo imprese economiche, sono complessi sanitari, sociali, educativi. Ogni cooperativa è uno spazio vivente, uno spazio organizzativo.

L’attacco turco mette in pericolo (anche sul piano del consenso della base) il confederalismo democratico e la sua natura multietnica e multiculturale?

C’è un attacco totale al sistema del confederalismo democratico da parte delle grandi potenze, non solo della Turchia. È un sistema che ha prodotto ricerche nelle società arabe del Medio Oriente, potrebbe diffondersi in tutto il mondo. Il capitale globale vuole bloccarne la diffusione perché teme che metta in discussione il suo potere. Gli attacchi sono stati vari. Ad esempio, hanno voluto definire il sistema come Stato-nazione o ridurre i nuovi modelli di organizzazione etichettandoli come rapida via per la libertà, cercando di imitarli. Ognuno, dal proprio punto di vista, ha cercato di imporre il proprio sistema di valori, dimostrando la necessità di una lotta più elaborata e comune. Se vuoi mantenere vivo il confederalismo democratico hai bisogno non solo di difenderti sul piano militare e politico ma soprattutto di dare risposte culturali. L’invasione e gli attacchi feroci dello Stato turco hanno causato la morte di centinaia di persone e la fuga di centinaia di migliaia di civili. Ma la popolazione che si è formata con questa esperienza finirà per portare il proprio progetto politico fin sulla luna. È impossibile annientare solo con un attacco fisico un sistema che si è costruito sulla cultura.

Whirlpool, tre cose da fare per salvare mille famiglie campane dalla povertà

Il corteo dei lavoratori Whirlpool, promosso dalle organizzazioni sindacali, dopo l'annunciata chiusura dello stabilimento di via Argine per il prossimo 1 novembre, Napoli, 17 ottobre 2019. ANSA / CIRO FUSCO

Il Governo italiano conosceva già ad aprile 2019 le vere intenzioni della Whirlpool? Il Governo italiano ha evitato di comunicare agli operai napoletani le vere intenzioni di Whirlpool? Sicuramente già dal 6 giugno 2019 il Governo italiano non poteva non sapere i reali obiettivi di Whirlpool: riconvertire i suoi impianti di Napoli e vendere l’impianto a una terza parte. Perché dal 6 giugno? Semplicemente perché il 6 giugno la Whirlpool aveva già comunicato le sue intenzioni per iscritto chiaramente alla SEC, la Consob americana, dopo il comunicato del 31 maggio e dopo l’incontro al ministero dello Sviluppo Economico del 4 giugno. Questo recita chiaramente un report della SEC: «…Whirlpool EMEA announced its intention to reconvert its Naples, Italy manufacturing plant and potentially sell the plant to a third party». Poiché Whirlpool è una public company quotata a Wall Street, poiché le comunicazioni determinano il valore delle azioni e la fiducia degli investitori, la Whirlpool ha dovuto comunicare alla SEC cosa volesse fare a Napoli. Nel report si indicano in modo generico i costi dell’operazione, circa 127 milioni di dollari, di cui solo 19 milioni per la forza lavoro.

Ora Whirlpool ri-annuncia che chiuderà dal primo novembre lo stabilimento di Napoli vista «la mancata disponibilità da parte del governo a discutere del progetto di riconversione». Una vicenda drammatica per 500 operai che perderanno il lavoro, più altrettanti dell’indotto. Mille famiglie nel dramma in una Regione che è già al record europeo di povertà, come si legge dai dati Eurostat 2018 sul rischio di povertà nelle Regioni Europee. Infatti in Campania (e Sicilia) più di quattro persone su dieci sono a rischio povertà, ovvero, dopo i trasferimenti sociali, hanno un reddito disponibile inferiore al 60% di quello medio nazionale. È il rischio povertà il livello più alto dell’Unione europea. In questo quadro già drammatico si innesta la crisi che avrebbe dovuto essere risolta un anno fa secondo l’allora ministro dello Sviluppo Economico: dal balcone di Palazzo Venezia, Di Maio, abolì per decreto la povertà ma non garantì agli operai della Whirlpool Napoli un futuro. La situazione attuale è il risultato di una lunga serie di errori commessi dallo stesso Di Maio che ha lasciato in eredità ben 170 crisi aziendali non risolte. Il risultato di un atteggiamento rivolto alla cura della propria immagine in modo autoreferenziale (per drenare voti a favore del movimento di cui fa parte) più che alla risoluzione dei problemi aziendali e alla messa in sicurezza dei posti di lavoro dei dipendenti coinvolti. Un atteggiamento condiviso nel precedente governo con la Lega dalla quasi totalità dei ministri. Uno dei peggiori governi della storia repubblicana.

La Whirlpool ha la sua responsabilità: prima ha drenato finanziamenti statali grazie alla disponibilità del Governo; ora svicola dagli impegni assunti cercando di delocalizzare e cedere la proprietà alla società PRS (Passive Refrigeration Solution); purtroppo la PRS non produce lavatrici ma container autorefrigerati. Patuanelli, il successore di Di Maio al MISE, ha contestato la decisione di Whirlpool chiedendo la sospensione della cessione a PRS. Tuttavia è troppo tardi, il MISE avrebbe dovuto intervenire prima con decisioni più incisive ed avvedute. Finora le soluzioni applicate in casi simili con l’intervento di Invitalia (società del Mise) sono state due: 1) i Contratti di Sviluppo: a) per esempio quando la Lamborghini di Modena voleva delocalizzare in Polonia perché il costo del lavoro era troppo alto, Invitalia ha elaborato uno specifico contratto mettendo i soldi per coprire la differenza tra il costo del lavoro in Polonia e in Italia. La Lamborghini, rimanendo in Italia, ha avuto il vantaggio di continuare a valorizzare il proprio brand made in Italy; b) nel caso della Ideal Standard di Frosinone, Invitalia ha avviato una riconversione produttiva, dai sanitari ai sampietrini di gres porcellanato, tramite contributi a fondo perduto e prestiti a tasso agevolato. 2) entrare nel capitale azionario dell’azienda in crisi: per esempio nel caso della Irisbus in Irpinia, Invitalia è entrata nell’equity della società e ha garantito la continuità aziendale, insieme a Ferrovie e un partner di minoranza turco. Tuttavia entro il 2020 Invitala dovrà uscire dal capitale e vendere la propria quota.

Ora al di là delle polemiche politiche e delle responsabilità che gravano anche sulla multinazionale americana il problema è come, in breve tempo, risolvere la crisi salvaguardando i posti di lavoro di un comparto produttivo che ha visto da sempre il nostro Paese fra i principali produttori del settore.

A nostro avviso l’attuale governo deve procedere con decisione, anche nell’interesse nazionale, con il seguente schema:

-nazionalizzare gli stabilimenti

-predisporre una copertura finanziaria garantita dallo Stato tramite Invitalia per i prossimi 24/36 mesi

-affidare la direzione generale della stessa ad un amministratore notoriamente esperto del settore, nominato e controllato dal Ministero per il Sud e la Coesione Territoriale.

Una volta rilanciata l’azienda mantenendo i posti di lavoro, lo Stato potrebbe promuovere la costituzione di una Cooperativa tra i dipendenti della società.

Mettere in mano l’azienda agli operai, rifacendosi alla “legge Marcora”, ha salvato in Italia negli ultimi anni oltre 100 imprese, soprattutto nel settore manifatturiero. Sono stati coinvolti ben 8.000 dipendenti diretti e altrettanti nell’indotto, sviluppando un fatturato complessivo superiore ai 200 Milioni di Euro. Le norme esistenti mettono già a disposizione dei lavoratori che decidono di formare una Cooperativa gli strumenti finanziari adeguati, serve solo la volontà politica di farlo! Ci sarà?!?

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Natale Cuccurese è segretario del Partito del Sud

Andrea Del Monaco, esperto Fondi Ue, saggista e scrittore

AOC, un bel colpo al cuore della campagna di Bernie Sanders

Representative Alexandria Ocasio-Cortez (2nd R), Democrat of New York, speaks alongside US Senator Bernie Sanders (2nd L), Independent of Vermont, and Representative Ilhan Omar (L), Democrat of Minnesota, during a press conference to introduce college affordability legislation outside the US Capitol in Washington, DC, June 24, 2019. (Photo by SAUL LOEB / AFP) (Photo credit should read SAUL LOEB/AFP/Getty Images)

Quando annunciò la sua candidatura, Bernie Sanders era dato per favorito. Oggi, a distanza di otto mesi, il percorso verso la nomination per la corsa alla Casa Bianca sembra essere più accidentato del previsto. E non solo per l’entrata in scena di Joe Biden, l’ex vicepresidente di Obama di cui gli elettori Democratici più moderati chiedevano a gran voce la discesa in campo. Nel giro di pochi sondaggi, Biden è diventato il frontrunner, la punta di diamante del partito, quello che aveva la candidatura già in tasca, per cui le primarie erano solo una formalità.
Sembrava un ritorno al passato: dopo il 2016, quando Sanders aveva visto scapparsi di un soffio la nomination come candidato Democratico alle elezioni presidenziali grazie al sorpasso di Hillary Clinton, anche questo 2020 sembrava affievolirsi nell’affollatissima platea dei candidati alle primarie Dem (oltre venti aspiranti commander-in-chief).

Dopo di che, quando finalmente le cose sembravano aver preso una piega “positiva” per Bernie, con il coinvolgimento della famiglia Biden nelle indagini per l’impeachment al presidente Donald Trump (il figlio Hunter, che fino ad aprile è stato nel consiglio di amministrazione di una società energetica in Ucraina, sarebbe stato l’obiettivo designato da Trump per scoprire del marcio sul suo avversario numero uno) e la possibilità che Biden decidesse di ritirarsi, è arrivato l’attacco di cuore. Il 4 ottobre, quando Sanders era ormai fuori pericolo, gli addetti alla sua campagna elettorale hanno comunicato che il senatore settantottenne aveva subito un’operazione per un’occlusione arteriosa, con l’applicazione di due stent. Per questo, tutti i comizi programmati di lì a breve sarebbero stati sospesi. Per un aspirante capo di Stato, non è un inciampo da poco un ricovero ospedaliero e un’operazione al cuore durante la campagna elettorale: era successo già a Hillary Clinton, che nel 2016 venne tacciata di non essere all’altezza del compito perché aveva avuto un malore in pubblico.

Ma Sanders è stato subito chiaro: non è previsto nessun ritiro di candidatura. Mentre Biden perde terreno, almeno apparentemente, e Elizabeth Warren si consolida sempre di più come “la terza via” democratica, quella che soddisfa gli elettori più di sinistra ma senza scontentare i moderati, a Sanders serve un piano per non rimanere schiacciato dagli eventi. La soluzione sembra essere arrivata lo scorso martedì, quando si è presentato più agguerrito che mai al dibattito televisivo contro i suoi undici avversari. Menzionando il comizio di sabato prossimo, che si terrà nel Queens, a New York, Bernie ha annunciato quasi con noncuranza che accanto a lui ci sarà «un’ospite speciale». Non ci è voluto molto perché sui social si scatenasse la caccia al tesoro, che ha portato alla promessa politica del 2018, Alexandria Ocasio-Cortez. La deputata trentenne, che è stata eletta proprio in quel distretto, ha deciso di dare il suo appoggio pubblico a Sanders, per cui aveva lavorato come volontaria già nel 2016. Dopo quattro anni i ruoli si sono decisamente invertiti, con il politico di lungo corso che si rivolge a lei per risollevare le sorti della sua campagna elettorale.

AOC, come la chiama la stampa statunitense, era corteggiata da mesi anche da Warren, che cercava probabilmente in lei la garanzia di assicurarsi i voti dei millenials “di sinistra”. Alla fine non ha tradito Sanders, che a sua volta l’aveva appoggiata durante le elezioni di midterm inserendola nel suo prestigioso sito internet, Our Revolution, dove vengono annoverati tutte quelle figure politiche che Bernie reputa socialisti come lui. Il socialismo resta la chiave vincente per lui, il carattere distintivo che non appartiene a nessun altro dei candidati alle primarie Democratiche, per quanto temi più tradizionalmente di sinistra stiano prendendo piede (come la tassazione dei più ricchi proposta da Warren).

Accanto a Ocasio, altre due deputate del gruppo conosciuto come The Squad hanno annunciato il loro endorsement a Bernie Sanders. Ilhan Omar, la deputata di origine somala che è passata alla storia come prima rifugiata ad essere eletta al Congresso, ha dichiarato martedì che appoggerà Sanders nella corsa alla Casa Bianca. Anche Rashida Tlaib ha fatto lo stesso; del quartetto, solo Ayanna Pressley ha deciso di rimanere neutrale, anche a causa del fatto che rappresenta al Congresso un distretto dello Stato di Elizabeth Warren. Le giovani Rappresentanti erano state attaccate da Donald Trump a causa delle loro origini “straniere”, spingendole a formare un fronte compatto che è sopravvissuto nei mesi.

Che l’appoggio di Alexandria Ocasio-Cortez e delle sue giovani colleghe significhi automaticamente l’elezione di Bernie Sanders a frontrunner della campagna Democratica e poi alla Casa Bianca è un azzardo troppo grande. Di certo, catalizzare intorno a sé il sostegno delle donne che nell’ultimo anno e mezzo sono diventate il simbolo della nuova sinistra Dem potrebbe essere un colpo vincente almeno in questa fase della campagna, quando ancora tutto può cambiare. Quello che il partito sta cercando veramente di capire è quanto a sinistra spingersi per battere Donald Trump: sarà sufficiente rimanere al centro con Joe Biden, o magari accontentarsi di un lieve spostamento, come nel caso di Warren, oppure serve una virata più decisa, fino all’indipendente socialista Bernie Sanders? La politica dei sondaggi non ha pagato nel 2016, quando (quasi) tutti si aspettavano l’ingresso della prima donna alla Casa Bianca. Per questo 2020 segnato da guerre, tweet e un possibile impeachment, serve qualcosa di più.

Ognuno combatte la sua battaglia personale

Dunque. Ci pensavo oggi, solo perché mi sono permesso di non pensare a tutte le minime cose senza importanza che vomita la politica offrendocele su un vassoio come se fossero delle prelibatezze, ci pensavo oggi che da qualche anno, sarà che sono diventato ipersensibile o semplicemente sto invecchiando con una certa malinconia, insomma incontro persone con cui mi capita di incrociarsi.

Incroci semplici, qualche volta per lavoro, qualche volta per amicizie di qualche amico di rimbalzo, gli incontri che capitano a ognuno di noi, niente di che. Persone che appaiono travestite dal guscio di professionisti, di padri, di madri, di clienti, di vicini di casa, tutti ristretti e catalogati per ruolo, che poi appena si dirada il formalismo e entra un poco di umanità, ne basta poca, ti svelano il mondo che ci sta dietro.

E dietro alle persone, quelle che sfioriamo sul marciapiede anche con un certo fastidio, ci sono famiglie a pezzi, ci sono dolori da bambini che sono diventati adulti insieme a loro, dico i dolori insieme ai bambini, ci sono lutti che non sono mai riusciti a digerire, ci sono fallimenti che si portano alle caviglie come la palla di ferro dei carcerati nei cartoni animati, ci sono sogni che sono stati sfiorati e poi persi per un soffio. C’è un mondo che la buona educazione dei benpensanti ritene pornografico, addirittura osceno, che teniamo buono solo per i pezzi di cronaca o per i romanzi e che invece abitano in tutti gli animi di tutti i condomini. Una cosa così.

E mentre tutti ci spingono a disinfettarci dagli affari degli altri invece ti rendi conto che gli affari degli altri sono la vita vera che ci dovrebbe interessare. C’è questa frase, che viene attribuita ogni volta a qualcuno di diverso, che più o meno dice che bisognerebbe essere gentili con tutti perché ognuna delle persone che incontriamo sta combattendo una sua battaglia personale. Ed è una frase bellissima, un manifesto politico, sociale e culturale.

E chissà se un giorno non tornerà di moda l’essere gentili. Gentili mica perché nobili per reddito. Gentili perché nobili nell’accarezzare i cuori degli altri, con cura, come se fossero qualcosa che ci dovrebbe interessare.

Buon venerdì.

Una rivoluzione femminile, non violenta e internazionale

ROME, ITALY - OCTOBER 14: Anti racist people with hands marked red to symbolise the blood pose with the photo of Hevrin Khalaf, activist for women's rights, Secretary General of the Syrian Future Party executed by the pro-Turkish Arab mercenary militias, during the demonstration of the trade unions CGIL CISL and UIL to protest against the bombing of the Kurdish population in northern Syria and the entry of Turkish troops into Syria on October 14, 2019 in Rome, Italy. (Photo by Stefano Montesi - Corbis/Corbis via Getty Images)

Vitalità e Resistenza, capacità di reagire a un attacco criminale che dura da molti anni e che ora Erdoğan rilancia contro i curdi nel nord est della Siria con un nome falso e ipocrita: “Sorgente di pace”. “Ramoscello di ulivo” si chiamava l’offensiva che aveva lanciato nel 2018 su Afrin, per sterminare le Unità di protezione popolare (Ypg). Insopportabile per il nazionalista integralista Erdoğan la lotta che il popolo curdo porta avanti in nome della democrazia, della libertà, della laicità, mettendo al centro l’emancipazione delle donne. Nonostante la mancanza di mezzi, le donne curde hanno scelto di non fuggire, di non abbattersi e si sono organizzate trasformando una drammatica situazione di guerra e di persecuzione in un’occasione di sviluppo e di difesa dei diritti delle minoranze.

Guerrigliere senza nessuna ideologia della guerra, lottano per un futuro di pace. Per un futuro democratico della Siria lottava Hevrin Khalaf, giovane attivista laica e progressista che è stata violentata e lapidata da miliziani sodali di Erdoğan. Il femminicidio è da sempre l’arma dei fondamentalisti religiosi, in ogni epoca e latitudine. Insopportabile per i clericofascisti che siano state proprio le donne a schierarsi in prima linea contro l’Isis. è storia antichissima l’odio dei religiosi verso le donne libere di essere e di pensare. Hevrin è stata uccisa barbaramente come la filosofa Ipazia nel IV secolo ad Alessandria d’Egitto per mano dei parabolani del vescovo Cirillo. Tutto è immobile, agghiacciante e immutabile nel mondo degli integralisti religiosi. E vorrebbero costringerci a essere come loro. Privi di umanità.

Ma non riusciranno a irretirci, non smetteremo di opporci con tutte le nostre forze a questa spietata aggressione compiuta in nome di Dio e del nazionalismo. Dobbiamo usare ogni mezzo diplomatico e di pressione per fermare anche questo lucido tentativo di annientamento della minoranza curda attuato da Erdoğan con le armi che gli forniscono le potenze mondiali e con operazioni di sostituzione etnica, trasferendo milioni di profughi siriani (ora “bloccati” in Turchia per via degli accordi miliardari con l’Unione europea) nelle regioni dove i curdi sperimentano un radicale progetto di autogoverno democratico, ecologista egualitario, di convivenza pacifica.

L’Europa e l’Italia smettano di fornire armi alla Turchia; smettano di finanziare Erdoğan per il suo lavoro sporco: controllare i flussi dei migranti. L’Italia non può restare nella Nato di cui fa parte questa Turchia. Non restiamo sordi alla voce delle donne curde che nella loro lettera aperta chiedono la fine dell’invasione e dell’occupazione della Turchia nella Siria del nord, l’istituzione di una No-Fly zone per la protezione della popolazione, di garantire la condanna di tutti i criminali di guerra secondo il diritto internazionale, di fermare la vendita di armi in Turchia; chiedono inoltre sanzioni economiche e politiche contro la Turchia e di adottare una soluzione della crisi politica in Siria coinvolgendo la società civile.

La stampa internazionale le aveva chiamate eroine quando avevano combattuto l’Isis, salvo poi negare la loro identità politica e di donne che rivendicavano diritti universali. Oggi larga parte di quella stampa internazionale tace. Noi non abbiamo mai chiuso gli occhi, anche di recente denunciando l’attacco ad Afrin nel 2018, dando costantemente voce ai curdi. E ora, dopo aver dedicato loro un dossier su Left del 4 ottobre, tornando a documentare e denunciare la violenza di questo ennesimo, inaccettabile crimine contro l’umanità e contro le donne in modo particolare. Lo ricordano Russo Spena e Bernardi su queste pagine: le donne curde hanno sviluppato un movimento di liberazione che supera i confini locali, a partire dalla riflessione politica di Öcalan e della leader del Pkk Sakine Cansiz. Hanno messo in piedi “scuole” di formazione dal basso e centri anti violenza anche nei villaggi. Lottano contro l’oppressione turca e di altri regimi ma, oltre a fronteggiare attacchi esterni, lottano contro l’oppressione interna che viene dal patriarcato.

Tutte le donne devono combattere contro 5mila anni di mentalità di dominio maschile, dicono le guerrigliere curde. Consapevoli dell’annullamento millenario che ci ha colpite, invitano tutte a organizzarsi, studiando, cercando una propria realizzazione anche nella sfera pubblica, partecipando attivamente alla vita politica. Molte di loro lavorano per un modello politico nuovo, strutturato in cantoni amministrati dal basso: consigli popolari, cooperative e organizzazioni caratterizzate dalla co-presidenza di un uomo e di una donna, puntando a una piena parità di genere ai vertici dell’economia, della politica, dell’educazione. Per questo i regimi vogliono fermarle, obbligandole a imbracciare le armi per difendersi, per impedire loro di realizzarsi, con creatività, per impedire loro di innescare una rivoluzione collettiva, non violenta e internazionale.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 18 ottobre 2019

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Il Rojava non sarà un’altra Afrin

TOPSHOT - Syrian Arab and Kurdish civilians arrive to Tall Tamr town, in the Syrian northwestern Hasakeh province, after fleeing Turkish bombardment on the northeastern towns along the Turkish border on October 10, 2019. - Syria's Kurds battled to hold off a Turkish invasion on October 9 after air strikes and shelling launched a long-threatened operation that could reshape the country and trigger a humanitarian crisis. (Photo by Delil SOULEIMAN / AFP) (Photo by DELIL SOULEIMAN/AFP via Getty Images)

«La popolazione civile è stanchissima. Lo si legge nei loro occhi, stanchezza dopo otto anni di guerra e ora questo duro colpo. Si sentono usati, ma non sono sorpresi. Hanno un morale costantemente altissimo, volto alla possibilità di vittoria». Cecilia è una giovane volontaria italiana, nel Rojava per coordinare le attività di ricostruzione del sistema sanitario. Una ricostruzione non solo bloccata dall’operazione militare turca “Fonte di pace” lanciata il 9 ottobre contro il nord della Siria, ma anche annullata dai raid che colpiscono ospedali, cliniche, ambulanze. Colpiscono i civili, le carovane di sfollati, le comunità, le città che dal 2011 hanno fatto due cose: sconfitto lo Stato Islamico, macchina da guerra e di propaganda fascistoide, e costruito un nuovo modello di società e di sistema politico, il confederalismo democratico.

Non è un caso che tra le vittime ci sia Hevrin Khalaf, segretaria del partito Future Syria e attivista dei diritti delle donne, giustiziata alla periferia di Tal Abyad da un gruppo di uomini armati.

Uno sforzo di lotta armata e politica che non ha pari nel mondo contemporaneo. Ora è in pericolo: dal cielo i caccia turchi prendono di mira indiscriminatamente il Rojava, da terra avanzano – coperti dai raid e dall’artiglieria pesante – migliaia di miliziani islamisti, membri delle opposizioni al governo Assad da anni reclutati dalla Turchia per fare qualcosa di ben diverso dalla costruzione di una democrazia.

«Questa mobilitazione delle persone, con i civili che proteggono case e comunità, non differenziandosi dai militari (le unità di difesa curde maschili e femminili, Ypg e Ypj, ndr), è anche il motivo per cui ci sarà un massacro, se…

L’inchiesta di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola dal 18 ottobre 2019

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